Abstract
La voce esamina la buona fede in senso soggettivo ed in senso oggettivo. La maggior parte è dedicata a quella buona fede che si identifica con la correttezza e che riceve un fondamento costituzionale nella solidarietà. Lo studio più ampio, quindi, è dedicato alla buona fede in senso oggettivo, ossia al carattere di clausola generale della norma ed alla sua duplice funzione: di fonte eteronoma del regolamento; di controllo di esigibilità delle pretese.
La buona fede nel codice civile è menzionata in sessanta articoli, con una particolare concentrazione nel libro IV; la mala fede in nove, quindi complessivamente il sintagma ricorre circa settanta volte; il significato, tuttavia, non è costante.
In un primo gruppo di casi, come nell’art. 1375 c.c., la buona fede ha lo stesso contenuto di quella dell’art. 1337, sul comportamento delle parti nelle trattative e nella formazione del contratto; dell’art. 1366, sull’interpretazione del contratto; dell’art. 1358, sul comportamento delle parti nella pendenza della condizione; dell’art. 1460, co. 2, c.c., sul criterio per misurare la legittimità del comportamento di chi oppone all’altra parte l’inadempimento. In queste norme la buona fede assume un valore di canone oggettivo sulla base del quale valutare la condotta e la legittimità delle pretese di una parte nei confronti dell’altra. Si tratta di un criterio che sullo sfondo ha un modello di lealtà e di correttezza non codificato in alcuna norma giuridica, ma che si rinviene dai principi generali dell’ordinamento giuridico. La medesima lealtà e correttezza è richiesta alla parte nell’ambito di un processo dall’art. 88 c.p.c.
Affatto diverso è il contenuto della buona fede in tutte le altre norme nelle quali, sullo schema dell’art. 1147 c.c., il legislatore ha inteso riferirsi allo stato soggettivo di chi ignora di ledere un altrui diritto. Nella cennata norma, come del resto in altre, è il possessore che ignora di ledere un diritto altrui; in alcune è il terzo di buona fede che va tutelato (senza pretese di completezza: artt. 129 bis, 563, 1415, 1445, 2038, co. 2, 2379 bis, co. 2, 2901, co. 4, c.c.); in altre è il debitore di buona fede (ad es.: artt. 1189, 2559, co. 1, c.c.); in altre ancora è il creditore di buona fede (ad es.: artt. 1192, 2036, co. 2, 2920); in talune è l’acquirente di buona fede (ad es.: artt. 1155, 1479, co. 1, 2920, 2923 c.c.); in talaltre è il venditore di buona fede (ad es.: artt. 2038, co. 2, 1479, co. 3, c.c.).
In tutte queste ipotesi si tratta di indagare su di uno stato soggettivo, al quale si accompagna la definizione di buona fede in senso soggettivo; nel primo gruppo, invece, si tratta di valutare il comportamento che un contraente corretto e leale avrebbe tenuto nel caso di specie: qui si tratta di buona fede in senso oggettivo o di buona fede contrattuale. Pur essendo molto più numerose le norme che richiedono una valutazione della buona fede in senso soggettivo, a partire dagli anni sessanta del secolo scorso, l’interesse di gran lunga prevalente degli studiosi si è spostato sulle disposizioni in cui la buona fede va intesa in senso oggettivo, quindi diventa sinonimo di correttezza (art. 1175 c.c.). Questo interesse è proceduto di pari passo con la scoperta che proprio in quegli anni i giuristi hanno fatto delle clausole generali al cui genere va catalogata la buona fede in senso oggettivo.
