Burckhardt e la storiografia di lingua tedesca
Per farsi un’idea delle opere più importanti su Costantino il Grande pubblicate in Germania verso la fine del XIX secolo, è quasi d’obbligo dare uno sguardo alla voce relativa apparsa nella Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, edita a quattro mani da August Friedrich Pauly e Paul Wissowa (1893-1978). Quest’epocale opera di riferimento offrì un contributo determinate all’affermazione delle scienze dell’antichità in ambito tedesco fino al Secondo conflitto mondiale. Redattore della voce Constantinus, pubblicata nell’anno 1900, fu Conrad Benjamin. Nel corso dell’introduzione l’autore offre una breve panoramica sui lavori da lui utilizzati per la stesura del lemma e raccomandati al lettore. Da un lato egli cita le pietre miliari della storiografia in materia ovvero le opere di Louis Sébastien Le Nain de Tillemont, Edward Gibbon, Leopold Ranke, Victor Duruy (Histoire des Romains jusqu’à la mort de Théodose, Parigi 1870-1879), sulla scorta della quale venne poi elaborata la storia imperiale di Gustav Friedrich Hertzberg. Dall’altro lato egli cita nella bibliografia specialistica le monografie di Johann Kaspar Friedrich Manso, Jacob Burckhardt, Hermann Schillers, l’opera, rivisitata in un secondo momento da Felix Dahn, di Eduard von Wietersheim, e per finire il primo volume della Geschichte des Untergangs der Antiken Welt firmata da Otto Seeck1. Il fatto che Seeck diede alle stampe il primo volume di quest’opera nel 1895 ma che poi, già tra il 1897 e il 1898, ne abbia pubblicato una seconda versione aggiornata e corretta, dimostra come Benjamin seguisse con grande attenzione le tendenze presenti nella storiografia del suo tempo. Nel suo articolo egli fa spesso riferimento anche alle posizioni di Seeck, che reputa degno di essere messo allo stesso livello dei suoi predecessori. Nel corso delle pagine seguenti ci si concentrerà perciò in particolare sulle più importanti opere suggerite da Benjamin. L’eccezione è costituita da Theodor Mommsen, del quale non è rimasta conservata alcuna interpretazione complessiva autorizzata su Costantino, tuttavia, con la sua attività di ricerca e di insegnamento, e in modo particolare per mezzo del suo allievo Otto Seeck, pose i fondamenti storico-critici perché potesse svilupparsi il dibattito scientifico sulla figura di questo imperatore. Tra i maggiori rappresentanti degli storici della Chiesa di confessione protestante non si può inoltre tralasciare il nome di Adolf von Harnack, poiché questi, attraverso la sua collaborazione con Mommsen e grazie agli effetti del suo operato, sollecitò con una certa efficacia l’adozione del metodo storico-critico anche da parte della storiografia del cristianesimo antico. In questa retrospettiva, la biografia di Costantino redatta da Jacob Burckhardt deve essere considerata come la più completa e al tempo stesso la più significativa ricostruzione data alle stampe fra il diciannovesimo e il ventesimo secolo. Non soltanto Burckhardt ma anche il suo predecessore forse meno conosciuto, Johann Kaspar Friedrich Manso, si attengono nelle loro ricostruzioni alla critica dello stretto legame fra Chiesa e Stato tipica dell’epoca dell’Illuminismo, sulla quale esercitarono particolare influsso Voltaire e Gibbon2. Ciononostante, nell’elaborazione e nell’approfondimento delle loro rispettive tesi tanto Manso e Burckhard quanto i loro immediati successori, Mommsen e Seeck, dimostrarono di essere studiosi pienamente indipendenti. Ai loro occhi, infatti, accanto alla ricostruzione d’insieme, anche all’analisi dettagliata dei testi letterari e documentari spetta un posto di tutto rilievo.
