BUDDHISMO
. Le origini. - La vita civile degli Arî insediati nel Pengiab e nell'alta valle del Gange verso il 1000 a. C. si accentra nel villaggio, dove i sacerdoti o brahmani, gelosi custodi del "sapere" (veda), che assicura agli uomini il favor degli dei, occupano il primo posto. Con l'andar del tempo si accentua il carattere teurgico del rito, che assorge al grado di potenza cosmica. Onde i brahmani, padroni della forza misteriosa che assoggetta gli dei ai voleri degli uomini, acquistano fra i rudi guerrieri, ai quali prestano per mercede il soccorso delle arti magiche, autorità pari all'importanza dei loro servigi. Ma se dall'India nord-occidentale scendiamo, lungo la valle del Gange, fino alle fertili pianure adiacenti al Himālaya nepālico, troviamo villaggi ingranditi al punto da meritare il nome di città, ove la nobiltà militare divide il primato coi ricchi soci delle corporazioni mercantili, mentre una gioventù raffinata ed elegante passa il suo tempo fra i diletti della musica e della danza e i facili amori. La scienza segreta onde i brahmani vantano il possesso non suscita ammirazione né invidia da quando gli dei non son più numi, ma nomi, e ad essi sovrasta il Brahman, il principio cosmico, di cui si afferma l'identità con lo "spirito fatto d'intelligenza", occulta radice delle forze vitali. Da allora gli asceti girovaghi si adoprano a trarre in luce il "sé stesso", indagando l'uomo microcosmo coi metodi d'introspezione, familiari agli esperti della concentrazione mentale. Tremendi digiuni esaltano le forze psichiche a detrimento delle corporee, e la catalessi e l'ipnosi, che sottraggono lo spirito all'influsso perturbatore del mondo esterno, sono considerate l'ultimo grado dell'estasi mistica. Questi asceti, che portano impressi nel corpo estenuato i segni delle lunghe vigilie, trovano plauso e consenso specialmente tra i giovani di nobile famiglia, a cui la sazietà dei piaceri fa sentire più cocente la brama di una nuova fede dopo il tramonto degli antichi dei. Oltre al gran problema del proscioglimento dal saṃsāra, "la trasmigrazione delle anime", causa di sempre nuove nascite e morti, altre questioni affaticano le menti avide di sapere. Il mondo è finito o infinito, transitorio o eterno? L'anima sopravvive alla morte? Bisogna prestar fede ai deterministi o agli assertori del libero arbitrio? Il saṃvega, "turbamento spirituale", predispone all'accoglimento di una nuova rivelazione, ma se molti sono i desiderosi di conoscere "l'origine delle cose", molti sono anche i maestri. Il "discorso della rete perfetta" (Dīgha, I, 1, 29 segg.; II-III) ricorda sessantadue opinioni filosofiche diverse, ma non tutte ebbero certo tale importanza da meritare il nome di dottrine. Accenneremo quindi soltanto ai maggiori titthiya o eresiarchi (dal punto di vista buddhistico), di cui il re Ajātasattu riassume le teorie nel "discorso sul frutto della vita ascetica" (Dīgha, II, 16 segg.). Tra essi eccelle per importanza il "Trionfatore" (Jina) o Mahāvīra (v.), soprannominato Niggaṇṭha Nātaputta, "lo Svincolato della famiglia dei Nāta", che aveva in comune col Buddha la fede nel libero arbitrio, nella responsabilità delle azioni e nella rinascita, pur dissentendo da lui in questioni dottrinali di capitale importanza. Il Jina, per es., ammetteva contro il Buddha l'esistenza d'un'anima sostanziale e permanente (v. giainismo). Un discepolo del Jina, Makkhali-Gosāla, "Gosāla figlio di Makkhali", dopo sei anni di convivenza coi Niggaṇṭha apostatò per fondare la setta degli Ājīvika, "asceti di professione" o, per disprezzo, "mestieranti". Era un determinista, e contro di lui si leva l'esplicita condanna del Buddha: "Come di tutti i tessuti il peggiore è quello di crino, freddo d'inverno, caldo d'estate, di sudicio colore, aspro al tatto, puzzolento, così, o discepoli di tutte le dottrine degli altri asceti e brahmani la peggiore è quella di Makkhali". Ai materialisti apparteneva l'"Invitto dalla veste di cilizio", Ajita Kesakambala, che negava fede alla retribuzione dell'opera, buona o cattiva:
"L'uomo è formato di quattro elementi soltanto (terra, acqua, fuoco, aria): quando muore, ciò che in lui appartienealla terra ritorna alla terra, il liquido all'acqua, il calore al fuoco, il gas all'aria, l'apparato sensorio allo spazio. [Quattr']uomini e la bara per quinta portano via il cadavere; fino al crematorio recitano elogi funebri. Poi restano soltanto le ossa imbiancate, e le offerte sacrificali finiscono in cenere. Solo gli stolti predicano la liberalità. Vuote ciance, menzogne divulga chi afferma che c'è qualche cosa di permanente. Con la fine del corpo restano annientati tanto saggi quanto stolti, scompaiono e non esistono più dopo la morte".
"Sañjaya figlio di Belaṭṭhi", Sañjaya Belaṭṭhiputta, era il capo degli scettici, difficili ad afferrare come le anguille. Il suo modo abituale di esprimersi era, secondo il Sāmaññaphalasutta, 32:
"Qualora tu mi chiedessi se c'è un'altra vita e io fossi di parere che c'è, ti risponderei: 'C'è un'altra vita'. Ma non esprimo opinioni. Non rispondo né sì né altro; e neanche no, né son di parere che [la domanda] non faccia al caso, che la cosa non stia così".
Con le stesse parole, mutatis mutandis, Sañjaya evitava di dire la sua opinione riguardo all'esistenza di esseri increati, al frutto delle azioni buone o cattive e alla sopravvivenza alla morte di chi è in possesso del vero. Seguaci di Sañjaya furono, prima della loro conversione al buddhismo, Sāriputta e Mogallāna, onde si pensò che l'agnosticismo riguardo alle questioni metafisiche fosse entrato nella dottrina del Buddha coi due antichi discepoli del figlio di Belaṭṭhi. Ma l'atteggiamento dell'Illuminato è in perfetta corrispondenza col carattere pratico della sua dottrina. Il Buddha ripudia le teorie filosofiche non meno che le inconcludenti logomachie dei dialettici, in quanto esse non conferiscono alla liberazione. Il suo razionalismo non esclude tuttavia quelle credenze metafisiche che servono di base alla morale: sopravvivenza alla morte, retribuzione dell'opera, rinascita. Contro i materialisti e gli scettici egli non esita a usare le armi dialettiche e a richiamarsi alle intuizioni dei veggenti, paragonando gli avversarî a ciechi nati, i quali negano l'esistenza di ciò che non vedono. La sua missione non è di filosofo, ma di redentore, e però lascia "senza risposta" (avyākatāni) le dieci domande di Poṭṭhapāda (Dīgha, IX, 25 segg.): Il mondo è eterno? Transitorio Finito? Infinito? È l'anima una cosa col corpo? Sono il corpo e l'anima cose differenti? Esiste il Tathāgata (v. buddha) dopo morte? Non esiste? Esiste e non esiste? Né esiste, né non esiste?
Una volta un monaco, Māluṅkyāputta (Majjhima, 63), venne all'Illuminato deciso a ottener risposta a tali domande o a far confessare al Buddha la sua incapacità di risolvere coteste questioni. Gli rispose l'Illuminato con la sua imperturbabile calma: "Ti ho mai detto, Māluṅkyāputta: 'sii mio discepolo e ti spiegherò se il mondo è eterno o no' ecc.? O mi hai tu detto: 'mi farò seguace del Beato a condizione che egli mi spieghi se il mondo sia eterno o no' ecc.?" Māluṅkyāputta dovette convenire di no, e il Buddha si accinse a dimostrargli l'inutilità di siffatte indagini con la seguente parabola:
"È come se un uomo fosse stato ferito da una freccia abbondantemente spalmata di veleno, e i suoi amici e parenti volessero procurargli un medico o un abile chirurgo; ma il ferito dicesse: 'non voglio che mi sia estratta la freccia prima di aver saputo se colui che mi ferì appartiene alla casta dei guerrieri o dei brahmani, qual è il suo nome, la sua statura, il suo colorito; prima di aver appreso di che specie è l'arco e la freccia che mi ferirono'. Costui morrebbe prima di saperlo. La vita religiosa non dipende, Māluṅkyāputta, dall'opinione che il mondo sia eterno o no, finito o infinito. Sia vera questa o quella opinione, restano sempre la nascita, la vecchiezza, la morte, per l'estinzione delle quali io divulgo i miei insegnamenti. Ciò che lasciai inesplicato, tale rimanga".
La predica di Benares. - Pur essendo improbabile che la predica di Benares abbia avuto la forma tramandata dalle fonti canoniche (Mahāvagga [Vinaya-piṭaka, II, 1] I, 6, 17-29; cfr. Saṃyutta, LVI, 11), essa rispecchia in modo così chiaro e completo la sostanza dell'antica dottrina, da offrire il migliore esordio alla nostra esegesi. Subito dopo l'acquisto della chiaroveggenza, ai cinque asceti che, convertiti, furono i suoi primi discepoli, Gotama parlò così:
"Due estremi ci sono, asceti, dai quali deve star lontano chi ha rinunciato al mondo. Quali sono questi due? L'uno è la dedizione al godimento dei piaceri; questa è bassa, ignobile, volgare, indecorosa, inutile. L'altro è la dedizione al martirio di sé medesimo; questa è penosa, indecorosa, inutile. Senza cadere in questi due estremi, il Tathāgata (v. buddha) ha trovato, asceti, la via mediana, che apre gli occhi e la mente, che scorge alla quiete, all'intuizione, alla chiaroveggenza, al nirvāṇa. E qual'è, asceti, questa via di mezzo trovata dal Tathāgata, che apre gli occhi e la mente, che scorge alla quiete, all'intuizione, alla chiaroveggenza, al nirvāṇa? È questa nobile via, composta di otto parti, che sono: retto modo di pensare, retta aspirazione, retta parola, retta azione, retto mezzo di guadagnar la vita, retto sforzo, retto ricordo, retta concentrazione. È questa la via mediana, scoperta dal Tathāgata, che apre gli occhi e la mente, che scorge alla quiete, all'intuizione, alla chiaroveggenza, al nirvāṇa.
