Vedi BUDDHA dell'anno: 1959 - 1994
BUDDHA
L'arte buddista nasce in India come la religione cui si ispira, ed è caratterizzata, nel primo periodo, da una costante esclusione della figura umana del Buddha. Fino dai bassorilievi di Bharhut e del secondo stūpa di Sanchi (le prime grandi opere buddiste pervenuteci, che risalgono agli inizi del II sec. a. C.) e per lungo tempo, la figura principale sulla quale si imperniavano insieme religione ed arte fu espressa con simboli come, per es., la raffigurazione dello stūpa (v.), il trono vuoto, il parasole, le impronte dei piedi, l'albero cosmico, la ruota della Legge, la svastica, ecc. Questo aniconismo contrasta fortemente con il carattere narrativo-edificante proprio di tutte le scuole più antiche, che prediligono, come soggetto della loro arte, gli episodî principali della vita del B. e quelli delle sue vite precedenti (i cosiddetti Jātaka). Per questi ultimi, però, (quando la scrupolosa aderenza ai testi che li raccolgono lo suggeriva) era lecito raffigurare in forma animale il "Salvatore dell'Umanità".
Nella rappresentazione simbolica l'aspetto di Maestro umano è completamente trascurato: il B. viene infatti identificato con il principio assoluto dell'Universo, con quella Legge suprema, da lui predicata, cui tutto obbedisce. Ogni immediato interesse artistico resta schiacciato dalla speculazione metafisica e la sola cura degli artisti, nell'usare questo mezzo di espressione, è di evitare che i simboli - realizzati secondo schemi fissi che comportano solo lievi varianti, legate a particolari valori di pensiero - stonino nell'insieme della composizione. Non si pensi, tuttavia,. che la vitalità tenace di questa tradizione rendesse assolutamente eretica la raffigurazione antropomorfa; ma se qualcuno avesse intrapresa questa nuova via, il tentativo sarebbe stato considerato come una riprovevole infrazione alle buone regole. L'immagine umana risultava imprecisa dal punto di vista metafisico; d'altra parte i simboli limitavano fortemente le possibilità creative degli artisti: per loro mezzo si potevano infatti rappresentare solo quei soggetti nei quali il B. restava immobile e l'azione era compiuta da altri personaggi. L'imbarazzo degli artisti appare evidente dall'esistenza di alcuni tentativi di creare qualcosa che suggerisse, almeno approssimativamente, l'idea di una presenza umana, anche nelle scene in cui il B. restava immobile (le uniche che venissero raffigurate) raggruppando insieme molti simboli (per esempio il parasole, il trono, l'impronta dei piedi). Al tempo stesso attraverso queste immagini convenzionali si creano addirittura figure isolate del B. che preludono alle numerosissime statue dei periodi successivi e che mostrano fino a che punto il simbolo fosse connaturato col B. (per esempio, a Sanchi, il B. appare come albero della vita)
La tradizione aniconica si infrange bruscamente in un periodo di tempo che vede fiorire insieme la cosiddetta scuola indo-greca del Gandhāra e quella, assai più indianizzata, di Mathurā. Anche oggi non è possibile attribuire all'una o all'altra di queste scuole una sicura precedenza nella creazione dell'immagine e il conseguente grandissimo merito di tutta la successiva evoluzione sia artistica che religiosa. Le due scuole sono mfatti approssimativamente contemporanee e abbastanza vicine geograficamente così da essere sottoposte allo stesso dominio nell'epoca del loro massimo splendore. L'una e l'altra fanno parte dell'impero Kuṣāṇa al tempo del gran re Kaniṣka (prima metà del II sec. d. C., probabilmente), le cui monete, portando la figura stante del B. accompagnata dalla leggenda Boddo in caratteri greci, ci indicano che l'immagine era già diffusa largamente in quell'epoca. È questo, si può dire, l'unico dato sicuro in nostro possesso, poiché non solo manchiamo di indicazioni cronologiche precise, ma non possiamo neppure contare su dati secondari, inerenti alla storia politica delle zone e all'evoluzione stilistica delle due scuole antagoniste.
