BUFFONE (fr. bouffon, fou; sp. bufón; ted. Hofnarr, Possenreisser; ingl. buffoon, joker)
Si ritiene che questo vocabolo derivi da buffa, "burla" o "beffa". Così il Sacchetti (Nov. X): "Quanti sono i trastulli di buffoni e diletti che hanno li signori! Per altro non son detti buffoni, se non che sempre dicono buffe". Il vocabolo è certamente onomatopeico, dall'atto di gonfiar le gote, ricevervi degli schiaffi (Ducange) e trarne suoni ridicoli. Altre etimologie proposte sono assai meno convincenti.
I buffoni, cioè coloro che avevano l'ufficio di divertire con i loro lazzi e il loro ridicolo comportamento i sovrani o i signori che li mantenevano, sono esistiti presso molti popoli e sin dall'antichità. Sorvolando su quelli dell'India e dell'Egitto, ricordiamo che i Greci ebbero i μωροί, "folli" e i γελωτοποιοί, "quelli che fanno ridere"; dal primo dei due vocaboli par derivato quello di moriones, che indicò latinamente i buffoni, spesso sostituito da altri vocaboli (scurrae, cinaedi, fatui, parasiti ecc.; cfr. Plinio il G., Ep., IX, 17, 1). Dei buffoni in Roma parlano tra gli altri Marziale (VIII, 13; XII, 94; XIV, 210), Svetonio (Aug., 74), Seneca (Ep. 27); pitture trovate a Pompei confermano la loro testimonianza. Seneca (Ep. 50) narra a Lucilio come la moglie avesse una "buffona" e le noie ch'essa dava; dal che si apprende come le donne potessero servire allo scopo (e donne buffone troveremo anche più tardi). Quando Antonio, dopo la vittoria di Filippi, entrò nella città, aveva al suo seguito uno stuolo di buffoni asiatici. In Roma la rivalità di due buffoni, sotto Augusto, divise la plebe in due fazioni avversarie. Buffoni ebbero Tiberio, Costantino e altri imperatori. Le loro caratteristiche fisiche furono così indicate da Marziale (VI, 39): acuto capite, auribus longis, quae sic moventur ut solent asellorum.
Ma i buffoni cominciano ad assumere speciale importanza solo nel Medioevo: ne troviamo allora presso quasi tutte le corti. Ve ne furono alla corte di Lodovico il Pio e di Filippo II Augusto di Francia (questi, anzi, ebbe a scacciarli, perché soverchiamente importuni, nel 1181). Però il titolo ufficiale di buffone (bouffon en titre) non compare che al principio del sec. XIV, e il primo a portarlo fu Geoffroy, buffone di Filippo V il Lungo. Uno dei primissimi documenti sui buffoni di Francia è una lettera di Carlo V, datata 14 gennaio 1372, ai sindaci e agli scabini di Troyes, città che a quanto pare aveva l'incombenza di fornire i buffoni alla Corte. In essa si legge, tra l'altro:
"....Ores, commes par le trespassement d'icelluy [il buffone Thévenin] la charqe de fol en nostre maison est de faict vacquante, avons ordonné et ordonnons aux bourgeois et vilains de nostre bonne ville de Troyes, qu'ils veuillent pour droict à nous acquis déjà depuis longues années nous bailler un fol de leur cité pour récréer nostre majesté et les seigneurs de nostre palais....".
Fisicamente i buffoni erano non troppo dissimili dal ritratto datone da Marziale. Spesso nani acondroplasici, il volto più o meno deforme, lo sguardo mobilissimo, le labbra atteggiate in grottesche smorfie, saltellanti qua e là sulle gambe mingherline, pronti a tutto subire e tutto osare, secondo le mutevoli circostanze: tali essi ci appaiono dai ritratti e dalle descrizioni dei contemporanei. Rarissimi i buffoni fisicamente proporzionati. Anche intellettualmente, essi erano quasi sempre degl'incompleti, spesso degl'imbecilli o degli epilettoidi. Non mancò, s'intende, qualche eccezione: vi furono buffoni che, ridendo, osarono dire ai signori crude verità; e ve ne furono persino di eroici, come quel Kurz van den Rosen che salvò la vita a Massimiliano I di Germania.