Questa, asceti, è l'augusta verità circa il dolore: nascita è dolore, vecchiezza è dolore, malattia è dolore, morte è dolore; dolore è l'unione con ciò che dispiace, dolore la separazione da ciò che piace, dolore ogni desiderio deluso, dolore sono, in una parola, i cinque aggregati che determinano l'attaccamento all'esistenza (upādāna-kkhandhā).
E questa, asceti, è l'augusta verità circa l'origine del dolore: essa è invero quella sete, causa di rinascita, che si associa con la gioia e col desiderio e trova qua e là il suo appagamento, cioè la sete di piaceri sensuali, la "sete di rinascita" (bhava), la "sete di annichilamento" (vibhava).
E questa, asceti, è l'augusta verità circa l'estinzione del dolore: essa invero consiste nel liberarsi da questa sete estinguendo completamente la passione, nell'abbandonarla, ripudiarla, scacciarla, bandirla.
E questa, asceti, è l'augusta verità circa la via che conduce all'estinzione del dolore: essa è invero questa nobile via, composta di otto parti, che sono retto modo di pensare, retta aspirazione, retta parola, retta azione, retto mezzo di guadagnar la vita, retto sforzo, retto ricordo, retta concentrazione.
Ecco l'augusta verità circa il dolore: così pensando, asceti, su questi concetti, mai prima intesi da alcuno, mi si aperse l'occhio, mi si aperse la mente; l'intelletto, la conoscenza, lo sguardo mi si apersero.
Intendere si deve l'augusta verità circa il dolore: così pensando ecc. (c. s.).
Io ho inteso l'augusta verità circa il dolore: così pensando ecc. (c. s.).
Con analoghe parole il Buddha afferma di avere intuito e messo in pratica anche le altre verità. Le tre affermazioni, ripetute quattro volte, fanno dodici.
"E finché, asceti, non possedetti con piena chiarezza la tripartita, dodecupla, verace conoscenza e intuizione di queste quattro auguste verità, ancora non sapevo, asceti, di aver conseguito la suprema, assoluta conoscenza nel mondo degli dei, di Māra, di Brahmā, tra gli esseri tutti, compresi asceti e brahmani, dei e uomini. E da quando, asceti, io posseggo con piena chiarezza la tripartita, dodecupla, verace conoscenza e intuizione di queste quattro auguste verità, io so, asceti, di aver conseguito la suprema, assoluta conoscenza nel mondo degli dei, di Māra, di Brahmā, tra gli esseri tutti, compresi asceti e brahmani, dei e uomini. E in me nacque la conoscenza e l'intuizione; incrollabile è la liberazione del mio cuore; questa è l'ultima mia nascita; non c'è più rinascita alcuna [per me]".
La forma arida e scolastica, piena di ripetizioni destinate a imprimere profondamente nell'animo degli uditori insegnamenti che non avevano ancora il sussidio della scrittura, sarà forse una delusione per chi pensa alle conseguenze storiche di questo sermone. Ma la sua importanza è rivelata dai frequenti ritorni del Canone alla prima predica, minutamente illustrata in ogni sua parte. Il Buddha non parla al sentimento, ma alla ragione. La sua è una fredda analisi del dolore, la quale non finisce con sterili querimonie sull'"infinita vanità del tutto", ma con l'indicazione del modo di perpetuarsi del dolore e della via che conduce ad estinguerlo. Non certo il pessimismo ispirò il grido di trionfo che si leva dalle strofe del Dhammapada (153-154):
"Per il volgere di molte nascite corsi senza tregua cercando il costruttore della casa (cioè la causa della rinascita). Doloroso è il continuo rinascere. O costruttore, ti ho scoperto; tu non fabbricherai più alcuna casa! Infrante sono tutte le tue travi e il tetto della casa distrutto. La mente, non più rivolta alle cose sensibili, ha estinto ogni brama".
La prima verità è una serie di assiomi, la quale culmina nell'affermazione che ai cinque fattori della vita psico-fisica è inerente il dolore. Qui la dottrina del Buddha si rannoda a concezioni brahmaniche, che non sarà inopportuno richiamare. Già nella Bṛhadāraṇyaka-upaniṣat (circa 800 a. C.) si parla del karman (v.), dell'"opera" buona o cattiva, che in qualità di merito o di demerito sopravvive all'uomo e determina una buona o cattiva rinascita. E il karman non è la psiche, ma la forza trascendente che riunisce in un nuovo complesso gli elementi della psiche disciolta, perché possa attuarsi la retribuzione dell'opera. A sua volta la psiche non è un'anima, una sostanza immateriale ed eterna, sostrato della coscienza e del pensiero. È l'unione di cinque forze vitali, emanazione di altrettante forze cosmiche, le quali ritornano, quando l'uomo muore, alla fonte primigenia. Nulla resta dell'estinto oltre al karman, e però afferma la nostra Upaniṣat (II, 4, 12): "Non c'è coscienza (cioè coscienza della propria personalità) dopo la morte". In simil modo il buddhismo ripudia, come un'eresia che preclude il nirvāṇa, la credenza nell'anima permanente ammessa dal Sāmkhya-Yoga non meno che dai seguaci del Jina. La vita psicofisica nasce, secondo il Buddha, dall'unione di cinque fattori, essi stessi composti e però chiamati "aggregati" (khandha, sanscr. skandha), uno dei quali materiale: rūpa, la parte corporea dell'uomo, e gli altri incorporei: vedanā o "sensazione" (di piacere o di dolore), saññā o "percezione", sankhārā o "predisposizioni", cetanā o "volizione" (e attività mentali concomitanti) e viññāṇa o "coscienza". Questi stati mentali sono, riguardo al loro oggetto, "uno"; perché il più generale, il viññāṇa, comprende, a rigor di termini, la sensazione, la percezione e la volizione, come il genere la specie; ma la psicologia buddhistica volle forse con quest'analisi evitare ogni equivoco circa l'essenza del viññāṇa, privo di unità sostanziale e permanente.
"Sarebbe più giusto, asceti" fa dire al Buddha il Saṃyutta, XII, 7, 61 "se la gente ignara (della dottrina buddhistica) ravvivasse l'Io nel corpo formato dai quattro grandi elementi (terra, acqua, aria, fuoco), anziché nell'intelletto. E perché? Perché è evidente, asceti, che questo corpo formato dai quattro grandi elementi dura un anno, due anni, tre, quattro, cinque, dieci, venti, trenta, quaranta, cinquant'anni; dura un secolo e più. Ma quel che si chiama, asceti, pensiero, intelletto, coscienza, nasce come una cosa e finisce come un'altra e di giorno e di notte".
Con le cinque forze vitali delle Upaniṣat i cinque khandha non hanno in comune altro che il numero; pure non è forse da escludere fra le due concezioni un lontano rapporto genetico, di cui non è dato ricostruire le fasi intermedie.
In veste moderna il pensiero espresso dalla prima verità è che il dolore è insito negli stessi elementi della vita psicofisica, la quale implica limitazione, caducità, illusione e quindi dolore. L'asserzione mira a sfatare anche la credenza che la salvezza, impossibile a conseguire in terra, consista nella rigenerazione nel cielo di Brahmā. Perché se il dolore è inerente alla personalità, neanche nel cielo si sfugge al dolore.
La seconda verità ravvisa nella "sete", nel Wille zum Leben, l'origine del dolore. La sete di rinascita divora gli "eternalisti" (sassatavādin) o assertori della vita sempiterna; così come è propria dei materialisti (ucchedavādin), convinti che tutto ha fine con la morte, la sete di annichilamento.
Accertata la causa del male, il Buddha insegna a rimuoverla mediante le otto forme di rettitudine. Anzitutto dirittura d'idee per non cadere in eresie, specialmente riguardo alle tre caratteristiche di ogni essere (animale, uomo, dio): dolore, impermanenza, inesistenza dell'anima. La dottrina dell'impermanenza è la base della filosofia buddhistica, ove all'essere è sostituito il divenire. Due cose erano dagli eternalisti considerate imperiture: l'Io o anima (ātman; v.) e il mondo ove l'Io s'incarna. Ma il buddhismo oppone all'Io metafisico la psiche transeunte e metabolica formata dai quattro khandha incorporei. La confutazione dell'esistenza dell'anima tiene nel Kathāvatthu il primo posto. Altrettanto impermanente è il mondo delle cose, composte e quindi soggette a mutarsi, a decadere, a dissolversi. "Ogni cosa è transitoria" (sabbe sankhārā aniccā) e "tutto ciò che è transitorio è dolore" (yad aniccaṃ taṃ dukkhaṃ).
La "retta aspirazione", esemplificata nel Canone, prende varie forme: desiderio di non far male a essere vivente, di emanciparsi dalla sensualità, di coltivare l'amore del prossimo.
