BURALI, Scipione (Paolo d'Arezzo), beato
Nacque nel 1511 a Itri, secondogenito di Paolo e Vittoria Oliverez. Il padre, di famiglia di piccola nobiltà, originaria di Arezzo (di qui il nome di religione del B.), da tempo trapiantata nel Regno di Napoli, fu al servizio della corte spagnola e successivamente di quella pontificia, con compiti politici e diplomatici che le fonti non precisano. La famiglia materna era invece originaria di Barcellona ed apparteneva alla aristocrazia catalana. Avviato agli studi nell'università di Salerno (1524), il B. si addottorò in utroque in quella di Bologna, dove fu tra i migliori allievi di Ugo Buoncompagni, il futuro pontefice Gregorio XIII. Tornato a Napoli, esercitò l'avvocatura per diciotto anni, acquistando una larghissima popolarità non soltanto per la sua solida dottrina giuridica, ma soprattutto per l'integrità professionale, veramente eccezionale nell'ambiente corrotto del foro napoletano.
In questi anni cominciò ad esercitare sul B. una potente attrazione la vita religiosa, frutto anche dell'influenza su di lui del suo confessore, il teatino Giovanni Marinoni, poi beatificato, che era stato uno dei primi compagni di Gaetano da Thiene ed era tra i personaggi più notevoli della spiritualità napoletana del tempo. A distogliere per il momento il B. da un più diretto impegno religioso giunse però nel 1548 la designazione ad una delle principali cariche pubbliche del Regno, quella di membro del Sacro regio consiglio, attribuitagli dal viceré Pedro di Toledo, su proposta di un congiunto dello stesso B., il reggente del Collaterale Francesco Antonio Villano.
La scelta del B. per una carica così importante, riservata per di più sino allora agli Spagnoli, fu certamente suggerita dalla fama pubblica della suo competenza ed onestà, oltre che dalla sua origine parzialmente spagnola, ma soprattutto dalla sicurezza che si poteva interamente contare sulla sua fedeltà alla Spagna, perché, come osserva il Pontieri (p. 313), "la Spagna rappresentava l'ordine costituito, ed egli era un uomo istintivamente amante dell'ordine".
E infatti il B. corrispose perfettamente a tale fiducia, assolvendo scrupolosamente ai suoi compiti di rigido tutore degli interessi dello Stato, non soltanto contro le pretese centrifughe della nobiltà del Regno (per esempio, nel 1549 e nel 1551 affiancò validamente il Toledo nella contesa contro uno dei maggiori e più irriducibili feudatari napoletani, il principe di Salerno Roberto Sanseverino), ma anche contro le rivendicazioni giurisdizionali della S. Sede. In tale materia una particolare importanza ebbe la missione affidatagli nel 1555 dal governatore interino Bernardino di Mendoza, che lo inviò a Roma per trattare direttamente con Paolo IV. Dal pontefice il B. non soltanto ottenne piena soddisfazione alle sue richieste, ma anche un significativo segno di stima con l'offerta della carica di uditore della Sacra Rota. Contemporaneamente a Napoli il B. veniva designato all'alto ufficio di uditore generale dell'esercito.
Ma ormai una ben diversa vocazione era maturata in lui, sollecitata, nello stesso soggiorno romano, durante il quale fu ospite dei teatini di S. Silvestro, dagli incontri con Bernardino Scotti, che era stato tra gli animatori dell'oratorio romano del Divino Amore e poi tra i primi seguaci di s. Gaetano e di Giampiero Carafa nella Congregazione teatina: al suo ritorno a Napoli, dopo aver rifiutato l'offerta pontificia, il B. rinunziò anche a tutte le cariche pubbliche e si ritirò a vita religiosa tra i teatini del convento napoletano di S. Paolo Maggiore, vestendo l'abito dei chierici regolari il 25 genn. 1557 e assumendo il nome di religione di Paolo.
La singolare vicenda del B., significativa del clima di quegli anni improntati alla nuova spiritualità della Controriforma, accrebbe la sua già vasta popolarità in modo tale che egli dovette ben presto rinunziare ai propositi di umiltà e di riservato ritiro che lo avevano spinto alla vita conventuale: a lui ricorrevano, come a guida spirituale, persone di ogni condizione sociale, sicché egli divenne presto a Napoli uno dei personaggi più influenti del movimento riformatore, particolarmente distinguendosi nell'opera di convinzione verso quei ceti aristocratici, tra i quali l'eresia, attraverso il cenacolo del Valdés, aveva lasciato i segni più profondi.