Ne consegue che possiamo solo formulare delle ipotesi che si ricollegano ad una delle due tesi seguenti: 1) l'India non era in grado di abbandonare da sola la tradizione aniconica, quindi l'immagine è dovuta ad un influsso straniero che non può essere altro che quello greco-romano; 2) l'immagine è di origine indiana perché solo l'India possedeva la necessaria visione religiosa per crearla, sicché il passaggio dai simboli alla forma umana è dovuto all'influsso esercitato sul buddismo dalle figure antropomorfe in uso presso altre correnti religiose (per esempio, le immagini degli yaksha e quelle dei Mahāvira jaina). La vasta bibliografia sull'argomento è divisa sostanzialmente in due campi che sostengono l'una o l'altra di queste due tesi, fatta eccezione per alcune soluzioni di compromesso che pensano ad una duplice creazione, indipendente, al Gandh̄ara e a Mathurā. È chiaro comunque che l'adozione dell'immagine umana è dovuta a qualche intervento estraneo al buddismo, sia questo l'antropomorfismo dei Greci o l'influsso di altre correnti religiose indiane coesistenti nelle zone del N-O. Il culto degli yaksha e l'antropomorfismo jaina esercitarono indubbiamente un notevole influsso sull'iconografia buddista e infatti alcune statue del B. differiscono di poco da quelle dei Mahāvira jaina. Ma un'immagine ricalcata semplicemente sulle figure dei jaina o degli yaksha avrebbe perduto gran parte del valore metafisico condensato nei simboli, sarebbe stata dunque una semplice soluzione di un problema iconografico. Nelle immagini gandhariche troviamo, invece, il B. rappresentato frequentemente nella caratteristica posizione del filosofo docente, quella stessa che l'arte cristiana più antica attribuisce a volte al Cristo. Con ogni probabilità sia il B. che il Cristo assumono questa posizione in quanto vengono assimilati al Logos e, infatti, i testi buddistici considerano il B. consustanziale col Dharma (la Legge = Logos). Un simbolismo grecizzante e, come tale, intelligibile solo ai Greci dell'India, restituisce alla sua figura umana un valore molto prossimo a quello espresso dai simboli. Attraverso una via differente, anche le immagini del B. dal bel volto apollineo (che sono forse le più antiche), utilizzano la figura dell'Apollo (con tutte le varianti, del caso) per giungere ad un'identica sintesi di valori.
L'antropomorfismo ellenistico seppe dunque utilizzare le proprie risorse tradizionali per dare all'immagine del B. un significato altrettanto chiaro ed esauriente quanto quello dei simboli e non sembra probabile che questo sforzo debba essere considerato solo come rielaborazione di uno schema già affermatosi. Nel caso di una origine puramente indiana, la creazione dell'immagine sarebbe stata suggerita dalla semplice imitazione di forme eterodosse al buddismo, già note da tempo. Si tratterebbe perciò di una variazione improvvisa priva di ragione profonda. La possibilità di esprimere compiutamente il valore metafisico del B., verificatasi nel mondo indo-greco, dovette essere la vera origine della corrente antropomorfa che si sostituisce in grandissima parte a quella simbolica. La creazione gandharica appare quindi più probabile di quella indiana di Mathurā.
Non sappiamo come fu realizzata la prima immagine del Buddha. Forse fu creata da un anonimo pittore indo-greco, ma non restano che opere in pietra e in metallo a testimoniare i primordi della nuova corrente. È certo però che, una volta formatasi, la figura rimase nei secoli sostanzialmente inalterata, subendo soltanto poche varianti e adattandosi a varî stili.