Desiderî di bene, destinati a sopraffare i vani eccitamenti, i colpevoli appetiti, le inutili brame, ma desiderî. Ciò sia detto per coloro, i quali si ostinano a credere che il buddhismo predichi l'estirpazione di tutti i desiderî, forse equivocando tra questa e l'estinzione della sete, argomento della terza verità. Le rette aspirazioni aprono la serie dei sīla, dei "buoni costumi", che giunge, escludendola, fino alla "retta concentrazione". Ne fa parte l'osservanza dei cosiddetti comandamenti o meglio divieti, cinque dei quali, obbligatorî anche per i laici, prescrivono l'astensione in pensieri, parole, opere: 1. dal toglier la vita; 2. dal prendere ciò che non è donato; 3. dall'adulterio; 4. dal mendacio; 5. dall'uso di bevande spiritose. Per i monaci il terzo sīla è inasprito ed esteso anche ai rapporti coniugali. Oltre a osservare il celibato, essi debbono anche astenersi: 1. dal cibo fuori del tempo prescritto; 2. da spettacoli, musiche, canti e danze; 3. dall'uso di ghirlande, profumi, pomate e ornamenti; 4. dal dormire in letti larghi e alti; 5. dall'accettare oro e argento. Il pentalogo è quindi decalogo per chi fa parte dell'Ordine. Né i sīla si limitano all'osservanza di precetti negativi. La mettā, se non è la carità operante ed attiva che infiammò, per citare un esempio concreto, S. Vincenzo de' Paoli, è tuttavia un sentimento di universale benevolenza, che la karuṇā, la "compassione", prepara e la muditā, l'"intenerimento del cuore", porta a compimento. Dice il Suttanipāta [Khuddaka, I, 9], 149-151:
"Come una madre protegge il figlio, l'unico suo figlio, anche a costo della propria vita, così nutra (chi è saggio) illimitata benevolenza verso tutte le creature. Benevolenza illimitata nutra per il mondo tutto, in alto, in basso, lateralmente; senza limiti, senz'odio né ostilità. Stando, andando, sedendo, giacendo, finch'egli è desto, coltivi questi sentimenti. Ecco quel che si chiama stato divino qui sulla terra!".
E l'Itivuttaka, 27:
"Nessuno dei mezzi atti ad acquistare merito religioso qui nel mondo, vale, asceti, la sedicesima parte della benevolenza, redenzione del cuore. La benevolenza, redenzione del cuore, a tutti sovrasta e rifulge, sfolgora, brilla. E come, asceti, nessuna luce di stelle vale un sedicesimo della luce lunare, ma la luce lunare soverchia quella degli astri e rifulge, sfolgora, brilla, così pure, asceti, nessuno dei mezzi di acquistare merito religioso qui nel mondo vale la sedicesima parte della benevolenza, redenzione del cuore. La benevolenza, redenzione del cuore, a tutti sovrasta e rifulge, sfolgora, brilla.
Il "retto sforzo" della mente vigile e intenta si oppone specialmente al traviamento intellettuale (moha), che insieme con la "sensualità" (rāga) e la "malevolenza" (dveṣa) impedisce la comprensione delle auguste verità. L'alacrità mentale è poi strettamente connessa col "retto ricordo" destinato a far presente al buddhista, sia ch'esso parli o taccia, mangi o beva, cammini o stia fermo, il carattere temporaneo dell'azione, le sue conseguenze etiche e soprattutto l'inesistenza di un Io che mangi, che beva, che cammini, che parli. La facoltà dell'asceta di riandare l'infinita serie delle sue precedenti nascite dipende pure dal retto ricordo.
L'osservanza dei sīla predispone alla "retta concentrazione", l'ultimo stadio dell'augusto cammino. Essa comprende, nella sua forma più completa, nove stati mentali, vale a dire le quattro fasi di "meditazione estatica" (jhāna) e i quattro gradi di "estasi immateriale" (arūpakjjhāna) fino all'"abolizione della sensibilità e della coscienza" (sanñāvedayitanirodha). I quattro stadî del jhāna non escono dal dominio del sensibile e mirano soprattutto alla purificazione del sentimento. Nel quarto la mente dell'asceta, ormai indifferente alla gioia e al dolore, acquista una tal luminosa purezza che tutto ne resta irradiato, fin nei più ascosi recessi, lo stesso corpo del meditante. È il momento dell'"intuizione" (paññā) delle supreme verità. "Non v'è meditazione senza intuizione; non v'è intuizione senza meditazione; chi possiede meditazione e intuizione, è prossimo al nibbāna" (Dhammapada, 372). La conoscenza intuitiva non è l'onniscienza, riservata al Buddha per i suoi singolarissimi meriti; ma la perfetta nozione delle auguste verità basta a distruggere l'errore, estirpare il dubbio, spegnere il desiderio, per un fatto mistico, che trascende i limiti della comune psicologia. La vera paññā è quindi anāsava, "pura", esente dai "pervertimenti intellettuali" (āsava); essa proscioglie l'arhat dai "legami" (saṃyojana) e dagli "ostacoli" (nīvaraṇa). La tendenza al classificare, che valse al Sāṃkhya (v.) il suo nome, è comune anche al buddhismo, il quale distingue quattro āsava, diecî saṃyojana e cinque nīvaraṇa. I cosiddetti pervertimenti sono: la lussuria, la gioia di vivere, l'eresia e l'ignoranza (delle quattro auguste verità). Son chiamati legami: l'illusione dell'esistenza dell'anima, il dubbio, la fede nell'efficacia dei riti e delle buone opere, le passioni, l'odio e l'avversione, il desiderio di rinascere nel mondo, il desiderio di rinascere nel cielo, la superbia, la presunzione, l'ignoranza. Son detti ostacoli: l'inclinazione alla sensualità, il desiderio di nuocere, il torpore mentale, gli scrupoli, l'indecisione.
La pratica del jhāna è l'unica disciplina mentale, feconda di risultati concreti. Gotama ricorre alla meditazione estatica per ottenere la chiaroveggenza ed entra, in morte, nel nirvāṇa dal quarto grado del jhāna (v. buddha). Egli conobbe e praticò anche la concentrazione mentale spinta fino alla catalessi e all'ipnosi, che aveva appresa dai suoi primi maestri di Yoga, ma l'abbandonò come inutile a conseguire la liberazione. Tuttavia essa compare nel Canone (Majjhima, 30) come mezzo di purificazione intellettuale. Asceti particolarmente dediti alla vita contemplativa continuarono a ravvisare in essa il supremo grado della santità, facendosene scala per passare dalla percezione delle cose materiali alla contemplazione dell'"infinità dello spazio", la prima delle estasi immateriali. La seconda si spinge fino allo stato d'"illimitatezza della facoltà conoscitiva". La terza assurge all'idea della "nullità". Ma anche il concetto della nullità universale presuppone un atto del pensiero, e poiché l'attività intellettuale, sia pure rivolta a concezioni astratte, non rappresenta la perfezione, l'asceta entra nel quarto stato, dove non c'è "né coscienza né incoscienza", dove cioè sopravvive un barlume di coscienza, che è agevole estinguere travalicando nell'"abolizione della sensibilità e della coscienza". Nulla v'è di superiore a questo nono, supremo grado dell'estasi, che è proprio dell'arhat, del "degno (di venerazione)", del santo. L'asceta può restare ore e giorni immobile nella rigidità catalettica, privo di coscienza e appena distinguibile da un cadavere per il lieve calor di vita che scalda ancora il suo corpo. In questo stato egli pregusta la beatitudine del nirvāṇa assoluto, a cui solo la morte dà accesso.
La "nobile via" è aperta chiunque, ma non tutti i desiderosi del nirvāṇa giungono insieme alla meta, che sgomenta i più forti camminatori. Perciò furono sin da principio distinti quattro gradi di perfezione ascetica: quello del sotāpanna, appena "entrato nella corrente" e destinato a rinascere sette volte prima di conseguire il nirvāṇa; quello del sakadāgāmin, "che tornerà (sulla terra) un'altra volta"; quello dell'anāgāmin, "che non rinascerà più" ma sarà una sola volta rigenerato nel mondo degli dei, e quello dell'arhat, partecipe del nirvāṇa in terra e quindi sottratto alla stessa possibilità di peccare. È superfluo aggiungere che questo quarto grado è accessibile all'asceta soltanto.
Il nirvāṇa. - L'arhat è lieto e tranquillo nella consapevolezza del suo trionfo sul mondo e i suoi dolori. Egli sa di godere maggior felicità di chi è schiavo delle passioni, e il suo volto s'irradia della gioconda letizia che proviene dal nibbāna (sanscr. nirvāṇa), dall'"estinzione". Estinzione della sensualità, dell'odio, del traviamento intellettuale, che tengono la mente prigioniera della colpa e dell'errore. In difetto d'informazioni direttamente attinte alle fonti pāli, non pochi studiosi europei credettero che il nirvāṇa fosse uno stato possibile a raggiungere solo con la morte. Privi dell'esuberante ottimismo dei primi buddhisti, essi intesero la verità circa il dolore nel senso di una condanna di questa vita, confortata dalla speranza della liberazione, e ravvisando nel nirvāṇa un estinguersi della coscienza, discussero se questo fosse da intendere come uno stato di assoluto annichilamento ovvero di perenne estasi. Ma non c'è dubbio che il nirvāṇa (v.) fu per i primi buddhisti l'estinzione del peccato e della passione, il nirvāṇa in vita, il "nirvāṇa visibile" (saṃdiṭṭhikaṃ nibbānam), condizione necessaria del nirvāṇa in morte, dell'"assoluta estinzione" (parinibbānam), detta anche per brevità nibbāna senz'altro. L'asceta che è in possesso del vero, o ha raggiunto la perfezione morale, continua a vivere finché non sia esaurito il frutto delle opere compiute in anteriori esistenze, ma la sua azione priva di attaccamento non produce più i germi destinati a fruttificare in susseguenti vite, non si trasforma più in karman. Il santo non rinasce più. Neanche la "liberazione in vita" è una concezione nuova, perché preesiste al buddhismo. La parola jīvanmukta "liberato in vita" è del tardo Vedānta (Vedāntasāra, 229 seg.), ma l'idea è già nella Chāndogya-upaniòat, VI, 14, 2.
