BUCCIO
Nacque nella prima metà del XIV sec. a Pietralunga (diocesi di Perugia) da Giovanni o Giovannetto; ègeneralmente considerato della famiglia Bonori, anche se questo cognome apparirà - per quanto risulta - solo nel secolo seguente. Studiò diritto civile e canonico, probabilmente nella vicina Perugia, e come "iurisperitus "figura nell'atto del 10 genn. 1348, nel quale gli viene concessa la cittadinanza di Città di Castello. Non sappiamo in quale anno abbia preso gli ordini minori, da cui passò direttamente a Tepiscopato: certo prima dell'agosto del 1348, quando rifiutò il canonicato che il Capitolo di Città di Castello e il suo preposto Enrico gli offrirono.
Una vasta esperienza politica gli doveva procurare l'opera da lui prestata al Comune di Città di Castello, che si valse più volte della sua preparazione giuridica. Nel 1350, infatti, fu mandato ambasciatore a Perugia, insieme con altri quattro tifernati (Annali cittadini, V, f. 9);nell'aprile 1352 fu nominato "syndacus" di Bertolo Pelacane, podestà di Città di Castello (ibid., f.443r); il 27 giugno 1353 venne eletto dai consiglieri comunali "consultor" del Comune (ibid., f.85r).
Eletto vescovo di Città di Castello il 15 maggio 1358, un certo lasso di tempo dovette trascorrere tra l'elezione e la consacrazione, se - a quanto riferisce il Muzi (Memorie ecclesiastiche, II, p. 218) - in un rogito notarile del 1359 figura ancora come vescovo eletto.
Già nel primo anno del suo pontificato affrontò con fermezza i problemi esistenti all'interno della sua diocesi, riunendo un sinodo (ne abbiamo notizia dal Muzi, II, pp. 218 s., che dichiara di aver consultato gli atti della cancelleria vescovile). In esso propose varie misure di riforma del clero, che pose in atto poi nel corso dell'anno: provvide di rettori molte chiese e unì varie parrocchie, concesse alle monache di S. Sperandio la fondazione di un nuovo monastero con il titolo di S. Maria della Misericordia di Montemignaio. Allo stesso sinodo richiese la concessione di un sussidio per le spese sostenute per la mensa episcopale e, dopo essersi ritirato per permettere una discussione più libera, rifiutò la somma fissata di 1.500 fiorini d'oro, accettando solo quanto gli era necessario. Come vicari ebbe prima del 1363 Giovanmatteo di ser Gualdi Hericuchi di Siena (Arch. not. di Città di Castello, Rogiti di Benedetto di ser Pace, f.18r) e quindi Giovacchino di ser Vanni "decretalista buono", come lo definisce Giovanni Colombini in una sua lettera (Lettere, II, p. 85).
Il cardinale Albornoz trovò in B. un uomo di fiducia: nel 1359 gli affidò insieme con il rettore di Massa Trabaria, Bartolomeo Cancellieri, il castello di Scalocchio, conteso tra il Comune di Massa Trabaria e quello di Città di Castello.
E alla presenza dell'Albornoz, il 21 dic. 1363, si giunse a una transazione nella lotta che opponeva l'abate del monastero camaldolese di San Sepolcro al vescovo di Città di Castello per la giurisdizione sul monastero stesso e su Borgo San Sepolcro. Pur mantenendo l'abate taluni privilegi, la questione si risolveva in netto favore del vescovo tifernate (il testo della transazione, edito negli Annales Camaldulenses, VI, pp. 71-74 da un codice mediceo, è anche registrato nel cartulario di Benedetto di ser Pace, notaio del vescovo, a cc. 48r-50v). Alcuni giorni dopo B. scriveva agli abitanti di Borgo San Sepolcro, invitandoli a prestar obbedienza a lui e al suo vicario (Annales Camald., VI, p. 74).
