VISENTINI, Bruno
VISENTINI, Bruno. – Nacque a Treviso il 1° agosto 1914, da Gaetano, avvocato, e da Margherita Tosello, casalinga; aveva una sorella, Ada, maggiore di due anni.
L’ambiente familiare in cui crebbe era agiato, colto e di idee avanzate. Il padre fin dai primi del Novecento fu membro dell’Associazione democratica radicale; eletto nel 1910 consigliere comunale di Treviso in una giunta di sinistra, si distinse per iniziative tendenti a limitare il potere della Chiesa. Benché interventista nel 1915, dopo la guerra si schierò apertamente contro il fascismo, tanto che il 1° novembre 1926 il suo studio professionale venne saccheggiato dagli squadristi.
Diplomatosi nel 1931 presso il liceo Antonio Canova, Visentini s’iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Padova, dove si laureò nel 1935 con una tesi in diritto commerciale, sotto la guida di Tullio Ascarelli.
Intenzionato ad allargare la propria cultura, nei primi giorni del 1933 partì per Monaco di Baviera, dove iniziò a seguire i corsi universitari per stranieri. Il 30 gennaio, però, vi fu l’ascesa al potere di Adolf Hitler; quella sera Visentini assistette nelle strade della città, sgomento, all’enorme sfilata che celebrava l’avvenimento.
Tornato in Italia, nell’autunno del 1933 – tramite l’economista Antonio Pesenti – entrò in contatto a Milano con il Centro interno del Partito socialista italiano (PSI).
Nell’estate del 1935 declinò l’invito del padre a entrare nello studio di famiglia; accettò invece la proposta di Ascarelli di trasferirsi a Roma per lavorare all’Assonime (Associazione fra le società anonime), che riuniva le società per azioni italiane. Nella capitale riprese i contatti con gli ambienti antifascisti.
Tra le sue attività clandestine dell’epoca, spicca la partecipazione attiva, nel novembre 1935, all’organizzazione della fuga in Svizzera del dirigente comunista Emilio Sereni e della sua famiglia. Nel 1936 si recò a Parigi per cercare di stabilire un contatto permanente con il Centro estero del PSI, ma l’impresa non riuscì.
Nel 1941 venne ammesso all’albo dei procuratori legali, e iniziò così una carriera di avvocato specializzato nel diritto societario, bancario e tributario.
Nello stesso anno si sposò con Ernesta Caccianiga, proveniente da una nota famiglia della borghesia trevigiana. Dalla coppia nacquero in seguito quattro figli, Gustavo, Margherita, Stefano e Olga.
Negli anni precedenti Visentini aveva conosciuto per motivi di lavoro vari economisti e funzionari di tendenze keynesiane della Banca commerciale italiana, con alcuni dei quali poi collaborò anche sul piano politico. In particolare, con Ugo La Malfa si recò in varie città – nella seconda metà del 1941 e nella prima del 1942 – per preparare la creazione di una nuova organizzazione antifascista, il Partito d’azione (PdA). Nel giugno 1942 partecipò a Roma alla sua fondazione, e in ottobre prese parte a Treviso alla creazione della sua sezione veneta.
Fin dall’inizio fu tra i principali esponenti della corrente liberaldemocratica del partito, in polemica con quella liberalsocialista e con quella radicaldemocratica proveniente da Giustizia e libertà.
Nel gennaio 1943 fu tra i fondatori a Roma del foglio L’Italia libera, l’organo di stampa clandestino del PdA; nei mesi successivi partecipò alla redazione e alla diffusione del giornale, finché in maggio non venne arrestato. Detenuto nel carcere romano di Regina Coeli in attesa del processo presso il tribunale speciale per la difesa dello Stato, venne liberato il 26 luglio, il giorno successivo alla caduta del governo Mussolini. Andò allora a Treviso – dove si era rifugiata nel frattempo la moglie, con il figlio primogenito – ma dopo l’armistizio dell’8 settembre tornò a Roma, allora occupata dalle truppe tedesche, e riprese l’attività clandestina nel PdA: membro del Comitato esecutivo della sezione romana, si occupò della stampa e diffusione del giornale L’Italia libera e della fabbricazione di documenti falsi.