Il brahmano Jāṇussoni (Anguttara, III, 55) domanda al Buddha che gli spieghi qual è il nirvāṇa visibile, e apprende ch'esso consiste nell'annientamento della sensualità, dell'odio e del traviamento intellettuale. In altro luogo del Canone (Saṃyutta, XXXVIII, 1-5) l'asceta mendicante Jambukhādaka interroga il venerando Sāriputta:
"Si dice sempre 'nibbāna, nibbāna', ma che è dunque, amico, il nibbāna?". "L'estinzione della sensualità, l'estinzione dell'odio, l'estinzione del traviamento intellettuale; ecco, amico, ciò che si chiama nibbāna. E c'è, amico, un sentiero, una via per attuare questo nibbāna". "Tu dici dunque, amico, che c'è un sentiero, che c'è una via per attuare questo nibbāna. Ma qual'è, amico, il sentiero, la via per attuare il nibbāna?". "È, amico, quella nobile via, composta di otto parti, che conduce all'attuazione del nibbāna, vale a dire: retto modo di pensare ecc. (c. s.)".
Quando la psiche dell'arhat si risolve nei khandha che la compongono e sottentra il nirvāṇa assoluto, che cosa avviene del santo? Il quesito, se il santo esista o no dopo morte, appartiene agli avyākatāni, i punti di controversia "non risolti", sui quali il Buddha "non ha espresso alcuna opinione", conforme all'indole pratica della sua dottrina, aborrente dalle questioni metafisiche. Tuttavia le parole da lui pronunciate in morte di Godhika: "È entrato nel nibbāna assoluto senza che la sua coscienza (viññāṇa) si trovi più in alcun luogo" chiaramente definiscono il nirvāṇa come l'annullamento. Ma uno dei più eminenti discepoli del Buddha sembra essere stato di altra opinione. "Delizioso è questo nibbāna!" esclama Sāriputta in un crocchio di monaci (Aṅguttara, IX, 34, 2-3). E quando il venerando Udāyi gli domanda: "Ma come può, caro Sāriputta, esservi delizia in uno stato privo di sensazione?", "In ciò appunto consiste la delizia - risponde Sāriputta - che non v'è, in tale stato, sensazione". Beatitudine scevra di sensazione, che toglie ogni speranza in un'immortalità personale e cosciente, ma pur sempre beatitudine. Né basta. In altro luogo (Saṃyutta, XXII, 85) l'idea che la morte del santo sia la totale estinzione è addirittura relegata fra le peccaminose eresie. "In quel tempo era nata nella mente di un monaco per nome Yamaka questa peccaminosa eresia: 'Io intendo così la dottrina insegnata dal Beato, che quando il corpo si dissolve, il monaco che ha distrutto in sé i quattro pervertimenti intellettuali resta annientato, distrutto e non esiste più dopo morte". Avuta notizia dell'opinione di Yamaka, Sāriputta si assunse d'illuminarlo con una serie di domande: "Credi tu, amico Yamaka, che il tathāgata s'identifichi con quanto v'è in lui di materiale?". "No certo, amico". "Che sia allora identico alla sensazione, alla percezione, alle predisposizioni, alla coscienza?". "No certo". L'interrogatorio prosegue e Yamaka è costretto a convenire che il santo, da vivo, non è identico ai khandha né da essi diverso, onde Sāriputta conclude:
"Così dunque, amico Yamaka, non ti è possibile afferrare in essenza e verità il tathāgata neppur qui nel mondo visibile. Hai dunque allora diritto di dire: 'Io intendo così la dottrina insegnata dal Beato, che quando il corpo si dissolve, il monaco che ha distrutto in sé i quattro pervertimenti intellettuali resta annientato, distrutto e non esiste più dopo morte?'". "Professavo quest'errore prima, amico Sāriputta, - rispose Yamaka - a motivo della mia ignoranza; ma ora che ho sentito spiegar la dottrina dal venerando Sāriputta, ho abbandonato la peccaminosa eresia e compreso la vera dottrina".
Yamaka aggiunge che, ove sia interrogato se sopravviva alla morte chi è in possesso del Vero, si limiterà quind'innanzi ad affermare che il nirvāṇa del tathāgata consiste nella distruzione dei khandha.
L'interpretazione più ovvia di questo dialogo è che nulla è lecito asserire circa il nirvāṇa del tathāgata, perché l'essenza della santità è imperscrutabile e però indefinibile. Una velata ammissione della sopravvivenza oltre la morte sembra essere invece contenuta in un altro dialogo (Saṃyutta, XLIV, 1, 6-19; cfr. Majjhima, 72). Il re Pasenadi chiese un giorno l'opinione della monaca Khemā su diverse questioni relative alla sopravvivenza oltre la morte del tathāgata. La risposta fu sempre che il Beato nulla aveva rivelato a questo riguardo. "E perché?" chiese meravigliato il monarca. "Può il tuo tesoriere - replicò Khemā contrapponendo domanda a domanda - contare i granelli di sabbia sulla riva del Gange, misurar l'acqua del mare?". "No". "E perché no?". "Perché l'oceano è profondo, immensurabile, inscandagliabile". "Lo stesso accade o gran re, quando si vuol determinare l'essenza del tathāgata con le definizioni del mondo materiale. Non si può dire che il tathāgata sia al di là della morte, o che non sia al di là della morte, o che sia e non sia al di là della morte, o che né sia né non sia al di là della morte". Non par dubbio che il nirvāṇa di Khemā sia qualcosa di diverso dal puro e semplice nulla. Non sarà un essere nel senso materiale, ma non è neanche un non essere; è uno stato, a ritrarre il quale la mente non ha concetti, né parole la lingua. Due o meglio tre opinioni coesistono dunque nel Canone riguardo al nirvāṇa assoluto: 1. annichilamento; 2. liberazione dalla rinascita senza che sia possibile precisare in che cosa il nirvāṇa consista; 3. stato d'ineffabile beatitudine.
La teoria del nesso causale. - La seconda e terza verità stabiliscono che la "sete" è l'origine del dolore, ma la predica non dice come l'Illuminato giungesse a questa conclusione. Dobbiamo cercare altrove la dimostrazione di questa verità, nella dottrina delle "cause" (nidāna) o formula della "produzione condizionata "(paticcasamuppāda). Un intero gruppo di sutta del Saṃyutta, il XII, è dedicato alla teoria del nesso causale, che resta ciò nonostante il punto più oscuro della dommatica degli Anziani. Il Mahāpadānasutta (Dīgha, XIV) attribuisce la scoperta dei nidāna al mitico buddha Vipassi, segno che la dottrina si considerava prebuddhistica a tempo della composizione di questo sutta. Mentre il primo buddha, Vipassi, siede assorto in meditazione, pensa tra sé (ibid., 2, 18 segg.):
"Davvero questo mondo è immerso nel dolore; si nasce, si decade, si muore e da una vita si passa in un'altra. Né davvero si conosce via di scampo al dolore, alla vecchiezza e alla morte. Oh! quando sarà rivelata una via di scampo al dolore, alla vecchiezza e alla morte?"
Allora, asceti, a Vipassi, il bodhistta (v.), venne questo pensiero: "Che cosa essendo ora presente, è presente anche vecchiezza o morte? Che cosa condiziona la vecchiezza e la morte?" Allora, asceti, dalla riflessione sulla causa sorse la ragionata convinzione: "Dov'è nascita, è vecchiezza e morte; la nascita è la condizione della vecchiezza e della morte".
Il testo continua a narrare come Vipassi scoprisse poi nella vita (della passata esistenza) la condizione della nascita; nell'attaccamento la condizione della vita; nella sete di vivere la condizione dell'attaccamento; nella sensazione la condizione della sete; nel contatto la condizione della sensazione; ne' sei organi sensorî la condizione del contatto; in mente-e-corpo (l'Io empirico) la condizione dei sei organi sensorî; nella coscienza la condizione di mente-e-corpo. Qui si ferma la serie di Vipassi. "La coscienza retrocede da mente-e-corpo; non va oltre". In altre parole Vipassi, raggiunta la coscienza, non trova alcun'altra causa da aggiungere. Quando la morte scioglie l'unione dei khandha, l'ultimo guizzo della sostanza pensante proietta la coscienza del moribondo in un nuovo embrione (umano, ferino, infernale o celeste) e l'embrione, dotato di coscienza, inizia la nuova vita. Questi due elementi della serie causale, coscienza e mente-e-corpo, sono quindi condizione l'uno dell'altro. La stessa serie di dieci nidāna compare nel Mahānidānasutta (Dīgha, XV), ove il Buddha stesso spiega ad Ānanda il modo di perpetuarsi dell'esistenza soltanto nella vita presente e nella futura. I testi che risalgono fino all'ignoranza (Saṃyutta, XII, 1, 10; Vinaya [Mahāvagga], I, 1, 2) contemplano anche l'esistenza o le esistenze passate.
Le dodici cause
per le quali si perpetua la vita e quindi il dolore.