Ma specialmente il contributo del B. fu importante nella direzione del rinnovamento religioso e disciplinare del clero, al quale programmaticamente si rivolgevano i teatini: tra il 1557 ed il 1565 egli fu tra i più attivi collaboratori dell'opera di riforma del clero intrapresa da Giulio Pavesi, vicario generale dell'arcivescovo Alfonso Carafa, e continuata poi, a partire dal 1562, dal Carafa stesso. Il Pavesi infatti, nel dicembre del 1557, chiamò il B., benché questi fosse entrato da così poco tempo nella vita religiosa, a presiedere una delle quattro commissioni istituite a Napoli per accertare, con adeguate indagini anagrafiche, teologiche, disciplinari e culturali, che fossero rispettate le norme e le condizioni richieste per l'esercizio degli ordini sacri. La commissione presieduta dal B., che aveva la sua sede nel convento di S. Paolo Maggiore, era delegata all'esame del clero regolare: fu questa, tra tanta ignoranza, corruzione e indifferenza per i valori essenziali della religione e della disciplina, certamente un'esperienza fondamentale per il B., che valse, se non altro, a dimostrargli l'urgenza di un suo attivo intervento nelle iniziative rivolte al rinnovamento cattolico, accantonando gli originari scrupoli di umiltà che lo avevano inizialmente indotto al proposito di rimanere nel suo Ordine come semplice fratello laico.
Ed infatti nel 1560 accettò la carica di preposto del convento napoletano offertagli dal capitolo generale della congregazione, riunitosi a Venezia nel marzo, carica rinnovatagli tre volte negli anni seguenti e poi per un triennio nel 1564 Ma in questo stesso periodo rifiutò le reiterate proposte del governo spagnolo, il quale evidentemente non poteva desiderare miglior vescovo di chi aveva già dato così buona prova di competenza e di lealismo nella pubblica amministrazione: lo stesso Filippo II gli offrì inutilmente i vescovati di Castellammare e di Crotone e l'arcivescovato di Brindisi, sebbene in quest'ultimo caso fosse lo stesso pontefice Pio IV ad esortare all'accettazione il B., il 13 ott. 1562, "ad ipsius Ecclesiae utilitatem", tanto più che "fidelium servorum his temporibus est penuria" (Monti, p. 138).
Ma forse non c'è indice più convincente del favore pressocché unanime che il B. godeva contemporaneamente presso la pubblica opinione, presso le autorità civili e presso la Chiesa, della sua designazione, nel 1564, a rappresentare il Regno di Napoli presso Filippo II nella delicata controversia sull'Inquisizione.
La conclusione del concilio di Trento aveva determinato anche in Napoli l'inasprimento delle misure ecclesiastiche in difesa dell'integrità della fede, provocando un sempre più diffuso malcontento in tutti gli strati della popolazione. La cosiddetta Inquisizione romana, la prassi, cioè, secondo cui i processi in materia di eresia venivano demandati all'esame di speciali delegati della Congregazione romana del Santo Uffizio, che affiancavano gli organismi ecclesiastici locali, o addirittura trasferiti a Roma, era stata introdotta in Napoli in maniera del tutto clandestina, per evitare le reazioni della popolazione già clamorosamente oppostasi in passato ai tentativi di esautorare le autorità diocesane. L'opposizione dei Napoletani non era generalmente determinata da ragioni di prestigio, né, tanto meno, da motivi religiosi, ché unanime era, almeno ufficialmente, la condanna dell'eresia; si temevano invece le accuse anonime e spesso incontrollabili che l'Inquisizione romana favoriva, i processi clandestini e le loro conseguenze giudiziarie, tra le quali oppugnatissima quella della confisca dei beni degli eretici, che finiva per colpire essenzialmente gli eredi, anche quando fossero innocenti delle accuse mosse dall'Inquisizione ai loro congiunti. Si temeva anche che l'evidente accordo tra il viceré duca d'Alcalá e le autorità ecclesiastiche napoletane preludesse all'introduzione nel Regno dell'ancor più temuta Inquisizione spagnola, tanto più che un analogo tentativo era stato operato nel 1563 nello Stato di Milano ed il governo spagnolo vi aveva rinunziato soltanto in seguito alla fermissima reazione della popolazione. E contro simile prospettiva, sebbene essa non avesse alcuna base reale, finì per convergere tutto il risentimento dei Napoletani, giunto ad un punto tale da permettere persino l'unione nella protesta dei ceti aristocratici e di quelli popolari, il cui permanente contrasto era in definitiva la migliore garanzia del dominio spagnolo. L'ira generale esplose dapprima contro il vescovo di Mottola Scipione Rebiba, vicario generale dell'arcivescovo di Napoli Alfonso Carafa e delegato dell'Inquisizione romana, il quale fu costretto a lasciare la città; poi contro il suo primo subdelegato, Giulio Santoro; infine contro lo stesso arcivescovo, che dovette cercare rifugio in Castelnuovo. Ma non risparmiò nemmeno gli Spagnoli, costretti a sgombrare, per la minaccia di rappresaglie popolari, i loro abituali quartieri.
