Buddhismo e ‘buddhismi’
La World fellowship of buddhists
La vicenda plurimillenaria della pleiade di scuole soteriologiche che si rifanno alla figura dell’asceta Gautama, il Saṃyaksambuddha (vero perfetto Buddha, dell’era attuale, secondo la designazione preferita dai suoi seguaci) e agli insegnamenti attribuitigli, ha segnato il destino intellettuale e spirituale dell’Asia. Queste scuole sono venute differenziandosi sia nella dottrina sia nella prassi sotto numerosissimi aspetti, entrando a far parte, sovente in modo determinante, di culture tra loro assai diverse, cominciando da quelle del subcontinente indiano che ha dato loro i natali, e ricevendone apporti così significativi da mutarne sovente prospettive e idealità, fino a renderle quasi irriconoscibili se messe a confronto con il quadro offerto dai testi più antichi.
Furono gli studiosi d’Occidente a coniare l’etichetta di ‘buddhismo’ per una presunta esperienza religiosa rimasta più o meno nell’alveo di quel quadro remoto all’interno del panorama estremamente parcellizzato, e talora contraddittorio, fornito da tali scuole. E gli studiosi si avvicinavano a esse così come le venivano incontrando nel mondo ottocentesco, teatro della loro espansione, e attraverso lo spoglio degli ingenti monumenti letterari da esse tramandati, finalmente aperti all’indagine. In realtà si trattava di una operazione in larga misura riduttiva e deformante nei confronti dei dati cui l’etichetta era di volta in volta applicata, giacché di più ‘buddhismi’ in effetti si trattava, solamente a tratti tra loro commensurabili e comunque decisamente appesantiti dalla massa di componenti etnico-culturali che li avevano plasmati nelle varie regioni dove avevano fatto – e subìto – la storia.
Eppure tale era il prestigio delle suggestioni insite nelle categorie elaborate dall’orientalismo coltivato dai dotti dell’Occidente egemone, che alcune figure di spicco ne trassero ispirazione per fare del ‘buddhismo’ neonato una bandiera sotto cui raccogliere le forze delle élites nazionali asiatiche e, al contempo, promuovere la creazione di una sorta di ‘internazionale buddhista’ che mirava a una più vasta identità religiosa e di pensiero.
Nel novero di costoro figuravano entusiasti occidentali come Elena Petrovna Blavatskij (1831-1891) e Henry Steel Olcott (1832-1907), che aderirono formalmente al Sangha singalese il 25 maggio 1880; il secondo si distinse sia come autore d’un catechismo buddhistico da impiegarsi nell’istruzione scolare sia come fondatore di strutture accademiche destinate a ridare respiro alla cultura tradizionale, quali l’Ananda college di Colombo, il Dharmaraja college di Kandy e il Mahinda college di Galle. Sotto la tutela di Olcott emerse David Hewavitarne (1864-1933), beneficiario d’una formazione occidentale agli studi. Fattosi anacoreta (anāgarika, non cittadino) con il nome di Dharmapāla, animò con zelo instancabile la rinascita di Ceylon (od. Srī Lankā) e l’affermazione del buddhismo al di là dei suoi confini. Tra le sue iniziative appare della massima importanza la fondazione a Colombo, nel 1891, della Mahabodhi society, destinata ad assumere nel 1949 il controllo dell’omonimo tempio a Buddha Gaya, luogo in cui Gautama attinse la comprensione liberatrice.
Il 25 maggio 1950, veniva fondata a Colombo, sotto gli auspici governativi, la World fellowship of buddhists (WFB), con una decisione sottoscritta dai delegati di 27 nazioni, che adottò un vessillo disegnato nel 1880 da un comitato singalese in cui Olcott aveva avuto una parte significativa. Il primo presidente fu George Pieris Malalasekera (1899-1973; divenuto dopo la sua conversione Guṇapāla Piyasena), curatore fra l’altro di una Encyclopaedia of buddhism (pubblicata a partire dal 1961) e di un Dictionary of Pali proper names (1937-1938). Divenuto nel 1958 Alto commissario di Ceylon per l’Unione Sovietica, la sede centrale dell’organizzazione si spostò in Birmania (od. Myanmar), sotto la presidenza di uno tra i principali artefici della Costituzione di quel Paese: l’attorney general, poi chief justice della Corte suprema U Chan Htoon (1906-1988), segretario generale dello Union of Burma Buddha sasana council e autorevole rappresentante delle istanze buddhistiche negli Stati Uniti in occasione del XVI International association for religious freedom (IARF) congress (1958), autore in quella circostanza del saggio Buddhism and the age of science (1961). Dal 1963 la sede della WFB si è trasferita a Bangkok, sotto la presidenza della vicepresidente della Buddhist association of Thailand, la principessa Poon Pismai Diskul, figlia del principe Damrongrajanuparp e autrice del saggio Relevance of buddhism in the modern world (1969). Le è succeduto, nel 1985, Sanya Dharmasakti (1908-2002), giudice supremo della Thailandia dal 1963 al 1967 e rettore della Thammasat university dal 1971 al 1973, quando divenne primo ministro del suo Paese. Autore del saggio Buddhism and mental health (1966), egli venne riconfermato in carica dai delegati di trentasette nazioni in occasione di una General conference dell’organizzazione, tenutasi a Colombo nel 1993. Dopo le sue dimissioni, nel 1998, Dharmasakti s’è fatto promotore della World buddhist university (WBU), inaugurata in occasione della XXI WFB General conference, tenutasi a Bangkok nel 2000. Al suo posto è stato eletto Phan Wannamethee, segretario generale della Croce rossa thailandese, fiancheggiato, in qualità di presidenti onorari, dal venerabile maestro Hsing Yung, presidente della Chinese Han-Tibet culture association di Taipei, e dal singalese Martin Garmage, il venerabile K. Sri Dhammānanda Mahāthēra (1919-2006), autore dell’importante trattato What buddhists believe (1964) e per più di mezzo secolo superiore del Buddhist maha vihara di Kuala Lumpur, che coordina, con la Sasana abhiwurdhi wardhana society e la Buddhist missionary society Malaysia, le diverse attività e iniziative dell’organizzazione in Malaysia e a Singapore.
La WFB presenta una struttura imponente, che conta 15 vicepresidenti e 9 standing committees, fra cui quello per le finanze, con annesso, dal 2000, un trust fund; per le pubblicazioni, pubblicità, educazione, cultura e arti, che sta formando un network of networks; per le attività dei dhammadūta (messi del Dharma, i missionari), con diversi plessi radicati in tutto il mondo (è recente l’istituzione in Tanzania d’un centro regionale per la diffusione del buddhismo in Africa); per i servizi umanitari, con il coordinamento di missioni di buona volontà presso i Paesi indicati dal Comitato per l’unità e solidarietà; per lo sviluppo della gioventù in vista di una cultura globale; per lo sviluppo socioeconomico, che sta curando una ricerca destinata a delineare un conceptual framework per lo sviluppo globale nel contesto del buddhismo; per le donne; per il Pañcasila Samādāna (applicazione dei cinque precetti del buddhismo per la pace e la felicità). Pur professando di non perseguire – direttamente o indirettamente – fini politici, la WFB ha goduto e gode dell’attivo sostegno di Stati e governi dei Paesi con predominante presenza buddhistica theravādin, segnatamente in Srī Laṅkā e nel Sud-Est asiatico. S’insiste da parte dei suoi fautori e appartenenti sulla rappresentatività dell’organizzazione nei confronti di una cospicua varietà di scuole ed esperienze.
In stretta sintonia con il movimento guidato da D. Hewavitarne nacque la Buddhist society of Great Britain and Ireland, fondata nel 1907; essa fu vivificata dalla predicazione del fondatore e segretario generale della International buddhist society (Buddhasasana-Samagama, 1903), Charles Henry Allan Bennett (1872-1923), poi McGregor, autore di The wisdom of the aryas (1923): si tratta del primo occidentale divenuto monaco buddhista (in Birmania nel 1902) con il nome di Ananda Metteya. Negli stessi anni conosceva la massima fioritura la Pali text society, fondata nel 1881 da Thomas William Rhys Davids (1842-1922) ed ereditata da sua moglie Caroline Augusta Foley Rhys Davids (1857-1942). Sotto la loro presidenza, venivano tradotti e poi editi in traslitterazione latina 94 volumi per un totale di oltre 26.000 pagine. Nel 1924 la Buddhist society fu rifondata da Christmas Humphreys (1901-1983), che ricopriva la carica di giudice dell’Alta corte e ne è stato presidente fino alla morte. A questa s’affiancava, con carattere decisamente confessionale, il London buddhist vihara, fondato da Hewavitarne nel 1926 – il primo monastero buddhista in Occidente, poi trasferitosi a Chiswick. Lo regge tuttora direttamente l’Anagarika dharmapala trust di Srī Laṅkā. Malgrado i suoi legami iniziali con il Thēravāda, la Buddhist society professa un carattere non settario. Dal 1961 è sotto il patronato del Dalai Lama che l’ha visitata ufficialmente nel 1973, poi nel 1996 in occasione delle celebrazioni del suo settantesimo anniversario. Essa è parte prestigiosa del Network of buddhist organisations (NBO) del Regno Unito, fondato nel 1993 per promuovere il dialogo tra le diverse organizzazioni buddhistiche (se ne contano quattordici soltanto a Cambridge).