Correttezza e buona fede hanno la medesima area di influenza e sono espressioni del medesimo principio riconducibile al dovere di solidarietà sociale (art. 2 cost.) nell’ambito del diritto delle obbligazioni e dei contratti (Rodotà, S., Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1969, 119 ss., 132 ss.), «discendente dalla appartenenza delle parti ad una medesima comunità» (Natoli, R., L’attuazione del rapporto obbligatorio, in Tratt. Cicu-Messineo, XVI, 1, Milano, 1974, 35). Si deve anzi ritenere che la buona fede contrattuale rientri nel concetto più generale di correttezza, imposto come dovere ad entrambi i soggetti del rapporto obbligatorio dall’art. 1175 c.c.; norma che non esisteva nel codice civile previgente. Qualche volta questo dovere si declina in modo diverso. Penso ad esempio, art. 1195 c.c., nel quale il debitore non può chiedere una diversa imputazione del pagamento eseguito al creditore verso il quale ha più debiti, una volta ricevuta la quietanza, salvo che non vi sia stato «dolo o sorpresa da parte del creditore». Qui il concetto di sorpresa va inteso come sinonimo di condotta sleale e scorretta del creditore, dunque come condotta contraria a buona fede in senso oggettivo.
Nel diritto del lavoro il dovere di fedeltà previsto dall’art. 2105 c.c. è un’applicazione della norma di correttezza e di buona fede (Cass., sez. lav., 8.7.1995, n. 7529, in Mass. giur. lav., 1995, 568).
La buona fede e la correttezza, che talvolta sono sinonimi di ragionevolezza, interessano anche il diritto societario del Libro V c.c.
La clausola generale di buona fede assolve a due funzioni: a) la prima consiste nell’integrare il regolamento contrattuale (art. 1374 c.c.), consentendo all’interprete di introdurre diritti non previsti e talvolta anche in contrasto con quelli indicati; b) la seconda consente all’interprete di limitare l’esercizio di pretese che, pur essendo apparentemente dovute, in concreto realizzerebbero un abuso della posizione di una parte su quella dell’altra.
Dal principio di correttezza e di buona fede unitariamente intesi occorre poi individuare il contenuto precettivo, eventualmente avvalendosi di altri principi. Tra questi c’è il dovere di cooperazione, che consiste principalmente nella condotta richiesta al creditore per consentire al debitore di adempiere, così da liberarsi dall’obbligo (Cass., 30.1.1992, n. 1020, in Mass. Foro it., 1992).
Il dovere di cooperazione, a sua volta, si specifica in ulteriori obblighi, ad es.:
a) nei doveri di avviso e di informazione che il creditore è tenuto ad osservare nell’interesse proprio ed anche del debitore. Si tratta di obblighi che non sono normalmente ricavabili dal tenore letterale del contratto, o che addirittura sono esclusi da questo, tuttavia che entrano nel regolamento proprio mediante la buona fede; b) sul presupposto che la parte è tenuta anche a salvaguardare l’utilità altrui, questa può essere tenuta ad eseguire prestazioni non previste dal regolato fra le parti. Così, nell’imminenza della scadenza del contratto, il conduttore ha l’obbligo di consentire al locatore di far visitare l’immobile ad aspiranti conduttori, purché ciò avvenga nel rispetto del diritto di godere del bene del contraente, ancorché questo diritto non sia espressamente disciplinato contrattualmente (Cass., 7.9.1981, 5147, in Foro it., 1982, I, 2587). Il venditore ha l’obbligo di prestare il proprio consenso per la rettifica del rogito, se sono stati erroneamente indicati dati catastali inesatti (Cass., 5.1.1966, n. 89, in Foro pad., 1966, I, 524); c) in sede di esecuzione, la parte può essere tenuta a modificare il proprio comportamento, adattandosi a modifiche della prestazione o alle modalità dell’esercizio del diritto. Ciò quando la modifica non richieda un apprezzabile sacrificio ed arrechi un vantaggio per l’altra parte (Bianca, C.M., Diritto civile, III, cit., 480). Questo dovere, da leggersi anche quale sanzione per l’abuso di diritto in senso lato, ricorre, ad esempio, nell’ipotesi in cui il debitore debba pagare un soggetto diverso dal creditore, quando ugualmente egli consegua l’effetto liberatorio ed ottenga la cancellazione dell’ipoteca iscritta sul bene acquistato (Cass., 21.2.1983, n. 1308, in Giust. civ., 1983, I, 2379); d) nella tolleranza che il creditore deve osservare nel ricevere una prestazione non esattamente conforme a quella pattuita o eseguita con modalità diverse, se non sia compromessa l’utilità sostanziale derivantegli dall’esecuzione del contratto (Di Majo, A., Delle obbligazioni in generale, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1988, sub art. 1175, 326); e) in un corretto esercizio dei poteri discrezionali della quale dispone in fase di esecuzione della prestazione. Si pensi al caso del debitore che aveva rilasciato in pagamento un assegno circolare, privo della firma di girata, ed al creditore che anziché chiedere l’apposizione spontanea della firma autografa si sia attivato con un precetto (Trib. Bologna, 21.7.1970, in Giur. it., 1971, I, 2, 211).