In questa atmosfera di incipiente sedizione la proposta di inviare una ambasceria a Filippo II e di affidarla al B., proposta avanzata dapprima dal conte di Nicastro rappresentante del seggio di porta Capuana, fu accolta da tutte le parti in causa, sebbene, naturalmente, con diverse intenzioni. Le "piazze" di Napoli concordarono nella scelta del preposito dei teatini, sia perché lo si riteneva personaggio gradito alla corte, sia perché lo si giudicava incapace per la sua integrità di tradire il mandato affidatogli, sia infine in virtù della sua competenza giuridica. Ma la proposta dell'ambasceria a Filippo II e la scelta del B. non erano meno gradite al viceré ed alle autorità ecclesiastiche: al primo perché l'appello al sovrano risolveva in modo accettabile una situazione che poteva diventare pericolosa per lo stesso dominio spagnolo nel Regno, mentre l'ambasciatore scelto dalle piazze era persona di sperimentato lealismo; alla S. Sede perché essa aveva ogni interesse a sostenere l'Alcalá, che aveva dato sino allora il maggior appoggio all'attività dell'Inquisizione romana, e d'altra parte non avrebbe potuto desiderare altra designazione che più di quella del B. garantisse una scrupolosa difesa delle ragioni della Chiesa. Chi oppose resistenza fu proprio il B., il quale in realtà doveva essere ben lontano dal condividere i motivi ispiratori della missione che si intendeva affidargli, la quale, in definitiva, costituiva una protesta contro i procedimenti che la Chiesa riteneva più opportuni alla difesa della fede e dei quali egli stesso, del resto, fece poi largo uso nel suo periodo episcopale. Se su questo punto l'intervento della Curia romana valse in parte a rassicurarlo, erano poi le stesse istruzioni degli Eletti a renderlo perplesso sull'opportunità della ambasceria alla corte di Spagna.