Sempre a Colombo viene fondato nel maggio 1966 il World buddhist sangha council (WBSC), destinato ad affiancare la WFB specialmente nel delicato settore dei rapporti e scambi fra le diverse comunità monastiche. Oltre agli ospiti singalesi, partecipano alla fondazione esponenti thailandesi, cambogiani, laotiani, vietnamiti, malesi, indiani, pakistani, nepalesi, della Corea del Sud (Republica di Corea), di Singapore, Hong Kong e Taiwan, nonché una delegazione speciale del Dalai Lama. Nel 1967, a coronamento del suo primo Congresso, questa organizzazione promulgava una dichiarazione sui Basic points unifying the Thēravāda and the Mahāyāna, ricorrendo significativamente al lessico sanscrito proprio del Mahāyāna nella recensione in lingua occidentale. I principi sono di seguito elencati.
«Il Buddha è il nostro primo Maestro.
Prendiamo rifugio nel Buddha, nel Dharma (il complesso delle dottrine da lui insegnate) e nel Sangha (la comunità dei monaci).
Se Dio abbia creato e/o governi il mondo è questione che non tende all’edificazione.
Consideriamo fine della vita lo sviluppare la compassione per tutti i viventi senza distinzione e l’operare per il loro bene, felicità e pace, nonché lo sviluppare la saggezza che conduce alla realizzazione della Verità ultima.
Siamo guidati dalle quattro nobili verità – la verità sul Duḥkha (il disagio esistenziale), la verità sul sorgere del Duḥkha, la verità sulla cessazione del Duḥkha, la verità sul sentiero che mena alla cessazione del Duḥkha – e dalla legge di causa ed effetto, il Pratītyasamutpāda (il con-sorgere dei fenomeni in presenza di cause e condizioni).
Asseriamo che tutti i saṃskāra (le cose condizionate) sono anitya (impermanenti) e duḥkha e che tutti i dharma (le cose condizionate e incondizionate, incluso il Nirvāna) sono anātman (senza sé o non sé).
Accettiamo i trentasette bodhipakṣadharma (le qualità che conducono all’Illuminazione) come aspetti diversi della via insegnata dal Buddha che mena all’Illuminazione.
Vi sono tre modi d’attingere la Bodhi (l’Illuminazione): come śravaka (uditore, discepolo che l’attinge grazie all’insegnamento altrui), come pratyekabuddha (Buddha per uno che l’attinge per sé stesso e non la insegna ad altri) e come Saṃyaksambuddha (Buddha perfettamente e totalmente illuminato, che l’attinge per sé stesso e la insegna ad altri). Accettiamo come ideale più elevato, più nobile ed eroico il seguire la carriera d’un Bodhisattva (dalla mente tesa all’Illuminazione, un futuro Buddha) e divenire un Saṃyaksambuddha al fine di salvare gli altri.
Ammettiamo l’esistenza di differenze in credenze e pratiche buddhistiche in diversi Paesi. Tali forme ed espressioni esteriori non vanno confuse con gli insegnamenti essenziali del Buddha».
Sforzi come questo, che mirano a identificare un minimo comune denominatore tra i diversi ‘buddhismi’ – qui rappresentato dai capisaldi più significativi del Thēravāda, ultima sopravvissuta delle diciotto scuole buddhistiche antiche – mettendone tra parentesi dottrine e prassi meditativa caratteristiche, segnano le seconda metà del secolo appena trascorso e probabilmente continueranno a essere coltivati con ottimistico zelo. In posizione privilegiata è stata posta una formulazione classicamente elusiva del cosiddetto ateismo buddhistico, la negazione di una figura divina responsabile del mondo e delle sofferenze degli esseri, sostenuta nel corso dei millenni da un’abbondante e agguerrita letteratura controversialistica. I risvolti politici del WBSC appaiono anche dal fatto che alla sua presidenza onoraria sia stato posto un prestigioso esponente dell’establishment buddhistico della diaspora cinese, il venerabile maestro del Dharma Wu Ming, già primo abate dell’Eastern states buddhist temple of America sito nella Chinatown di New York e docente della Lay buddhist association R.O.C. taiwanese affiliata alla WFB, coadiuvato da personaggi come il venerabile Thich Tam Chau, all’epoca del Vietnam del Sud secretary-general del Vien Hoa Dao (la Chiesa buddhista unificata del Vietnam, poi messa fuori legge dal regime comunista) e in seguito patriarca del World Vietnamese buddhist order, con sede a Montreal in Canada.
Altre organizzazioni: il Friendsof the western buddhist order
Oltre alle già citate istituzioni britanniche, tutta una serie di strutture localizzate nelle diverse regioni del globo si affianca alla WFB nel tentativo di raccogliere sotto la loro egida le diverse affiliazioni presenti nei loro territori. Particolare è la situazione negli Stati Uniti, dove la frammentarietà del quadro dell’immigrazione assieme alla disordinata proliferazione di iniziative missionarie, talvolta rivali tra loro, ha impedito la formazione di un coordinamento nazionale. Gli immigrati dalle diverse zone dell’Asia, che formano la massa dei buddhisti statunitensi (l’80% dei circa sei milioni di persone che si riconoscono tali nei censimenti effettuati sui gruppi religiosi americani), non sembrano sentirne il bisogno e s’accontentano di far capo a strutture confessionali interne alle rispettive tradizioni delle loro comunità, come l’imponente organizzazione nazionale delle Buddhist churches of America (BCA) che raccoglie i seguaci della scuola della Vera pura terra di Amitābha (Jōdo Shinshū), la variante ‘occidentale’ (Nishi) dell’amidismo giapponese che si ricollega al Jōdo Shinshu Hongwangji-ha, cui fanno capo 10.000 templi nel solo Giappone e circa 200 nel resto del mondo, di cui 60 negli Stati Uniti. Che si tratti perlopiù dell’espressione d’una realtà nippo-americana appare evidente dal fatto che l’attuale presidente, Gordon Bermant, eletto nel 2006, è il primo a non vantare una discendenza giapponese. Le BCA aderiscono direttamente alla WFB, come fanno altre 24 organizzazioni statunitensi grandi e piccole; ma ve ne sono, moltissime che l’ignorano.
In Europa è stata fondata nel 1975 la European buddhist union (EBU), che abbraccia comunità e istituzioni buddhistiche d’ogni appartenenza. In origine destinata a raccogliere soltanto l’adesione di confederazioni nazionali – come la Deutsche buddhistische Union E.V. (DBU, fondata nel 1955, cui aderiscono 55 gruppi; l’attuale presidentessa è Sabine Tielow), la Österreichische buddhistische Union, poi Österreichische buddhistische Religionsgesellschaft (ÖBR, fondata nel 1976, con 35 membri; l’attuale presidente è Gerhard Weissgrab), l’Unione buddhista svizzera (SBU/USB, fondata nel 1978, con 37 membri; l’attuale presidentessa è Colette Bodmer) e l’Unione buddhista italiana (UBI, fondata nel 1985, con 43 membri, riconosciuta dallo Stato italiano con intesa stipulata il 4 aprile 2007; l’attuale presidentessa è Maria Angela Falà) – essa ha modificato nel 1990 i suoi statuti in modo da aprirsi anche ad altre organizzazioni, come quella abbastanza controversa dei Friends of the western buddhist order (FWBO).
Il FWBO è nato nel 1967-68 a Londra a opera di Dennis Lingwood (n. 1925). Dopo il suo rientro in patria dall’India dopo una serie di iniziazioni al Thēravāda e al Mahāyāna tibetano, narrate in più volumi delle sue memorie, è stato designato dai suoi discepoli con il nome di Bhante Urgyen Sangharakshita. La vicenda di questo personaggio e della struttura che a lui si rifà è in certo modo paradigmatica. Allontanato dal Buddhist vihara, Lingwood, brillante espositore delle proprie idee, ha tentato una sintesi tra le diverse esperienze da lui vissute riadattando dottrina e prassi a quelle che gli apparivano le esigenze di un seguace occidentale del Buddha. Il risultato è una varietà sincretica di buddhismo che coltiva, accanto a un nucleo dogmatico abbastanza generico da fornire il destro a diverse interpretazioni, valori etici come l’amicizia, le arti e la filantropia, mentre mescola con improvvisazioni più o meno felici tecniche meditative teorizzate da varie scuole. I seguaci di Lingwood preferiscono parlare di ‘ecumenismo’ piuttosto che di eclettismo, giacché considerano il loro fondatore come il riscopritore di un’unità soggiacente ai diversi indirizzi buddhistici formatisi nella storia, tutti suscettibili di fornire ispirazioni alla dottrina e alla prassi. Rivelatrice del desiderio di monopolizzare il ruolo di propugnatore di un buddhismo ‘occidentalizzato’ erede, al contempo, di più tradizioni appare la polemica di Lingwood contro un altro alfiere di questa tendenza, lo scozzese Stephen Batchelor (n. 1953), ordinato monaco nella tradizione dei Gelugpa tibetani nel 1978 dopo un duro noviziato – durato otto anni a Dharamshala e in Svizzera sotto i maestri (geshe, dge shes, buon amico) Ngawang Dhargyey e Rabten – successivamente abbandonato dopo un trattamento di psicanalisi junghiana. Divenuto nel 1981 seguace dello Zen nel monastero di Songgwang Sa, finalmente ritornato allo stato laicale nel 1985, assunse tra il 1992 e il 1996 la funzione di coordinatore e docente nel Centre for contemporary buddhist enquiry del villaggio di Sharpham nel Devonshire. In seguito trasferitosi in Aquitania, ha iniziato a tenere conferenze in diversi Paesi. Traduttore dal tibetano e dal coreano e autore del brillante pamphlet che porta il significativo titolo di Buddhism without beliefs. A contemporary guide to awakening (1997), questo ‘buddhista agnostico’, come si autodefinisce, relativizza la maggior parte delle concezioni su cui poggia la visione del mondo delle diverse scuole che si rifanno al Buddha.