Nella "vita passata":
I. avijjā, sanscr. avidyā, "ignoranza" delle quattro auguste verità; II. sankhārā, sanscr. saṃskārāḥ, "predisposizioni" originate dal karman e destinate a suscitare azioni volontarie;
l'una e le altre causa della "vita presente" nel suo doppio aspetto:
A. Passivo, in quanto effetto della "vita passata".
III. viññāṇa, sanscr. vijñāna, "coscienza" (di riconcezione), primo ridestarsi della nuova vita; IV. nāmarūpa "mente-e-corpo", l'embrione formato dai cinque khandha; V. saḷāyatana, sanscr. sadāyatana, le "sei sedi" della percezione, i cinque organi sensorî più il manas, il sensus communis che trasforma in idee le sensazioni; VI. phassa, sanscr. sparśa, "contatti" dei sensi coi loro oggetti; VII. vedanā "sensazione".
B. Attivo,
VIII. taṇhā, sanscr. tṛṣṇā, "sete", triforme, causa di nuovo karman; IX. upādāna "attaccamento" ai piaceri del senso, alle false teorie, alla fede nell'efficacia dei riti, alla credenza nell'anima; X. bhava "vita" la cui attività cosciente determina
in quanto causa della "vita futura":
XI. jāti, "rinascita" e XII. jarāmaraṇa, "vecchiezza e morte".
Rifacendo a ritroso il cammino percorso, sull'esempio di Vipassi, il nesso fra i nidāna apparisce più chiaro. Come si perpetua il dolore inerente all'esistenza, compendiato nella vecchiezza e nella morte? Con la rinascita; e rinasce chi, con una vita schiava dell'attaccamento, specialmente ai piaceri del senso, accumula nuovo karman. L'azione spassionata dell'arhat, ormai prosciolto dalla sete di vivere, non produce alcun effetto; egli ha distrutto in sé i germi di future esistenze; per lui rinascita, vecchiezza e morte non esistono più. L'attaccamento procede infatti dalla sete, a sua volta determinata dalla sensazione, la quale procede dal contatto dei sensi coi loro oggetti negli organi sensorî o sedi della percezione. Ma gli organi sensorî presuppongono mente-e-corpo, l'Io empirico, e questo la coscienza, la fiamma di vita suscitata dalle cause preesistenti alla riconcezione: predisposizioni e ignoranza. Cadrebbe in errore che considerasse i nidāna come il prodotto l'uno dell'altro. Le predisposizioni non potrebbero sussistere se l'ignoranza dei supremi veri non rendesse possibile il fruttificare del karman, ma l'avijjā non si trasforma né si risolve nei sankhārā. E i khandha sono la base dell'intero ciclo vitale, non essendo possibile concepire apparato sensorio né sensazione scompagnati da mente-e-corpo. Gli elementi della serie sono quindi singolarmente ricordati nella formula a cagione della loro relativa prevalenza nel fenomeno di cui si determina la causa, ma senza che ciò significhi annullamento o trasformazione del nidāna precedente. Come condizione del perpetuarsi dell'esistenza e quindi del dolore, i due primi elementi della serie duodenaria hanno, rispetto alla vita presente, la stessa importanza dei nidāna VIII-X riguardo alla vita futura, che, perdurando ignoranza e predisposizioni, rifà capo alla nascita. Questo perpetuo avvicendarsi dei fenomeni inerenti all'attuazione del karman prese forma sensibile nella "ruota del divenire (bhavacakra)", soggetto favorito dell'arte buddhistica, dall'affresco di Ajanta (sec. VI) alle silografie cino-giapponesi moderne. I nidāna vi son rappresentati da figure simboliche, disposte attorno a una ruota che un demonio stringe nelle sue branche.
Questa è in breve la sostanza dell'antica dottrina, "via di mezzo" (majjhimā paṭipadā) fra i modi estremi di pensare e di vivere professati dai contemporanei del Buddha. Tale moderazione, in un paese ove la santità dell'asceta, samaṇa, yogin o fachiro, fu sempre misurata dalla capacità di resistenza al martirio di sé stesso è senza dubbio il tratto più originale della dottrina di Gotama.
Aśoka. Il buddhismo religione di stato. - Per quanto tempo il buddhismo rimase fedele all'antica Legge? Non abbiamo testimonianze degne di fede fino all'età di Aśoka (269-232 a. C.), perché, in ciò che riguarda i concilî, la tradizione è priva di attendibilità storica. Si dubita perfino del concilio di Pāṭaliputta, che il Dīpavaṃsa (circa sec. IV) afferma convocato per purgare dall'eresia la Dottrina, sebbene l'espulsione degli scismatici dai monasteri, ordinata dall'editto di Sārnāth, possa essere interpretata come la conseguenza pratica di quel concilio. Non è in ogni caso temerario supporre che dopo la morte dell'Illuminato si moltiplicassero in seno all'Ordine i dissensi, segnatamente di carattere disciplinare, che degenerarono poi col tempo in aperte scissioni. Lo stato d'animo di una parte della Comunità alla morte del Buddha traspare dalle irriverenti parole del monaco Subhadda (Dīgha, XVI, 6, 20):
"Cessate, fratelli, di lamentarvi e di piangere. Ci siamo fortunatamente liberati del grande samaṇa! Egli ci annoiava col dire: 'Questo è permesso, questo non è permesso'. Ora faremo quel che ci piace, e non avremo bisogno di fare quello che non ci garba".
La tradizione assegna al supposto primo concilio, convocato dopo la morte del Buddha, un compito disciplinare e dommatico; al secondo un compito disciplinare; al terzo, quello di Pāṭaliputta (oggi Patna), un compito dommatico, assolto con la promulgazione di un sillabo, il Kathavatthu, che rispecchia le dottrine rigidamente ortodosse degli "Anziani" (thera) o "propugnatori della distinzione" (vibhajjavādin). Questa scuola, trapiantata da Mahinda a Ceylon subito dopo il concilio di Patna, si perpetua nell'attuale Comunità singalese, rimasta fedele al canone pāli e alla dommatica dei thera. Sia o no il Kathāvatthu opera dei mille monaci che, secondo la tradizione, presero parte al terzo concilio, è in ogni modo certa la presenza di gruppi scismatici negli stessi monasteri edificati dalla liberalità di Aśoka. Tuttavia, a giudicare dagli editti, l'essenza della Dottrina, che il pio re nel suo fervore chiama "la sua Legge", non è mutata. Essa raccomanda ancora il dominio delle passioni, la tolleranza, la compassione, la giustizia, l'elemosina, e il suo linguaggio, semplice e solenne, arieggia quello dei Sutta. Nessuna traccia delle dottrine caratteristiche del Mahāyāna (v.): pratica delle pāramitā o "virtù perfette" e buddholatria. Né il re si limita a raccomandare ai sudditi l'osservanza della Legge, che fu certo largamente diffusa prima ancora di divenire religione di stato; egli dà per il primo il buon esempio. Ce lo attesta il XIV editto, scolpito nella piramide silicea di Kālsī e sulle rocce granitiche di Girnār:
"Qui (nel mio regno) nessun animale può essere ucciso.... Nella cucina della sacra e graziosa maestà del re venivano prima uccise ogni giorno molte migliaia di animali per farne brodi. Ma ora, al momento della promulgazione di questo pio editto, si ammazzano [giornalmente] tre animali soltanto: due pavoni e una gazzella, e la gazzella non sempre. In avvenire non saranno più uccisi neanche questi tre animali".
In ossequio al primo comandamento buddhistico, Aśoka rinunciò ai piaceri della caccia e vietò i ludi gladiatorî e i combattimenti di animali. In un commosso editto, il XIII, il re rievoca gli orrori della conquista del Kaliṅga e pieno di rimorso condanna la violenza, dichiarando di abbracciare la Legge di Pietà. Due anni dopo (259 a. C.) prendeva gli ordini monastici e, passando dalle parole ai fatti, intensificava l'opera di propaganda inviando missionarî nella regione del Himālaya (Nepal o Tibet), nel Gāndhāra, nel Kashmīr, nell'Indocina, nel Dekkan occidentale ed a Ceylon, dove mandò lo stesso suo figlio Mahinda. La traslazione a Ceylon di un ramo dell'"albero della Bodhi" (v. buddha) è rappresentata in due bassorilievi del Tope di Sānci, uno dei pochi monumenti di Aśoka sfuggiti alla distruzione. Per tal modo una notizia tramandata dalle cronache riceve conferma da un monumento figurato contemporaneo degli avvenimenti, e acquista valore di testimonianza storica. Uomo d'azione, Aśoka fu il primo a dare attuazione pratica a quei sentimenti di benevolenza, di compassione, di simpatia, che il samaṇa coltivava solo astrattamente.
"La sacra e graziosa maestà del re - dice il II editto sulla roccia - ha fatto ovunque edificare (nel suo regno e nei limitrofi) istituti di cura di due specie: istituti di cura per gli uomini e istituti di cura per gli animali. Anche piante medicinali, utili agli uomini e utili alle bestie, sono state importate e piantate dovunque mancavano. Egli ha fatto scavare pozzi e piantare alberi lungo le strade, perché servano agli uomini e agli animali".