Secondo tali istruzioni, infatti, il B. avrebbe dovuto richiedere a Filippo II l'applicazionedel breve di Giulio III del 7 apr. 1554 che proibiva nel Regno la confisca dei beni degli eretici, breve abrogato da Paolo IV nel 1555; si chiedeva inoltre l'abolizione della prassi inquisitoria delle denunzie clandestine; infine si giungeva a chiedere una generale riforma dei procedimenti giudiziari in materia di fede sostanzialmente tendente all'abolizione nel Regno dell'Inquisizione romana ed alla restaurazione dell'Inquisizione dei "diocesani ordinari". Tutte richieste, come dovette apparire evidente all'esperto B., che avrebbero avuto il loro naturale destinatario nel pontefice assai più che nel sovrano; e quindi sostanzialmente ingenue, nella loro trasparente intenzione di sollecitare l'intervento di Filippo II contro l'Inquisizione romana, la quale ovviamente non sarebbe potuta essere introdotta nel Regno e non avrebbe potuto mantenervisi senza il consenso delle autorità spagnole: sotto questo profilo, dunque, la missione dovette essere giudicata sin dal primo momento dal B. destinata al fallimento. Ma a queste istruzioni dei seggi altre se ne aggiungevano del viceré, il quale aveva senza dubbio in esse l'adesione dell'arcivescovo Carafa: essenzialmente l'Alcalá proponeva alla corte di Spagna di lasciare immutata la prassi dell'Inquisizione e di offrire piuttosto un diversivo all'opinione pubblica promettendo che non si sarebbe imposta nel Regno l'Inquisizione spagnola. Ora, che di Inquisizione spagnola non fosse questione, era indubbiamente chiaro sia al viceré, sia alle autorità ecclesiastiche, sia, nonostante i timori diffusi nel momento di maggiore agitazione popolare, alle stesse piazze, le quali in effetti non facevano alcun riferimento ad essa nelle istruzioni: e doveva essere evidente allo stesso B., il quale vedeva perciò tutta l'ambiguità e la mistificazione implicita in quest'ultimo mandato. Di qui tutte le sue esitazioni ad accettare l'incarico, le quali furono vinte soltanto quando lo stesso pontefice Pio IV, attraverso il cardinale Carlo Borromeo, impose al B. di accettare l'ambasceria "in virtute sanctae obedientiae", "come se fusse servitio proprio di Sua Santità et di questa Santa Sede" (Monti, pp. 140, 142).
Così, dopo circa due mesi di viaggio, ai primi di settembre del 1564, il B. giunse a Madrid, accolto con grande cordialità dal sovrano e dalla corte. Ma egli percepì subito, e ne informò gli Eletti, la diffidenza dell'uno e dell'altra nei riguardi delle cose italiane. E le richieste napoletane ottennero quella soddisfazione che si sarebbe potuta legittimamente prevedere. Dopo sette mesi di attesa, durante i quali esse furono sottoposte all'esame del Supremo consiglio d'Italia, dove furono sostenute soltanto dal duca d'Alba, il B. fece ritorno a Napoli non avendo ottenuto da Filippo II se non la scontata assicurazione di "no haver sido ni ser de nuestra mente y intencion que en la dicha ciudad y Reyno se ponga la inquisicion en la forma de Spaña sino que se proceda por la via ordinaria, como hastaqui" (ibid., p. 160). Dove evidentemente rimaneva non inconsapevolmente l'equivoco della "via ordinaria", che nelle interpretazioni napoletane sarebbe dovuta essere quella diocesana ed in quella del governo spagnolo era e rimaneva quella stabilita dalle autorità ecclesiastiche, cioè quella dell'Inquisizione romana. Quanto alle altre richieste, e specialmente sulla questione della confisca dei beni degli eretici, la replica dilatoria di Filippo non poteva ingannare nel suo significato negativo.
L'Amabile ha voluto vedere in questo risultato della missione affidata al B. un effetto di una sua scarsa lealtà verso il mandato affidatogli e verso gli interessi della sua città, che egli avrebbe posposti a quelli dei dominatori spagnoli e delle autorità ecclesiastiche. In realtà, allo stato attuale della documentazione, non è possibile condividere un giudizio così negativo: appare invece evidente che, al di là della diligenza dell'inviato napoletano, contro la quale non sembra che si possano addurre ragioni definitive, le richieste delle piazze urtavano troppo fortemente contro i criteri fondamentali della politica religiosa del monarca, incline semmai ad una difesa dell'ortodossia cattolica ancora più intransigente di quella romana, perché esse potessero essere accolte: né era su questo terreno che il governo spagnolo si sarebbe mai deciso, vivo Filippo II, ad aprire un conflitto giurisdizionale con Roma.
Se i risultati della missione furono ben lontani dal soddisfare le esigenze per le quali gli Eletti l'avevano decisa, l'assicurazione regia che il B. portò ai suoi concittadini in merito alla Inquisizione spagnola servì a calmare l'agitazione popolare; ed al popolo anzi parve che l'incarico affidato al preposito teatino fosse stato assolto nel più felice dei modi, tanto che il prestigio del B. uscì dall'episodio ancora notevolmente accresciuto.