Dopo la liberazione di Roma (giugno 1944) Visentini passò all’attività politica legale. Nell’agosto 1944 partecipò a Cosenza al I Congresso del PdA dell’Italia liberata, che rese pubblici i contrasti fra le tre correnti del partito; la mozione liberaldemocratica – di cui era uno dei firmatari – fu messa in minoranza. Dopo la liberazione del Nord Italia, nell’aprile 1945, ritornò in Veneto per organizzarvi il PdA, e si stabilì a Padova. In settembre fu nominato membro della Consulta nazionale, e tra il dicembre 1945 e il luglio 1946 ricoprì il suo primo incarico di governo, come sottosegretario alle Finanze nel primo governo De Gasperi.
In quel periodo il PdA entrò in una crisi profonda, che divenne aperta in occasione del I Congresso nazionale (Roma, febbraio 1946), in cui pronunciò un discorso anche Visentini, delegato del Veneto. Il congresso sfociò nella scissione della corrente liberaldemocratica, che formò il Movimento della democrazia repubblicana (MDR).
In vista delle elezioni per l’Assemblea costituente, l’MDR partecipò a una lista unitaria di centro-sinistra denominata Concentrazione democratica repubblicana, che nello scrutinio di giugno ebbe un risultato deludente: lo 0,42% dei voti e due deputati (La Malfa e Ferruccio Parri). I due eletti aderirono prima al gruppo parlamentare del Partito repubblicano italiano (PRI) e infine, in settembre, al PRI stesso.
Visentini fu uno degli ex azionisti che nei primi mesi del 1947 accolsero l’invito di La Malfa a confluire nel PRI per trasformarlo in moderno partito liberaldemocratico. Rimase tuttavia – al contrario di quanto aveva fatto nel PdA – in una posizione defilata, senza assumere incarichi direttivi.
Avendo in parte abbandonato l’attività politica, ritornò a esercitare a tempo pieno la professione di avvocato, con base a Roma.
Nel 1949 vinse un concorso per la libera docenza di diritto commerciale, e per un anno insegnò all’Università di Urbino.
Nel 1950 venne nominato vicepresidente dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), che nei due anni precedenti – a causa della politica favorevole all’interventismo statale nell’economia propugnata dalla sinistra democristiana – era stato fortemente rilanciato; conservò tale carica per ventidue anni, fino al 1972.
Diventò così parte integrante della cosiddetta finanza laica (molti dei cui esponenti provenivano dal PdA), a cui Alcide De Gasperi aveva di fatto affidato la gestione della ricostruzione del Paese, senza interferenze da parte del governo, come confermò in seguito Visentini stesso: «[De Gasperi] era convinto che il partito dei cattolici dovesse dirigere la politica e non l’economia» (Repubblica di Babele, intervista a M. Riva, in Panorama, 27 novembre 1988).
Visentini non era un dirigente d’industria ma un esperto di economia e finanza: all’interno dell’IRI agì dunque secondo le sue specifiche competenze, lasciando piena autonomia gestionale alle aziende del gruppo.
Fu per evitare le interferenze dei partiti nella gestione dell’IRI che Visentini si oppose attivamente, tra il 1954 e il 1956, al progetto di creare un ministero per le Partecipazioni statali, entrando in polemica persino con il suo amico La Malfa. Perse tuttavia la battaglia, e il ministero fu istituito (l. 22 dicembre 1956 n. 158). Ne conseguì per l’IRI l’uscita dalla Confindustria e uno stretto controllo da parte del governo, che giunse a introdurre il principio della spartizione tra partiti persino nelle nomine dei dirigenti.
Lo stesso Visentini venne coinvolto, suo malgrado, in questo processo: «L’aria cambiò piano piano. Io stesso, quando fui riconfermato vicepresidente [dell’IRI] da Antonio Segni [in occasione della sua nomina a presidente del Consiglio nel febbraio 1959], mi sentii dire per la prima volta che stavo lì [non come manager ma] per rappresentare i repubblicani. La cosa mi infastidì: non certo per l’accostamento al PRI, ma perché trovavo questa logica rischiosa» (Repubblica di Babele, cit.).
Deluso dalla nuova atmosfera che si respirava ai vertici dell’IRI, nel 1964 accettò la nomina a presidente della Olivetti (carica che ricoprì fino al 1974 e poi di nuovo dal 1977 al 1983).