I membri effettivi del FWBO (al presente più di 2500), sia maschi sia femmine, ricevono un’iniziazione e s’impegnano a uno stile di vita a metà tra quello tradizionale dei bhikkhu e quello dei laici. Si noterà che, anziché presentarsi come upāsaka (così normalmente nel lessico buddhistico vengono detti i laici), i ‘buddhisti occidentali’ seguaci di Lingwood si considerano un quid pluris, preferendo esser designati con il neologismo dharmachari, trascrizione anglicizzata del sanscrito dharmacārin (praticante del Dharma) dopo uno stadio preliminare di mitra (amici). Essi sono suscettibili di venir cacciati a motivo di dissensi, per decisione inappellabile del fondatore oppure dei public preceptors che gli sono succeduti a capo dell’organizzazione, il più importante dei quali, Alex Kennedy (n. 1947), che ha preso il nome di Dharmachari Subhuti, ha redatto una biografia di Lingwood nonché testi che ne sviluppano gli insegnamenti come Buddhism for today. A portrait of a new buddhist movement (1983) e The buddhist vision. A path to fulfillment (2001).
La branca indiana del FWBO, fondata da ;Lingwood nel 1978, il Trailokya Bauddha Mahāsaṅgha ;Sahayaka Gaṇa, ha rilevante importanza tra quelle, sempre più numerose, che si sono formate via via in Occidente, in Oceania e nell’Asia meridionale. Lingwood durante il suo soggiorno indiano aveva incontrato Bhimrao Ramji, poi Babasaheb Ambedkar (1891-1956), uno dei padri della Costituzione dell’India, fondatore dell’Independent labour party e fiero nemico della società tradizionale basata sulle caste – essendo egli stesso un appartenente alla stirpe degli ‘intoccabili’ mahar. Dopo un primo tentativo di conversione nel giugno del 1936 a opera di Salvatore Cioffi (1897-1966), un italo-americano divenuto bhikkhu in Birmania nel 1927 con il nome di Lokanātha, fondatore della Lokanath buddhist mission e, in seguito, divenuto importante esponente della WFB, Ambedkar aveva approfondito i suoi interessi, recandosi a Ceylon e, nel 1954, in Birmania in occasione della III Conferenza della WFB tenutasi a Rangoon. L’anno dopo aveva fondato la Buddhist society of India (Bhāratīya Bauddha Mahāsabhā) e finalmente si era fatto iniziare al Thēravāda il 14 ottobre 1956, ricevendo l’accettazione in seno alla nuova fede dal suo docente di pāli Ishvardatt Medharthi, già iniziato dallo stesso Cioffi nel 1937, e portando con sé un seguito di quasi mezzo milione di seguaci, che dopo la sua morte lo venerarono come il Mahābodhisattva. Uscì postuma la sua monografia The Buddha and his Dhamma (1957), un vero testamento spirituale.
Ripetute conversioni di massa, che tuttora avvengono in pubbliche riunioni (la più recente ha avuto luogo il 17 maggio 2007 a Nagpur, in occasione del cinquantesimo anniversario della conversione di Ambedkar; in quest’occasione lo scrittore Laksman Mane – appartenente alla casta dei nomadi kaikadi, tradizionalmente dediti al furto – ha abbracciato la nuova fede insieme a 140 capi tribali) e che sono regolarmente accolte da esponenti del Thēravāda, hanno portato alla formazione di un’importante e battagliera comunità di dalit (il termine ora preferito per le persone d’infima casta, chiamate Harijān dai gandhiani) seguaci del Navayāna (nuovo veicolo) che si riconosce nel messaggio religioso e sociale del personaggio. Nel 1961 costoro ammontavano a un po’ meno di tre milioni nel solo Maharashtra e il loro numero è andato crescendo fino a oggi. Sarebbero circa cinquanta milioni secondo le stime dei portavoce del movimento, meno di dieci secondo i suoi avversari; il censimento è reso difficile dal fatto che perlopiù continuano a essere registrati all’anagrafe come hindu. Accanto a un esplicito rifiuto dei tradizionali culti indiani e della fede nelle ‘incarnazioni’ di Dio (la cui esistenza a parte dalle figure divine indiane è lasciata in pregiudicato, giacché l’accento è prevalentemente antihindu), coloro che pronunciano i ventidue voti dettati da Ambedkar si impegnano a credere nell’eguaglianza tra tutti gli esseri umani e a lottare per stabilirla, oltre ad adottare il Dhamma del Buddha (il termine è in lingua pāli e sottolinea l’appartenenza al Thēravāda) come sola vera religione. Non mancano incidenti con esplosioni di violenza popolare; l’ultima risale al 2006. Chi contesta la figura e gli scritti di Ambedkar talora è minacciato di morte dagli estremisti che si fanno chiamare buddhist panters. Vi sono organizzazioni buddhistiche indiane, che si rifanno espressamente ad Ambedkar, le quali aderiscono alla WBF: tali sono la Dr. Babasaheb Ambedkar Samarak Samiti di ;Nagpur, la Bouddhjan Panchayat Samiti, ‘Panchayatan’ Dr. Ambedkar di Mumbai e la Ambedkar buddhist academy. In concorrenza con queste, il Trailokya Bauddha Mahāsaṅgha Sahayaka Gaṇa si è impegnato per stabilire una sinergia con l’imponente massa di devoti politicamente orientati, reclutando perlopiù tra le loro file i suoi adepti. Specialmente A. Kennedy ha lavorato in tal senso e, nel 2005, ha ricevuto a ;Nagpur il Dalai Lama con altri notabili appartenenti a diverse organizzazioni buddhistiche, venendo a sua volta invitato nell’ottobre dell’anno dopo a un workshop centrato sulla figura di Ambedkar a Dharamshala. Ad affiancarne l’azione è sorta una triade di strutture: il Jambudvipa trust, fondato da Jeremy Goody (Dharmachari Lokamitra) a fini di beneficienza, il Manuski centre di Poona (il termine māṇuskī, umanità, designa uno dei principali valori promossi da Ambedkar), coadiuvato da un Manuski network, destinato a fornire servizi e coordinamento alle comunità dei dalit, e infine la Sangharakshita library, che accoglie a fianco dei testi di Lingwood e dei suoi continuatori le pubblicazioni dei seguaci di Ambedkar.
Nel luglio e nell’ottobre del 2007 vi sono state nel Regno Unito interrogazioni parlamentari che hanno espresso preoccupazioni sul presunto carattere settario del FWBO, così come di altri movimenti buddhistici, quali la Soka Gakkai international (UK) e la New Kadampa tradition, che reclutano con successo i loro adepti fra i sudditi britannici, tutti coordinati dal Network of buddhist organisations (UK) (NBO), fondato nel 1993 e attualmente esteso a più di una quarantina d’organizzazioni. Il NBO è stato accolto come membro dalla European buddhist union apparentemente sullo stesso piano del FWBO: il che fa pensare che quest’ultimo abbia conservato una certa indipendenza nei confronti del primo.