Il modo con cui vestivano i buffoni è notissimo: un berretto a punta con lunghe orecchie ornate di campanellini, una giacchetta tagliata ad angoli acuti; calzoni di foggia usuale. Il colore del vestito era per lo più giallo e verde a strisce, talora giallo e rosso, talora anche di colori diversi (il famoso Triboulet indossava un giustacuore bianco e azzurro). Portavano sempre uno scettro sormontato da un berrettino simile a quello del capo e, inoltre, una spada di legno dorato, o una vescica racchiudente qualche pisello secco, attaccata in cima a un bastoncello.
Troppo lungo sarebbe enumerare in esteso la serie dei buffoni di Francia, dei quali abbiamo le più diffuse notizie. Citeremo dunque soltanto i principali, e tra questi, in primo luogo, Triboulet, nato a Blois verso la fine del sec. XV, morto prima del 1536, buffone di Luigi XII e di Francesco I e protagonista del dramma Le Roi s'amuse di V. Hugo, dal quale trasse F. M. Piave il libretto del Rigoletto per G. Verdi. Triboulet, il cui vero nome era Nicolas Ferrial, è assai lodato dal Rabelais (Pantagruel, III, cap. 37 segg.), ma da altri (Bernier, ad es.) dichiarato un ebete. Il suo miglior ritratto, che compendia assai bene gli attributi del buffone di corte, ci è stato trasmesso da Jean Marot (che fu cameriere e istoriografo di Luigi XII) nella commedia Le Siège de Pesquaire:
Triboulet fut un fol de la teste écorné,
Aussi saige à trente ans que le jour qu'il fut né.
Petit front et gros yeux, nez grand taillé à roste,
Estomac plat et long, haut dos à porter hoste!
Chacun contrefoisoit, chanta, dansa, prescha
Et du tout si plaisant qu'onc homme ne fascha.
È ovvio dire che la figura morale di Triboulet quale ci è stata presentata dall'Hugo, è assolutamente disforme dal carattere del personaggio reale.
A lui successe Brusquet, che ebbe quasi altrettanta fama; buffone di Enrico II, di Francesco II e di Carlo IX, era stato prima guardarobiere, poi cameriere. Cessato il suo incarico alla corte, divenne maitre de la poste a Parigi e arricchì. Fu, secondo il Brantôme, uomo spiritosissimo. Morì, pare di dolore, verso il 1565.
E citiamo ancora Thony, Sibilot, Mathurine, e quel Chicot che il Dumas introdusse come personaggio assai importante nei suoi romanzi Les Quarante-cinq e La Dame de Montsoreau; l'allucinato maître Guillaume, l'attore Angoulevent, e infine l'Angély, ricordato dal Boileau (Sat., I, v. 109 segg.), che fu donato a Luigi XIV dal principe di Condé. Questi fu l'ultimo buffone en titre, poiché la carica venne soppressa nel 1662. I buffoni rimasero tuttavia presso le corti e i castelli, e pare che Maria Antonietta ne abbia avuto uno. La rivoluzione del 1789 segna la loro definitiva scomparsa.
Per quel che riguarda i buffoni italiani, non è sempre facile distinguere quelli effettivamente tali, addetti cioè alla persona di un potente o a una corte, dai giullari, dai cantastorie ecc., girovaghi senza stabile dimora. Il Dallio Ferrarese, il Villano de Ferro, che furono presso Federico II, appartengono più a questa seconda categoria; e così il Guglielmo borsiere dantesco, il Ribi buffone, il Dolcibene o il Passera del Gherminella sacchettiani. Buffone fu invece il famoso Gonnella fiorentino, di cui scrisse il Sacchetti (Nov., 158 e 174), da non confondersi con l'omonimo ricordato dal Bandello (Nov., IV, 24 e 27). Il primo era figlio di un maestro Bernardo bottegaio; trascorse gran parte della sua vita presso Obizzo II marchese di Ferrara. Da quel che ne racconta il Sacchetti dovette essere particolarmente sfrontato e ladro, per quanto più tardi fosse da altri giudicato homo sane industriosus et multarum facetiarum inventor (Manni, Veglie piacevoli, III) e si aggiungesse che, da lui quasi traendo esempio, defluxerunt histriones plurimi iocosis inventionibus Italicos tyrannos exhilarantes. Il secondo fu parimente buffone del duca Borso d'Este.