Dal 1960, anno della morte di Adriano Olivetti, l’azienda si trovava in crisi: i contrasti fra gli eredi di Adriano sulla strada da seguire e i capitali insufficienti avevano ostacolato lo sviluppo della divisione Elettronica, che, con i suoi tremila dipendenti e i suoi grandi successi, era ormai il cuore dell’attività aziendale.
Per risolvere i problemi finanziari della Olivetti, Visentini riuscì a costituire un ‘gruppo di intervento’ – formato da Fiat, Pirelli, Mediobanca, La centrale finanziaria generale e IMI (Istituto Mobiliare Italiano) – che fornì un fondo di emergenza e prese il controllo dell’azienda. Sul piano industriale, però, questa ‘operazione di soccorso’ si rivelò disastrosa: infatti, i membri del gruppo di intervento – e in particolare la Fiat – non credevano all’avvenire dell’elettronica in Italia, perché ritenevano impossibile radunare i capitali necessari. Visentini tentò di opporsi a questa logica miope – che puntava sugli utili immediati e non su una strategia di lungo periodo – ma invano; la divisione Elettronica della Olivetti venne quindi ceduta alla statunitense General electric.
Dal 1964 Visentini venne maggiormente coinvolto dal mondo della politica, seppure in quanto ‘esperto’: quell’anno fu infatti nominato presidente della commissione di studio sulla riforma tributaria presso il ministero delle Finanze (la cui relazione conclusiva portò, con modifiche apportate durante la discussione parlamentare, alla l. del 9 ott. 1971 n. 285) e nel 1965 divenne membro della commissione parlamentare per la riforma delle società per azioni, presieduta da Alfredo De Gregorio (il cui lavoro portò alla l. del 7 giugno 1974 n. 216).
Nel 1969 iniziò il suo impegno per la salvaguardia di Venezia, un tema diventato di attualità dopo l’alluvione del 1966. Prese contatto con esponenti del mondo dell’aristocrazia e dell’industria per coinvolgerli nella creazione di un Comitato italiano per Venezia, istituzione che vide la luce nel 1970 e di cui fu il primo presidente. Si inserisce in quest’ambito la decisione di Visentini di accettare, nel 1977, la presidenza dalla Fondazione Giorgio Cini, uno dei principali centri culturali veneziani; tenne la carica fino alla sua morte.
Il suo ritorno in prima persona alla politica avvenne nel 1972. Quell’anno, infatti – dopo aver partecipato per il PRI, fin dal 1948, a varie campagne elettorali perse in partenza – venne eletto deputato nella circoscrizione Pisa/Livorno/Lucca/Massa-Carrara, inaspettatamente e quasi ‘per caso’ (a causa di un modesto aumento delle percentuali del PRI e di una rettifica del numero dei voti assegnati in un altro collegio). Si dimise quindi dalla vicepresidenza dell’IRI sia per non creare un cumulo di incarichi sia perché riteneva tale ente ormai privo di autonomia.
Iniziò poi una carriera di parlamentare – in varie assemblee, in Italia e all’estero – che si svolse lungo l’arco di ventitré anni (dal 1972 al 1995).
Come membro della Camera, poté giovarsi della sua vasta cultura in campo finanziario e tributario: fece infatti parte, tra le altre, della commissione Finanze e tesoro (1972-76 e 1983-87) e di tre commissioni su diversi aspetti della riforma tributaria (1972-79).
Tra il novembre 1974 e il febbraio 1976 fu ministro delle Finanze nel quarto governo Moro (all’assunzione della carica si dimise dalla presidenza della Olivetti, a causa del potenziale conflitto di interessi).
In tale incarico, per rendere l’amministrazione finanziaria più semplice e affidabile, presentò al Parlamento due importanti relazioni in merito (Nota sulla situazione del personale e sullo stato dell’amministrazione finanziaria, aprile 1975, e Rapporto sull’anagrafe tributaria, gennaio 1976), che contribuirono a disciplinare l’autotassazione e l’anagrafe tributaria.
Inoltre fu il promotore della cosiddetta legge Visentini (2 dicembre 1975 n. 576), che consentì la rivalutazione monetaria dei beni iscritti in bilancio.