La caratterizzazione dèlla figura del B. avvenne, innanzi tutto, in base ai testi, che ;descrivevano con minuzia pedante il suo aspetto fisico, attribuendogli 32 segni principali e 8o secondari, atti a dare bellezza al suo corpo, palesandone al tempo stesso l'altissima personalità spirituale. Di questi segni (lakshaṇa) solo due, principali, potevano essere espressi dall'artista. Il primo è l'ushṇīsha, divenuto un segno di saggezza, che la scuola del Gandhāra trasforma in una specie di kròbylos, cioè di crocchio di capelli, mentre a Mathurā viene espressa da una specie di spirale sporgente al sommo del cranio. Da notare che ambedue le scuole, attribuendo al B. una ricca capigliatura, commettono un'infrazione all'ortodossia che vorrebbe il B. stesso perfettamente raso. La scuola del Gandhāra realizza le masse capillari con ondulazioni regolari di derivazione ellenica. Mathurā, invece, trasforma le onde in riccioli stilizzati, a spirale destrorsa, con l'evidente desiderio di aderire a un altro dei lakshaṇa (che stabilisce il tipo della capigliatura) pur contrastando con l'ortodossia e la tradizione che esigerebbero la rasatura completa. Il secondo segno è l'ūrṇā piccola sporgenza fra le sopracciglia, realizzata a volte con l'incastonatura di una pietra più o meno preziosa. L'allungamento dei lobi delle orecchie, spesso molto forte, è invece un particolare realistico. È una deformazione prodotta dall'uso di orecchini massicci, divenuta evidente poiché il B. è spoglio di ogni ornamento o gioiello. Col tempo, però, anche questo particolare assume significato simbolico divenendo un lakshaṇa vero e proprio, così come un particolare accorgimento tecnico, dovuto alla sfaldabilità dello schisto impiegato dagli artisti gandharici, è forse l'origine di un altro lakshaṇa inseritosi nella lista (il jalalakshaṇa) che attribuisce al B. una specie di membrana, disposta fra le dita delle mani. La forza della tradizione fa sì che si ritrovino significati simbolici in elementi che gli artisti primitivi usavano per ragioni completamente diverse.
L'ultimo, evidentissimo, attributo del B. è il nimbo, di origine probabilmente non indiana, ma comunque connesso con il culto solare. L'affermazione e la diffusione di questo simbolo, sottolineante il valore cosmico dell'immagine, sono probabilmente dovute, per gran parte, a una particolare corrente religiosa, profondamente devota del Sole, assai diffusa nel N-O dell'India.
La veste monacale, drappeggiata, completa la figura del B. formatasi, come si vede, dalla fusione di molti elementi disparati. Solo più tardi, con l'evolversi della buddologia, avremo immagini coperte di ricchi paludamenti regali.
La figura del B. nasce, dunque, come reazione ad un fondo di pensiero antichissimo che esprimeva, proponendosi valori metafisici, attraverso dei simboli. Immediatamente, però, la figura creatasi diviene schiava di un'altra corrente di pensiero ugualmente antica. Le posizioni ed i gesti che il B. assume - quando la narrazione di un determinato episodio non richieda, per essere intelligibile, particolari atteggiamenti del B. stesso - sono suggeriti dallo yoga, la cui importanza è profondamente sentita dal buddismo. Perciò il B. stesso è quasi sempre seduto nella posizione dello yogin, mentre i gesti delle mani (mudrā) esprimono, con un linguaggio simbolico che ricorda la mimica dei danzatori, lo stato psichico da cui egli è pervaso. Ogni espressione del volto perde quasi interamente il suo valore ed è per questo che le figure appaiono sempre assorte o lievissimamente sorridenti, quando non sono del tutto atone. La creazione artistica viene pertanto limitata a campi del tutto diversi.
Sono questi i caratteri fondamentali dell'immagine, che perdurano attraverso tutta l'arte buddistica. Qualche osservazione ancora va riservata al panneggio della veste. La produzione gandharica presenta in alcune sue opere un trattamento delle pieghe che può ricordare il mondo classico. In genere, però, la veste copre il corpo senza rivelarne il moto e la vita, apparendo dura ed inerte, solcata da una disposizione convenzionale delle pieghe che fa in modo che le figure coricate del B. morente presentino lo stesso panneggio delle immagini stanti. La disposizione a festoni delle pieghe (sul davanti) avrà una grande fortuna: la ritroviamo infatti nelle immagini indo-iraniche, in quelle centro-asiatiche, in alcune cinesi, tibetane e giapponesi. Anche Mathurā, che adotta un panneggio interamente diverso, a pieghe piccole, fitte e parallele (detto dei vêtements mouillés), non è insensibile a questa disposizione, che qualche volta è preferita e perdura vitale anche sulla sua linea di sviluppo, affermandosi nell'arte dei Gupta.
Accanto all'immagine del B. compiuto, esistono anche altre figurazioni. Nei bassorilievi che ne narrano la vita lo vediamo in forma di bambino o di principe. Ma di regola sono immagini sporadiche, imposte dalla necessità ed hanno in genere scarso valore.