Tra gli autori di riferimento di lingua tedesca citati da Jacob Burckhardt nella prefazione alla sua opera merita di essere citato in primo luogo Johann Kaspar Friedrich Manso3, caduto quasi completamente in oblio in seguito al grande successo di Burckhardt4. Manso, nato a Blasienzell, in Turingia, nel 1760, studiò, a partire dalla Pasqua del 1779, teologia, filologia e scienze dell’antichità a Jena. Cominciò a interessarsi all’opera di Edward Gibbon perché sotto la spinta dei suoi poliedrici interessi storici e teologici non era portato a ritenere, a differenza di molti suoi contemporanei, che si dovesse necessariamente procedere a una rigida separazione fra la storia della Chiesa e la storia profana. Dopo i primi incarichi come precettore privato e docente di lingue e filosofia a Gotha, fu nominato prorettore del liceo Maria Maddalena di Breslau, istituto del quale divenne rettore nel 1793. Accanto alla traduzione di poeti latini e greci, come pure del Canzoniere di Petrarca, Manso stesso compose una ricca serie di liriche. Nel 1800 si presentò per la prima volta alla pubblica opinione con un lavoro dal profilo segnatamente storiografico. La sua storia di Sparta in tre volumi5 teneva conto degli sviluppi verificatisi non soltanto in materia di politica interna ed estera, bensì anche nel campo della storia culturale e del pensiero. Già in quest’opera emerge con chiarezza l’influsso di Winckelmann e di Gibbon, pionieri e artefici del superamento del vecchio antiquario. Fece seguito, nel 1817, lo scritto Leben Constatins des Großen nebst einigen Abhandlungen geschichtlichen Inhalts (Vita di Costantino il Grande insieme ad alcuni trattati storici). Pubblicato a Breslau, riscosse un grande successo presso la critica. Tra i suoi contemporanei Manso era però conosciuto soprattutto come autore dei tre volumi della Geschichte des preußischen Staates (Storia dello Stato prussiano), apparsa in forma anonima, per timore della censura, a Francoforte sul Meno, tra il 1819 e il 1820. Come approfondimento delle ricerche sul rapporto tra paganesimo e cristianesimo nell’antichità, inoltre, può essere citata in questa breve rassegna la sua Geschichte des Ost-Gothischen Reiches in Italien (Breslau 1824). All’indomani di un viaggio attraverso l’Italia settentrionale, compiuto nell’estate del 1823, le sue condizioni di salute subirono tuttavia un drastico peggioramento. Morì infine a Breslau nel giugno del 1826. Sebbene già nel preambolo della sua Leben des Constantins des Großen, Manso si richiami espressamente alle opere di Louis-Sébastien Le Nain de Tillemont, Bernard de Varenne, Johann Matthias Schröckh (1733-1808) e Edward Gibbon, considerati tutti alla stregua di modelli con cui confrontarsi in modo critico6, il suo apparato di annotazioni e note a piè di pagina – che egli difendeva peraltro con fermezza, considerandoli materiali di lavoro imprescindibili, benché ancora inusuali per la sua epoca – mostra la sua spiccata familiarità con gli studi specialistici sull’Impero romano e le edizioni critiche di testi pubblicati al suo tempo7. L’articolazione della ricostruzione è ordinata per temi. Alla trattazione dei principali avvenimenti storici e di una serie di problematiche connesse alla cronologia, segue un’analisi dettagliata della politica adottata dallo Stato di fronte al cristianesimo. In terzo luogo, Manso concentra poi la sua attenzione sulle riforme dell’esercito e dell’amministrazione, prima di procedere, in quarto luogo, a un esame della personalità di Costantino e degli effetti sortiti dal suo operato. Una panoramica generale sulle relazioni tra Chiesa e Stato e sui principali sviluppi nel campo delle arti e della cultura nel IV secolo completano il profilo dell’opera. Al lavoro erano inoltre allegati nove studi monografici incentrati, nello specifico, sulle fonti letterarie, su singoli avvenimenti tratti dalla biografia di Costantino o di membri della sua famiglia già pubblicati in precedenza come pure due ulteriori studi sulla dinastia degli Attalidi e sul periodo segnato dal governo dell’imperatore Gallieno, elaborato sulla base dello scritto Triginta tyranni della Historia Augusta.
Nella selezione delle fonti, Manso preferisce, rispetto agli autori latini di panegirici e agli scritti di Eusebio di Cesarea – dei quali, nonostante la loro forma stilistica, tipica della retorica storico-ecclesiastica dell’epoca, attesta però l’autenticità dei contenuti – le testimonianze di Eutropio, di Aurelio Vittore, dell’Anonimo Valesiano e non da ultimo di Zosimo. Di contro egli guarda con occhio critico a Lattanzio, per via della sua faziosità. Va tuttavia osservato come Manso consideri plausibile questa o quella fonte storica, anche se già sottoposta a dura critica, quando il discorso verta su singoli dettagli o informazioni. Ciò vale, ad esempio, per il rifiuto da parte di Costantino del titolo di Augusto in seguito alla sua proclamazione imperiale in Britannia, o per il tentativo di usurpazione compiuto da Massimiano, che Manso illustra sulla scorta della ricostruzione offerta, per l’appunto, da Lattanzio8, datandolo peraltro al 307 anziché al 3109. Anche in riferimento ai dissidi tra Massenzio e Costantino è da osservare come Manso analizzi in profondità le fonti di età antica solo nella misura in cui tenta di far trasparire i motivi obiettivi che divisero i due avversari. In questo contesto, egli sorvola sulla situazione politica complessiva entro i confini dell’Impero. Secondo Manso, solo in seguito alla vittoria conseguita nella battaglia sul ponte Milvio, l’imperatore Costantino, fino ad allora assai bellicoso, comincia a nutrire un certo interesse per il cristianesimo: essendosi accorto che i suoi tentativi di fondare una nuova legittimazione del suo potere attraverso il legame con Apollo stentavano a produrre i risultati desiderati. Manso ritiene così la relazione sugli eventi redatta da Eusebio del tutto inattendibile, come pure, a differenza di Gibbon, la sua descrizione del labaro, di cui contesta la matrice cristiana10.