Nell’aprile 1976 Visentini venne nominato presidente della Confindustria; nel giugno dello stesso anno venne eletto senatore (per il collegio di Torino centro) e poco dopo rinunciò alla carica nella Confindustria, per potersi dedicare interamente alla politica e in particolare al rafforzamento del PRI, da lui giudicato – nella nuova situazione creatasi in seguito al forte aumento dei voti del Partito comunista italiano (PCI) – l’unico partito in grado di compiere una vera modernizzazione della società italiana.
In Senato, come già alla Camera, fu membro di varie commissioni (Finanze e tesoro, Bilancio, Riforma tributaria).
Nel 1977 riassunse la carica di presidente della Olivetti.
Nel marzo 1979 fu protagonista di una polemica con La Malfa, che gli aveva proposto la carica di ministro delle Partecipazioni statali; Visentini rifiutò, con motivazioni non lontane da quelle già espresse negli anni 1954-56 in occasione del dibattito sulla creazione di quel ministero. La polemica assunse toni molto aspri, e cessò solo con l’improvvisa morte di La Malfa, il 26 marzo.
Visentini fu poi per breve tempo (marzo-luglio 1979) vicepresidente del Consiglio e ministro del Bilancio e della Programmazione economica nel quinto governo Andreotti.
Fu in questo periodo che Visentini divenne un personaggio pubblico e che nacque il soprannome di Grande borghese, coniato per lui da Giampaolo Pansa in una celebre intervista (Visentini il Grande borghese, in la Repubblica, 11 maggio 1979).
Negli anni successivi si alternò tra i due rami del Parlamento: fu infatti nel Senato tra il 1979 e 1983, nella Camera dal 1983 al 1987 e poi di nuovo nel Senato dal 1987 al 1995. Nel 1979 venne eletto al Parlamento europeo, nelle prime elezioni a suffragio universale di questa istituzione. Vi rimase fino al 1983, per poi tornarvi dal 1989 al 1994.
Convinto europeista e federalista, denunciò più volte – sia nelle sedi istituzionali sia in interventi sulla stampa (in particolare con una serie di cinque articoli pubblicati nel giugno-luglio 1980 sul Corriere della sera) – la mancanza di potere reale del Parlamento europeo, e suggerì di combattere questa situazione tramite la costituzione di «un gruppo parlamentare di convinti e accesi sostenitori dell’unità politica europea su basi federalistiche» (C’è anche chi si oppone all’Europa con più poteri, 18 giugno 1980), superando così la suddivisione dell’assemblea in gruppi di obbedienza partitica; la proposta rimase lettera morta.
Nel settembre 1979 venne nominato presidente del PRI.
Tra il 1979 e il 1981 fu protagonista di un lungo e acceso dibattito politico, provocato dalla sua proposta di ‘governo istituzionale’, in cui si auspicava che il presidente della Repubblica nominasse i ministri anche al di fuori del Parlamento e senza previe consultazioni con i partiti. La proposta trovò contrari quasi tutti i partiti (tra cui lo stesso PRI) e quasi tutta la stampa; la appoggiarono, sebbene solo in parte, il segretario del PCI Enrico Berlinguer, il quotidiano la Repubblica e alcuni imprenditori (in particolare Carlo De Benedetti, amministratore delegato della Olivetti).
Nell’autunno del 1981 Visentini fu coinvolto in una nuova (e ancora più aspra) polemica, quando, con De Benedetti, promosse la formazione di una ‘cordata’ di industriali al fine di acquistare la quota di maggioranza del gruppo Rizzoli-Corriere della sera; il PSI – che già era stato il più accesso critico della proposta di ‘governo istituzionale’ – accusò Visentini, con toni durissimi, di voler fare del maggiore quotidiano italiano un organo di propaganda antisocialista, e minacciò di mettere in crisi il governo (allora diretto proprio da un esponente del PRI, Giovanni Spadolini) se l’operazione fosse andata in porto. Isolato all’interno dello stesso PRI, Visentini dovette rinunciare.
Malgrado i cattivi rapporti con il PSI, Visentini ricoprì l’incarico di ministro delle Finanze sia nel primo sia nel secondo governo Craxi (agosto 1983-aprile 1987).