Il Dalai Lama
Come si è visto fin qui, spesso il ruolo del Dalai Lama appare assai rilevante nel legittimare le diverse organizzazioni intese a coordinare e unificare il frammentatissimo panorama delle scuole buddhistiche locali. Le tappe della vita e delle vicissitudini di tale carismatica figura sono ben note: Lhamo Dondup (n.1935) venne riconosciuto all’età di tre anni come quattordicesimo tülku (sprul sku, la traduzione tibetana di nirmāṇakāya, corpo apparizionale, come viene detto il successore per rinascita a una delle cariche religiose tibetane) del Bodhisattva Avalokiteśvara nel ruolo di Dalai Lama; il suo predecessore Ngawang Lobsang Thupten Gyatso Jigdral Chokley Namgyal (primo capo di un Tibet davvero libero dalla metà del 17° sec.) a seguito della cacciata, nel 1911, delle truppe Manchu che l’occupavano dal 1905, era morto cinquantottenne nel 1933 e vi erano più candidati al suo alto seggio. Sottratto, nel 1940, alla sua numerosa famiglia (due sorelle e quattro fratelli, due dei quali riconosciuti come tülku in linee di successione minori), Lhamo Dondup fu educato nel palazzo-monastero di Potala a Lhasa, venendo da allora in poi designato con gli epiteti onorifici di Jetsun Jamphel Ngawang Lobsang Yeshe Tenzing Gyatso. Il suo insediamento ufficiale ebbe luogo il 17 nov. 1950, un mese dopo l’ingresso in Tibet di un corpo di spedizione cinese di 80.000 uomini. Il nuovo capo di Stato convisse faticosamente con il dominio cinese fino a che fuggì in India (marzo 1958) con un piccolo seguito che, negli anni successivi, venne ingrossandosi fino a contare 85.000 persone. Il Paṇḍit Javaharlal Nehru, mentre garantiva a Pechino che l’esule non si sarebbe più occupato di politica, lo sostenne nella formazione di un governo tibetano in esilio. Il 20 giugno 1959 il Dalai Lama denunciava il Seventeen point agreement for the peaceful liberation of Tibet stipulato il 23 maggio 1951 tra il governo della Repubblica popolare cinese e un governo locale del Tibet, creato ad hoc sotto l’egida cinese con a capo il governatore della regione del Kham, Ngabo Ngawang Jigme, inviato dallo stesso Dalai Lama a Pechino per negoziare. Egli faceva appello all’ONU, la cui Assemblea generale con la risoluzione 1353 (XIV) del 1959, facendo riferimento al retaggio culturale e religioso del Tibet e alla sua tradizionale autonomia (piuttosto che ‘indipendenza’) invitava a rispettare, così come a non pregiudicare, i diritti umani della sua popolazione. La successiva risoluzione 1723 (XVI) del 1961 esprimeva allarme per l’esodo dei tibetani e tornava a invitare con forza al rispetto dei loro diritti umani, incluso quello di autodeterminazione (un termine certamente più incisivo); una terza risoluzione, la 2079 (XX) del 1965, riconfermava con forza l’esortazione. Dopo che la Repubblica popolare cinese all’ONU ha preso il posto della Repubblica di Cina, ridotta a Taiwan, nel 1971 non vi sono state altre prese di posizione da parte dell’Assemblea. L’India, dopo aver sostenuto che la Cina aveva sul Tibet non una ‘sovranità’ (sovereignty), implicante un assoluto controllo, ma un ‘alto dominio’ egemonico (suzerainty), implicante tutt’al più un protettorato di limitata estensione, ammise nel contesto di un accordo commerciale del 1954 che il Tibet fosse «una regione della Cina», riconoscendone implicitamente la sovranità, salvo incrociare le armi con essa tra l’ottobre e il novembre del 1962 in una sfortunata serie di scontri di frontiera, che fissò i confini himalayani a suo netto svantaggio. Il Dalai Lama, allocato dal governo dell’India a Dharamshala, stilava l’anno dopo una Charter of Tibetans in exile sulle linee degli ordinamenti d’ispirazione occidentale. In base alla carta, corretta e aggiornata nel 1990 e poi nel 2001, è avvenuta la prima elezione a suffragio universale di un senior minister da parte degli esponenti della diaspora tibetana. I contatti con le diverse autorità mondiali si moltiplicavano, mentre un’ottantina di volumi (molti dei quali ricavati da registrazioni di conferenze e interviste) vedevano la luce. Fino a oggi il Dalai Lama ha compiuto circa 90 viaggi ufficiali, ricevendo lauree honoris causa e onorificenze in numerosi Paesi, conferendo a decine di migliaia di occidentali iniziazioni – segnatamente connesse alla pratica della Mahāmudrā e alla scuola tibetana del Kālacakra – e sovrintendendo alla diffusione delle diverse scuole tibetane, cominciando da quelle della tradizione dei Gelugpa.
Speciale cura ha dedicato alle comunità degli Stati Uniti, dove fa capo a lui la Foundation for the pres;ervation of the Mahayana tradition (FPMT). Nel 1987 leggeva al Congressional human rights caucus di Washington un Five point peace plan for Tibet, chiedendo: a) la trasformazione dell’intera regione in zona demilitarizzata; b) la cessazione dell’immigrazione massiccia dalla Cina di popolazione Han, mirante a trasformare i tibetani in una minoranza sotto tutela; c) il rispetto dei diritti umani dei tibetani e delle loro libertà democratiche; d) la cessazione dell’uso cinese del Tibet come pattumiera nucleare; e) l’inizio di negoziati con la Cina sul suo futuro.
L’anno dopo egli presentava più in dettaglio tali cinque punti al Consiglio d’Europa, a Strasburgo, proponendo un’associazione del Tibet alla Cina atta a garantirne in qualche misura l’autonomia. Come risultato di queste iniziative il 5 ott. del 1989 gli venne conferito il premio Nobel per la Pace. Nella documentazione relativa a questa onorificenza gli veniva riconosciuto il ruolo di «capo spirituale e temporale del popolo tibetano», e si faceva menzione dei suoi ripetuti contatti con le autorità religiose di tutto il mondo, sottolineando in particolare i suoi colloqui con Paolo VI, nel 1963, e, ripetutamente (nel 1980, 1982, 1986 e 1988) con Giovanni Paolo II. Altri ne sarebbero seguiti, fino all’ultimo nel 2003. Nel suo discorso d’accettazione, l’illustre personaggio tracciava le linee di un umanesimo universale in cui il retaggio del Buddha è importante, ma tutt’altro che esclusivo.
La visibilità internazionale del Dalai Lama si è accresciuta nel periodo più recente con nuove visite e riconoscimenti in Occidente, segnatamente in Italia, Inghilterra, Francia e Belgio. A Bruxelles è stato invitato a recarsi alla seduta plenaria del Parlamento europeo (5 dic. 2008, in coincidenza con la chiusura dell’Anno europeo per il dialogo interculturale), sede in cui ha ribadito la sua richiesta di una ‘ragionevole autonomia’ per il Tibet. Il 9 e 10 febbraio del 2009 è stato insignito della cittadinanza onoraria di Roma e di Venezia. I rapporti tra il personaggio e il governo di Pechino hanno conosciuto nuovi picchi di tensione in connessione con la decisione di scegliere la Cina come ospite delle Olimpiadi del 2008. A partire dal 10 marzo 2008, monaci e laici tibetani hanno manifestato in diverse località, scontrandosi con la polizia con conseguenti uccisioni, ferimenti e saccheggi. Il viaggio della torcia olimpica, boicottato in più tappe, si è voluto passasse proprio in Tibet, dove gli inviti del Dalai Lama a non molestarne i portatori hanno in certa misura agevolato il programma. Sotto la pressione internazionale, dopo che diversi personaggi pubblici avevano annunciato la loro intenzione di non intervenire in segno di protesta, la Cina ha aperto un tavolo di trattative con il Dalai Lama, salvo richiuderlo immediatamente con il pretesto del gravissimo terremoto avvenuto nel Sichuan. In quest’occasione le diverse organizzazioni buddhistiche si sono mosse con decisione per raccogliere sussidi per le popolazioni colpite, proprio come avevano agito con una strategia comune in appoggio del Tibet e delle sue rivendicazioni. La situazione è parallela a quella verificatasi in Myanmar, con la differenza che qui gli aiuti sono stati rifiutati dal governo, come del resto quelli provenienti da altre fonti straniere. Gli eventi recenti mettono in rilievo come la complessa e frammentaria realtà di tali strutture sia in grado di trovare imponenti convergenze nel momento del bisogno.
Il Sud-Est asiatico
Il Sud-Est asiatico, dove le popolazioni sono perlopiù tributarie di varianti del Thēravāda integrate nella società e nella cultura locali da un adattamento plurisecolare, ha visto nel corso della seconda metà del 20° sec. traumatici cambiamenti legati alle vicissitudini politiche e militari di quest’area geografica.
Solo nella Thailandia, dove la società si è evoluta senza drammatiche fratture, lo status del Sangha conserva gran parte dell’antico prestigio: la monarchia continua a sostenerlo e a esserne sostenuta. I bhikkhu – meno di mezzo milione, escludendo sia i ‘garzoni della pagoda’ (dek wat), funzione che gran parte della popolazione maschile ricopre prima dei dieci anni, sia i novizi (nain), che non hanno ancora ricevuto l’ordinazione e possono ritornare allo stato laicale – godono di privilegi come, per es., il trasporto gratuito sui mezzi pubblici, ma vige per essi il divieto di votare e candidarsi a ricoprire ruoli politici. Si constata nondimeno la presenza di leader monacali con un certo peso nell’opinione popolare. Il caso più eclatante è quello di Mongkol (poi Rak, Amore) Rakpong (n. 1934), già anchorman televisivo e paroliere di testi di canzoni, fattosi bhikkhu nel 1970 con il nome di Phothirak (trascrizione siamese dell’indiano Bodhirakṣa, cui è premesso il prefisso onorifico Phra, reso di solito con venerabile) e fondatore cinque anni dopo del Santi Asok, un’organizzazione assai battagliera, indipendente dall’establishment del Sangha ufficiale e che si autodefinisce ‘esercito del Dhamma’. Nella sua autobiografia, Truths about my life (1993), egli si presenta come un Bodhisattva (epiteto mutuato dal Mahāyāna, che denota una certa carica di sincretismo, oltre che un’alta considerazione di sé stesso) che si è sobbarcato il compito di far rivivere il buddhismo thailandese, scuotendolo dal suo torpore con tonanti critiche, e di aver instaurato una condotta rigidamente austera, che prevede il vegetarianesimo per bhikkhu e laici, l’abbandono del culto delle immagini e usi monacali propri della regione come il radersi le sopracciglia. Il movimento, impegnato nell’istruire i contadini nell’agricoltura alternativa e nel predicare un’ideologia basata sul ‘meritismo’ (bunniyom) opposto al capitalismo, ha avuto parte attiva nel Phalang Tham (Partito ‘della Forza del Dhamma’) fondato nel 1988 dall’ex generale Chamlong Srimuang. Phothirak, che aveva ordinato circa 70 monaci illecitamente – non essendo abilitato a farlo, giacché gli mancava la prescritta anzianità di dieci anni – fu ridotto allo stato laicale a seguito di un’azione legale intrapresa su iniziativa della suprema autorità del Sangha, il Consiglio degli anziani, capeggiato dal Saṅgharāja Charoen Suvaddhano (n. 1913) designato dagli epiteti Somdet Phra Nyānasaṃvara e Mahāthēra, appena insediato con il beneplacito regale. Ciò avveniva dopo dieci anni di contestazione: scandalizzava forse più il suo coinvolgimento politico che non le brucianti requisitorie contro la corruzione e la venalità dei monaci. Il suo rifiuto di accettare la sentenza portò, nel 1989, al suo arresto assieme a una settantina di monaci suoi seguaci. Il movimento fu dichiarato ufficialmente non buddhista. Chamlong Srimuang, governatore di Bangkok per sei anni, poi al centro delle turbinose vicende della politica thailandese, è stato tra i promotori del colpo di Stato che ha rovesciato l’industriale Thaksin ;Shinawatra, primo ministro della Thailandia dal 2001 al 2006. Shinawatra, all’epoca ministro degli Esteri, nel 1995 era stato scelto dallo stesso Srimuang quale successore alla guida del partito che si sciolse l’anno seguente, a seguito di una cocente sconfitta elettorale e per le lotte intestine tra il Santi Asok e la componente laica legata spregiudicatamente al mondo degli affari (salvo poi risuscitare nel 2006 con una diversa dirigenza).
