Burchiello e la poesia licenziosa del Quattrocento
La poesia di Domenico di Giovanni, detto il Burchiello (Firenze 1404 - Roma 1499), grazie a una diffusa tradizione manoscritta e a stampa, segna la letteratura comica successiva in maniera indelebile. Se gli imitatori del genere ‘alla burchia’ non tardano a manifestarsi, in particolare nella Toscana del secondo Quattrocento, allo stesso tempo il linguaggio burchiellesco, erede di una tradizione comica toscana forte dell’esperienza dell’Orcagna e di Franco Sacchetti, riaffiora a sua volta in testi e autori alla portata di M., come i Motti e facezie del piovano Arlotto, i Detti piacevoli e le rime in volgare di Angelo Poliziano, i versi di Bernardo Giambullari e di Antonio Alamanni, e la vivace produzione dei canti carnascialeschi. Appare emblematica l’espressione di Bartolomeo Ruffini nella lettera a M. del 23 ottobre 1502: «Le vostre lettere a Biagio et alli altri sono a tutti gratissime, e li motti e facezie usate in esse muovono ogni uno a smascellare delle risa, e danno gran piacere» (Lettere, pp. 57-58), espressione che evoca la raccolta di risposte argute di Arlotto Mainardi. È lo stesso M. a menzionare nel Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua (§§ 46 e 47) un’altra opera legata alla tradizione burchiellesca e al fiorentino vivo, il Morgante di Luigi Pulci (cfr. Franceschini 1998); né andrà dimenticato il Cantare del Geta e Birria (attribuito in genere a Ghigo Brunelleschi e rimaneggiato da Domenico Prato), cui si allude nella lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513 (Lettere, p. 294). Anche i vari Ghiribizzi machiavelliani utilizzano un’intitolazione non inedita nella Firenze di allora, se si guarda al quattrocentesco Libro de’ Ghiribizzi di Giovanni Betti.
Nell’opera di M. la lingua e il codice burchielleschi, privi dell’aspetto nonsense, trovano un’applicazione sia tra i versi sia tra le prose. Tra i giacimenti più ricchi di riferimenti al Burchiello si segnala la produzione epistolare (cfr. Larosa 2008): un gruppo di diciannove lettere private, vergate tra il 1509 e il 1526, documenta l’impiego di materiale anche burchiellesco, secondo una pratica avviata nella scrittura epistolare di Pulci e di Matteo Franco. La lettera comica diventa l’occasione per parlare di aneddoti e burle che presuppongo la partecipazione della brigata di amici e sodali a un divertimento letterario. Per es., pur all’interno di una vicenda biografica reale, come un esercizio di stile si presenta la descriptio vetulae contenuta nella missiva a Luigi Guicciardini dell’8 dicembre 1509 (Lettere, pp. 205-06), in cui viene trasposto in prosa un motivo della poesia comico-realistica (cfr. Bettella 1998). Tra queste lettere è possibile circoscrivere singole tessere, non solo linguistiche: il personaggio Gabburra, citato nella lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513 (Lettere, p. 295), è un discendente del macellaio Gaburro (I Sonetti del Burchiello, a cura di M. Zaccarello, 2004, LXXIII 8).
Come è noto, i primi cinque versi di un sonetto del Burchiello sono trascritti nella lettera a Francesco Guicciardini del 16-20 ottobre 1525 (Lettere, pp. 407-08), con probabili allusioni politiche: «Temendo che lo inperio non passasse si mandò inbasciatore un paiol d’accia, / le molle e la paletta ebbon(o) la caccia, / che se ne trovò men(o) quattro matasse / ma l’erpice di Fiesole vi trasse» (cfr. Larosa 2008, pp. 227-28). Nel wellerismo impiegato da M. nella lettera («Come disse la botta all’erpice») è da osservare la contrapposizione tra l’«erpice», strumento dotato di denti, e la «botta», che ne è sprovvista. Sulle allusioni storiche si innesta una pratica esegetica parodistica (di cui è spia la citazione della seconda deca liviana), che nel corso del Cinquecento incontrava maggiori consensi. Il sintagma «paiol d’accia», poi, doveva racchiudere un significato che ai toscani M. e Guicciardini non poteva sfuggire, se si pensa ai versi di un sonetto di Bernardo Bellincioni, in forma di resoconto, inviato a Lorenzo de’ Medici: «Firenze parea tutto un pajuol d’accia / Pel gran bu bu di tante capannelle» (B. Bellincioni, Rime, a cura di P. Fanfani, 1878, LXXIX 1-2), in cui «pajuol d’accia» è espressione idiomatica per indicare una situazione tumultuosa.
Per quanto attiene al resto delle prose letterarie, è da segnalare il personaggio di monna Onesta nella novella di Belfagor (p. 83), che è memore della suor Onesta, emblema di ipocrisia già in Burchiello (I sonetti del Burchiello, cit., CLXXV 6).