Fu proprio in questi anni che riuscì a incidere maggiormente sulla vita del Paese: prima, da senatore, con la cosiddetta legge Visentini bis (18 maggio 1983 n. 23) – che in materia di bilanci societari completava e perfezionava la legge Visentini del 1975 – e poi, da ministro, con il cosiddetto pacchetto Visentini, un insieme di provvedimenti che instaurava per i commercianti – e più in generale per i lavoratori indipendenti – un sistema di tassazione su base forfettaria, riferito alla cifra d’affari (quella determinabile ma anche quella ricavabile sulla base di criteri induttivi). Dopo aspre polemiche e un iter parlamentare durato oltre un anno, finalmente il ‘pacchetto’ fu trasformato in legge (17 febbraio 1985 n. 17).
Terminata l’esperienza ministeriale, Visentini intensificò sensibilmente la sua attività di pubblicista. Abbandonò quasi completamente la collaborazione con il Corriere della sera, e accrebbe quella con la Repubblica, di cui divenne una delle ‘penne fisse’, con una media, dal 1987, di un articolo alla settimana.
Si dedicò più di prima ai problemi internazionali, sia aumentando la sua attività nel Parlamento europeo (nella legislatura 1989-94 fece parte di ben sette commissioni, contro le tre della legislatura precedente) sia compiendo viaggi di studio all’estero, di cui scrisse resoconti, talvolta ampi, per la Repubblica (particolare impressione destò quello – un vero e proprio saggio per lunghezza e profondità di analisi – sulla ex Germania Est, pubblicato in tre puntate nel gennaio 1991).
L’ultimo intervento importante di Visentini nell’ambito politico avvenne nella primavera del 1992, nel momento culminante della ‘crisi di regime’ provocata da una serie di inchieste giudiziarie sulla corruzione all’interno dei partiti (la cosiddetta Operazione mani pulite). In maggio e in giugno, in alcuni articoli su la Repubblica Visentini ripresentò la sua proposta di ‘governo istituzionale’ del 1979-80, allargandola a una riforma elettorale in senso uninominale e alla formazione di una larga coalizione di sinistra (dal PRI agli ex comunisti). Questo accentuò i suoi contrasti con i vertici del PRI, e in luglio Visentini abbandonò il partito che presiedeva dal 1979.
La distanza con il suo ex partito si accrebbe negli anni successivi, durante i quali Visentini, nei suoi articoli, si schierò sempre più apertamente a fianco delle forze di sinistra. Nel 1994, anzi, ritornò all’impegno politico attivo, partecipando in prima persona alla campagna elettorale dell’Alleanza dei progressisti in vista dello scrutinio di marzo. Dopo la vittoria della lista di centro-destra (Polo delle libertà) continuò, sulla stampa e nei suoi interventi in Senato, a esortare le forze di sinistra a condurre un’opposizione senza compromessi.
Morì a Roma il 13 febbraio 1995.
Opere. Nell’arco di quasi sessant’anni di attività come autore (1936-95), Visentini – portato alla concretezza e alla stringatezza dell’esposizione da scelte culturali e preferenze personali – pubblicò solo testi relativamente brevi: una decina tra opuscoli e relazioni, una cinquantina di saggi in riviste specializzate, circa ottocento fra articoli e interviste sulla stampa generalista; per un elenco completo si veda Repertorio degli scritti di Bruno Visentini, a cura di C. Toria, in Fondazione Giorgio Cini, Per Bruno Visentini (scritti presentati all’omonimo convegno, tenutosi presso la sede della Fondazione il 28 aprile 1998), a cura di C. Toria - R. Zorzi, Venezia 2001, pp. 141-173.
Fonti e Bibl.: F. Cigano, B. V., in Belfagor, 1999, 2, pp. 194-202; Per B. V., cit.; L. Urettini, B. V., Sommacampagna 2005; tre raccolte di scritti pubblicate per iniziativa della Fondazione Bruno Visentini di Roma: Il governo tecnico nel pensiero di B. V., Atti del seminario... Roma... 2012, Viterbo 2014; Per il centenario della nascita di B. V., 1914-2014 (testi presentati all’omonima celebrazione, tenutasi presso la sede dell’Università LUISS, Roma 17 novembre 2014), Viterbo 2015; B. V.: passato, presente e futuro della riforma tributaria del 1971 (ricerca curata da A. Di Gialluca e coordinata da F. Marchetti - F. Rasi), Viterbo 2016.