Altro movimento considerato aberrante dagli ambienti tradizionali è quello che prende il nome dalla nozione mahayanica di Dharmakāya (corpo del Dharma del Buddha, coincidente con l’Assoluto). Il movimento risale alla Dhammakaya foundation stabilita nel 1916 per opera di Sodh Mikaewnoi (1884-1959), divenuto bhikkhu con il nome di Caṇḍasāra e fautore di tecniche di meditazione raccolte sotto l’etichetta di Vijja Dhammakāya, incentrate sulla pratica dei mantra e la concentrazione su sfere di cristallo: si tratta di evocare la persona trascendente del Buddha, assisa al centro di un alone luminoso entro il corpo del meditante, riproducendo una pregnante esperienza accaduta allo stesso Caṇḍasāra nel plenilunio di settembre del 1918. Chiamato dai suoi discepoli Phra Mongkolthep Muni, Luang Pu Sod o Luang Pu Wat Paknam – dal nome della pagoda di cui era a capo, il Wat Paknam Bhasicharoen – questo personaggio, cui erano ascritti grandi poteri e la capacità di vaticinare il futuro, insisteva sulla provata validità del suo procedimento, invitando i dubbiosi a praticarlo per sincerarsi personalmente della sua efficacia. Gli è succeduta la discepola Khun Yay Candrā (1909-2000), una monaca di umili origini, grazie al cui impegno, nel 1970, venne fondato, non lontano dall’aeroporto di Bangkok il centro di meditazione Soon Buddhacakka Patipatdhamma, che sarebbe divenuto nel 1977 la pagoda nota come Wat Phra Dhammakaya, la sede più importante del movimento. Dopo le sue esequie, una cerimonia grandiosa con l’intervento di 100.000 monaci provenienti da tutto il Paese, Chaiyabun Suthipol (n. 1944), il suo primo discepolo, divenuto ;bhikkhu con il nome di Dhammajaya, cui s’accompagnano gli epiteti Phra Rajbhavana Visuddha, l’attuale capo dell’organizzazione s’è adoperato per diffonderla, fondando centri in diverse nazioni e una libera università ad Azusa, in California, e agendo in sinergia con strutture di Taiwan naturalmente interessate a diffondere idee e pratiche vicine a quelle del Mahāyāna cinese. Il suo zelo nella raccolta dei fondi l’ha reso oggetto di pesanti accuse veicolate dai media, che hanno determinato la sua destituzione; con la proclamazione della sua innocenza, nel 2006, da parte del National office for buddhism della Thailandia, è stato reinsediato a tutti gli effetti. Le critiche più autorevoli a questi movimenti sono state mosse da uno dei più importanti maestri tailandesi, ovvero il monaco Tan Chaokhun Prayudh Payutto (n. 1938), già rispettosamente designato da epiteti come Phra Rājavaramuni (venerabile ottimo asceta regale), Dhammapiṭaka (canestro del Dhamma) e ‘Sāriputra (il principale discepolo del Buddha) redivivo’, è autore tra l’altro del voluminoso trattato Buddhadhamma. Natural laws and values for life (1995), vera pietra miliare del Thēravāda contemporaneo. Il prestigio nazionale e internazionale di questo detrattore, titolare nel 1994 del premio dell’UNESCO per l’educazione alla pace, ha pesato per la decisione nei confronti di Phothirak, tanto che la sua concisa monografia sul Santi Asok è stata presa in considerazione come elemento determinante della sua condanna. Minore successo ha riscosso un testo similare stilato contro i seguaci del Wat Phra Dhammakaya, che godono di appoggi a corte e sono stati più volte insigniti di riconoscimenti ufficiali. Lo stesso Prayudh Payutto, d’altra parte, pur dall’alto dell’autorità che un contatto d’alto profilo con la tradizione gli conferisce, guarda con interesse al dialogo con la modernità, come testimoniano numerosi saggi appartenenti all’ambito del cosiddetto buddhismo socialmente impegnato, tra cui Toward sustainable science. A buddhist look at trends in scientific development (1992) e Buddhist economics. A middle way for the market place (1994). Nel secondo, con dovizia di citazioni del Canone, sono proposte riletture in chiave buddhistica di nozioni occidentali come valore, lavoro, produzione e consumo, mettendo l’accento sull’ideale tradizionale di moderazione nell’accumulo dei beni mondani e di ricerca dell’agio (il sukha) come legittima meta perseguibile dai laici, anzitutto in chiave di soddisfazione per le proprie attività e per il conseguimento dei traguardi con esse raggiunti. Il quadro thailandese non sarebbe completo senza la menzione della scuola che prende nome dai Kammathāna (i pilastri dell’attività meditativa), più nota come Tradizione della selva. Si tratta di un movimento ascetico originariamente promosso dal monaco Sao Kantasila (1861-1941) e dal suo allievo Mun Bhūridatta (1870-1949), designati dai loro seguaci – come d’abitudine per i personaggi più insigni – premettendo al nome gli epiteti Phra Ajahn (venerabile maestro) e posponendo quello di Mahāthēra (grande anziano).
Altamente stimati per il loro austero stile di vita, costoro si spostavano di continuo lungo il bacino del Mekong, tra la Thailandia e il Laos, spingendosi fino ai vicini territori della Birmania, dimorando perlopiù fuori dagli abitati e insegnando a una nutrita schiera di discepoli. Essi opponevano a una formazione dottrinaria improntata a uno scolasticismo più o meno arido, come quella offerta dal Sangha ai bhikkhu più dotati, un’intensa prassi meditativa giocata sull’esperienza vissuta, beninteso corroborata da opportune citazioni reperite nel Canone. Un insigne discepolo di Bhūridatta, Li Dhammadhāra (1902-1984), ritornò per primo ai centri abitati diffondendovi gli insegnamenti del maestro, di cui un altro continuatore, ;Dharmavisuddhi Mongkol (n. 1913) più noto come Mahā Bua, fondatore della pagoda del Wat Pa Bahn Tahd, ci ha lasciato una dettagliata testimonianza biografica, oltre a diversi altri scritti.
La disseminazione in Occidente degli insegnamenti di questa scuola si deve a un terzo discepolo di Bhūridatta, Bodhiñāna, più noto come Chah (1918-1992). Dopo avere accolto nel 1966 tra i suoi allievi l’americano Robert Jackman (n. 1934), divenuto bhikkhu con il nome di Luang Por Sumedho, l’anno seguente, il maestro Chah, coadiuvato da costui, cominciò a insegnare a un numero crescente di occidentali, fino a fondare, nel 1975, per accoglierli il Wat Pah Nanachat (Pagoda internazionale della selva). Gli anni successivi li videro viaggiare in Europa, in America e in Oceania, dove sono stati fondati diversi monasteri. Un altro ben noto esponente di questa tradizione è l’infaticabile traduttore e saggista americano Geoffrey DeGraff (n. 1949), divenuto bhikkhu con il nome di Thanissaro nel 1976; suo maestro fu un discepolo di Li ;Dhammadhāra, Fuang Jotiko (1915-1986); nel 1993 è divenuto capo del Wat Mettavanaram (Metta forest monastery) fondato due anni prima con il suo attivo contributo nella zona di San Diego in California.