Nel prosieguo dell’opera, Manso spiega l’avvicinamento di Costantino al cristianesimo non come il frutto di una sincera conversione personale, bensì nei termini di una mera mossa strategica dettata da ragioni di ordine razionale, filantropico e politico, che presupponevano, fra l’altro, all’indomani del fallimento delle persecuzioni sotto Diocleziano e Galerio, il pari trattamento di cristiani e pagani. In questo quadro, Costantino è raffigurato come un sovrano illuminato, che obbedisce sì positivamente alla mentalità prevalente dell’epoca, ma evita altresì di comportarsi come un semplice politico, ovvero in base a fredde considerazioni opportunistiche. Sulla scorta di tali considerazioni, Manso confuta le tesi di Voltaire e di Struve, i quali, accanto all’accento posto sull’abilità politico-strategica dell’imperatore, identificavano il principale filo conduttore dell’azione di Costantino con il vantaggio che il cristianesimo in quanto religione avrebbe potuto apportare istruendo i suoi fedeli all’obbedienza all’autorità statale: perché se da un lato non sembra possibile giungere a tali conclusioni sulla base delle informazioni fornite dalle fonti documentarie, dall’altro è un dato di fatto che ampi strati della popolazione continuassero a essere seguaci dei culti tradizionali11. Anche in opposizione a Licinio, Manso vede in Costantino un tipico esponente della politica di potenza, pronto ad affermare con realismo la propria signoria assoluta. Con ciò egli respinge la tesi secondo cui la seconda guerra degli anni 322-324 sarebbe servita a rendere libero il culto cristiano, ormai condannato alla rovina per volere di Licinio, nella parte orientale dell’Impero. Agli occhi di Manso, l’uccisione del rivale costituisce il primo reato commesso dall’imperatore, e si pone in netta contraddizione con la versione addotta dalle fonti apologetiche cristiane, incentrate sulla violazione del giuramento da parte di Licinio12. Per quanto riguarda poi l’esecuzione capitale di Fausta e di Crispo nel 326, Manso ritiene verosimile la versione fornita da Zosimo13, che ravvisa in un intrigo ordito da Fausta la vera ragione a monte degli eventi. In tal modo egli si discosta ancora una volta da Gibbon (capitolo 18), secondo cui il fattore scatenante coincise con la sempre crescente rivendicazione di potere da parte di Crispo14.
Manso interpreta la ricca attività legislativa di Costantino in materia di religione in primo luogo come conseguenza dell’accordo di Milano del 313, senza tuttavia spiegare in modo dettagliato il nesso causale fra i due diversi momenti. La legiferazione sui culti tradizionali e gli ebrei, come anche il programma finalizzato alla ricostruzione delle chiese già distrutte, rappresentano per Manso ulteriori conferme di come Costantino fosse preoccupato, anzitutto, di salvaguardare la fama della sua persona in seno alla popolazione. Costantino non avrebbe anzi potuto fare a meno, anche perché Manso è portato a difendere l’idea assai in voga al suo tempo, secondo cui l’Impero già al principio del IV secolo risultava ormai cristianizzato entro la parte più ampia dei suoi confini. Nella disputa contro gli ariani e nella convocazione del concilio di Nicea egli attribuisce a Costantino, una volta di più, la disinvolta intelligenza tipica di un sovrano illuminato, pronto a battersi per la salvaguardia della concordia all’interno della Chiesa. Manso, inoltre, non reperisce nelle fonti alcuna notizia che lasci intendere che Costantino pose all’inizio del suo governo limitazioni all’esercizio del culto pagano o che egli volle rompere in tutto e per tutto con la tradizione trasmessagli dai padri. Si tratta di un dato testimoniato, per esempio, dalla conservazione di motivi di derivazione tradizionale sulle monete come anche nelle costruzioni architettoniche o nell’inaugurazione di Costantinopoli, celebrata con elementi simbolici tratti dalla religione tradizionale. Piuttosto, la scelta preferenziale per il cristianesimo si spiegherebbe secondo Manso con la considerazione che la vitalità, l’integrità morale e la forza progettuale del paganesimo erano andate smarrite da ormai molto tempo, e che esso versava quindi in una condizione di declino di fronte alla nuova religione. La distruzione del tempio non avvenne allora per motivi di ordine religioso bensì per ragioni legate ai costumi, perché i centri di culto cui già si è fatto cenno (quelli pagani appunto) rischiavano di mettere a repentaglio quelli che erano ora considerati «i buoni costumi»15.