Gli obblighi di avviso e di informazione in alcuni contratti sono tipizzati (ad es.: artt. 1710, co. 2; 1759, co. 1; 1770, co. 2; 1898; 1913 c.c.); più in generale assumono rilievo come doveri di protezione (Grisi, G., Gli oneri e gli obblighi di informazione, in I contratti in generale, a cura di Alpa, G.-Bessone, M., I, Torino, 1991, 573 ss.).
L’obbligo di informare assume una valenza specifica quando il debitore necessiti di direttive per adempiere all’obbligazione (Luminoso, A., Impossibilità di comunicare con il mandante e obblighi del mandatario, in Giur. comm., 1997, I, 227). Il caso si pone con una certa frequenza nell’ambito degli appalti, quando l’appaltatore viene lasciato a se stesso ed al termine dei lavori il committente contesti l’opera eseguita. Più in generale, questo obbligo aumenta in tutti i settori nei quali la prestazione debba essere resa da un professionista; ed è tanto maggiore, quanto minore è il grado di professionalità dell’altra parte (Cass., 9.1.1997, n. 108, in Arch. civ., 1997, 854).
Il dovere di informare non si estingua con lo scioglimento del contratto per il recesso, se da questo la controparte possa patire un danno. Si pensi all’avvocato che, pur revocato dall’incarico, non informi il cliente della sentenza sfavorevole pubblicata nelle more, da impugnarsi entro il termine di legge.
Il dovere di informazione, peraltro, è soggetto a limiti. L’obbligo di avviso e di comunicazione deve ritenersi strettamente limitato all’esecuzione della prestazione principale. Per di più, una parte non può denunciare la mancata informazione su fatti o su circostanze la cui conoscenza dipenda da una propria attività (App. Bari, 13.7.1990, in Giur. it., 1991, I, 2, 317).
La regola della salvaguardia della posizione dell’altra parte è tipizzata nel contratto di assicurazione: l’art. 1914 c.c. impone all’assicurato di affrontare le spese necessarie per il salvataggio della cosa assicurata. Un’altra tipica forma di salvaguardia è disposta dall’art. 1190 c.c., a proposito del pagamento al creditore incapace, che produce liberazione per il debitore soltanto quando questi dimostri che quel pagamento «è stato rivolto a vantaggio del creditore». Lo stesso dicasi per il criterio da seguire nella fissazione di un congruo termine, secondo l’art. 1183, co. 1, c.c.
Con un diverso linguaggio, questi doveri si possono catalogare come obblighi di protezione (Benatti, F., Osservazioni in tema di «doveri di protezione», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1960, 242 ss.); in ogni modo, questi sono esigibili da una parte verso l’altra, anche se non siano stati oggetto di alcun accordo espresso. Si preserva la prestazione dell’altra parte, quindi l’utilità del contratto, se si custodisce, si conserva e si compiono attività di salvataggio. In taluni casi questi doveri sono tipizzati, altrimenti si ritengono dovuti secondo buona fede. Così, ad esempio, l’albergatore o il ristoratore che accolgono le auto dei propri clienti in propri parcheggi sono tenuti a custodirle, secondo il modello degli artt. 1783 e 1839 c.c.; chi ospita professionalmente la clientela è tenuto ad assicurare la salvaguardia e l’incolumità fisica della persona. In certe situazioni il creditore è tenuto ad evitare al debitore un costo maggiore per l’esecuzione della sua prestazione (artt. 1914 e 1227, co. 2, c.c.). È il caso del conduttore che, pur essendo tenuto in base all’art. 1577 c.c. soltanto ad informare il locatore della necessità di riparazioni sulla cosa, può essere ritenuto inadempiente per non essersi attivato, in esecuzione dell’obbligo di buona fede.