Hīnayāna e Mahāyāna. Kaniṣka. - La diffusione che l'attività missionaria diede al buddhismo accentuò i dissensi fra le varie scuole e preparò il terreno alla grande scissione della dottrina in due metodi di liberazione distinti: quello del "Piccolo" e quello del "Grande Veicolo". La parola Hīnayāna (v.) è usata per la prima volta da Fa-hien (circa 400 d. C.), ma il culto dei bodhisattva, caratteristico del Mahāyāna, è già attestato da monumenti figurati dell'era volgare. I più antichi scismatici furono i "membri della Comunità grande" (mahāsāṅghika), che sarebbero usciti dal seno della Chiesa a tempo di Aśoka o del supposto secondo concilio (circa 387 a. C.). Tra essi ebbe deciso sopravvento la scuola dommatica dei "soprannaturalisti" (lokottaravādin) che erano gli assertori della divinità del Buddha, ai quali noi dobbiamo il Mahāvastu. Quest'opera, scritta in un pracrito sanscriteggiante che era la lingua letteraria del Kashmīr e del Pengiab, così come il pāli era quella del Kosala e del Magadha, costituisce l'anello di congiunzione fra il Hīnayāna e il Mahāyana. La coesistenza di numerosi buddha in "campi di Buddha" o mondi diversi è ammessa dal Mahāvastu (sec. II-IV d. C.), che delinea per la prima volta anche la teoria delle dieci bhūmi o stadî di perfezione, attraverso i quali è dato ad ogni upāsaka di diventar buddha. Per più di tre secoli, da Aśoka a Kaniṣka (prima metà del sec. II d. C.), quasi nulla sappiamo circa la fortuna delle diverse scuole nel settentrione dell'India. È tuttavia probabile che l'eccessivo favore accordato da Aśoka ai buddhisti abbia nociuto all'unità e alla purezza dell'Ordine attirando alla vita monastica un gran numero di fannulloni e d'ignavi. Certo il fervore di rinnovamento contenuto nel Magadha, dal Sillabo di Tissa e dai provvedimeiui disciplinari di Aśoka, si apprese ai neofiti dell'India nord-occidentale e trovò inatteso aiuto nel re barbaro Kaniṣka o Kaneski, che aveva esteso fino a Mathurā l'impero dei tartari Kuṣāṇa. Per la seconda volta il buddhismo godé la protezione di un potente monarca, che non lesinò favori agli scismatici del settentrione, "assertori della realtà di ogni cosa" (sarvāstivādin). Il Buddha aveva predicato ai soldati e agli agricoltori dei Kosala una religione pratica, di cui erano appena delineati i principî teoretici. Ma i missionarî del Kashmīr e del Pengiāb si trovarono in una regione fortemente imbevuta di cultura brahmanica, a tu per tu con avversarî scaltriti nell'arte dialettica, e dovettero elaborare una dottrina capace di resistere alle argomentazioni dei contraddittori. Così nacque la filosofia buddhistica propriamente detta, che attinse il massimo fiore nei secoli VI e VII.
Il concilio di Pāṭaliputta non aveva potuto restituire all'Ordine la perduta unità, e il compito di dirimere le controversie era nel sec. II ancora più arduo per la crescente diffusione dei principî del Mahāyāna a detrimento delle scuole hīnayāniche. Poco dopo la sua conversione al buddhismo, Kaniṣka si accinse con ardore di neofita a dare assetto definitivo al sarvāstivāda, la dottrina prevalente nel Kashmīr, e convocò un concilio a Jālandhara, presieduto dai patriarchi Pārśvika e Vasumitra. Nulla di certo sappiamo riguardo all'opera del concilio, che, nell'intento di eliminare le cause di discordia, avrebbe raccolto in un triplice commento al Tripiṭaka le dottrine comuni a tutte le sette del Hīnayāna. Una leggenda riferita da Hiuen-tsang (629-645 d. C.) nelle sue Memorie dei paesi d'occidente vuole che Kaniṣka abbia fatto incidere i commenti su lamine di rame, le quali, a guisa di reliquie, furono poi racchiuse in uno stūpa. Frammenti di un canone sanscrito dei sarvāstivādin, di cui possediamo, tradotti in cinese, i testi fondamentali, furono scoperti nel 1903 dal Grünwedel nel Turkestān cinese, ma non sappiamo se si tratti dello stesso canone discusso e commentato durante il concilio di Jālandhara. Il canone sanscrito è assai più conciso di quello pāli, ma la dottrina è nei due testi sostanzialmente la stessa, il che prova la mirabile fedeld della tradizione orale. È verisimile supporre che l'uno e l'altro canone risalgano a una fonte comune, il canone māgadhī, di cui restano nel Tripiṭaka tracce evidenti. Come Aśoka, Kaniṣka edificò chiostri e monumenti e fece imprimere sulle sue monete l'immagine del Buddha. Alla sua corte visse Aśvaghoṣa, l'autore della "Vita del Buddha" (Buddhacarita), ch'è il più antico poema d'arte dell'epica indiana. Se Aśvaghosa avesse scritto il trattatello intitolato "Origine delle credenze mahāyāniche" (Mahāyānaśraddhotpāda), potrebb'essere considerato il primo filosofo del Mahāyāna. Ma l'operetta idealistica non è certo di lui, onde il titolo di fondatore della filosofia del Mahāyāna spetta di diritto a Nāgārjuna (fine del sec. II) con i suoi "Aforismi dei Mādhyamika" (Mādhyamikasūtra).
Il Mahāyāna e il primato del sanscrito. - Aśvaghosa e Nāgārjuna scrivono in sancrito, che s'avvia a diventare la lingua franca letteraria dell'India, altra importante conseguenza del trasferimento dell'egemonia da Pāṭaliputta a Takṣaśila (Τάξιλα). Dall'età di Aśoka a Kaniṣka le iscrizioni dedicatorie o commemorative, sparse per tutta l'India settentrionale, ricordano quasi esclusivamente giaina o buddhisti. Più di tre quarti dei nomi sono di buddhisti e la maggior parte dei rimanenti di giaina. Dal sec. II in poi le epigrafi sono sempre più ricche di sanscritismi e compaiono le prime iscrizioni in sanscrito puro. Inoltre i brahmani, i loro dei, i loro sacrifizî sono rammentati sempre più spesso finché, nel sec. V, tre quarti dei nomi son di brahmani e la maggior parte dei rimanenti di giaina. Insieme col linguaggio mutano le credenze. L'originaria dottrina di Gotama, prevalente nell'India settentrionale fino a Kaniṣka, si trasforma a poco a poco in una religione d'amore. Già Aśoka aveva dato un contenuto pratico alla mettā buddhistica. Dopo di lui la virtù della benevolenza e della compassione tendono a prendere il sopravvento. Per lenire l'altrui dolore il "predestinato alla chiariveggenza" (bodhisattva) rinuncia temporaneamente al nirvāṇa e fa voto di restare nel mondo per più secoli che non siano i granelli di sabbia di un milione di fiumi grandi come il Gange. Praticando le virtù perfette, egli salirà di gradino in gradino fino alla chiaroveggenza senza bisogno di abbracciare la vita monastica. Non fu il Buddha quasi sempre uomo di mondo nelle sue passate esistenze, votate alla carità e al sacrificio? Imitare il Buddha per farsi eguale a lui, sia pure con secolare travaglio, ecco la nuova meta. Il premio, eternamente vivere e amare sulla terra e nel cielo. La devozione ai grandi bodhisattva, tra i quali primeggia Avalokiteśvara (v.), impetra la rigenerazione nella terra beata ove regna Amitābha, il Buddha celeste di cui Gotama fu la manifestazione sensibile. Quale contributo abbiano portato alla formazione di questa dottrina i barbari invasori dell'India nord-occidentale, pieni di quella sete di vivere che la disciplina monastica mirava ad estinguere, non è dato determinare. Ma è probabile ch'essi abbiano affrettato quel rinnovamento (altri potrebbe dire deterioramento) che portò il buddhismo a trionfare, fuori dei suoi paesi d'origine, fin nell'Estremo Oriente (per cui v. oltre).
Decadenza del Buddhismo in India. - Dal sec. VII in poi l'antica Comunità, fiorente a Ceylon, perdette continuamente terreno nell'India continentale finché ebbe dalla concorrenza vittoriosa dei cenobî brahmanici (sec. VIII-IX) l'ultimo crollo. Ma la favoleggiata "conquista mondiale" di Śańkara (v. śańkarācārya), la quale avrebbe procurato lo sterminio di tutti i buddhisti "dal Himālaya a Ceylonv, ha tutt'al più un significato simbolico, quello del trionfo del monismo idealistico sull'acosmismo Yogācāra (v. mahāyāna). Il buddhismo sopravvisse infatti a Śaṅkara circa sette secoli. Dal Magadha, oggi Berar, e dal Kosala, oggi Oudh, lo estirpò nei secoli XII e XIII il fanatismo musulmano, che distrusse, nel suo furore iconoclasta, gli ultimi conventi. Ma nel Kashmīr si mantenne in vita fino al 1340; nel Bengala orientale e nell'Orissa fino al sec. XVI. Del Mahāyāna sopravvissero soltanto le dottrine mistiche e le pratiche devote, che si vennero sempre più adattando alle credenze e alle superstizioni popolari fino a confondersi col śivaismo e col śaktismo. Uscito dal politeismo e dalla magia, il pensiero filosofico-religioso tornò coi Tantra (v.) a sommergersi nell'idolatria e nella magia. Da allora dovremo cercare l'antica dottrina (Hīnayāna) a Ceylon, in Birmania, nel Siam, nella Cambogia, nell'Annam; la nuova (Mahāyāna) nel Nepal, nel Bhutān, nel Sikkim, nel Tibet, nella Mongolia, nella Cina, nella Corea, nella Manciuria, nel Giappone, a Giava e a Sumatra. Nella patria di Gotama ogni luce di spirituale chiaroveggenza si spense.