Conviene però ricordare una creazione veramente potente per espressività e ardire di concezione, realizzata con tecnica raffinata, che si allontana per varie ragioni dalla normale iconografia. Prima di raggiungere l'Illuminazione, affermano i testi, il futuro B. si dedicò intensamente alle pratiche ascetiche. Queste si dimostrarono inutili, ma la loro asprezza ridusse il corpo di lui simile ad uno scheletro. Il soggetto del futuro B. emaciato da anni di digiuno, attrasse gli artisti del Gandhāra che cercarono più volte di realizzarlo. Fra questi tentativi emerge una scultura, rinvenuta a Sikri, che supera ogni altra per impressionante espressività e chiarezza. Può darsi che questa immagine accogliesse suggerimenti ed influssi ellenistici; è certo, però, che l'ignoto artista seppe rielaborarli in maniera ammirevole così da creare qualcosa di assolutamente nuovo. Il motivo ebbe fortuna dando luogo a varie repliche e rifacimenti, oltre che in Asia Centrale, in Cina e nella scultura lignea giapponese, così da essere veramente degno di menzione.
L'evolversi dell'immagine vera e propria del B. dovette tener conto, contemporaneamente, di due elementi diversi: lo stile e l'evoluzione del pensiero buddista. Piccole oscillazioni interne nell'arte del Gandhāra, come l'applicazione sporadica di baffi barbarici per influsso del mondo indo-scita non hanno valore iconografico anche se obbediscono ad un gusto particolare. Più importante è una diversa impostazione del panneggio che lascia scoperta la spalla destra. Il motivo è particolarmente gradito agli artisti di Mathurā, che lo risolvono con il caratteristico sistema delle pieghe sottili e fitte, quasi senza rilievo, ed ha lunga durata. In dipendenza dell'evoluzione del pensiero buddista si ha l'aumento di statura del B. rispetto agli altri personaggi delle scene e la realizzazione iconografica di un nuovo soggetto: il "Gran Miracolo di Shravasti". La più nota rappresentazione di questo miracolo attesta un evolversi caratteristico dell'arte del Gandhāra verso forme rigide e frontali, mentre dà origine alle grandi stele cinesi del periodo Wei attraverso un influsso indiretto che è insieme iconografico e religioso.
L'arte di Mathurā, invece, si evolve per proprio conto. Pur accogliendo elementi ellenistici, pervenuti attraverso il Gandhāra, non compie molti progressi rispetto alle posizioni conquistate. Particolarmente interessata alle grandi statue isolate, essa mantiene la sua stilizzata sobrietà. Ma la sua creazione è vicina al gusto dell'India, cosicché esercita il suo influsso da Sarnath a Shravasti e dalle più tarde opere di Sanchi, fino ai grandi centri meridionali dell'arte buddistica, come Amarāvatī e Nāgārjunikonda. Qui anche l'influsso gandharico è vivo, rinforzato forse da contatti diretti con l'occidente romano. L'immagine del B. come del resto tutta la plastica di Amarāvatī e delle zone circonvicine, raggiunge un equilibrio che prelude alla definitiva formazione della grande arte dei Gupta. L'impostazione generale delle sculture, come scelta di soggetti, è prevalentemente aneddotica e gli artisti riescono a creare delle composizioni deliziose equilibrando le varie correnti che giungono a loro attenuate. A questo scopo utilizzano ancora i simboli a fianco delle raffigurazioni antropomorfe semplificando con questo mezzo alcune delle scene della vita di Shākyamurn che la scuola gandharica aveva create con scrupolosa aderenza ai testi, ma con una certa compassata freddezza.
L'immagine antropomorfa del B. segue ora il cammino del buddismo diffondendosi in tutta l'Asia. Nel N, l'arte del Gandhāra dà origine alla cosiddetta scuola irano-buddistica nella quale l'influsso sassanide si sovrappone all'apporto greco-romano. La corrente irano-buddistica trabocca nell'Asia Centrale raggiungendo le estreme oasi sui confini della Cina e penetra nel territorio stesso dell'impero cinese. I B. colossali di Bāmiyān in Afghanistan influiscono su quelli cinesi di Yünkang (V sec. d. C.) e Longmen (VII d. C.). Le caratteristiche immagini centro-asiatiche, nelle quali il B. assume i caratteri esteriori della regalità iranica, fanno sentire la loro influenza anche nella prima pittura tibetana. Giungendo in Cina, l'esposizione aneddotica dei varî episodî della vita del B. si ambienta interamente nel nuovo mondo, sicché sembra che gli episodî si svolgano in città e villaggi cinesi mentre anche i personaggi e i costumi si uniformano all'ambiente. Quasi nulla resta della caratteristica composizione centralizzata che poneva il B. al centro degli episodî. L'effetto dell'influsso occidentale si perde di fronte alla visione artistica cinese esaltante la natura ed i suoi fenomeni. Intanto, attraverso la Corea, il buddismo arriva nel lontano Giappone portando con sé echi delle scuole artistiche indo-afghane giunti in Cina attraverso le carovaniere.