La salvaguardia della posizione dell’altro contraente può essere ottenuta anche con il riserbo.
Naturalmente anche questa specificazione dell’obbligo di buona fede non deve comportare un’attività abnorme o eccessivamente onerosa, tenuto conto delle circostanze, della natura e dell’oggetto del contratto (Cass., 7.8.1990, n. 7987, in Mass. Foro it., 1990). Nella valutazione delle circostanze assume rilievo anche la corrispettività o la commutatività del contratto.
La seconda funzione della buona fede è quella di impedire la realizzazione di pretese che di si tradurrebbero in un abuso del diritto di una parte sull’altra. Pur in mancanza di una norma corrispondente al § 226 BGB, secondo il quale «l’esercizio del diritto è inammissibile se può avere il solo scopo di provocare danno ad altri», a questa funzione è chiamata la correttezza e la buona fede degli artt. 1175 e 1375 c.c., in ambito contrattuale. Nei diversi libri, ci sono norme che richiamano il principio dell’abuso di diritto: si pensi all’art. 330, co. 1, in tema di abuso nell’esercizio dei poteri dell’esercente la potestà, che ne provoca la decadenza; all’art. 833, in tema di divieto di atti di emulazione; all’art. 1438, in tema di minaccia di far valere un diritto «diretta a conseguire vantaggi ingiusti»; all’art. 1993, co. 2, c.c. (che richiama gli artt. 21 e 65 l. camb. e gli artt. 25 e 57 l. ass.), in tema di exceptio doli generalis del debitore verso il creditore portatore del titolo.
Altre norme riflettono il principio del divieto del venire contra factum proprium impiegato, con una certa frequenza, anche in altri ordinamenti di civil law, quale manifestazione dell’exceptio doli generalis: si pensi alle figure di conferma dell’atto nullo negli artt. 590 e 799 c.c.; si pensi anche all’art. 157, co. 3, c.p.c. che vieta alla parte che ha dato causa alla nullità di un atto processuale, o che ha rinunciato a farla valere, di opporla successivamente (Pellizzi, G., Exceptio doli (dir. civile), in Nss.D.I., IV, Torino, 1960, ora in Saggi di diritto commerciale, Milano, 1988, 711). Anche l’art. 3 l. 10.10.1990, n. 287, in tema di abuso di posizione dominante di un’impresa rispetto ad un altra, richiama il concetto di abuso; e pure l’art. 9 l. 18.6.1998, n. 192, rubricato abuso di dipendenza economica, a proposito del contratto di subfornitura (Mariani, P., Abuso di posizione dominante, in Furgiuele, F., a cura di, L’abuso del diritto, Padova, 1998, 305 ss.).
Nella nozione di abuso di diritto convivono sia l’idea del comportamento contrastante con gli scopi propri del diritto soggettivo, sia l’idea del comportamento mosso da motivi non solidali con l’altra parte, quindi, non meritevoli di tutela.
Nata nel diritto romano, ad opera del praetor, l’exceptio doli generalis (o praesentis) costituiva uno strumento processuale nella disponibilità del convenuto, per respingere l’azione dell’attore viziata dal dolo o proposta contra naturalem aequitatem (Torrente, A., Eccezione di dolo, in Enc. dir., XIV, Milano, 1965, 220 ss.). Negli ordinamenti moderni, tanto l’una quanto l’altra sono state tipizzate. Così, ad esempio, appartengono alla prima categoria le eccezioni di dolo in senso stretto: art. 624, per il testamento; artt. 482, 526 e 761, rispettivamente per l’accettazione, la rinuncia e la divisione ereditaria; art. 1195, per l’accettazione della quietanza; artt. 1439 e 1440, per i contratti e gli atti unilaterali ai quali quella disciplina è applicabile secondo l’art. 1324 c.c.; infine, nella disciplina dei singoli contratti, vi sono molte norme che richiamano implicitamente l’antica azione del pretore romano: artt. 1892, 1909, 1975 e 1986 c.c. Appartengono, invece, alla seconda specie la riduzione della penale dell’art. 1384 c.c. e più in generale l’eccezione d’inadempimento contrattuale; la soluti retentio delle obbligazioni naturali; il pagamento al creditore incapace, che deve essere rivolto a suo vantaggio; la compensazione e l’arricchimento senza causa.