L'opera da lui portata avanti nella riforma della Chiesa di Città di Castello, di cui il papa doveva essere informato attraverso l'Albornoz, convinse Urbano V nel novembre del 1363 ad affidare a lui insieme con Luca Ridolfucci vescovo di Nocera e con Francesco Tebaldeschi canonico di S. Pietro, la riforma del monastero di Subiaco. D'accordo con l'abate Bartolomeo da Siena, e con l'appoggio del senatore di Roma che il pontefice aveva richiesto d'aiuto contro "monachos et vassallos inobedientes" (4 apr. 1364) i visitatori - pare entro il 1364 - riportarono i monaci all'osservanza, scacciando i più turbolenti e sostituendoli con monaci tedeschi, che costituiranno, anche nel secolo seguente, un forte nucleo nel monastero sublacense.
Nell'aprile del 1365 il pontefice lo incaricò di stabilire rapporti più stretti tra Firenze e Pisa, che, malgrado fossero giunte dopo una guerra settennale a una pace stipulata nell'agosto del 1364, ancora non avevano ripreso i rapporti commerciali di una volta. Questa missione, tuttavia, non pare avesse gran successo, poiché risulta che la tensione tra Firenze e Pisa durò sino a tutto il 1369. Ma B. doveva godere di un notevole prestigio nelle città umbrotoscane se nel maggio del 1365 Urbano V affidava a lui, insieme con Marco da Viterbo ministro generale dell'Ordine francescano e con Pietro Corsini, vescovo di Firenze, l'incarico di stringere una lega italiana contro le compagnie di ventura.
Si temeva infatti la possibilità di una congiunzione tra loro delle diverse compagnie; nel luglio del 1365, dopo lo scontro presso Perugia delle milizie di Giovanni Acuto e di Anichino di Baumgarthen, l'Albornoz scrisse a B. e ai due nunzi lodandoli per l'opera sin'allora portata avanti e invitandoli ad adoperarsi per assoldare, a spese della Chiesa e delle città toscane, le truppe di Anichino che sapeva in via di scioglimento. Intanto continuavano le lunghe e difficili trattative: sappiamo che a novembre B. cercò inutilmente. recandovisi di persona, di convincere Perugia ad entrare nella lega, mentre nel febbraio del 1366 si profilava la possibilità che anche Genova, scossa da lotte interne, potesse entrare a farne parte (Wadding, Annales, VIII, ad Claras Aquas [Quaracchi] 1932, pp. 225 s.). In una lettera del 22 giugno 1366 Urbano V cercava di vincere le resistenze di Firenze, che si diceva impreparata, invitando i tre nunzi a promettere da parte sua un aiuto militare. Infine nell'agosto anche il signore di Pisa, Giovanni d'Agnello, fu convinto da B. e da Marco da Viterbo a partecipare alla lega. Il 19 sett. 1366 siarrivò così alla conclusione della lega (se ne può leggere il testo in appendice allo studio di G. Canestrini, Documenti per servire alla storia della milizia italiana..., pp. 89-118), accordandosi sulla costituzione di un esercito comune di 3.000cavalieri e di 3.000fanti. Il 10 ottobre il papa scriveva ai tre nunzi rallegrandosi per i risultati raggiunti, comunicando che avrebbe confermato i capitoli da loro sottoscritti dopo averli sottoposti, come di consueto, al Sacro Collegio.
In questi stessi anni di così intensa attività politico-diplomatica, B. entrò in rapporti assai stretti e vivi con Giovanni Colombini e con i suoi compagni e - come scrive Feo Belcari "dalla dignità dei pontificato in fuori volle essere e fu della loro compagnia" (Vita del beato G. Colombini, p.88). Intorno a lui, a Città di Castello, si formò un gruppo che aderì al Colombini, tra cui si trovava anche il notaio del vescovo Benedetto di Pace. B. è presente alla pace che per opera del beato senese venne stretta tra Larino de' Tolomei e tre membri della famiglia Piccolomini (Lettere, I, p. 138); a lui il Colombini raccomandava Bartolomeo di Città di Castello e "compagni suoi uomini giovani e che sono vissuti mondani carichi alcuni di loro di gravezza di alcun peccato, il quale se no per lo Sommo Santo Padre si dice non essere da sciogliare" (ibid., II, p. 69). Dalle lettere del Colombini come dalla Vita scritta da Feo Belcari emerge assai chiaramente come B. cogliesse nella stessa fluidità del movimento, nella sua non costrizione in schemi rigidi di vita la positività dell'esperienza del Colombini.