E così pure si dica di Ercole Albergati, chiamato Zafarano alla corte di Mantova. Benché le cedole della tesoreria aragonese di Napoli lo dichiarino "buffone del marchese di Mantova", pure egli era anche attore e, come oggi si direbbe, direttore di spettacolo non privo d'ingegno.
Ma quel che importa più specialmente notare si è, come acutamente scrissero A. Luzio e R. Renier, che i buffoni italiani differiscono profondamente da quelli francesi e tedeschi. Da noi manca il vero buffone ufficiale, en titre, che riveste le insegne della sua carica. I buffoni delle corti italiane divertono con i loro lazzi o le loro anomalie, ma rivestono anche altri uffici: "sono scalchi, sono corrieri, sono camerieri, e se hanno attitudini più elevate sono attori o financo corrispondenti. Quindi di tali buffoni noi ne troviamo talora parecchi insieme, variamente dotati, in quelle corti che li prediligevano, senza che perciò alcuno di essi abbia sugli altri dignità d'ufficio maggiore".
In Italia i buffoni fiorirono in particolar modo durante il Rinascimento, protetti da pontefici e da signori. Moltissimi i nani, ma non certo i soli a godere il favore dei potenti che si sollazzavano delle loro facezie quasi sempre assai volgari, delle loro beffe talvolta atroci, dei loro atteggiamenti scimmieschi. Di essi scrive il Garzoni (La piazza universale di tutte le professioni del mondo, Venezia 1587, disc. CXIX, p. 816): "Or ne' moderni tempi la buffoneria è salita sì in pregio, che le tavole signorili sono più ingombrate di buffoni che di alcuna specie di virtuosi....."; facendo seguire un lungo eloquentissimo ritratto dei loro modi, "piacevolezze", "bagatelle" e "mocche".
Nell'ampio studio del Luzio e del Renier vengono presi in speciale considerazione i buffoni dei Gonzaga ai tempi d'Isabella d'Este. Al secondo Gonnella, allo Zafarano già ricordati, dovremo aggiungere lo Scocola, detto nei documenti modenesi "soavissimo istrione"; il Mattello, specialista nel dettar lettere bizzarre e nel camuffarsi da frate; il francese Galasso, che gli succedette; il Frittella, il cui vero nome era Giovan Francesco dei Corioni e che fu disputato tra le corti di Ferrara e di Mantova; Diodato, Barone, Meliolo; Monaldo Atanagi buffone della corte d'Urbino, di cui scrisse lo Zannoni; quel fra Serafino di cui scrisse il Cian, e altri molti. Lucrezia Borgia, allorché nel 1502 entrò in Ferrara sposa ad Alfonso d'Este, aveva con sé buffoni spagnoli e italiani.
Importante è una lettera di un oscuro buffone, che firma "Sigismondo barbiro servidore", dalla quale (unico documento che abbiamo su di lui) si apprende come anche i buffoni italiani, almeno in quel tempo, portassero a simiglianza di quelli di Francia gli orecchiuti berretti più sopra descritti.
Tra i buffoni che furono alla corte di Lodovico il Moro ricorderemo soltanto, oltre al Diodato, Tapone, Pernigione e Mariolo.
Non mancarono, in quell'epoca, le donne "buffone". In una lettera del 3 ottobre 1508 del marchese Francesco Gonzaga alla moglie si parla di "femmine giullaresse". Nel sec. XV si conosceva una Paoletta, buffona della regina di Napoli; madamoyselle Savin, detta la folle de la reyne de Navarre, allietava Margherita di Valois (come ci fa sapere il Brantôme) insieme con una Cathelot. E si ricordino la Jardinière di Caterina de' Medici, la Mathurine di Enrico IV, oltre a quelle di Anna Ivanovna e della grande Caterina.
I papi, si è detto, e anche i cardinali, favorirono spesso i buffoni. Ne ebbero Eugenio IV, Alessandro VI, Giulio II (il Proto di Lucca ricordato dal Bandello, Nov., I, 30); ma il più conosciuto fu indubbiamente fra Mariano, al secolo Mariano Fetti. Questo curioso personaggio, su cui tanto si è scritto, nacque nel 1460; esercitò dapprima la professione di barbiere, poi si fece frate e prese gli ordini nel convento di Monte Cavallo. Sotto Leone X, che lo tenne, tra gli altri suoi, carissimo, ebbe l'ufficio di piombatore e quello di buffone. Innumerevoli scherzi, recite e beffe egli combinò, e si disse anche, ma con scarso fondamento, che Leone X scrivesse, per lui ancora vivente, un epitaffio in versi. A ogni modo il Fetti sopravvisse al suo protettore, e rimase alla corte papale anche durante il pontificato di Adriano VI e di Clemente VII, a servizio dei quali, così diversi da Leone X, dovette indubbiamente trovarsi a disagio. Morì nel dicembre 1531.