Da ultimo, tuttavia, Manso spiega i durissimi provvedimenti adottati contro il paganesimo sotto Costantino con l’influsso visibilmente esercitato su di lui dai suoi consiglieri e dai suoi uomini di fiducia appartenenti alla Chiesa. Da questo punto di vista, Manso giudica del tutto verosimile la versione di Zosimo, secondo cui il sempre più intenso avvicinamento al cristianesimo andrebbe spiegato con la considerazione che l’imperatore vide in esso l’unica religione che poteva fargli sperare il perdono per l’uccisione della moglie e del figlio16. Una conversione successiva al 326 sarebbe perciò conciliabile con l’interpretazione di Costantino quale sovrano illuminato17.
Le riforme nell’esercito e nell’amministrazione imperiale, la nuova ripartizione delle province e l’accrescimento dell’apparato amministrativo sarebbero riconducibili solo in parte alla persona di Costantino. Secondo Manso, esse rappresentano in ampia parte il compimento degli sforzi compiuti dai suoi successori al trono imperiale. L’«esame della costituzione» resta problematico per via delle numerose lacune che affliggono le fonti. Manso intravede comunque anche nella mancanza di trasparenza dell’apparato amministrativo un motivo per la diffusione della corruzione, dell’arbitrio e dell’abuso di potere: tendenza resa peraltro manifesta dalla sempre maggior pressione fiscale esercitata sulla popolazione18. La ripartizione delle province affidate al governo dei figli di Costantino si presenta invece come il capriccio repentino della bonomia dell’imperatore, il quale non era in realtà consapevole delle problematiche specifiche connesse a un tale aspetto19. Nonostante questi difetti ravvisati nella personalità dell’imperatore, riconducibili in sostanza ai malumori prevalenti all’interno della sua famiglia, Manso si preoccupa di mostrare al lettore come la forza creativa di Costantino abbia esercitato un durevole influsso sulla sua epoca, e come le riforme a lui attribuite – si pensi, per esempio, al riconoscimento ufficiale del cristianesimo, ma anche alla riorganizzazione delle armate imperiali in truppe di campo (comitatenses) e in truppe d’occupazione (limitanei) – non siano da considerare in alcun modo le cause che condussero al declino dell’Impero20.
Jacob Burckhardt21 nacque da un’antica famiglia del patriziato di Basilea, figlio del pastore Jacob Burckhardt, che più tardi divenne Antistes22. Dopo una formazione improntata all’umanesimo cristiano a Basilea, studiò dapprima teologia a Neuenburg, quindi, a partire dall’autunno 1838, storia a Berlino. Gli anni successivi furono caratterizzati per un verso dalla sua attività pubblicistica sulle colonne del quotidiano Basler Zeitung, nonché dallo scossone inferto alla Svizzera e ai paesi confinanti dai moti rivoluzionari (fino al 1848), per l’altro da soggiorni in Italia e a Berlino, come pure dalla sua attività di insegnamento a Basilea (fino al 1852). Le rivoluzioni politiche sono, accanto all’allontanamento dal pietismo cristiano, i due principali motivi che sembrano giustificare l’interesse di Burckhardt per le esperienze di cambiamento vissute dalle società e per le forze politiche e culturali attive al loro interno23. Il concetto storico di epoca di transizione, elaborato proprio alla luce della riflessione su questi temi, sarà in seguito applicato da Burckhardt al periodo in cui visse, e non da ultimo all’epoca tardoantica e all’ellenismo. Dopo un lungo soggiorno in Italia (1853-1854), Burckhardt fece ritorno in Svizzera per insegnare storia dell’arte all’Università di Zurigo. Nel 1858 accettò quindi la nomina a professore ordinario di storia a Basilea, incarico che manterrà fino al 1893, anno del suo pensionamento. Se confrontato con le sue opere monumentali dedicate alla cultura e all’architettura del Rinascimento o alla sua storia della cultura greca – lavori che occupano il centro della sua produzione scientifica e che contribuirono a renderlo celebre a livello internazionale – il primo successo letterario di Burckhardt, Die Zeit Costantins des Großen (Basilea 1853), appare quasi isolato dal punto di vista tematico24.
