bullionismo
Termine con cui alcuni economisti indicano la prima fase (sec. 16° e 17°) del mercantilismo (➔), nella quale la ricchezza delle nazioni è identificata con la quantità d’oro e d’argento posseduta, e in cui si moltiplicano perciò i divieti all’esportazione dei metalli e le alterazioni delle monete.
Sviluppatasi soprattutto in Inghilterra e in Spagna, la dottrina bullionista associa direttamente la ricchezza di un Paese alla quantità di metalli preziosi che esso è capace di accumulare in seguito alle transazioni commerciali con l’estero. L’idea di fondo, poi superata dal concetto più moderno di bilancia dei pagamenti (➔), è legata al fatto che un Paese che non è in grado di esportare tanto quanto importa è obbligato a pagare le importazioni in eccesso con moneta direttamente convertibile in metallo prezioso (normalmente oro o argento). Dunque, alla base del b. sta il principio che un eccesso d’importazioni comporti un drenaggio di metalli preziosi e un graduale impoverimento del Paese. La piena comprensione del b., tuttavia, non è possibile se non si considera il periodo storico in cui si sviluppa: l’affermazione degli Stati nazionali e del commercio internazionale, infatti, trasformò radicalmente le economie mondiali a partire dal 16° secolo. Pur non potendo considerare il b. come una vera e propria teoria economica, è possibile immaginarlo come l’espressione del punto di vista della classe sociale di riferimento in un determinato momento storico, rappresentata dai mercanti e dai funzionari di governo degli Stati nazionali appena sorti. Agli occhi di un mercante o di un funzionario pubblico la potenza di uno Stato era rappresentata dai metalli a disposizione per acquistare beni, navi da guerra e mercantili, per pagare eserciti, per finanziare opere pubbliche e per costruire monumenti e residenze. È pertanto naturale immaginare come tutta l’attenzione si concentrasse sull’accumulazione di metalli preziosi e sul divieto di uscita di oro e argento dai confini nazionali.
Il drenaggio di metalli preziosi dovuto alle importazioni e il fenomeno dell’alterazione monetaria, meglio conosciuto come legge di Gresham (➔ Gresham, Thomas), comportarono il graduale decadimento della fortuna del bullionismo. In un sistema monetario, infatti, nel quale il valore nominale delle monete era pari al loro contenuto in oro o in metalli preziosi, era piuttosto comune che le valute in circolazione perdessero parte del metallo prezioso di cui erano composte per effetto dell’uso o per la pratica illegale consistente nel grattare o raschiare i bordi delle monete. Accadeva così che alcune di esse, solitamente quelle in circolazione da più tempo, avessero un valore intrinseco decisamente inferiore al valore nominale. In altri termini, tali monete, considerate meno nobili, continuavano ad avere ufficialmente un valore determinato dal tipo di moneta (oggi diremmo il valore su esse stampato), mentre il loro valore intrinseco, definito dal contenuto in oro, argento o altri metalli preziosi, era decisamente inferiore. Poiché le monete, passando da uno Stato a un altro, venivano fuse e riconiate, le monete cattive potevano dare vita, in virtù della minore quantità di metallo prezioso contenutovi, a nuove valute di valore nominale (e intrinseco) inferiore a quello dalla cui fusione derivavano. Nessuno, pertanto, in seguito a una transazione economica, era disposto ad accettare in pagamento la moneta cattiva, preferendo quella buona, vale a dire valute di nuovo conio e non usurate, con un contenuto di metallo prezioso pari al valore della moneta. Gresham fu tra i primi a osservare e descrivere la tendenza della moneta cosiddetta cattiva a scacciare quella cosiddetta buona, ovvero la tendenza degli operatori economici a disfarsi delle monete cattive, rifiutandole come pagamento, ma cercando di usarle per pagare. La legge di Gresham spiega bene le cause all’origine del fallimento del b., e più in generale dei sistemi monetari bimetallici; tuttavia non coglie la debolezza di fondo dell’approccio bullionista alla teoria economica, rappresentato dal fatto che è teoricamente errata l’associazione tra ricchezza e benessere di un Paese e quantità di metalli preziosi presenti nei suoi forzieri o nei suoi giacimenti.