Tra i buffoni che rallegrarono cardinali, ricorderemo Marco Antonio Sidonio, Francesco del Lago di Garda, Bargiacca, Rosso e altri molti, tutti notissimi al loro tempo.
Più ci si inoltra nel sec. XVI, più scarseggiano le notizie intorno ai buffoni, il cui uso va a mano a mano perdendosi. Ma anche in Italia essi scomparvero totalmente solo verso la fine del sec. XVIII.
Buffoni celebri (è d'uopo trascurare i minori) di altri paesi furono: in Inghilterra Will Summers (uomo di singolare giudizio, secondo il Gazeau) alla corte di Enrico VIII; in Germania Perkeo, buffone dell'elettore Carlo Filippo, effigiato in una statua di legno dipinto che si trova a Heidelberg; in Spagna il belga Paep Theim, buffone di Carlo V. Alla corte di Russia ve ne furono sempre in gran numero.
Oggi i buffoni di un tempo rivivono nei pagliacci del circo equestre o del teatro di varietà, e anche, in parte, negli attori grotteschi del cinematografo: soddisfacendo l'esigenza, in chi li osserva, del sentirsi superiori, che psicologicamente giustifica la loro qualità e la loro fortuna. (V. tavv. XXI e XXII).
Bibl.: Oltre alle opere generali sulla storia del costume medievale, e particolarmente cinquecentesco, si consultino: G. C. Becelli, il Gonnella, canti XII, Verona 1739; M. Dreux du Radier, Recréations historiques, critiques, morales et d'érudition avec histoire des fous en titre d'office, Parigi 1777, voll. 2; K.H. Flögel, Geschichte der Hofnarren, Liegniz e Lipsia 1789; Bibliophile Jacob (pseud. di P. Lacroix), Les deux fous, histoire... précédée d'un essai historiques sur les fous des rois de France, 2ª ed., Parigi 1844; F. Nick, Die Hof- und Volks-Narren, Stoccarda 1861, voll. 2 (rielaborazione del Flögel); A. Canel, Recherches historiques sur les fous des rois de France, Parigi 1873; A. Gazeau, Les bouffons, Parigi 1882; A. Moroni, Buffonerie vecchie e nuove, 1882; A. Gazeau, Les fous et les bouffons, Parigi 1884; A. Bartoli, Buffoni di corte, in Fanfulla della domenica, 1882, n. 11; P. Moreau, Fous et bouffons, 2ª ed., Parigi 1888; A. Graf, Attraverso il Cinquecento, Torino 1888; G. Taormina, Un frate alla corte di Leone X, Palermo 1890; V. Cian, Fra Serafino buffone, in Arch. stor. lombardo, XVIII, p. 407; A. Luzio e R. Renier, Buffoni, nani e schiavi dei Gonzaga ai tempi d'Isabella d'Este, in Nuova Antologia, 16 agosto e 1 settembre 1891; V. Cian, Un buffone del secolo XVI, in La Cultura, n. s., I (1891) n. 20; E. Rodocanachi, Courtisanes et bouffons, Parigi 1894; H. Reich, Der Mimus, Berlino 1903, I, cap. 9, V; B. Soldati, Improvvisatori e buffoni nel Pontano, in Miscell. di studii critici in onore di G. Mazzoni, Firenze 1907, I, p. 326; K. H. Flögel, Geschichte des Grotesk-Komischen, 2ª ed. rifatta da M. Bauer, Monaco 1914; G. Bertoni, in Poesie, leggende, costumanze del medio evo, 2ª ed. Modena 1927, p. 203; M. Catalano, Messer Moschino, in Giornale storico letterario italiano, LXXXVIII, p. 1 segg.; Novelle dell'altromondo, poemetto buffonesco del 1513, a cura di V. Rossi, Bologna 1929.