Cionondimeno, anche questo scritto testimonia l’anelito interiore di Burchkardt verso la «volontà di comprendere» ciò che si cela dietro i periodi di transizione e le epoche di crisi manifestatesi nel corso della storia. Esso riflette inoltre il suo interesse per la storia della cultura e la storia dell’arte e risulta connesso all’ascendente esercitato dal primo imperatore cristiano sulla sua impostazione di pensiero e sul suo stesso confronto con il cristianesimo. Dalla corrispondenza intercorsa con l’editore della prima versione dell’opera si evince che in un primo momento l’intenzione di Burckhardt era di lavorare a una serie di studi di carattere storico-culturale incentrati sui secoli compresi fra l’epoca tardoantica e il Rinascimento. Sennonché, la collana in programma non andò oltre il primo numero, dopo che Burckhardt, nel 1852, perse il suo primo incarico d’insegnamento a Basilea. I suoi studi posteriori possono essere considerati alla stregua di una sistematica realizzazione del complesso di obiettivi già messi a fuoco nel periodo precedente. Uno sguardo tra i manoscritti delle lezioni universitarie, gli appunti e le affermazioni disseminate qua e là nei carteggi dimostrano con chiarezza come egli si sia occupato in particolare, lungo tutta la sua vita, della cultura tardoantica.
A ben guardare, Die Zeit Costantins des Großen può essere considerato senza dubbio lo scritto più influente della ricerca storico-critica su Costantino e la sua epoca pubblicato nello spazio di lingua tedesca, e di qui in molti altri paesi, nel XIX secolo. Anche se la parte principale dell’opera è dedicata alla trasformazione dello Stato romano e delle sue istituzioni sotto il governo dei tetrarchi – il biografo di Burckhardt, Walter Kaegi, coniò la battuta secondo cui il libro avrebbe potuto essere tranquillamente intitolato ‘L’epoca di Diocleziano’ – e lo stesso Costantino rappresenta la principale figura della trattazione dal capitolo ottavo al decimo, il titolo dell’opera implica comunque che la ricostruzione nel suo insieme punta a mettere in rilievo l’importanza di Costantino e dunque il trionfo del cristianesimo. Alla luce della sua concezione teologica della storia, la principale sfida teorica che Burckhardt si ripropone è di far luce sul cristianesimo in quanto forza capace di impregnare di sé al tempo stesso lo Stato e la società, e di mostrare come Costantino possa essere considerato colui che porta a compimento una tale dinamica. Successivamente fanno la loro comparsa la decadenza dell’epoca tardoantica, l’involuzione barbarica a essa riconducibile e il Medioevo: elementi considerati come fasi distinte di un preciso modello di evoluzione storica, che solo rese possibile lo sviluppo in direzione dell’Europa moderna sotto l’impulso del principio di necessità degli avvenimenti storici. Sulla base di queste considerazioni, Burckhardt evince una visione pessimistica della storia che si pone in netto contrasto con le premesse teoriche dell’Illuminismo e del razionalismo:
Il cristianesimo aveva introdotto nella storia un superiore principio di necessità storica, come conclusione del mondo antico, come rottura con quell’epoca, e ciò nonostante esso contribuì alla sua salvaguardia parziale e alla trasmissione del suo patrimonio ai nuovi popoli che si erano affacciati sulla scena: i quali, in quanto pagani, avrebbero forse dato vita a un Impero romano pagano interamente barbarizzato e quindi destinato ad andare in frantumi25.
In questi termini Burckhardt interpreta la concezione di matrice hegeliana dell’uomo eroico26, considerato uno strumento attivo di una dinamica storica inarrestabilmente protesa verso il progresso. Per questa ragione anche Burckhardt continua a impiegare nel titolo della sua opera l’epiteto il Grande, di derivazione medievale, sebbene egli prenda apertamente le distanze dalla lettura cristiana relativa all’operato dell’imperatore. In tal modo, Burckhardt si colloca nella tradizione dell’Illuminismo, di cui condivide l’interpretazione di Costantino, alimentata dal dibattito degli umanisti sull’imperatore27. Se si considera poi il periodo berlinese della sua formazione, sembra lecito affermare che anche altri studiosi esercitarono un certo influsso su di lui, come ad esempio Leopold von Ranke – del quale tuttavia Burckhardt non seguì alcuna lezione – e, in riferimento alla configurazione assunta dalla sua visione teologico-cristiana, Johann Gustav Droysen, colui che coniò il concetto di ellenismo: un altro periodo di transizione che, agli occhi di Burckhardt, rivestiva un’importanza imprescindibile nel processo di formazione del cristianesimo. Da August Boeckh, Burckhardt dovette mutuare l’interesse per le fonti epigrafiche mentre nei confronti di Gottlieb Welcker rimase debitore per l’elaborazione di una grossa parte dei suoi studi di storia dell’arte.
