buddismo
Religione fondata da Siddhārtha Gautama, detto il Buddha («risvegliato») nell’India nordorientale alcuni secoli prima della nostra era e poi largamente propagatasi in Asia meridionale, centrale, orientale e del Sud-Est. In questa voce verrà presa in considerazione solo la rilevanza filosofica del b.: le scuole legate al b. (➔ Abhidharma, Madhyamaka, Mahāyāna, Pramāṇavāda, Theravāda, Yogācāra) sono state infatti centrali nel dibattito filosofico dell’India antica e classica (fino all’estinzione del b. in India, a partire dall’11° sec.) e poi di Cina, Corea e Giappone (➔ Zen).
Fondamentale nell’elaborazione del Buddha è l’inevitabilità di duḥkha. Questo termine viene in genere tradotto in lingue occidentali con «dolore» o «sofferenza», ma recenti studi ne hanno dimostrato la portata molto più amplia. Duḥkha andrebbe perciò inteso come l’insoddisfazione latente in ogni istante della vita umana, rispetto alla quale la piena felicità è solo una momentanea interruzione. Anche nelle condizioni di vita più favorevoli (come una rinascita divina), duḥkha è presente se non altro come l’ansietà relativa alla fine dei piaceri presenti. La prima delle quattro «nobili verità» enunciate dal Buddha, che sono alla base del suo insegnamento e di tutta la filosofia buddista successiva, è perciò la verità di duḥkha. La seconda nobile verità consiste nella presa di coscienza di come duḥkha sia un prodotto di determinate cause. Di conseguenza, la terza nobile verità insegna che al venir meno delle cause corrisponde anche il superamento di duḥkha. Infine, la quarta nobile verità consiste nel cammino che porta al superamento di duḥkha, ossia l’ottuplice sentiero buddista. Appare così evidente come il b. consideri essenziale la comprensione dei nessi causali (comprensione che per essere tale non può limitarsi al suo aspetto intellettuale e dev’essere invece anche realizzata meditativamente). Gran parte di duḥkha è infatti legata a un’errata valutazione dei rapporti di causa ed effetto che sono sottesi alla nostra esistenza. In partic., l’errata concezione di un’individualità distinta e costante nel tempo e l’attaccamento a questa è la principale causa di duḥkha. Il Buddha si oppone perciò alle tendenze sostanzialistiche che riconoscono un sé distinto dal resto del mondo proponendo invece un’idea di persona sempre in divenire, esistente cioè solo come parte di un flusso di cause ed effetti. Cause ed effetti sono identificate con azioni, ma anche inclinazioni mentali quali il desiderio o l’avversione, per cui a cause positive corrispondono effetti positivi e viceversa ed è quindi sempre possibile ottenere risultati positivi introducendo cause positive, quali la pratica buddista. Il flusso non si interrompe nemmeno alla scomparsa del corpo, giacché i semi karmici accumulati nella vita precedente non possono non dar luogo a ulteriori effetti e, quindi, a una nuova nascita. Non esiste però un individuo distinto che rinasce, bensì solo una serie di cause che dà luogo a una serie di effetti. La continuità cui noi diamo erroneamente il nome di ‘io’ non è altro che tale connessione causale.
Già il b. canonico basa la propria ontologia sul presupposto per cui gli oggetti composti godono di un’esistenza condizionata, in quanto esistono solo in dipendenza dalle parti che li compongono. Celebre in questo senso è l’esempio del Milindapañha («Le domande di Menandro», un testo appartenente allo strato più recente del Canone buddista nel quale il re greco Menandro, in pāli Milinda, interroga il monaco Nāgasena), in cui Nāgasena chiede provocatoriamente in cosa consista un carro e in che senso possa esser detto esistere al di là e al di sopra delle parti di cui è composto (ruote, pianale, sponde, ecc.). Per giungere agli elementi realmente esistenti bisogna quindi analizzare gli oggetti composti nelle loro parti. Non fa eccezione nemmeno il sé, che è parimenti una realtà convenzionale, composta da elementi, gli skandha (➔ Theravāda). Le scuole afferenti al b. elaborano in merito l’opposizione fra ciò che esiste in senso convenzionale (gli oggetti e i soggetti dell’esperienza ordinaria, la cui esistenza è condizionata dalle parti che li compongono e legata alla convenzione mondana che li considera esistenti) e ciò che esiste in senso assoluto. La tendenza analitica porta però a individuare elementi sempre più semplici e dalle ‘ruote’ si passa agli atomi che le compongono e/o agli elementi minimi e istantanei della nostra percezione, detti dharma (➔ Abhidharma). In generale, ben presente a ogni stadio di tale analisi è l’idea della necessaria connessione causale fra i vari elementi. Viceversa, viene rifiutato ogni tentativo di distinguere arbitrariamente sostanze solide indipendenti al di fuori del darsi fenomenico di un singolo evento. Per la maggioranza delle scuole, la conoscenza di un colore, per es., non va descritta a partire dai tre fattori di soggetto conoscente, atto conoscitivo e oggetto conosciuto, bensì come un singolo evento istantaneo all’interno del quale tali elementi possono essere distinti solo a posteriori mediante un’operazione concettuale (➔ vikalpa). Nāgārjuna, il filosofo principale esponente del b. Madhyamaka, spinge l’analisi ulteriormente avanti, rifiutando del tutto l’esistenza di elementi indipendenti e sostenendo perciò che ogni descrizione del mondo non possa che essere provvisoria perché condizionata.