Il divieto di agire con raggiri maliziosi, allo scopo di ottenere dall’esecuzione vantaggi contrari al normale senso dell’equità o «al comune giudizio e sentimento circa il dovere di lealtà nei rapporti umani» (Pellizzi, G., Exceptio doli (dir. civile), in Saggi di diritto commerciale, cit., 706), è estendibile anche agli atti unilaterali.
Per privare di azione il contraente in mala fede che, confidando sulla completa mancanza di accessorietà delle garanzie autonome, escuteva la garanzia a prima richiesta e senza eccezioni, i giudici hanno fatto applicazione dell’exceptio doli generalis, in presenza di «una prova pronta e liquida» che rendesse palese lo scopo fraudolento della richiesta avanzata dal garantito. Questo comportamento malizioso del creditore garantito (il committente) è stato fatto rientrare nella violazione della buona fede contrattuale ed ora è consueto trovare decisioni che associno inscindibilmente la mala fede al rimedio dell’exceptio doli, anche in contratti diversi da quello (Cass., 18.3.1991, n. 2890, in Dir. fallim., 1991, II, 236).
Ciò conferma la «interscambiabilità» (Di Majo, A.. Delle obbligazioni in generale, in Comm. Scialoja-Branca, cit., 313), tra i diversi concetti impiegati, quando si tratti di paralizzare gli effetti di un atto dall’apparenza legittimo, ma che ha al fondo l’intento di abusare del proprio diritto con un comportamento malizioso. Addirittura si è affermato che «nel caso di escussione abusiva di una garanzia a prima richiesta, la banca garante ha l’obbligo di sollevare l’exceptio doli» (Trib. Milano, 29.5.1995, in Gius, 1995, 2271). Dal momento che «il garante ha concluso il contratto autonomo di garanzia, quale mandatario del debitore, egli ha l’obbligo, verso quest’ultimo, di opporre detta eccezione e di rifiutare l’adempimento della garanzia» (Trib. Padova, 31.5.1993, in Banca borsa, 1994, II, 285). Con ciò si ripete l’idea che la buona fede comporta l’obbligo di una parte di preservare le ragioni dell’altra.
L’apparenza costituisce un’applicazione implicita della regola della buona fede, che impone di tenere un comportamento leale, come in tutte le ipotesi decise a proposito della rilevanza della società di fatto, sub specie della società apparente (Cass., 12.9.1997, n. 9030, in Mass. Foro it., 1997). Sono molte le norme che hanno tipizzato la regola e gli effetti dell’apparenza: artt. 534, co. 2-3; 535, co. 2; 1152; 1155; 1159 ss.; 1189; 1264; 1396; 1415; 1416; 1445; 1452; 1458, co. 2; 1994; 2038; 2193, co. 1; 2652, nn. 6-9; 2653; 2690, nn. 3-6; 2691 c.c. L’esame non deve essere distratto dal fatto che il debitore che paga al creditore apparente deve essere in buona fede (art. 1189, co. 1, c.c.), poiché questa buona fede in senso soggettivo è un requisito ulteriore rispetto alla situazione di apparenza che si crea in base alle circostanze univoche. Proprio questa situazione di apparenza produce effetto liberatorio e con ciò impedisce all’effettivo creditore di pretendere l’adempimento. In altri termini, sarebbe scorretto che il creditore pretendesse di nuovo il pagamento, in presenza di quelle circostanze.