La ricostruzione offerta da Burckhardt non lasciava però intuire veri e propri elementi di originalità, come mostra del resto il suo costante riferimento all’opera di Gibbon. Per la comprensione dell’immagine di Costantino nell’ambito della riflessione elaborata da Burckhardt sotto il profilo storico-culturale riveste particolare importanza il rapporto fra paganesimo e cristianesimo. Come il suo predecessore Manso, anche Burckhardt si volse agli studi storici dopo aver cominciato un percorso di formazione in ambito teologico. Una tale cesura nella sua biografia lo sollecitò a occuparsi delle origini del cristianesimo in quanto potenza mondiale28. Questo aspetto è testimoniato in modo esemplare dalla citazione dell’opera di riferimento dell’epoca sul cristianesimo antico, scritta dal teologo protestante Heinrich Gottlieb Tzschirner (1778-1828)29.
Allo stesso tempo, anche sotto l’impulso dell’opera di Le Nain de Tillemont, Burckhardt avviò uno studio su un ricco repertorio di fonti. È interessante notare come egli, tuttavia, non citi quest’opera così importante per Gibbon e più in generale per la ricerca sull’epoca tardoantica, poiché a differenza dello storico francese egli nutriva una visione pessimistica sul riconoscimento della validità di tutti gli argomenti proposti dal ricercatore giansenista30.
Oltre a ciò, nel corso della sua carriera scientifica Burckhardt ha posto continuamente l’accento sul fatto che la lettura ovvero l’interpretazione, e non piuttosto la scrittura della storia, costituisse il centro propulsivo del proprio operato. Anche qui sembra potersi ravvisare l’influsso di Ranke e dello storicismo, che incitava lo storico svizzero a guardare alle fonti documentarie con occhio libero e non prevenuto. Contro l’assunto di matrice positivista testimoniato, ad esempio, da Mommsen, secondo il quale sarebbe stato assolutamente necessario indagare tutte le fonti disponibili in modo sistematico e approfondito, nella scelta e nell’analisi dei materiali documentari Burckhardt ha costantemente difeso il suo interesse puramente soggettivo come il vero punto di partenza della propria ricerca storica31. Una sola fonte storica di grande pregnanza documentaria e per di più interpretata in modo corretto possedeva per lui più grande valore di una serie di piccole fonti parcellizzate, disconnesse fra loro32. Il fatto poi che essa non bastasse, da sola, a fondare la nuova critica delle fonti, questo, come noto, egli lo mise volentieri in conto nell’elaborazione del suo approccio storico-culturale33.
Fra le opere più recenti dedicate a Costantino e all’epoca tardoantica, nella sua introduzione Burckhardt fa riferimento ai lavori di Gibbon, Manso, Schlosser, Tzschirner e Clinton. In confronto a Manso risulta però evidente quanto poco egli si occupi in modo approfondito dello stato della ricerca moderna e come al contrario preferisca studiare a fondo fonti documentarie alternative, come le monete e le iscrizioni, incluse poi nella sua ricostruzione34.
Si trattava per Burckhardt di un passaggio necessario, anche perché egli non era affatto interessato a scrivere alcun genere di biografia politica fondata sulla mera narrazione degli avvenimenti storici, bensì nutriva l’intenzione di rendere ben visibili, attraverso la descrizione complessiva dell’epoca e dei tratti distintivi fondamentali della società, quelle forze che avevano inciso sul carattere di Costantino e che si trovavano quindi a monte della sua politica. Sullo sfondo della ricerca ufficiale dell’epoca, un tale approccio selettivo e un qual certo dilettantismo non dissimulato nell’interpretazione delle fonti si configuravano alla stregua di una vera e propria provocazione. Tuttavia, esso mostra anche quanto duramente Burckhardt, benché rinchiuso nel suo osservatorio storico-universale, si sia applicato allo studio delle diverse specializzazioni esistenti nell’ambito delle scienze storiche, che proprio nel campo della storia culturale si rendevano già al suo tempo percettibili con i materiali documentari disseminati qua e là in gran numero e le ricerche specialistiche a essi correlati. Per quanto riguarda il libro su Costantino, un’analisi condotta su alcuni appunti di Burckhardt ha messo in luce come egli abbia fatto riferimento in modo particolare alle fonti letterarie del periodo compreso tra la fine del III secolo e l’inizio del V35. La sua avversione per ogni forma di retorica gli rese però difficile poter compenetrare la sensibilità degli autori antichi, specie quella degli autori di panegirici e di Eusebio36. Inoltre, L’epoca di Costantino il Grande comprende un arco di tempo molto più ampio di quello del governo effettivo dell’imperatore. Nel primo capitolo Burckhardt traccia anzitutto l’evoluzione politica dell’Impero romano da Commodo fino a Diocleziano, mentre nel secondo si trova in primo piano il sistema della tetrarchia. Nei capitoli tre e quattro dell’opera, l’autore abbozza un’immagine dei rapporti sussistenti entro l’Impero fra le province occidentali e quelle orientali. Nei capitoli cinque (Il paganesimo e la commistione fra divinità), sei (L’immortalità e i suoi misteri. La demonizzazione del paganesimo) e sette (L’invecchiamento della vita antica e la sua cultura) l’argomento rappresenterà il cuore della sua indagine storico-culturale. Solo nei capitoli dall’ottavo al decimo Burckhardt concentra tutta la sua attenzione su Costantino.