Anche nel suo Ordine e nella Curia romana il B. veniva ormai considerato per le sue esperienze, per la sua dottrina e per la sua fede un personaggio di primo piano, chiaramente destinato a più rilevanti responsabilità nel governo della Chiesa. Nell'aprile del 1567 fu chiamato alla direzione del convento teatino di S. Silvestro a Roma e nello stesso anno ottenne dal papa due incarichi di notevole importanza: quello della redazione - in preparazione di una bolla pontificia - di un trattato De censibus, il cuimanoscritto è oggi perduto, e quello, a quanto pare, di intervenire nell'inchiesta aperta dall'Inquisizione sul delicato caso dell'arcivescovo di Toledo Bartolomeo Carranza, sulla quale incombenza però lo stato attuale delle fonti non permette maggiori dettagli. Finalmente nel maggio del 1568 Pio V lo designò vescovo di Piacenza, in luogo di colui che tanta parte aveva avuto nella formazione spirituale del B., il cardinale Bernardino Scotti.
L'episcopato piacentino del B. ebbe in maniera eminente i caratteri e la ricchezza di iniziative che il concilio tridentino aveva definito ed auspicato e che trovavano nella contigua arcidiocesi di Milano il più intransigente modello; proprio questo fu, forse, il tratto dominante dell'attività piacentina del vescovo teatino: "pigliar norma dal suo consiglio et esempio di ben reggere questa mia chiesa", come scriveva egli stesso al Borromeo (Molinari, Il card. teatino beato P. B., p. 336), fu la direttrice costante del B., anche se nella sua imitazione portò uno spirito di carità, di moderazione, di duttilità che certamente non fu la nota dominante dell'intransigente nipote di Pio IV. Questo carattere subalterno e quasi complementare dell'attività del B. rispetto a quella della vicina arcidiocesi trova una significativa riprova nel fatto che alcune delle maggiori iniziative da lui prese si svolsero sotto la guida ed il consiglio di personaggi che avevano fatto già le loro prove come collaboratori di Carlo Borromeo. È questo, per esempio, il caso del protonotario apostolico Pietro Galesinio che, su richiesta dello stesso B., si trasferì da Milano a Piacenza per organizzare e dirigere i due sinodi diocesani voluti dal B. il 27 ag. 1570 ed il 2 sett. 1574, nei quali tuttavia il contributo del vescovo fu attivissimo e certo in gran parte ispiratore della preoccupazione che caratterizzò quelle assisi di legiferare anche sui minimi aspetti della vita diocesana.
Come era naturale in un teatino, che del resto aveva già fatto in proposito specifiche esperienze a Napoli, la prima preoccupazione del B. fu quella di applicare con la maggior cura possibile le indicazioni e prescrizioni tridentine per quanto atteneva alla riforma del clero. Sin dagli inizi dell'episcopato egli pose con forza l'esigenza dell'instaurazione del seminario che infatti, fondato nello stesso anno 1568, prese pienamente a funzionare in quello successivo, dotato di rendite cospicue ed affidato alla direzione di personaggi di elevato prestigio spirituale, come, tra gli altri, Andrea Avellino, poi santificato. Per primo, dopo parecchi decenni, il B. osservò l'obbligo della residenza nella sua diocesi e la visitò personalmente due volte, con un entusiasmo, un'infaticabilità ed una fermezza per i quali il paragone con s. Carlo Borromeo risulta ancora il più adeguato e che si alimentavano delle esperienze stesse delle visite pastorali, che misero in luce un panorama di squallore spirituale e di disgregazione organizzativa che, se non era inconsueto nelle condizioni generali della Chiesa del tempo, certo doveva spingere sulla via della severità chi, come il B., era già personalmente incline al rigore e conosceva per diretta esperienza l'insufficienza, sotto ogni rispetto, del clero meno qualificato: e infatti le relazioni delle visite eseguite personalmente dal vescovo o affidate ad uno dei più prestigiosi ecclesiastici della diocesi, Giovanni Battista Eugubino degli eremitani di S. Agostino, documentano la puntigliosa e spesso inflessibile verifica delle condizioni richieste per l'esercizio delle mansioni ecclesiastiche, soprattutto quella della residenza, e l'insistenza sulle due direttive del culto eucaristico e della istruzione catechistica che il B. considerava essenziali.