Fonti (cfr. anche quelle ricordate s. v. buddha): A) Fonti pāli: Vinayapiṭaka, ed. Oldenberg, Londra 1879-1883; trad. del Mahā- e Cullavagga, in S(acred) B(ooks of the) E(ast), XIII, XVII, XX; Nikāya: Dīgha-, ed. della P(ali) T(ext) S(ociety), parzialmente trad. da T. W. e C. A. F. Rhys Davids, Dialogues of the Buddha, I-III, Londra 1899-1923 e dal Franke, Dīghanikāya, Gottinga-Lipsia 1913; Majjhima-, ed. PTS, completamente trad. dal Neumann, Die Reden Gotamo Buddhos, Lipsia 1896-1902 e incompl. dal Neumann e De Lorenzo, I discorsi di Gotamo Buddho, voll. 2, Bari 1907, 1922; Saṃyutta-, ed. PTS, con la trad. incompl. di Mrs. Rhys Davids, The Book of the Kindred Sayings, I-III, ed. PTS, 1907-1925; Anguttara-, ed. PTS, compl. trad. dal bhikkhu Nyānatiloka, Die Reden des Buddha, I-V, Monaco 1922-23; Dhammapada, Suttaniptāa, ed. PTS, trad. dal Rhys Davids, in SBE, X, e dal Pasolini, Testi di morale buddistica, Lanciano 1912; Itivuttaka, ed. PTS, trad. dal Moore, Sayings of Buddha, New York 1908; Kathāvatthu, ed. PTS, con la trad. di Shwe Zan Aung e Mrs. Rhys Davids, Points of Controversy, PTS, 1915; Milindapañho, ed. Trenckner, Londra 1880, trad. dal Rhys Davids, in SBE, XXXV, XXXVI.
B) Fonti Sanscrite: Bṛhadāranyaka-upaniṣat, Poona 1902, trad. da F. Belloni-Filippi, Due Upaniṣad, Lanciano 1912; Chāndogya-upaniṣat, ed. e trad. dal Böhtlingk, Lipsia 1889; Vedāntasāra, ed. e trad. dal Böhtlingk, Sanskrit-Chrestomnthie, 3ª ed., Lipsia 1909, p. 287 segg.
Bibl.: Origini: H. Jacobi, Der Ursprung des Buddhismus aus dem Sāṃkhya-Yoga, in Nachr. v. d. königl. Geselslchaft der Wissensch. zu Göttingen (Phil. hist. Kl.), 1896; H. Oldenberg, Die Lehre der Upanishaden u. die Anfänge des Buddhismus, Gottinga 1915. - Storia e letteratura: S. Julien, Voyages des Pèlerins Bouddhistes, I, Vita; II, III, Memorie di Hiouentsang, Parigi 1853-58; J. Legge, A record of Buddhistic Kingdoms (by Fa-hien), Oxford 1886; J. Takakusu, A Record of the buddhist religion (by I-tsing), Oxford 1896; T. W. Rhys Davids, Buddhism, New York-Londra 1896; Mrs. Rhys Davids, Notes on Early Economic Conditions in Northern India, in Journal of the Royal Asiatic Society of Great Britain and Ireland, XXXIII, pp. 859-888; M. Winternitz, Geschichte der ind. Litteratur, II, Die buddh. Litteratur, Lipsia 1920. - Religione: F. Köppen, Die Religion des Buddha, voll. 2, Berlino 1857-59 (tuttora insuperato per quel che riguarda il lamaismo); R. O. Franke, Die Buddhalehre in ihrer erreichbar-ältesten Gestalt (im Dīghanikāya), in Zeitschrift der deutschen morgenländischen Gesellschaft, LXIX, pp. 455-490; LXXI, pp. 50-98; M. Walleser, Die Sekten des alten Buddhismus, Heidelberg 1926; J. P. Minayeff, Recherches sur le Bouddhisme, Parigi 1894. - Filosofia: Mrs. Rhys Davids, Buddhist Manual of Psychological Ethics, Londra 1900; Buddhist Psychology, supplementary chapters, Londra 1924; Compendium of Philosophy, PTS, Londra 1910; F. O. Schrader, Über den Stand der indisch. Philosophie zur Zeit Mahaviras und Buddhas, Strasburgo 1902; M. Walleser, Die philos. Grundlage des älteren Buddhismus, Heidelberg 1904; L. De La Vallée Poussin, Bouddhisme, Parigi 1909; id., The way to Nirvāṇa, Cambridge 1917; id., Nirvāna, Parigi 1925; id., La morale bouddhique, Parigi 1927; Th. Stcherbatsky, The central conception of Buddhism, Londra 1923; G. Tucci, Il Buddhismo, Foligno 1926; F. Belloni-Filippi, La dottrina di Gotama Buddha, Lanciano 1927.
Il Buddhismo nell'Asia Centrale e Orientale.
Lo sviluppo del buddhismo nei varî stati dell'Asia Centrale e Orientale, è degno di particolare rilievo, perché in essi è ancora vivo e forma parte essenziale della loro storia e della loro civiltà.
Birmania. - Secondo gli annali birmani, nel 388 d. C. il religioso BoudhagaVtha (Buddhagosa) avrebbe recato da Ceylon in Birmania una copia delle scritture buddhistiche, e sta di fatto che il buddhismo dovette penetrare in Birmania nei primi secoli dell'era volgare e formò l'elemento sostanziale della sua civiltà.
Ancor oggi, ogni villaggio, ogni casale ha un tempio, con almeno un religioso residente. Qui è la scuola ove egli insegna lettura, scrittura, rudimenti di lingua pāli in caratteri birmani ai hambini dai nove anni in su. I monaci sono amati e stimati, e gli allievi possono restare nei conventi senza diventare novizî. Dai dodici ai quindici anni tutti diventano religiosi e pronunciano i voti. I religiosi buddhisti, vestiti di color giallo, sono stati chiamati dai Portoghesi talapoini dal nome del ventaglio di foglie di palma (pāli talāpat "foglia di palma") adoperato dai religiosi buddhisti. I Birmani chiamano i religiosi buddhisti Ponghi (Pongí) ovvero rahan, santi. I conventi e i monasteri sono ricchissimi, generalmente costruiti con legno di teak. Caratteristici sono i dagoba con le loro spire spesso dorate, che emergono innumerevoli dal fondo della vegetazione.
Il buddhismo ha assorbito le altre religioni indigene della Birmania; ma se per questo ha subito alterazioni formali, è tuttavia penetrato profondamente nell'animo del popolo.
Indocina. - Gli antichi stati di Fu-nan e di Chen-la (comprendenti l'attuale Cambodge, il Laos, la Cocincina), l'antica civilta Khmer, e nell'Annam la civiltà Čam, già nei primi secoli dell'era volgare avevano relazioni con l'India. Col bramanesimo era penetrato anche il buddhismo. Nel sec. V d. C. esso vi era già fortemente stabilito. Nel 482 d. C. un monaco buddhista era in viaggio come ambasciatore in Cina. Ma le vicende storiche hanno quasi interamente fatto sparire queste civiltà, di cui rimangono gli splendidi monumenti di Angkor-Vat e numerose iscrizioni. Fino al secolo scorso, la scrittura cambogiana era la scrittura dei libri sacri buddhisti dello stato più vivo e più recente, il Siam.
Siam. - Nel 1781 il re che fondò la città di Bangkok fece preparare un'edizione siamese del canone buddhista, che servì di base a quella pubblicata dal re del Siam nel 1894, nella quale, abbandonati i caratteri cambogiani, il Tripiṭaka veniva per la prima volta pubblicato in lingua pāli e in caratteri siamesi, tenendo conto dei testi birmani, singalesi e di quelli pubblicati dalla Pāli Text Society. Simili scambî per completare e correggere il canone buddhista erano già avvenuti nei secoli precedenti.
In questi ultimi decennî di rinascita politica e sociale del Siam, ai testi pāli stanno succedendo accurate traduzioni, esposizioni e commenti in lingua siamese.
Anche nel Siam tutti i cittadini passano nei conventi un breve periodo per completare la loro istruzione religiosa. Il buddhismo ha pervaso tutta la nazione. Le leggende buddhiste delle esistenze precedenti del Buddha formano oggetto di drammi e rappresentazioni sacre, più popolare di tutte quella del Vessantara jātaka.
Buddhismo tibetano, o lamaismo. - Il lamaismo (v.), così detto dal nome tibetano dei religiosi buddhisti, non predomina soltanto nel Tibet, ma si estende nei piccoli stati del Ladak, Nepal, Bhotan, Sikkhim, fino in Mongolia e nella Cina del N. e dell'O. Esso è il ramo del buddhismo che ha più conservato la dottrina del Māhayāna. Maravigliosi per l'architettura gli edifici sacri, i conventi, gli stūpa, che i Tibetani chiamano chorten (v. tibet; sul pantheon del lamaismo, v. lamaismo).
Cina. - Non si conosce la data esatta dell'introduzione del buddhismo in Cina, ma è probabile che risalga ai primi anni dell'era volgare (Chavannes, in T'oung Pao, 1905): la narrazione dell'imperatore Ming che in seguito ad un sogno, nel 61 o nel 64 d. C., avrebbe chiamato in Cina dei monaci buddhisti, è leggendaria, come è stato dimostrato da H. Maspero. Sta di fatto che nel sec. II d. C. il buddhismo era in pieno sviluppo.
Nei primi quattro secoli il buddhismo si propagò per opera di missionarî provenienti dall'Occidente, persiani, indiani, indosciti, sogdiani, afgani, e da altri popoli dell'Asia Centrale. Tra essi emerge il principe arsacide An Shih-Kao, che venne a Lo-yang (Ho-nanfu) nel 144 d. C., tradusse molti testi, introdusse in Cina il culto di Amida e fondò una scuola. Ricordiamo anche la singolare figura di Bodhidharma (v.). Ma ben presto numerosi religiosi cinesi sentirono il bisogno di andare in cerca della legge in Occidente. I più celebri, Fa-hsien (399-414), Hsüan-tsang (629-645), I-tsing (671-695), hanno lasciato importanti relazioni. A poco a poco i testi tradotti crebbero di numero, e nuove traduzioni più corrette, commenti e opere originali si sostituirono o si aggiunsero alle precedenti. Con la diffusione del buddhismo si svilupparono, con varia fortuna, le numerose scuole più o meno indipendenti in cui è suddiviso il clero buddhista.