L'arte di Mathurā, per contro, inserita com'è nella linea di sviluppo dell'estetica indiana, influisce largamente, come abbiamo veduto, sull'arte dei grandi centri del Deccan. Fra questi il maggiore, Amarāvatī, prelude alla grande arte dei Gupta almeno in quelle opere che appartengono al suo massimo vigore creativo. Amarāvatī, infatti, come le pitture di Ajanta (che per molti aspetti si avvicinano all'arte dei centri meridionali, pur accogliendo anche influssi iranici), è già avviata verso quella spiritualizzazione dell'immagine del Maestro che toccherà il massimo con la produzione Gupta. Questa infatti segna la definitiva formazione dell'estetica indiana, reagendo, si può dire, nella maniera più decisa alla corrente indo-greca. I valori plastici subiscono infatti una netta trasformazione che porta gli artisti del periodo dei Gupta a dare il massimo valore alla linea, resa ancora più morbida e sinuosa di qùella che caratterizza le eleganti creazioni di Amarāvatī. Il desiderio di una più alta spiritualizzazione attenua ancora la concitazione dei gesti che Amarāvatī conservava in conseguenza del suo spirito aneddotico-edificante. Le immagini Gupta del B. obbediscono ormai solo all'iconometria simbolica indiana, raggiungendo una dolcezza ed una flessuosità di forme posta ancor più in valore dalla veste, trasformatasi quasi in un velo sottile. Tuttavia si conserva, nella nuova stilizzazione, il ricordo dell'antico panneggio ancora in uso nel N-O dell'India e in Afghanistan (siamo infatti nel V sec. d. C.). L'arte Gupta diffonderà letteralmente in tutta l'Asia i proprî canoni. D'altra parte, già i centri deccanesi hanno esercitata una prima influenza su Ceylon e nell'India esteriore (Indocina, Cambogia, Birmania, ecc.). È così che un B. stante di Amarāvatī appare vicinissimo ad una figura, ritrovata a Dōng-du'o'ng, inseritasi nell'evoluzione dell'arte del Champā, e che proviene da Ceylon. Contemporaneamente il buddismo e le sue immagini raggiungono Giava ove si afferma, ancora una volta, la concezione estetica dell'India. Raggiungendo paesi stranieri l'influsso indiano si attenua e con esso l'ortodossia iconografica. Per questo nell'arte Cham l'ushṇīsha diviene assai piccola e l'ūrṇā scompare sia nell'arte Cham, che in quella Khmer, come nell'iconografia moderna della Cambogia e della Birmania.
D'altra parte l'iconografia Khmer, ispirata dalla protezione che il re dei serpenti Mucilinda offrì al B., fa del serpente arrotolato, col cappuccio aperto sulla testa del Beato, il seggio normale del B. stesso, in contrasto con le tradizioni dell'India.
In tutte queste regioni il B., coperto della tiara regale, con gioielli e paramenti, qualche volta a torso nudo, altre volte con vesti che ricordano il panneggio Gupta, è motivo corrente e comunissimo.