Anche in questo caso adeguandosi all'esempio del Borromeo, il B. affidò i maggiori compiti nella riforma della diocesi ai nuovi Ordini religiosi: i cappuccini, che furono gli animatori di una delle confraternite laiche più tipiche della riforma piacentina, attiva soprattutto nei ceti aristocratici, la confraternita dei laici cappuccini delle Torricelle, ed i somaschi ai quali fu affidata la direzione di un orfanotrofio istituio dallo stesso Burali. Ma soprattutto, come era naturale, ebbero un ruolo eminente a Piacenza i teatini, introdotti dal B. nel 1571 e da lui posti sotto la protezione del duca Ottavio Farnese. Ai chierici regolari il B. riservò le principali funzioni direttive dell'opera riformatrice, preponendoli alla direzione spirituale del seminario e dei conventi femminili, scegliendo tra loro i teologi del vescovato ed il suo stesso confessore - che fu Andrea Avellino, già suo compagno nel monastero napoletano di S. Paolo Maggiore -, i consultori nelle cause dell'Inquisizione, i predicatori.
Quanto al problema della riforma dei conventi e delle congregazioni religiose preesistenti al suo arrivo a Piacenza, il B., che pure era così solerte esecutore delle direttive tridentine, se non lo ignorò certo non lo affrontò con l'impegno e l'inflessibilità che sarebbero stati necessari: forse valse ad ispirargli cautela l'esperienza tutt'altro che pacifica e non sempre fruttuosa fatta dai metodi intransigenti del Borromeo a Milano.
Anche nella repressione dell'eresia il B. rimase lontano dagli eccessi di rigore che fecero del Borromeo l'alfiere intransigente della Controriforma. Vero è che il problema degli eretici si poneva con assai minor forza a Piacenza che a Milano; è però significativo che, pur nell'intensa attività che distinse l'Inquisizione a Piacenza, non si debbano contare nel periodo del B. casi di condanne capitali per causa di fede. In realtà il B. preferì perseguire i suoi fini di riforma piuttosto attraverso un'intensa attività di apostolato che attraverso gli effetti intimidatori delle repressioni: di qui il grande sviluppo che ebbero sotto la sua direzione le attività delle congregazioni religiose e le opere assistenziali.
Il Borromeo comunque approvò sempre l'operato del B. e particolarmente apprezzandone l'austerità ed il rigido ossequio al dettato tridentino ne appoggiò l'elevazione alle massime cariche della Chiesa. E certo non fu senza un suo intervento che il 17 maggio del 1570 il B. fu eletto da Pio V al cardinalato. L'elezione avvenne contro il veto dell'ambasciatore spagnolo Juan de Zuñiga, il quale aveva in proposito un preciso mandato del governo di Madrid dal quale si temeva che il B., per la sua qualità di vescovo "lombardo", potesse in futuro mostrarsi ostile agli Spagnoli.
Generalmente però l'elezione del B. fu salutata con favore negli ambienti ecclesiastici e politici e lo stesso Zuñiga quando, qualche mese dopo, si aprì la questione dell'invio di un legato pontificio in Germania, caldeggiò la scelta del B., come di quello che per austerità di costumi era superiore ad ogni sospetto che i Tedeschi avrebbero potuto nutrire verso l'inviato di Roma. Lo stesso Pio V non lesinò i segni della sua considerazione verso il nuovo cardinale, tanto che, quando, nel luglio del 1570, parve che il pontefice volesse definitivamente rinunziare alla direzione degli affari politici, corse voce che li avrebbe affidati ad una commissione di quattro cardinali tra cui il vescovo di Piacenza. Ma fu ancora il Borromeo a dare i segni più cospicui di stima per il B.: durante il conclave per la morte di Pio V, nel 1572, egli sostenne decisamente all'inizio la candidatura del teatino al seggio pontificio, ma dovette poi rinunziarvi, e la cosa è certo significativa dei nuovi più miti orientamenti del collegio cardinalizio, quando vi si opposero alcuni esponenti del suo stesso partito, costituito dai cardinali eletti da Pio IV, particolarmente Flavio Orsini e Marco Sittich, i quali addussero contro il vescovo di Piacenza il suo stesso rigore ascetico, la sua eccessiva austerità che, anche nel clima postridentino, non mancava di impressionare.