Accanto a questa tripartizione, il volume di Burckhardt abbozza anche un’ulteriore bipartizione, che si manifesta a proposito della contrapposizione, in linea di principio, tra la figura di Costantino e quella di Diocleziano. Sulla scorta dell’interpretazione di Gibbon, Diocleziano è presentato non soltanto nelle vesti di persecutore dei cristiani, ma anche come autentico uomo di Stato, capace di superare con le sue riforme, e in modo particolare con il suo volontario allontanamento dal potere, il cesarismo, la signoria dispotica della persona dell’imperatore sull’intero Impero. Nell’opera di Burckhardt, la figura di Diocleziano assume allora i contorni del precursore della svolta in favore del cristianesimo, di colui che appronta e mette a disposizione di Costantino l’apparato statale necessario per la realizzazione di un tale processo. Il capitolo intermedio serve a Burckhardt per rendere visibili i cambiamenti di carattere culturale intervenuti nella sfera religiosa e tentare di approfondire più da vicino il rapporto del cristianesimo con il suo ambiente religioso, e di qui il suo successo. Nella sua descrizione degli sviluppi di natura religiosa intervenuti nel paganesimo, egli si riallaccia al modello incentrato sul concetto di decadenza, assai diffuso nella sua epoca. La debolezza della cultura antica si spiegherebbe, secondo questo schema, sia attraverso le strategie e le tendenze disgregative emerse nella filosofia atea e panteistica dei greci sia mediante l’influenza esercitata dalle religioni dei misteri e della salvezza importate dall’Oriente. Ma, allontanandosi dallo schema incentrato su una sostanziale contrapposizione fra paganesimo e cristianesimo, predominante sin dal periodo dell’Illuminismo, in questi capitoli Burckhardt concentra l’attenzione sugli sviluppi paralleli intervenuti in entrambi i sistemi religiosi – occupandosi in modo particolare del neoplatonismo – esposti in sostanza all’azione dei medesimi impulsi culturali provenienti dall’esterno. Da questo punto di vista, il cristianesimo non avrebbe certamente più potuto rivitalizzare la cultura degli antichi, bensì solo provare a imprimerle alcuni scossoni e trasmettere il suo patrimonio culturale ai diversi ceppi delle popolazioni germaniche.
Allestito in questo modo il palcoscenico, nell’ottavo capitolo dell’opera fa finalmente la sua comparsa la figura di Costantino. All’inizio si profila una veemente polemica con la principale fonte per l’età antica, il resoconto agiografico sulla vita dell’imperatore scritto da Eusebio di Cesarea, al quale Burckhardt rimprovera, all’insegna della ricerca della verità propria dell’Illuminismo, l’immagine di un Costantino che, lungi dall’essere un cristiano, utilizza strumentalmente il cristianesimo per affermare la propria signoria. In questo senso, dunque, Costantino non si sarebbe reso conto che il suo operato offriva concreta realizzazione e compimento ai ‘disegni supremi’ dettati dalla Provvidenza.
Al centro del dibattito non si pone soltanto il rapporto di Costantino con il cristianesimo, bensì anche la circostanza che la sua elevazione a imperatore e l’imposizione delle sue pretese contro la volontà espressa dal collegio imperiale e dal Senato corrispose, di fatto, a un’autentica usurpazione. Nel prosieguo Burckhardt pone l’accento sulla politica di potenza di Costantino, il quale riconobbe in modo tempestivo la crescente influenza che il cristianesimo andava esercitando sulla società e, sulla base di freddi calcoli opportunistici, seppe utilizzarla a proprio beneficio. Burckhardt mette allora in relazione, con grande acutezza, la trasfigurazione di Costantino con l’aspirazione dei cristiani alla pace:
È un fatto triste e pur tuttavia comprensibilissimo, che anche i vertici decisionali della Chiesa – per quanto ne sappiamo – non tradirono la vera disposizione di Costantino, che essi insomma non spesero alcuna parola contro l’egoista assassino, che possedeva il gran merito di aver compreso il cristianesimo come una potenza di ordine mondiale, e di averla poi trattata come tale. Possiamo solo immaginarci con entusiasmo quanto felici ci si debba esser sentiti nell’aver guadagnato, dopo tante sofferenze, una salda roccaforte contro le persecuzioni. Dobbiamo però ricordare che noi non siamo obbligati, dopo un millennio e mezzo di storia, a condividere in tutto e per tutto gli atteggiamenti e le disposizioni d’animo dell’epoca37.