Fuori dall’ambito thailandese dei Kammathāna, la prassi meditativa incentrata sulla presenza consapevole (la sati) è stata privilegiata da esponenti del Thēravāda birmano come il famoso maestro Sobhana Mahāthēra (1904-1982), sovente designato con gli epiteti Mahāsī (dal monastero del Gran tamburo presso il suo villaggio nativo, Seikkhun) e Sayādaw (originariamente il titolo di maestro della Real casa). Soprattutto per sua iniziativa si è sviluppata nel Paese, dopo l’indipendenza (1948) la scuola della Wipathana (pāli Vipassanā); i centri di meditazione che ne prolungano l’insegnamento sono presenti in tutto il territorio birmano, con più di mezzo milione di praticanti, e all’estero. I governi che si sono succeduti hanno promosso il movimento in quanto efficace strumento di controllo sulla popolazione, avvalendosi dello State sangha council per gestirne l’amministrazione e canalizzarne le energie in vista di una ‘via birmana al Socialismo’, inteso come una sorta di Nirvāṇa terreno. Esso ha peraltro fornito ispirazione anche agli oppositori del regime, come Aung San Suu Kyi, che è nota per la sua pratica della Wipathana sotto la direzione del Sayādaw U Panthida, importante esponente dei centri di meditazione. Nel settembre-ottobre del 2007 la cosiddetta rivoluzione (in abito color) zafferano (saffron revolution) ha visto i bhikkhu partecipare, sovente nel ruolo di coprotagonisti, a una serie di dimostrazioni con larghissimo seguito di laici: hanno occupato la pagoda di Sule (dall’antica denominazione Suwei) al centro della capitale; hanno capovolto le ciotole per non ricevere elemosine di cibo da esponenti del regime – con ciò stesso additati come degni di biasimo –; si sono esposti a dure ripercussioni, che hanno colpito talora in modo indiscriminato strutture e istituzioni del Sangha, prima favorite con donazioni e omaggi deferenti. La presenza di un alto numero di bhikkhu (circa 400.000, appartenenti a nove denominazioni – i nikāya – capillarmente presenti nel territorio e riverite dalla popolazione) aveva in passato consigliato ai vertici militari un approccio più prudente, pur sorvegliando le attività del Sangha tramite i servizi d’intelligence e strumenti giuridici via via approntati (segnatamente la legge sulle organizzazioni del Sangha, del 31 ott. 1990, che istituisce al di sopra delle diverse denominazioni uno State Sangga maha nayaka committee formato da Sayādaw più o meno allineati alle posizioni governative, e permette di condannare senza esitazioni i bhikkhu sospetti di simpatie antigovernative, dopo averli ridotti allo stato laicale). La reazione immediata alle manifestazioni, con l’impiego di mitragliatrici contro la folla, ha prodotto vere e proprie stragi, le cui valutazioni numeriche contrastano in modo stridente con l’ammissione da parte governativa di soli tredici vittime. Le organizzazioni buddhistiche internazionali hanno dato voce in questa occasione a vibrate proteste, in sintonia con i movimenti per i diritti civili. Più o meno allineata con la repressione è apparsa invece la Cina, il cui sostegno al regime militare birmano non è mai venuto meno, che si è avvalsa del diritto di veto per bloccare una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU, diretta a richiedere al governo birmano di desistere dal duro trattamento inflitto ai prigionieri politici e porre termine alle violazioni dei diritti umani nei confronti delle minoranze.
La Cina
La Repubblica popolare cinese fin dalla sua nascita (1949) ha in larga misura osteggiato, in nome dell’ateismo di Stato, le diverse scuole buddhistiche presenti da secoli nel Paese. Fra il 1966 e il 1967 la rivoluzione culturale lanciata da Mao Zedong si accanì tra l’altro contro quel che restava delle strutture buddhistiche cinesi, producendo guasti irreparabili a templi e santuari. Nel solo Tibet i monasteri distrutti furono più di duemila. Ciò era in armonia con la condanna di tutte le forme di religione, accusate di aver causato pregiudizio alla Cina, e il divieto d’ogni pratica a esse relativa. Anche l’ostilità da parte dell’etnia dominante, quella degli Han, alle culture delle minoranze ebbe una parte rilevante in queste sistematiche distruzioni di monumenti del passato. Si ebbe la trasformazione dei pochi monasteri non soppressi – generalmente siti in luoghi popolosi e aperti ai visitatori stranieri – in organizzazioni statali, con i monaci ridotti a pubblici funzionari, quando non erano costretti al lavoro dei campi. Morto Mao Zedong, nel 1976, ed esauritasi la rivoluzione culturale, la trentennale politica di lotta al buddhismo è stata ufficialmente abbandonata. La nuova Costituzione della Repubblica popolare cinese (1982, con successivi aggiornamenti ed emendamenti) dichiara che «lo Stato tutela i legittimi interessi e diritti delle minoranze nazionali» (art. 4) e sancisce la libertà di credenze religiose, con alcuni significativi caveat. Mentre «lo Stato tutela le normali attività religiose», vi è il divieto di «usare la religione al fine d’impegnarsi in attività sovversive dell’ordine pubblico, pregiudizievoli alla salute dei cittadini o tali da interferire con il sistema educativo statale». L’eventuale egemonia straniera su organizzazioni e affari di natura religiosa in Cina è formalmente esclusa (art.36). Pur oggetto di diffidenza da parte del potere centrale e sottoposte a un attento contenimento tramite il potente Ufficio per gli affari religiosi del Ministero centrale del fronte unito (Zhongyang Tongzhan Bu) sotto il controllo diretto del Partito comunista cinese, le diverse strutture buddhistiche, con un largo seguito di laici impegnati (le statistiche ufficiali parlano dell’8% della popolazione, mentre i simpatizzanti sono in numero assai maggiore) sono state valorizzate dalle autorità locali, anche ai fini di promozione d’immagine presso gli stranieri: monasteri ricostruiti o eretti ex novo, come quello di Nanshan sull’isola di Hainan, terminato nel 1998, sono divenuti mete turistiche.
A partire dal 1953 tutte le attività buddhistiche dei gruppi di monaci e laici sono state assoggettate al coordinamento della China buddhist association, ricalcata sulla Buddhist association of the Republic of China (BAROC), fondata a Nanchino nel 1947 dal governo dell’Organizzazione popolare nazionale della Cina (il Chung Kuo Kuo Min Tang). Nella versione della Re;pubblica popolare cinese, tale organizzazione di Stato è destinata a promuovere l’allineamento delle diverse denominazioni buddhistiche ai dettami del marxismo-leninismo, impegnandone gli aderenti al perseguimento della lotta di classe sotto la guida del Partito comunista cinese. A partire dal 1983, la sua parola d’ordine è stata «coniugare il Ch’an con i lavori agricoli», ponendo sotto questa etichetta qualsiasi attività produttiva rivolta al bene della società: accanto all’esercizio della coltivazione vera e propria, i monasteri sono invitati a creare fabbriche, cliniche e a praticare il commercio. Il 23 sett. 2003 è stato celebrato il cinquantenario di quest’istituzione, che secondo le fonti governative vanta oggi 100 milioni di aderenti, con un’assemblea tenutasi a Pechino nel tempio di Lingguang, dove è venerato un dente del Buddha, sotto la presidenza del venerabile maestro Yi Cheng, superiore del tempio di Yunju e figura di spicco nell’insegnamento del Ch’an in Cina. L’allineamento del maestro alle posizioni governative è provato, fra l’altro, dall’espulsione dal tempio di Huacheng, nella provincia del Jiangxi, per asserite trasgressioni di carattere sessuale del maestro del Ch’an Shengguan (al secolo Xu Zhiqiang, docente di Storia del buddhismo mondiale presso l’Istituto del Jiangxi e attivo nella lotta per i diritti umani in Cina prima d’essersi fatto monaco nel 2002), dopo che egli vi aveva ufficiato il 4 giugno 2006 una cerimonia espiatoria per il karman negativo dei morti, commemorando i caduti di piazza Tian’anmen. L’abate del tempio, l’ultraottantenne maestro Jiequan, che aveva tentato di difenderlo, è stato prelevato manu militari dopo il suo rifiuto di dare esecuzione al decreto d’espulsione. In seguito il maestro Shengguan è stato internato in un ospedale psichiatrico dove è stato sottoposto a un trattamento forzato.