Sul versante della produzione poetica, qualche debole traccia di burchiellismo si può scorgere nel blasone del Decennale I, vv. 29-30: «vedesti la cittate in gran periglio / e de’ Franzesi la superbia e ’l fasto», da confrontare con I sonetti del Burchiello, cit., LXVI 5: «né più superbia hanno i Fanciosi invano». Più interessante si rivela la produzione sonettistica. Nel sonetto bicaudato al padre Bernardo, “Costor vissuti sono un mese o piue”, l’immagine dei vv. 5-6: «Come ’l bue fiesolan guarda a la ’ngiue / Arno, assetato, e’ mocci se ne lecca» può essere avvicinata a un preciso antecedente quattrocentesco, ossia ancora Bellincioni: «I’ feci come ’l bue, quel fiesolano, / Ed attinsi dell’acqua col paniere» (B. Bellincioni, Rime, cit., XCIV 7-8), in cui Fiesole, secondo un blasone consolidato, era legata all’invidia verso Firenze (si veda anche I sonetti del Burchiello, cit., XXV 15-17). Inoltre, il sonetto di M. presuppone la produzione in rima intorno al tema dei cibi frugali e della fame (come il v. 12: «mangiando sol pane e coltello», che richiama il proverbio toscano registrato da Giuseppe Giusti «Pane e coltello [cioè pane asciutto] non empie mai il budello»); al v. 14 («e a pena tegnàn gli occhi a sportello»), infine, si individua una ulteriore tessera burchiellesca: «le lepri dorman cogli occhi a sportello» (I sonetti del Burchiello, cit., CLI 17) concetto che riappare nella Mandragola (III ii).
Il motivo dell’esperienza della detenzione si allaccia al precedente letterario del Burchiello, autore di versi dal carcere. Nel sonetto “Io ho, Giuliano, in gamba un paio di geti”, costruito sul tema del ‘malo alloggio’, M., detenuto, racconta di una situazione disagiata e sgradevole (in partic. i vv. 5-8; p. 8), per la quale si può allegare senza dubbio, tra gli altri, il sonetto burchiellesco “Cimice e pulce con molti pidocchi” (I sonetti del Burchiello, cit., CIV).
Le prove di M. rimatore denunciano la ripresa di più temi e moduli della poesia comico-realistica, a partire dal sonetto a Giuliano di Lorenzo de’ Medici, “Io vi mando, Giuliano, alquanti tordi”, con il quale viene inviata selvaggina in forma di omaggio, secondo uno schema che conosce varie declinazioni. A questo segue, di nuovo, il tema della magrezza del poeta, caro a Cecco Angiolieri e recuperato dal Burchiello, fino alla chiusa a effetto («Lasci l’opinioni / vostra Magnificenzia, e palpi e tocchi / e giudichi a le mani e non agli occhi», vv. 15-17), da rapportare sì a Principe xviii 17, ma, per la presenza dei tordi, pare che il richiamo, più sottile, sia a Morgante XXVIII 45 3-4: «e giudicate alle man, non agli occhi, / come dice la favola del tordo» (Scarpa 2007, pp. 198-99).
La tradizione fiorentina del Quattrocento, di matrice non solo burchiellesca, sembra riaffacciarsi con insistenza nella produzione teatrale di Machiavelli.
L’espressione di Andria I ii: «tu vuoi che io te le dica a lettere di speziali?», per es., è attestata in Morgante XIX 143 4, mentre quella di Clizia III iii: «Una ne pensa el ghiotto e l’altra el tavernaio» è di ascendenza sacchettiana (Trecentonovelle CLXXXVI 15), e si diffonde in testi in prosa e in versi.