La disciplina dell’apparenza è sullo sfondo della regola seguita per attribuire efficacia a contratti di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile automobilistica stipulati da imprese illegittimamente autorizzate. Si sostiene che la validità di quei contratti deriva dall’analogia tra l’impresa assicuratrice ed il «funzionario di fatto o apparente. [Gli atti] mantengono la propria validità pur in presenza d’irregolarità nell’investitura e d’inefficacia della nomina del funzionario, stanti la diretta riferibilità degli atti stessi all’ente pubblico e l’esigenza di tutelare coloro che, in buona fede, abbiano avuto rapporti con il funzionario medesimo» (Cass., 18.12.1995, n. 12910, in Nuova giur. civ., 1996, I, 569).
L’apparenza, così intesa, è stata impiegata anche per risolvere conflitti fra la banca ed il cliente, quando il comportamento della prima abbia ingenerato l’affidamento su un certo comportamento, come, ad esempio, le annotazioni su un libretto di deposito (Cass., 16.4.1996, n. 3585, in Banca borsa, 1997, II, 237).
La buona fede che integra il contratto o che ne controlla l’esigibilità delle pretese produce conseguenze diverse: a) l’integrazione comporta la nascita di nuovi obblighi, il cui inadempimento determina la responsabilità ed il risarcimento del danno; b) quando costituisce un limite all’esercizio di un diritto derivante dal contratto, si traduce nel rigetto della domanda di adempimento proposta dalla parte. Dunque è l’inefficacia il rimedio del quale il giudice si può avvalere, per impedire la sopraffazione degli interessi di una parte sull’altra, per affermare il rispetto del sinallagma. La natura imperativa dell’art. 1375 c.c. indica ciò che è e ciò che non è un diritto, sicché ciò che non è diritto non può da questo ricevere l’efficacia. Talvolta anche in questa ipotesi il rimedio può consistere nel risarcimento del danno.
Nel contratto di agenzia il preponente può liberamente rifiutare le proposte sottoposte dall’agente, senonché il rifiuto sistematico di tutte le proposte costituisce uso anomalo del diritto contrattuale. Quel rifiuto si configura come mancata cooperazione nell’adempimento che, essendo contraria a buona fede, legittima l’agente a pretendere il risarcimento del danno. Allo stesso modo si può affermare che quella condotta del preponente costituisce un abuso di diritto, che pure accede alle medesime conseguenze (Cass., 18.12.1985, n. 6475, in Mass. Foro it., 1985).
Pur avendo già alienato il bene immobile, il venditore può rivenderlo ad un terzo che, se trascrive immediatamente, rende a sé inopponibile la prima vendita. Qual è il titolo della responsabilità del venditore verso il primo acquirente?
Gli interpreti hanno ritenuto che gli obblighi del venditore non si esauriscano al momento della produzione dell’effetto reale, ma permangano fino al momento in cui gli effetti di quella vendita si consolidano in capo all’acquirente. La soluzione, in altri termini, è consistita nel catalogare gli obblighi di protezione, sui quali c’è molta letteratura, nel più ampio contesto del comportamento secondo buona fede (Cass., 15.6.1988, n. 4090, in Arch. civ., 1988, 1046). Sicché la buona fede integra il contratto di vendita, imponendo una condotta ulteriore al venditore, fino a quando l’acquirente non abbia consolidato il suo diritto anche agli effetti della opponibilità. Questa violazione si configura come un inadempimento per il quale l’unica tutela possibile è il risarcimento del danno. Il coordinamento fra le norme sulla pubblicità degli atti e quelle sulla vendita non consente un rimedio che porti, ad esempio, ad eseguire (art. 2930 c.c. ss.) o a risarcire in forma specifica (art. 2058 c.c.) l’inadempimento al dovere di buona fede.
Può verificarsi che le parti, nella fase delle trattative, non si siano scambiate integralmente le informazioni necessarie in vista della conclusione dell’affare. Gli interpreti non sono insensibili a questa circostanza e non ritengono chiusa definitivamente quella fase con la conclusione del contratto, come una rigorosa lettura dell’art. 1372 c.c. potrebbe far ritenere. Anche in questi casi la buona fede è impiegata per valutare a posteriori la lealtà delle parti e per introdurre il rimedio drastico della risoluzione del contratto, nei casi più gravi.