A Formosa (Taiwan), dove il governo del Kuo Min Tang si era rifugiato nel 1949, la Buddhist association of the Republic of China è sopravvissuta come unico punto di riferimento dei buddhisti emigrati dal continente. Il suo esclusivo potere è venuto meno man mano che la situazione politica dell’isola si evolveva in senso democratico e nuove organizzazioni venivano autorizzate. Un’ampia gamma d’iniziative dal basso permeata dall’attivismo, con università e scuole d’ogni ordine e grado, migliaia di templi e varie organizzazioni di beneficenza, spiega la dinamica espansione del numero degli aderenti alle diverse scuole buddhistiche, inizialmente poche centinaia di migliaia e valutati oggi in circa 8 milioni (le statistiche ufficiali parlano del 34% della popolazione), di cui 30.000 hanno abbracciato lo stato monacale. Una figura importante in questo processo è stata quella di un longevo esponente del buddhismo cinese, tributario al tempo stesso della Scuola della pura terra e del Ch’an: il maestro del Dharma Yin Shun (1906-2005), al secolo Zhang Luqin. Originario d’un piccolo villaggio non lontano da Shanghai, fattosi monaco nel 1930, allievo del venerabile maestro Tai Xu (1890-1947) fu autore nel 1941 di The Buddha in this world che predicava il cosiddetto umanesimo buddhistico (Renjian Fojiao), un fattivo coinvolgimento nella diffusione della dottrina e nelle attività sociali contro la vacua ritualità tradizionale del Mahāyāna cinese. Egli per primo dava l’esempio di siffatta attitudine, assoggettandosi a stressanti viaggi in tutto il mondo malgrado la sua salute in declino. Ai suoi funerali, accanto a discepoli americani e cinesi figurava una rappresentanza del governo con a capo il premier. Predomina tra i suoi discepoli la venerabile maestra Cheng Yen, al secolo Wang Jinyun, nata a Formosa nel 1936 e da lui iniziata nel 1963, specialmente devota al popolarissimo sūtra del Loto. Personalmente segnata dalla sofferenza nelle sue vicende familiari e colpita dal rifiuto del ricovero in ospedale di una donna aborigena indigente, ella pose nel 1966 le fondamenta della Buddhist compassion relief (Tzu Chi) foundation, le cui monache rifiutano di ricevere donazioni nel modo tradizionale, tramite la questua e la recitazione dei sūtra, e lavorano per guadagnare risorse destinate all’aiuto delle famiglie non abbienti. Tale aiuto si è concretizzato prima nella costruzione di una clinica aperta nel 1972 nella regione più povera dell’isola, quella della costa orientale, e poi, nel 1986, del primo di sei ospedali sponsorizzati dal governo. Nel 1989 viene fondato un college per la preparazione del personale infermieristico reclutato fra le aborigene; segue la fondazione, nel 1994, di un college di Medicina, divenuto università nel 2000, e un registro dei candidati donatori di midollo osseo che nel 2005 contava più di un quarto di milione di persone. In occasione di recenti calamità naturali verificatesi a Taiwan e all’estero, l’organizzazione ha inviato aiuti significativi senza alcuna ipoteca ideologica. Un personale contributo alla predicazione di virtù e buoni sentimenti è, invece, fornito dalla maestra Cheng Yen tramite la stazione televisiva del Grande amore (Da Hai), autogestita e rigorosamente priva di messaggi promozionali. L’ispirazione è tratta dalle Otto orme che forniscono altrettante parole d’ordine al movimento, che secondo i suoi seguaci conta più di 5 milioni di sostenitori, centocinquanta monache e 30.000 ‘commissari’ laici (solo il 30% maschi) sparsi per il mondo: attività caritatevoli; contributi alla medicina; sviluppo dell’educazione; umanitarismo; assistenza nelle calamità naturali; donazione di midollo; volontariato e riciclaggio. Cheng Yen ha anche dato alle stampe alcuni saggi, tra i quali Still thoughts (1996); The thirty-seven principles of enlightenment (1999) e Three ways to the pure land (2001). Diversi riconoscimenti internazionali hanno premiato le sue imprese volte a recare sollievo a popolazioni colpite, portate a termine, non senza critiche in patria, anche nella Repubblica popolare cinese, dove è stato consentito ai suoi volontari di operare, a condizione di non menzionare nel modo più assoluto temi religiosi e/o politici. L’influenza di Yin Shun si è fatta sentire anche nei confronti di maestri di altre scuole. È il caso del venerabile maestro Sheng Yen (al secolo Bao Kang, nato anch’egli presso Shanghai nel 1929, 1930 o 1931, le date variano a seconda dei biografi), che vanta la discendenza dalle linee di trasmissione delle due principali scuole del Ch’an, il Ts’ao Tung e il Lin chi, essendo succeduto al maestro Tung Chu del primo indirizzo, nel 1975, e al maestro Ling Yuan del secondo, nel 1978. Dopo un iniziale periodo monacale, costui si arruolò nell’esercito nazionalista con il nome di Zhang Caiwei, con le mansioni di radiotelegrafista, poi di ufficiale di collegamento, rifugiandosi a Formosa nel 1949 dopo la sconfitta. Qui si fece monaco nel 1961 e passò un periodo di ritiro per approfondire la propria vocazione. Nel 1969, in Giappone, seguì i corsi della Rissho university, e dopo sei anni, a New York, si dedicò all’insegnamento di meditazione. Nel 1979 a Taiwan assunse la carica di abate del monastero di Nung, sovrintendendo agli esercizi d’una sessantina di monaci, pur continuando i contatti con i suoi discepoli negli Stati Uniti. Nel 1980 fondò simultaneamente a Taipei e a New York l’Institute of Chung-Hwa buddhist culture. Nel 1994 creò la Dharma Drum mountain buddhist association, tesa a diffondere le dottrine buddhistiche in Occidente. L’associazione prende nome da un centro da lui fondato nello Stato di New York, il Dharma Drum retreat center. Un terreno acquistato a Taiwan dovrebbe ospitare una istituzione di eguale denominazione. Le tecniche di ‘Ch’an in moto’ insegnate in tali istituzioni affiancano alla meditazione in posizione assisa elementi tratti dal Qigong. Accanto a scritti autobiografici e di divulgazione, il maestro Sheng Yen ha prodotto un pregevole studio storico dal titolo Zhengxin De Fojiao (Credenze corrette del Buddhismo), reso in traduzione con Orthodox Chinese buddhism (2006), e alcune antologie di testi del Ch’an. Le posizioni ambientaliste e l’impegno nell’aiuto agli indigenti di questo movimento sono vicine a quelle delle monache della Fondazione dello Tzu Chi. Lo stesso vale per i seguaci di un altro personaggio influenzato da Yin Shun, il venerabile maestro della scuola Lin chi del Ch’an, Hsing Yun (al secolo Li Guoshen, nato nel 1927 anch’egli nella Cina meridionale). Fattosi monaco all’età di dodici anni con il nome di Jinjue Wuche, cambiò epiteto dopo la sconfitta del Giappone, in occasione del rinnovo delle carte d’identità, ispirandosi alla visione di una nebulosa che diffonde la sua luce nelle profondità dello spazio. Dopo essersi rifugiato a Formosa nel 1949, fu cooptato tra i direttori della Buddhist association of the Republic of China, onore che declinò dichiarandosi troppo giovane. A lui si deve la fondazione, nel 1967, dell’organizzazione nota come Buddha light international association (BLIA), situata nell’imponente monastero del Monte della luce del Buddha (Fo Guang Shan), da cui prende il nome. Essa si presenta anche come International buddhist progress society (IBPS). Aperto ai seguaci delle otto scuole del Mahāyāna cinese, il Fo Guang Shan gode di vasta diffusione: Hsing Yun ha personalmente ordinato più di 5.000 monaci e vanta un milione di seguaci laici. Contraddistinta da una valorizzazione del rituale e una semplificazione delle dottrine, non disgiunta da un certo rilievo accordato all’etica confuciana, la sua predicazione può esser compendiata in formule abbastanza generiche da ottenere l’assenso degli appartenenti ai diversi indirizzi fioriti nell’ambito delle tradizioni buddhistiche, cui fa indistintamente appello: «Agisci nei confronti altrui con sincerità genuina; vinci la sofferenza, sì da purificare nell’intimo la mente; in tutto ciò che si vede e si fa, sii consapevole dell’eguaglianza; coltiva la corretta comprensione delle cause e condizioni dell’esistenza e di tutti i suoi livelli; sii compassionevole, portando aiuto agli altri saggiamente e incondizionatamente; scorgi la verità dell’impermanenza attraverso il velo delle cose; lascia cadere tutti i pensieri e attaccamenti fugaci; sappi avere la mente libera; vivi in armonia con le condizioni ambientali, ma distaccatamente; rammenta il Buddha e i suoi insegnamenti». In nome degli ideali dell’umanesimo buddhistico vigorosamente sostenuti dal fondatore, il movimento è impegnato specialmente nel campo dell’educazione e della cultura, gestendo quattro università e numerose scuole, nonché strutture per l’insegnamento gratuito delle dottrine buddhistiche a monaci, laici e stranieri, musei d’arte buddhistica a Taiwan e all’estero, pubblicazioni differenziate, incluso un quotidiano. Le sue attività comprendono, oltre alla costruzione di edifici sacri spesso ai limiti dell’ostentazione, la creazione di strutture mediche e umanitarie: ospedali e cliniche, ricoveri per bimbi, infermi e anziani, orfanotrofi, un cimitero gratuito per i più poveri, programmi per la distribuzione di abiti e medicinali, la rieducazione dei drogati e la sensibilizzazione alla donazione di organi. Raffinato calligrafo, pubblicista e, occasionalmente, anche romanziere di successo, Hsing Yun ha ricoperto la presidenza onoraria della World fellowship of buddhists nel 1993; egli si è distinto anche per l’impegno politico: si è battuto per i diritti umani in Tibet e con una riuscita campagna d’opinione nel 2000 ha indotto il governo a proclamare festa nazionale la ricorrenza buddhistica del Fodan (il Vaiśākha, che commemora in un solo giorno la nascita del Buddha, il suo attingimento della Saṃyaksambodhi e il suo Parinirvāṇa). Si batte segnatamente per la riunificazione delle due Cine. I suoi rapporti con la Repubblica popolare cinese sono eccellenti e figura tra gli otto venerabili maestri promotori del World buddhist forum del 2004. Un’intesa cordiale con i cristiani, sia protestanti sia cattolici, caratterizza altresì il movimento, che collabora volentieri con essi nell’ambito delle iniziative umanitarie e coltiva il dialogo interreligioso; Hsing Yun ha personalmente partecipato, nel 1997, a una riunione di preghiera per la pace nel mondo indetta da Giovanni Paolo II ed è stato ricevuto da Benedetto XVI nel 2006. Suo successore designato è il venerabile maestro Hsin Ting (nato nel 1944 a Taiwan da famiglia contadina), che ha ricoperto dal 1995 al 2005 la carica di abate del monastero del Fo Guang Shan.