Le scuole buddiste, soprattutto la scuola Pramāṇavāda, hanno avuto un ruolo centrale e propulsivo nello sviluppo di logica ed epistemologia in India. I più antichi elementi di epistemologia, rintracciabili nei trattati buddisti di dialettica, sottintendono l’accettazione di quattro mezzi di valida conoscenza (pramāṇa), ossia percezione diretta (pratyakṣa), inferenza (anumāna), testimonianza autorevole (śabda o āgama) e analogia. Il loro numero e la loro natura sembrano derivare direttamente dal Nyāya e in effetti anche in questi trattati l’inferenza viene descritta come formata da cinque membri. Proprio in ambito buddista, presumibilmente intorno al 5° sec., avviene la riduzione a tre dei membri dell’inferenza (➔ anumāna). Nello stesso periodo, Asaṅga, fra i principali esponenti della scuola Yogācāra, riformula l’elenco dei mezzi di valida conoscenza, riducendoli ai primi tre. Un’ulteriore riduzione alle sole percezione diretta e inferenza verrà attuata poco dopo dall’altra figura centrale dello Yogācāra, Vasubandhu, e rimar- rà la regola per la riflessione buddista successiva. Dati i presupposti ontologici del b., può apparire problematico chiarire quale sia l’oggetto della percezione diretta e in effetti risposte diverse a questa domanda sono state offerte da vari pensatori durante la storia del buddismo. Tutti concordano nell’opporre percezione e inferenza in quanto la prima permette una conoscenza diretta della realtà mentre la seconda procede concettualizzando (➔ vikalpa) i dati forniti dalla prima. La percezione è quindi per natura non erronea poiché si limita a cogliere la realtà, mentre errori e concetti complessi intervengono solo successivamente. Tuttavia, se la percezione è per natura non erronea e in grado di cogliere direttamente la realtà, allora essa può cogliere solo gli elementi minimi che la compongono, gli unici realmente esistenti e quindi non coglie gli oggetti compositi della nostra esperienza quotidiana. Un vaso, per es., non sarebbe conosciuto tramite percezione, bensì sarebbe il risultato della sovraimposizione dei concetti di ‘sostanza unica’, ecc. sui semplici dati percettivi (colore, ecc.). Un problema simile riguarda il linguaggio, dal momento che questo si riferisce a oggetti compositi, anzi a livelli di generalizzazione ulteriore, quali gli universali. In partic. la scuola Pramāṇavāda si interroga perciò su come la comunicazione linguistica possa risultare, ciononostante, efficace.
Gli studi sul Canone buddista tendono a rintracciare nei testi canonici più antichi descrizioni del Buddha come di un uomo comune che abbia però pienamente realizzato le quattro nobili verità e possa così vedere la realtà senza illusioni. Tuttavia, già nel Canone è presente, forse in strati più recenti, l’opposta tendenza consistente nel considerare il Buddha un essere straordinario, dotato di facoltà sovrannaturali. La discussione si svilupperà nei secoli come l’opposizione fra chi ritiene il risveglio (bodhi) semplicemente come la fine dei condizionamenti (➔ Theravāda) e chi invece lo considera una qualità positiva che debba essere raggiunta. In partic., all’interno della scuola Yogācāra andò delineandosi l’idea che il seme della bodhi (tathāgatagarbha) sia presente in ogni essere senziente (ovviamente senza distinzione fra divinità, uomini e animali, mentre il problema della capacità di sentire delle piante nel b. rimane dibattuto). In tal senso, ogni essere senziente sarebbe un buddha in potenza, anche se tale qualità potrebbe essere più o meno oscurata in lui. La stessa linea speculativa porta alcuni autori a sostenere che ogni essere senziente, in quanto buddha in potenza, sia parte dell’unico Buddha manifestatosi storicamente come Siddhārtha Gautama. Dati i presupposti del b., che nega l’idea di un sé personale, tale Buddha non va inteso come un individuo personale, bensì come un atto di consapevolezza di cui non è possibile specificare i confini temporali giacché esso è assolutamente reale e quindi al di là dell’illusoria estensione spaziotemporale. Parallela è la discussione intorno alla natura del nirvāṇa («estinzione»), circa il quale ci si chiede se sia solo la fine di duḥkha o abbia qualità specifiche. In quest’ultimo caso, che trova i suoi sostenitori soprattutto nella scuola Yogācāra, sarebbero possibili diversi livelli di liberazione e la liberazione cui possono pervenire i seguaci delle scuole del b. non Mahāyāna sarebbe di tipo inferiore.