Così, ad esempio, il venditore che non abbia informato l’acquirente di vincoli gravanti sulla cosa alienata viola il canone di buona fede e tale comportamento legittima la risoluzione del contratto (Cass., 13.2.1985, n. 1215, in Giur. agr. it., 1987, 98). Questo perché, ai sensi dell’art. 1489 c.c., l’obbligo di dichiarare gli oneri ed i diritti dei terzi gravanti sulla cosa venduta riguarda il venditore stesso, e non è posto alcun « onere di indagine del compratore, al quale, quindi, può farsi carico dell’omissione di indagini, in correlazione con l’obbligo di comportamento secondo buona fede, unicamente quando l’indagine sia imposta da una anche se soltanto indiretta dichiarazione o comunicazione del venditore» (Cass., 29.2.1983, n. 5223, in Mass. Foro it., 1983).
Ci sono, inoltre, ulteriori ipotesi nelle quali si assiste ad una sorta di applicazione implicita della regola di correttezza e buona fede. Una di queste riguarda il caso in cui l’acquirente sia a conoscenza dell’altruità della cosa al momento dell’acquisto, dunque non versi nello stato di buona fede in senso soggettivo richiesta dall’art. 1479 c.c. (Cass., 28.11.1981, n. 6355, in Foro it., 1982, I, 703). All’acquirente non è precluso il rimedio della risoluzione, semplicemente sarebbe contrario a buona fede, questa volta in senso oggettivo, proporre la domanda immediatamente, senza «dar tempo e modo al venditore, salvo che sia stabilito un termine, di procurarsi la cosa venduta» (Cass., 9.12.1987, n. 9112, in Giur. agr. it., 1988, 92).
Storicamente il tema della repressione dell’abuso del diritto, legato alla buona fede, nasce proprio dalla possibilità di ricorrere al recesso, senza limite alcuno (Rescigno, P., L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, I, 205). Una volta ammesso che contrattualmente una parte possa recedere ad nutum, l’esercizio di questo diritto incontra un limite nell’art. 1375 c.c.; ad es., può essere tenuto a dare un preavviso, anche se il contratto no lo prevede espressamente.
È anche questo un caso nel quale la buona fede comporta la nascita del «dovere di ciascuna parte di realizzare l’interesse contrattuale dell’altra o di evitare di recarle danno» (Galgano, F., Degli effetti del contratto, in Comm. Scialoja-Branca, cit., sub art. 1375, 98). Come potrebbe ritenersi adempiuto quest’obbligo di fonte legale se, con sorpresa, il contraente receda in tronco dal contratto di mandato, di appalto, dal contratto di apertura di credito o di concessione di vendita (Cass., 18.9.2009, n. 20106, anche in Foro it., 2010, I, 85)? Attraverso la buona fede si garantisce che il recesso realizzi proprio l’interesse di chi lo esercita, tenuto conto della natura del contratto e delle circostanze rilevanti a quel fine e no si trasformi in uno strumento per danneggiare l’altra parte. Se queste condizioni non sono osservate e se gli effetti del recesso si sono già realizzati, l’unico rimedio esperibile è il risarcimento del danno.
Quando il creditore esercita il proprio diritto di credito per danneggiare il debitore, egli perde il suo diritto, e la pretesa ineseguita dell’altra parte non può dar luogo alla responsabilità da inadempimento: i «comportamenti vessatori ed ostruzionistici» non sono tutelati, stante l’art. 1175 c.c. (Cass., 7.8.1990, n. 7987, in Mass. Foro it., 1990).
Il contraente può rifiutare di adempiere, qualora anche l’altra parte non accetti di adempiere contestualmente, ma l’eccezione deve essere di buona fede, secondo l’art. 1460, co. 2, c.c. Non è tale l’eccezione sollevata dall’impresa che sospende l’erogazione dell’energia elettrica, per mancato pagamento di una bolletta spedita in periodo feriale, quando l’utente in vacanza non poteva conoscerla, come del resto la generalità degli utenti (Galgano, F., Degli effetti del contratto, in Comm. Scialoja-Branca, cit., sub art. 1375, 97).