Il Vietnam
Un approccio sincretistico ancora più pronunciato è rinvenibile negli insegnamenti di un’altra figura di spicco della scuola Lin Chi del Ch’an, considerato da molti la voce più importante del buddhismo contemporaneo dopo il Dalai Lama: il maestro vietnamita Trung Quang Nhat Hanh (al secolo Nguyen Xuan Bao, nato nel 1926; come di uso per i monaci nella sua patria, al nome viene premesso l’epiteto onorifico Thich, che denota l’appartenenza al clan gentilizio degli Śākya, il lignaggio del Buddha). La sua esistenza s’intreccia con le vicende del buddhismo del Vietnam. Fattosi monaco nel 1949 nel tempio di Tu Hieu presso l’antica capitale imperiale di Hue, si scontrò con gli ambienti più conservatori, finendo per stabilirsi in un monastero abbandonato nei dintorni di Saigon. In seguito divenne direttore dell’organo ufficiale della General association of Vietnamese buddhists (GAVB) costituita nel 1951. La sua entusiastica predicazione di un buddhismo unificato, disapprovata dai più, portò alla chiusura del periodico. L’incessante attività del personaggio in quest’epoca comprende la fondazione del monastero delle Foglie di palma fragranti (Phuong Boi) nel Vietnam centrale, della casa editrice La Boi e della prima Scuola superiore buddhistica del Vietnam, in grado di fornire un’alternativa alle strutture educative francesi. Con la partizione sancita dagli accordi di Ginevra, nel nord la General association of Vietnamese buddhists veniva disciolta d’autorità nel 1957 e i suoi fautori imprigionati o soppressi, mentre una Association of unified Vietnamese buddhists, creata sul modello cinese, garantiva il controllo del Partito comunista su strutture e istituzioni buddhistiche nella neonata Repubblica del Vietnam. A sud il prestigio internazionale del Thich Nhat Hanh, che per due anni si era distinto studiando religioni comparate a Princeton e insegnando alla Columbia university, gli valse alla fine una legittimazione da parte dell’establishment monacale e fu chiamato a contribuire alla fondazione, nel 1964, dell’università buddhistica di Saigon, che prendeva nome dal vicino tempio delle Mille benedizioni (Van Hanh), ed era destinata a divenire un prestigioso focolaio di iniziative politiche e culturali. Validamente coadiuvato dalla sua discepola Cao Ngoc Phuong (nata nel 1938), ritornata allora in patria dopo essersi laureata in biologia a Parigi, egli creava altresì, con un gruppo di professori e studenti, la School of youth for social service, un corpo di 10.000 volontari operante nelle aree arretrate e martoriate dalla guerra del Paese, per la riedificazione di villaggi distrutti, per la costruzione di scuole e ospedali e per l’insegnamento delle tecniche agricole progredite ai contadini. Una tale attività appariva filocomunista agli occhi del governo e non mancarono arresti ed esecuzioni sommarie di attivisti. Nel 1964, simultaneamente alla trasformazione della General association of Vietnamese buddhists nell’Unified buddhist church of Vietnam (il Vien Hoa Dao), il maestro fondava l’Order of interbeing (Tiep Hien), termine da lui coniato per rendere la catena di cause e condizioni che nella visione buddhistica forma l’orizzonte del divenire impermanente, qui considerata sotto un profilo decisamente positivo. Di lì a poco il Thich Nhat Hanh ritornava negli Stati Uniti, chiamato dalla Fellowship of reconciliation per rendere edotto il pubblico americano sui terribili effetti della guerra, contro la quale si era battuto per anni attirandosi odi e diffidenze nei due campi avversi. Le sue posizioni emergono da una conferenza stampa del 1° giugno 1966 indirizzata al presidente Lyndon B. Johnson e al suo Gabinetto: egli richiedeva che gli Stati Uniti sospendessero i bombardamenti, riducessero o arrestassero temporaneamente le altre azioni militari e, nel caso di una risposta positiva dei Vietcong a queste iniziative, annunciassero il ritiro delle loro truppe dal Vietnam. In seguito essi avrebbero sia dovuto comprendere che la dittatura militare non era l’unica alternativa al comunismo sia sostenere il popolo vietnamita nel suo desiderio di un governo nazionalista conforme alle loro aspirazioni, non compromesso con la persecuzione dei buddhisti; questi non consideravano gli Stati Uniti come un nemico, ma come un alleato, un alleato per la pace e non per la guerra. Nel 1965 aveva scritto a Martin Luther King una lettera aperta intitolata Searching for the enemy of man, giustificando il suicidio con il fuoco di alcuni suoi confratelli, tra cui il venerabile Thich Quang Duc (1897-1963), per protestare contro la discriminazione nei confronti della maggioranza dei vietnamiti (fra il 70 e il 90% a seconda delle stime) costituita dai buddhisti, da parte del dittatore cattolico Ngo Dinh Diem. Dopo l’incontro King si impegnò a osteggiare la guerra nel Vietnam, avanzando nel 1967 la candidatura di Nhat Hanh al premio Nobel per la pace, che non gli fu conferito in quanto quell’anno non fu scelto alcun candidato. La giustificazione fornita fu che lo stesso King aveva pregiudicato la nomina preannunciandone pubblicamente l’esito. Nel 1969 Nhat Hanh ottenne il ruolo di principale esponente della delegazione per la pace della Unified buddhist church of Vietnam, che a Parigi partecipava ai colloqui destinati a porre fine al conflitto; contemporaneamente teneva lezioni alla Sorbona. In Francia fondò quello stesso anno una sua Église bouddhique unifiée. Nel 1973, una volta giunti alla pace, il maestro, considerato assieme a Chan Khong, che nel frattempo l’aveva raggiunto, persona non grata dal governo vietnamita, fu di fatto esiliato. Quando, nel 1975, ebbe luogo la riunificazione del Vietnam sotto il regime comunista trionfante, la sua situazione non mutò. Ponendo come suo quartier generale la Communauté des patates douces, situata in una fattoria non lontano dalla capitale dove teneva frequentatissimi corsi di meditazione, egli si era adoperato per organizzare aiuti ai profughi che cercavano di fuggire per mare dal Vietnam del Sud, dalla Cambogia e dal Laos, i cosiddetti boat people, desistendo alla fine a causa dell’ostruzionismo dei governi del Sud-Est asiatico coinvolti nella vicenda. Mentre il suo prestigio restava intatto, come provano i riconoscimenti internazionali che si sono susseguiti negli anni dell’esilio, la sfera d’influenza del personaggio andava restringendosi, anche perché veniva meno il ruolo pubblico della Unified buddhist church of Vietnam, fatta oggetto di dure repressioni nel tentativo di estendere il controllo, già vigente al nord del paese, alle strutture e istituzioni buddhistiche del sud. A questo fine veniva creata, nel 1981, la Vietnam buddhist church (VBC) poi ribattezzata Vietnam buddhist Sangha, organo del Fronte patriottico del Partito comunista del Vietnam e sola voce ufficiale dei buddhisti vietnamiti in patria e all’estero.
A partire dal 1982, trasferito il centro della sua organizzazione al Village des pruniers in Dordogna, il Thich Nhat Hanh è venuto accrescendo la propria attività in Occidente. Accanto ai programmi di insegnamento estivi in Francia, seguiti da 2000 persone all’anno, ha intrapreso diversi viaggi, segnatamente negli Stati Uniti, fondando 230 centri di meditazione. Lo troviamo tra i promotori della dichiarazione da parte dell’Assemblea generale dell’ONU del periodo dal 2001 al 2010 (International decade for a culture of peace and non-violence for the children of the world) e, in collaborazione con diversi assegnatari di premi Nobel per la pace tra i redattori del Manifesto 2000 dell’UNESCO sulla pratica di tali valori. I libri scritti e dettati dal maestro, che è anche poeta, sono circa 40, inclusa una voluminosa vita romanzata del Buddha, Old path white clouds. Walking the footsteps of the Buddha (1991). La sua carica rivoluzionaria, che cerca una sintesi tra le posizioni delle diverse scuole soprattutto in una ortoprassi rinnovata secondo le esigenze del mondo contemporaneo, si può cogliere dall’attenta revisione durata cinque anni dell’intero Vinaya (il minuzioso codice formato da prescrizioni ascritte al Buddha in persona che regola ogni aspetto della condotta degli asceti) da parte del Concilio dei maestri del Dharma (Dharmācārya) del Village des pruniers presieduto dallo stesso Thich Nhat Hanh. Il risultato è stato promulgato solennemente il 31 marzo 2003 alla Choong Ang Sangha university di Seoul.
Dopo trentanove anni d’esilio, nel 2005 Nhat Hanh è finalmente ritornato in Vietnam. Le sue condizioni per avvalersi del visto finalmente concesso dalle autorità, desiderose di migliorare la propria immagine presso l’opinione mondiale, comprendevano l’essere accompagnato da un seguito di duecento tra monaci e monache e la facoltà di parlare in pubblico. Ciò gli è stato accordato sotto forma di una conferenza da tenersi presso la Scuola dei quadri del Partito comunista, seguita, grazie all’approccio conciliante del maestro nei confronti dell’ideologia dominante, da una serie d’incontri coronati da un certo successo, durati quattro mesi. Un suo nuovo viaggio in Vietnam ha avuto luogo nel 2007, con una cerimonia pubblica di ‘gran compianto’ per i caduti della guerra, da lui stesso officiata. La sua intesa abbastanza cordiale con il regime ha portato a critiche da parte degli esponenti della Unified buddhist church of Vietnam, tuttora sotto attacco da parte dello Stato e considerata ormai espressione di una minoranza tra i dieci milioni di buddhisti vietnamiti.
Webgrafia
Una silloge imponente di materiali e citazioni è reperibile nel web:
A. Payer, Materialien zum Neobuddhismus, 1996-2005, http:// www.payer.de/neobuddhismus/neobud1101.htm
Numerosi testi si rinvengono in:
BuddhaNet’s eBook library, http://www.buddhanet.net/ ebooks.htm
Buddhist digital library & Museum of buddhist studies, http:// buddhism.lib.ntu.edu.tw/BDLM/copyright2E.htm
BPS on line library Wheel Publications,
Buddhist publication society, http://www.accesstoinsight.org/lib/ bpslist.html
Tutte le pagine web s’intendono visitate per l’ultima volta il 6 aprile 2009.