La Mandragola (d’ora in avanti Mandr.) prende l’avvio sfruttando un tema caro alla poesia burchiellesca, quello della cura dell’impotenza maschile, affrontato nel sonetto “Qualunque al bagno vuol mandar la moglie” (I sonetti del Burchiello, cit., CXXVII), tuttavia in precedenza sul motivo erano incentrati i poemetti del Za. Nella commedia si fa uso dei lemmi e delle figure spesso presenti nei testi di riferimento in funzione antipedantesca: si pensi a «Buezio», emblema di sciocchezza (Mandr., prologo, e I sonetti del Burchiello, cit., XLV 6, LIX 1, LXXXI 17, CXLVIII 16), ai lemmi «zugo», ‘sciocco, minchione’ (Mandr. III vii e Andria I ii, e I sonetti del Burchiello, cit., CXVII 7) e «cetere», ‘discorsi, chiacchiere’ (Mandr. III xii e I sonetti del Burchiello, cit., CLVII 9), al sintagma «cervel di gatta», ‘persona folle o sciocca’ (in Mandr. IV viii e Sonetti del Burchiello, del Bellincioni e di altri poeti fiorentini..., 1757, p. 166), alla locuzione «vendere vesciche per lanterne» (Mandr. II i e I sonetti del Burchiello, cit., CLXXXII 13), oppure ancora a taluni lemmi meno piani nei versi quattrocenteschi, come nel caso di «gufo», ‘canonico’ (I sonetti del Burchiello, cit., CXLII 1-4 e Mandr. IV vii). Figurano, inoltre, calchi o richiami pulciani: l’espressione di Mandr. IV i: «E è vero che la fortuna e la natura tiene el conto per bilancio: la non ti fa mai un bene che a l’incontro non surga un male», ribalta Morgante IV 100 7: «e spesso d’un gran mal nasce un gran bene»; mentre più aderenti sembrano i casi di Mandr. IV ii: «Questi innamorati hanno l’ariento vivo sotto e piedi» e Morgante V 47 6; o Mandr. IV iv: «Egli ha seco uno che pare scrignuto, zoppo» e Morgante XXIV 92 2-3; oppure si pensi alla locuzione «essere nel gagno» (Mandr. III v e Morgante XXV 206 1 e cfr. Morgante XXV 265 1), o al lemma «badalucco» (Mandr., prologo 44, e Morgante XXV 178 5).
Un recupero burchiellesco più specifico avviene proprio a breve distanza dal già visto wellerismo «Come disse la botta a l’erpice» (Mandr. III vi, su cui Speroni 1953, pp. 18-19). Nella successiva scena Nicia dichiara: «e’ bisognava m’impeciassi gli orecchi come el Danese a volere che io non avessi udite le pazzie ch’egli ha dette», evocando i versi burchielleschi «et al fischiar l’udir non vi s’impeci / come vinse il Danese il re Bravieri» e «Di là da Confitemini, / dove il Danese finse d’esser sordo» (I sonetti del Burchiello, cit., CXXX 3-4 e CLXXIII 15-16; cfr. Villoresi 2008, p. 86 nota 10), cui segue una locuzione: «e ora m’hanno qui posto come un zugo a piviolo» (Mandr. III vii), di origine burchiellesca (I sonetti del Burchiello, cit., XXVIII 8: «perché un frate l’aveva posto a piuolo»), dove il richiamo appare raffinato, se si riflette sul fatto che nel verso di riferimento il soggetto del «porre a piuolo» è un frate, proprio come Timoteo (che, assieme a Ligurio, appunto, abbandona Nicia).
Di sapore burchiellesco l’espressione in bocca a Nicia per indicare il compimento dell’atto sessuale: «Io so che la Pasquina enterrà in Arezzo» (Mandr. IV viii). Nel complesso il significato erotico pare condiviso e avvalorato dal raffronto con il passo della Betìa del Ruzante in cui a una giovane sposa si preannuncia un futuro rapporto sessuale: «che el te parerà purpiamen / de andar in gluoria, / e con gran memoria / entrerà gi Uongari in Figaruolo» (D’Onghia 2008, p. 116). Tuttavia più difficoltosa è l’interpretazione dei singoli luoghi, in primis Arezzo, che, secondo Jean Toscan (1981), indicherebbe il posteriore con una sorta di pseudo-etimologia (‘A rezzo’ = [il luogo] ‘all’ombra’, con prima, ma opinabile, attestazione in I sonetti del Burchiello, cit., CXXXV 1), mentre più verosimile è il traslato nella Canzona de’ macellari di ser Febo Prete. Quanto alla Pasquina, è stata segnalata la presenza di un Capitolo alla Pasquina dello Strascino (D’Onghia 2008, p. 117), cui si aggiunga che Pasquina è la protagonista della cinquecentesca Pasquina commedia rusticale molto piacevole ridicola et tutta dilettevole (senza note tipografiche), in terza rima, nella quale non si fa però alcuna menzione di Arezzo, e appare come personaggio di un atto unico in terzine, Il pescatore di Marcello Roncaglia (Siena, Francesco di Simione, 1547). Al momento, in attesa di riscontri più cogenti, si può ricordare la circostanza storica evocata in Discorsi I xxxviii 18.