Il definitivo trionfo dell'iconometria e dei canoni estetici indiani su tutto ciò che di straniero era stato accolto dal buddismo è preceduto ed accompagnato da un'evoluzione del pensiero buddista che si orienta verso nuove concezioni. Non è improbabile che il rapido moltiplicarsi di immagini sostanzialmente identiche abbia favorito quest'evoluzione del pensiero religioso. È certo che la riflessione speculativa su alcune scene fondamentali della vita di Shākyamuni, il B. storico, è la base per la formazione di ipostasi nelle quali vengono ampliati e quasi esasperati i caratteri metafisici. La pentade suprema dei B., da cui emana il cosmo, ha appunto questa origine. Automaticamente, le mudrā che caratterizzavano le figure di Shākyamuni in ognuno dei varî episodî, divengono attributo specifico e segno distintivo delle immagini di queste ipostasi. Così Amitābha Amitāyus, ipostasi del B. meditante, avrà la mudrā della meditazione, Akshobhya, ipostasi dello Shākyamuni evocante la terra, avrà la mudrā corrispondente (bhumisparshamudrā) e un processo analogo si ha anche per Vairocana, Ratnasambhava e Amoghasiddhi. La serie si moltiplica all'infinito poiché infiniti sono i B. come infiniti sono gli evi e i mondi.
Nello stesso tempo, la formulazione completa della dottrina dei tre corpi del B., ammette, a fianco del corpo metafisico e di quello apparente, anche un "corpo di gloria" nel quale il B. appare al meditante vestito dei paramenti regali. Poiché l'arte buddistica, specie nella pittura, è ormai orientata verso la raffigurazione delle immagini che vengono evocate nelle estasi mistiche, finirà per insistere notevolmente su quest'aspetto speciale dei vari B. che non differisce da quello dei bodhisattva, costantemente rappresentati in aspetto regale. L'affermarsi di questa teoria nell'India nord-occidentale e nell'Asia Centrale fa sì che, come già abbiamo veduto, siano gli aspetti caratteristici delle regalità iraniche (sia parthiche che sassanidi, od anche dei regni minori, Chorasmia, Zabul, ecc.) a determinare i particolari di queste figurazioni. Dal mondo Kuṣāṇa si diffonde la posa dei B. seduti all'europea, in contrasto con la speculazione yoga.
La differenziazione fra le varie immagini, diretta ad ottenere un pronto riconoscimento, per quanto è possibile, avviene, oltre che attraverso le mudrā, che non sarebbero sufficienti per numero, anche con l'applicazione di particolari attributi, a volte estremamente sottili. Nelle immagini pittoriche soccorre spesso la distribuzione dei colori, ma il pantheon enorme del tardo buddismo offre ugualmente difficoltà di identificazione anche per il variare delle teorie da cui dipendono queste immagini dense di complicati simbolismi. Ed è opportuno notare, a proposito di simbolismi, che il cosiddetto buddismo tantrico e Vajrayana adotta nella sua iconografia forme simboliche formatesi in India, quali la pluralità delle teste e delle braccia, fondamentalmente dirette ad illustrare la potenza cosmica del Buddha. In questi casi ogni mano sarà disposta in una mudrā o brandirà un attributo. Gli aspetti terrificanti - che nell'arte tibetana sono quanto di più mostruosamente violento si possa immaginare, mentre nell'arte cinese tendono al grottesco - sfruttano questo simbolismo per esasperare l'aspetto macabro delle figure direttamente derivate (come le altre) da allucinazioni mistiche. Ma la forma prima del B. non si perde in questo ribollire di elementi tratti da esperienze psichiche e da primitive correnti religiose. Essa permane nel tempo quasi ad indicare con la sua presenza il filo di pensiero che collega all'India (e forse iconograficamente alla Grecia) quello speciale umanesimo asiatico che il buddismo seppe suscitare.
Bibl.: Per la questione dell'origine dell'immagine del B. e per l'arte del Gandhāra la vastissima bibliografia è raccolta da H. Deydier, Contribution à l'étude de l'art du Gandhāra, Parigi 1950.
Come fonti bibliografiche fondamentali: Bibliographie Bouddhique, 1925-47, voll. 20; Annual Bibliography of Indian Archaeology, 1925-47, voll. 15.
Vedi poi le seguenti pubblicazioni: N. Banerjea, The Development of Hindu Iconography, Calcutta 1941; A. Coomaraswamy, Buddhist Iconography, Cambridge Mass., 1935; A. Foucher, L'iconographie bouddhique de l'Inde, Parigi 1900-1905, 2 voll.; A. Getty, Gods of Northern Buddhism, Oxford 1914; G. Tucci, Tibetan Painted Scrolls, Roma 1949, voll. 3; id., Indo-tibetica, Roma 1932-41, voll. 3, in 7 tomi.
Per le varie fasi dell'arte buddista cfr. la bibl. sotto le varie voci che si riferiscono a luoghi e stili.