Proprio questa austerità del B. dovette però piacere al suo antico professore di Bologna, ora Gregorio XIII, il quale lo volle nel maggio del 1572, insieme a Carlo Borromeo, Giovanni Aldobrandini e Gabriele Paleotto, nella commissione di quattro cardinali, scelti di proposito tra i rigoristi, alla quale affidò il doppio incarico di presiedere al riordinamento della Penitenzieria ed alla sorveglianza sull'applicazione dei decreti del concilio di Trento. E il 19 sett. 1576 decideva il trasferimento del B. dalla diocesi di Piacenza all'arcivescovato di Napoli. Questa misura, che in ogni caso costituiva evidentemente una promozione, fu ufficialmente, e pare anche con qualche fondamento, dettata da preoccupazioni per la salute del Burali. Pare tuttavia che al trasferimento del B. non fossero estranei i contrasti in materia giurisdizionale con il duca Ottavio Farnese.
Nel breve periodo in cui il B. resse l'arcivescovato di Napoli ebbe modo di dare ancora dimostrazione del suo zelo riformatore, con rigidi interventi in materia di disciplina del clero secolare e regolare (per esempio nei riguardi del famigerato monastero di S. Arcangelo di Baiano, da lui trasformato in sede di una confraternita per l'assistenza agli schiavi) e promuovendo gli interventi dell'Inquisizione in difesa dell'ortodossia: ai processi di questa poi usava partecipare personalmente, sempre dando però prova di moderazione ed usando come regola quella di condonare le pene quando l'inquisito riconoscesse i propri errori. Ebbe anche alcuni conflitti giurisdizionali con il viceré spagnolo Iñigo Lopez de Mendoza, marchese di Mondejár, che non raggiunsero però mai punte molto aspre.
Morì a Napoli il 17 giugno del 1578. S. Roberto Bellarmino, nel suo De arte bene moriendi, indicò la morte del B. come un "exemplum satis utile". Qualche decennio dopo la morte, vennero iniziate le ricerche canoniche per la sua beatificazione. Essa ricevette un decisivo impulso da un breve di Benedetto XIV dell'8 febbraio 1756 e fu decretata dal pontefice Clemente XIV il 13 maggio 1772. Festa, 17 giugno.
Bibl.: C. G. Cagiano, Vita di P. B. d'Arezzo, Roma 1649; C. B. Bagatta, Vita del vescovo P. B. d'Arezzo, Verona 1698; G. B. Bonaglia, Vita del beato P. B. d'Arezzo chierico regolare cardinale di S. Pudenziana, Napoli 1772; G. B. Maffi, Vita del beato Paolo d'Arezzo, Piacenza 1833; F. Burali d'Arezzo, Brevi cenni sulla vita del beato P. B. d'Arezzo, Napoli 1876; L. Amabile, Il Santo Officio della Inquisizione in Napoli, Città di Castello 1892, I, pp. 276-283, 325; L. von Pastor, Storia dei papi, VIII, Roma 1929, pp. 76, 111, 114 s., 117, 165, 489; IX, ibid., pp. 13, 22, 51, 62, 156, 164, 878; XVI, 1, ibid. 1933, p. 235; G. M. Monti, Studi sulla riforma cattolica e sul papato nei secc. XVI-XVII, Trani 1941, pp. 119-166; F. Molinari, Il card. teatino beato P. B. e la riforma tridentina a Piacenza (1568-1576), Romae 1957; Id., S. Carlo Borromeo e il beato card. B. d'Arezzo, in Regnum Dei, XIII (1957), pp. 3-23; Id., Lettere inedite del b. Paolo d'Arezzo a s. Carlo Borromeo,ibid., pp. 155-179, 208-233; R. De Maio, Gli ultimi giorni del beato P. B. d'Arezzo arcivescovo di Napoli, in Studi in onore di Domenico Mallardo, Napoli 1957, pp. 53-66; E. Pontieri, L'agitazione napoletana del1564 contro il Tribunale dell'Inquisizione e la missione del teatino P. B. d'Arezzo presso Filippo II, in Nei tempi grigi della storia d'Italia, Napoli 1957, pp. 231-288; R. De Maio, Alfonso Carafa cardinale di Napoli (1540-1565), Città del Vaticano 1961, passim.