Grazie a Toscan (1981) è stata recuperata una delle chiavi di lettura dei versi burchielleschi, quella erotica, applicabile con sicurezza ai canti carnascialeschi di Machiavelli. Tralasciando i versi “De’ diavoli iscacciati di cielo”, “Degli spiriti beati” e “De’ romiti”, meno criptici, un alto tasso di linguaggio licenzioso può essere individuato nel canto “Di uomini che vendono le pine” (1508), in cui la «pina» è traslato osceno per il membro (dall’analogia della forma della struttura vegetale con il glande), prima e unica attestazione, proprio in M., secondo i repertori tradizionali, così come il «pinocchio» del v. 24, anche qui con lo stesso significato; discorso affine per «nocchio» (v. 6), ossia tronco nodoso, di cui a oggi si conosce solo un’occorrenza più tarda, e per «pino» (vv. 5, 7, 10 e 13), con due impieghi successivi. Di rilievo anche il caso del verbo schizzare (v. 24), altro doppio senso con prima attestazione. Il canto si snoda con una declinazione di lemmi dal double entendre, coerenti con il tema, che paiono più frequenti negli autori precedenti e coevi, come il «licor» del v. 6 assimilabile al «sugo» di Decameron IX v 64.
Con un impiego marcato di traslati si presenta anche il canto “De’ ciurmadori” (i venditori di antidoti contro i morsi dei serpenti), da assegnare al 1509 e vicino per contenuti all’anonima e antecedente “Canzona de’ ciurmadori di serpi”: il lemma segno (v. 7), per il membro, benché evidente nel contesto («Noi nasciam tutti con un segno sotto, / e chi di noi l’ha maggiore è più dotto», vv. 7-8), non è comune (ma cfr. Mandr. II vi e G. Inglese, in Mandragola, 1997,
p. 114), mentre «serpe» (v. 12), dall’analogo significato, risulta più tradizionale (un esempio tra le rime di Franco Sacchetti). Nel canto M. enumera poi una serie di variazioni sul tema: «aspido» (v. 19), «ramarro» (v. 23) e «lucertolotti» (v. 27), tutti esempi unici con questa accezione erotica; a ciò si aggiungano i verbi assalire (v. 20) e assaltare (v. 28), per indicare la penetrazione, di cui non sono noti altri esempi. Con i dati finora in possesso e per quanto i testi non siano numerosi, va riconosciuta a M. una dimestichezza nell’impiego del linguaggio osceno carnascialesco, nonché una indubbia capacità innovativa all’interno dello stesso codice: a conferma dell’attenzione verso questo tipo di scrittura si potrebbe accludere anche l’ottava “Quando il nascente sol l’aurora caccia”, di recente attribuzione (cfr. Corsaro 2009).
Bibliografia: Fonti ed edizioni: Sonetti del Burchiello, del Bellincioni e di altri poeti fiorentini alla burchiellesca, Londra 1757; B. Bellincioni, Rime, a cura di P. Fanfani, 2° vol., Bologna 1878; L. Pulci, Il Morgante, a cura di F. Ageno, Milano-Napoli 1955; I sonetti del Burchiello, a cura di M. Zaccarello, Torino 2004.
Per gli studi critici si vedano: C. Speroni, The Italian wellerism to the end of the seventeenth century, Berkeley-Los Angeles 1953; J. Toscan, Le carnaval du langage. Le léxique érotique des poètes de l’équivoque de Burchiello à Marino, Lille 1981; N. Machiavelli, Mandragola, a cura di G. Inglese, Bologna 1997; P. Bettella, La vecchiaia femminile nella poesia toscana del XV secolo, «Quaderni d’italianistica», 1998, 19, pp. 7-23; F. Franceschini, Lingua e stile nelle opere in prosa di Machiavelli, in Cultura e scrittura di Machiavelli, Atti del Convegno, Firenze-Pisa 1997, Roma 1998, pp. 367-92; G. Masi, La zuffa del negligente. Il commento doniano alle Rime del Burchiello, in La fantasia fuor de’ confini. Burchiello e dintorni a 550 anni dalla morte (1449-1999), Atti del Convegno, Firenze 1999, a cura di M. Zaccarello, Roma 2001, pp. 169-93; E. Scarpa, Un «poeta» in geti. I sonetti dal carcere di Machiavelli a Giuliano de’ Medici, in «Le loro prigioni»: scritture dal carcere, Atti del Colloquio internazionale, Verona 2005, a cura di A.M. Babbi, T. Zanon, Verona 2007, pp. 181-200; L. D’Onghia, La Mandragola in una nuova edizione: note su testo e lingua, «Lingua e stile», 2008, 43, pp. 103-22; S. Larosa, Una «metamorfosi ridicola». Studi e schede sulle lettere comiche di Niccolò Machiavelli, Manziana 2008 (con bibl. prec.); M. Villoresi, «Orlando, Astolfo e gli altri paladini». Note sulla cultura cavalleresca del Burchiello, «Interpres», 2008, 27, pp. 78-96; A. Corsaro, Intorno a un’ottava (ignorata) forse di Niccolò Machiavelli, «Interpres», 2009, 28, pp. 268-74; F. Bausi, A. Corsaro, Un capitolo della fortuna ottocentesca di Machiavelli: i sonetti dal carcere a Giuliano de’ Medici. Testo e commento, «Interpres», 2010, 29, pp. 96-150.