La scoperta della stampa, fin dai suoi inizî, contribuì potentemente a rendere le collezioni dei libri buddhisti cinesi fonti preziose per lo studio del buddhismo. Nel 972 d. C. fu stampata la prima edizione del Tripiṭaka dal primo imperatore della dinastia Sung. Una seconda edizione fu pubblicata da Qūbilai, il fondatore della dinastia mongola nel 1285. Una terza edizione, nel 1368-98, fu ordinata dal fondatore della dinastia Ming. Nel 1403-24 appare una nuova edizione imperiale, a cui seguono numerose edizioni.
Corea. - Il religioso buddhista Sun-do introdusse in Corea, nel 372 d. C., immagini buddhiste e un libro buddhista Pul-gyung (cor. Pul "Buddha" e gyung "libro"). Nel 375 d. C. due grandi conventi buddhisti furono costruiti nella capitale del regno di Ko-gu-ryu, uno dei tre stati in cui era divisa la Corea. Nel 392 il re di quello stato ordinò che tutto il popolo abbracciasse il buddhismo. Nello stato di Silla (cin. Hsin-lo) il buddhismo entrò nei primi anni del secolo V. Nel 995 d. C. si stampò in Corea il Tripiṭaka cinese in 6500 fascicoli. Nel 1130 d. C. la Corea aveva 30.000 religiosi buddhisti. Dopo l'annessione al Giappone nurnerose missioni giapponesi cercano di far rifiorire il buddhismo.
Giappone. - Il buddhismo fu introdotto nel Giappone da tre monaci inviati dalla Corea nel 552 d. C. Nel sec. VI si sviluppò rapidamente tronfando sulle opposizioni che incontrava nella religione nazionale, lo shintoismo (v.), e conquistandosi accanto a questo un posto che da allora in poi sempre mantenne. Il buddhismo giapponese rassomiglia a quello cinese, avendo avuto con esso continui contatti, ma ha assunto presto forme originali. Le numerose scuole cinesi in Giappone si estesero e si suddivisero giungendo in totale a una trentina.
Secondo una statistica del 1925, pubblicata dal comitato del Congresso buddhistico dell'Asia Orientale (Nippon Bukkyō yōran), le suddivisioni delle sette buddhiste ammontano a 58, possedenti 71.114 templi e monasteri, 5893 luoghi di predicazione e insegnamento, 35.518 cappelle. I religiosi si dividono in 53.949 abati, 75.872 religiosi atti a predicare, 56.136 religiosi inferiori. Nel Giappone 31.000.000 di fedeli sono iscritti per contribuzioni regolari e 16.000.000 sono contributori occasionali.
Nel 1869, dopo la Restaurazione imperiale, il buddhismo declinò alquanto di fronte all'ondata delle idee venute dall'Europa e alla rinascita dello shintoismo, ma sembra aver preso un nuovo sviluppo nei primi anni del sec. XX. Nel Giappone gli studî sul buddhismo fervono oggi più che in qualunque altro paese, e numerosi missionarî giapponesi percorrono la Cina e cercano di far rifiorire in essa i conventi buddhisti; non solo la dottrina, ma la disciplina monastica, il rituale, sono studiati in numerose opere, pubblicate da una ventina di case editrici. Si pubblicano ora in Giappone oltre cinquanta periodici buddhisti. Un centinaio di corsi di sanscrito, pāli, tibetano, di buddhismo, di filosofia indiana, sono svolti ogni anno nelle università imperiali di Tōkyō, Kyōto, Sendai, e nelle numerose università libere. Molte società contribuiscono alla diffusione degli studî buddhistici.
Bibl.: Sul buddhismo nell'Estremo Oriente si hanno sguardi d'insieme in H. Hackmann, Buddhism as a religion, Londra 1910, pp. 126-199; id., Der Buddhismus als Chinesische Philosophie, in Chinesische Philosophie, Monaco 1927, pp. 237-311. - Sul buddhismo in Birmania v.: R. F. St. Andrew St. John Thatone, The Cradle of Buddhism in Burma, Londra 1872, II, p. 180; III, p. 135; V. Sangermano, La relazione del regno Barmano, Roma 1833; P. Bigandet, The life and legend of Gaudama, the Buddha of the Burmese, Rangoon 1858, trad. francese, Parigi 1878: più completa la 3ª ed. in 2 voll., Londra 1880. - Sul buddhismo nell'Indocina: Aymonier, Le Cambodge, III, p. 493; Senart, in Revue Archéologique, 1833, pp. 182-192; Le Buddhisme au Cambodge, Parigi 1899; si vedano inoltre i numersi studî di G. Coedès, L. Finot, H. Maspero, P. Pelliot, H. Parmentier, ecc., in Bull. de l'École Française d'Extrême Orient, Hanoi 1902 segg. - Sul buddhismo nel Siam dànno un'impressione d'insieme: H. Alabaster, The Wheel of the Law, Londra 1871; G. E. Gerini, Chula-Kanta-mangala, or the Tonsure ceremony as performed in Siam, Bangkok 1895, e altre numerose pubblicazioni dello stesso autore: cfr. Riv. di Studi orientali, VI (1913), p. 927; O. Frankfurter, Beiträge zur Geschichte und Kultur Siams, Berlino 1922; in Mitt. des Semin. für oriental. Sprachen, e numerosi articoli nel Journal of the Siam Society, Bangkok. Oltre all'edizione del Tripiṭaka in lingua pāli, pubblicata nel 1894 e descritta da R. Chalmers nel Journ. of the Roy. Asiat. Society, 1898, pp. 1-10, escono in lingua siamese, ogni anno, centinaia di volumi (tra cui sono notevoli quelli del principe Damrong). - Sul buddhismo nel Tibet: C. Puini, Il Tibet, secondo la relazione del P. Desideri, Roma 1904; Schlagintweit, Le Bouddhisme au Tibet, trad. P. Milloué. Parigi 1881; L.A. Waddell, The Buddhism of Tibet or Lamaism, Londra 1895; G. Huth, Geschichte der Buddhismus in der Mongolei, Strasburgo 1893, 1896; A. Grünwedel, Mythologie du Bouddhisme au Tibet et en Mongolie, Parigi 1900; P. Bacot, Milarépa, Parigi 1925 (v. anche lamaismo e tibet). - Sul buddhismo in Corea: M. Courant, Sommaire et historique des cultes coréens, T'oung Pao 1900, pp. 295-326; J. S. Gale, The influence of China upon Korea, in Trans. of the Korean branch of the Royal Asiatic Society, Seul 1900, 1902; Frederich Starr, Korean Buddhism history, Boston 1918. - Sul buddhismo in Cina: E. J. Eitel, Handbook for the student of Chinese Buddhism, Londra 1870; C. Puini, Il Buddha, Confucio e Laotse, Firenze 1885; H. Hackmann, Die Schulen der chinesischen Buddhismus, in Mitt. des Sem. für or. Sprachen, Berlino 1911, p. 236; Lévy e E. Chavannes, Les seize Arhat protecteurs de la Loi, in Journ. Asiat., 1916, pp. 5-50, 189-304; L. Wieger, Bouddhisme Chinois, voll. 2, Hokienfou 1910 e 1913; L. Wieger, Histoire des croyances religieuses et des opinions philosphiques en Chine, 2ª ed., Hien-hien 1922; R. Grousset, Sur les traces du Bouddha, Parigi 1929, viva e commossa esposizione del buddhismo all'epoca dei T'ang (618-903 d. C.).
Innumerevoli sono i testi buddhisti e le opere sul buddhismo stampate in Cina dalle origini della stampa ai giorni nostri. Come guida a queste pubblicazioni: Bunyū Nanijo, A Catalogue of the Chinese Translations of the Buddhist Tripitaka, Oxford 1883 (nuova edizione con aggiunte, Tokio 1930); P. Bagchi, Le Canon Bouddhiste en Chine, les traducteurs et les traductions, Parigi 1926; cfr. P. Demieville, Versions chinoises du Milinda-panha, in Bull. de l'Éc. franç. d'Extr. Orient, XXIV (1924), pp. 181-218.
Una nuova grande edizione del Tripitaka cinese, riveduta e collazionata sui trattati originali da fonti cinesi, coreane e giappones, curata da J. Takakusu e K. Watanabe, che comprende 2656 opere in 12.541 capitoli è pubblicata in Tokio dalla "Società per la pubblicazione dell'edizione Taishō del Tripiṭaka" (Taisho Issai-kyō), Tokio 1926; Sylvain Lévi e J. Takakusu, Hōbōgirin (Dictionnaire encyclopédique du Bouddhisme, d'après les sources chinoises et japonaises), Tokio 1929. - Sul buddhismo giapponese, oltre alle opere citate, si veda Hans Haas, Annalen des iapanischen Buddhismus, in Mitt. des deutsch. Gesells. Ostasiens, XI (1908), pp. 281-388; A. Lloyd, The Creed of half Japan, historical sketches of Japanese Buddhism, Londra 1911. Numerosi libri di Lafcadio Hearn, da adoperare con riserva, dànno una pittura della vita religiosa del buddhismo in Giappone; S. Lévi, Matériaux japonais pour l'étude du Bouddhisme, Tokio 1927; M. Anesaki, History of Japanese Religion, Londra 1930.