Posto che l’art. 1324 c.c. accomuna agli atti unilaterali la disciplina del contratto in generale, salvo il giudizio di compatibilità, discende che il dovere di agire in buona fede va esteso anche ai comportamenti dei diversi organi della società verso la società stessa (Trib. Milano, 12.9.1995, in Giur. comm., 1996, II, 827). In concreto la vicenda ha occupato l’attenzione degli interpreti per valutare l’abuso del diritto di voto compiuto dalla maggioranza.
I casi più ricorrenti hanno interessato le delibere di aumento ingiustificato di capitale sociale (Cass., 4.5.1994, n. 4323, in Foro it., 1995, I, 2219) o le delibere di messa in liquidazione della società, in mancanza di un vero e proprio interesse, salvo quello di estromettere il socio di minoranza scomodo (Cass., 26.10.1995, n. 11151, in Giur. comm., 1996, II, 334). Quando la maggioranza utilizza il diritto di voto per raggiungere fini non coincidenti con quelli dell’interesse sociale, sullo sfondo c’è il divieto di agire in conflitto di interessi, sebbene quella disciplina non sia direttamente invocabile. La conseguenza è che il voto espresso per estromettere il socio scomodo vizia la delibera assunta agli effetti dell’art. 2377 c.c.
Poiché la buona fede fa nascere un obbligo in capo alle parti, la violazione di questo obbligo comporta inadempimento, al pari di qualsiasi altra violazione. Anche il socio di minoranza con il suo voto dissenziente ostinato ed ingiustificato può violare la buona fede e per questa via violare il principio maggioritario, quando le regole del quorum impediscano la formazione di una decisione (Galgano, F., Trattato di diritto civile, III, Padova, 2010, 382 s.).
L’abuso del diritto di voto viene a configurarsi come pretesa inesigibile agli effetti dell’art. 1175 c.c.: il socio di minoranza non può pretendere l’efficacia derivante dall’esercizio anormale del diritto. Dall’inesigibilità questa volta deriva la perdita del diritto (di voto) del suo titolare (il socio di minoranza), quindi la formazione della delibera come se il voto favorevole fosse stato prestato. In questo modo è garantita la sopravvivenza dell’ente nato dal contratto con comunione di scopo, ed, in ultima istanza, è tutelata la maggioranza in quanto meglio realizza fisiologicamente quell’interesse.
Artt. 1375, 1337, 1366, 1358, 1460, co. 2, 833; 1147, 129 bis, 563, 1415, 1445, 2038, co. 2, 2379 bis, co. 2, 2901, co. 4; 1189, 2559, co. 1; 1192, 2036, co. 2, 2920; 1155, 1479, co. 1, 2920, 2923; 2038, co. 2, 1479, co. 3, c.c.; art. 88 c.p.c.
Bianca, C.M., Diritto civile, III, Milano, 1999; Galgano, F., Degli effetti del contratto, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1998, sub art. 1375; Galgano, F., Trattato di diritto civile, Padova, 2010; Gazzoni,F., Equità e autonomia privata, Milano, 1970; Montel, A., Buona fede, in Nss.D.I., II, Torino, 1957, 602 ss.; Nanni, L., La buona fede contrattuale, in Galgano, F., diretto da, I grandi orientamenti di giurisprudenza civile e commerciale, Padova, 1988; Natoli, U., L’attuazione del rapporto obbligatorio, in Tratt. Cicu-Messineo, XVI, 1, Milano, 1974; Pellizzi, G., Exceptio doli (dir. civile), in Nss.D.I., IV, Torino, 1960, ora in Saggi di diritto commerciale, Milano, 1988, 711; Rodotà, S., Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1969; Romano, S., Buona fede (dir. priv.), in Enc. dir., V, Milano, 1959, 677 ss.; Roppo, V., Il contratto, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano, 2001; Sacco, R.-De Nova, G., Il contratto, Torino, 1993.