Quando infatti nel 1363circa uno dei gesuati, Domenico da Montichiello, pose al Colombini il problema se non fosse il caso di regolarizzare la loro situazione, ottenendo l'approvazione dal pontefice, B., consultato dal Colombini, consigliò che "neuna cosa facessero che contraria o sospetta fosse e che non gli pareva che in alcun modo essi procurassino né privilegio, né altra simile cosa: ma che fossino poveri, semplici e puri, senza verun impaccio, e lasciassero fare a Dio" (Belcari, Vita, p. 89, che ha presente una lettera del Colombini a questo proposito); e questa posizione ribadì con estrema chiarezza nel 1367quando il Colombini e i suoi, in una situazione ormai molto debole di fronte alle accuse che venivano da varie parti, decisero di presentarsi a Urbano V di ritorno da Avignone. B. pensava di recarsi di persona a Viterbo per consigliare, evidentemente a un tempo, i gesuati sulla linea da tenere e per sostenere dinnanzi al papa e agli uomini di Curia la loro posizione. Ma all'ultimo momento non poté raggiungere il Colombini, al quale scrisse però due lettere - di cui abbiamo notizia attraverso lo stesso Colombini - nelle quali ripeteva "che per neuna cagione chiedessero al Papa neuno brevileggio" (Lettere, II, p. 120).
Negli anni 1368-70 ebbe una parte di primo piano nella viwpolitica della sua città. Entrata, infatti, nel luglio del 1368, Città di Castello in lotta con Perugia, sotto la cui giurisdizione si trovava, il Comune pensò di affidare a lui la mediazione con il pontefice per porre fine alla guerra e mettere Città di Castello sotto le dirette dipendenze della Chiesa. Il 20 ott. 1368 i consiglieri e i priori di Città di Castello nominarono B. nunzio del Comune. Le trattative furono piuttosto rapide, essendo il pontefice interessato a uno sganciamento di Città di Castello da Perugia, che si trovava in lotta con la Chiesa. Gli accordi confermati da una bolla del 13 febbr. 1369 risultarono vantaggiosi per il Comune al quale veniva concesso, sia pure con varie condizioni, il castello di Scalocchio, mentre gli si riconosceva la facoltà di una scelta autonoma dei propri priori. Anche negli anni successivi il Comune si servì di B. per ottenere la restituzione di terre perdute nella guerra tra il papa e Perugia, come il 22dic. 1370quando fumandato presso il cardinale Anglico Grimoaldi, vicario pontificio, per la restituzione di Citerna occupata da Masio da Petramala, e come il 22giugno 1371, quando fu inviato presso il cardinale Pietro d'Estaing, per la restituzione del castello di Celle. Nel dicembre del 1371 ilComune - a quanto riferiscono gli Annali cittadini citati dal Muzi(Memorie, V, p. 223) -gli chiese di andare ambasciatore a Roma, ma non sappiamo quali problemi dovessero essere affrontati, né se mai B. vi andasse.
Nel novembre, del 1373papa Gregorio XI, considerando la sensibilità religiosa e le capacità diplomatiche di B., lo incaricò di riformare le chiese collegiate e le altre chiese della diocesi di Pisa e di Firenze. Di questa riforma all'interno delle due diocesi toscane non sappiamo nulla, anche perché rimase ben presto interrotta dalla morte di B., che avvenne il 26 agosto del 1374.
Già nel Belcari il nome di B. appare accompagnato dall'appellativo di beato (come tale appariva in un affresco nel coro della chiesa di S.Girolamo dei gesuati di Città di Castello: Muzi, II, p. 227), che non corrisponde però ad alcuna canonizzazione da parte della Chiesa, ma unicamente alla venerazione di cui fu oggetto la sua memoria.
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