Nelle pagine successive, Burckhardt spiega l’ingresso di Costantino a Roma, l’eliminazione di Massenzio e la proclamazione dell’editto di tolleranza di Milano come passaggi necessari al mantenimento dell’ordine pubblico entro i confini dell’Impero. In questo quadro, egli tende a non includere il monoteismo del padre di Costantino, Costanzo Cloro, e la conclusione delle persecuzioni contro i cristiani da lui avviata nella parte dell’Impero in cui governava – processo che lo stesso Burckhardt rimette in discussione – nelle motivazioni che furono alla base dell’operato di Costantino. Già nel conflitto con Licinio la Chiesa cristiana e la sua propaganda dimostrano di essere un alleato di Costantino, interessato a servirsi di questa solo in ragione dei suoi progetti ambiziosi. Per la ricostruzione di questi passaggi Burckhardt, contrapponendosi a Eusebio, si appoggia univocamente alle testimonianze di Giuliano l’Apostata e di Zosimo. L’assassinio dei familiari nel 326 come anche le altre esecuzioni capitali testimoniate da questo gruppo di autori, interpretati da Burckhardt come atti volutamente deliberati, rappresentano per lo storico svizzero ulteriori testimonianze della capacità di Costantino di ragionare a sangue freddo e di agire in vista di un preciso tornaconto politico, comunque in un modo non compatibile con una sua immagine di fedele cristiano al cospetto della pubblica opinione. Per rafforzare questa tesi, Burckhardt fa inoltre riferimento a quella serie di fonti documentarie in cui Costantino perpetua titoli tradizionali – come quello di pontifex maximus – allusioni al Pantheon pagano – come ‘Apollonio, figlio del sole’ – o ancora riti di origine antichissima. Il ricorso a simboli cristiani come l’apposizione del chi-rho sullo scudo dei soldati prima della battaglia sul ponte Milvio contro Massenzio nel 312 o l’invenzione del labaro rappresentano per Burckhardt tentativi di introdurre e divulgare la figura di Cristo anche all’interno del suo esercito come la divinità protettrice di Roma. Egli nega qualsivoglia carattere storico al fenomeno dell’apparizione della croce – secondo Eusebio strettamente connesso a entrambi i simboli – come pure alla predica pasquale o al discorso rivolto ‘all’assemblea dei santi’. Altri provvedimenti testimoniati con maggiore certezza dalle fonti storiche, qual è ad esempio l’introduzione della domenica quale giorno festivo, vengono definiti come tentativi di imporre alla popolazione dell’Impero una forma di vita neutrale comune. La ricchissima attività legislativa sui culti pagani non appartiene, secondo Burckhardt, ad alcun genere di visione unitaria. Al contrario le singole leggi rappresentano provvedimenti ad hoc direttamente dipendenti dalla volontà dell’imperatore. Le disposizioni concernenti la sola comunità cristiana dovrebbero tuttavia introdurre un modello teocratico fondato su presupposti cristiani. Anche in questo aspetto Burckhardt è portato a scorgere, ancora una volta, la «gelida intelligenza» dell’imperatore, che proprio attraverso simili percorsi persegue «il risultato necessario di un processo dalla portata storico-universale». Costantino avrebbe in altre parole scongiurato il pericolo di subire le minacce avanzate dalla Chiesa essendone diventato il capo. L’intervento nelle diatribe in materia di fede e la loro risoluzione nel corso del concilio di Nicea (325) sono accostati a partire dallo stesso punto di vista, sebbene Burckhardt sottolinei espressamente, senza citare particolari prove documentarie, il ruolo giocato dal vescovo Ossio di Cordova. L’istituzionalizzazione e la gerarchizzazione della Chiesa da parte dello Stato avviate in questo contesto assicuravano però agli occhi di Burckhardt il collegamento della cultura romana al Medioevo. Accanto a queste argomentazioni sono illustrate in modo piuttosto sommario le riforme realizzate nell’esercito e nell’amministrazione, ma solo nella misura in cui esse non riguardano la Chiesa. Oltre a ciò, Burckhardt respinge la critica di Zosimo, stando alla quale Costantino, con l’introduzione della distinzione delle truppe in comitatenses e limitanei, avrebbe finito per indebolire alla radice la possibilità di difesa dei confini dell’Impero, mentre alla critica secondo cui la barbarizzazione avrebbe denazionalizzato l’esercito replica proponendo l’argomento che si era di fronte a una semplice necessità, che ebbe peraltro come effetto collaterale un considerevole indebolimento delle truppe germaniche sul fronte avversario.
La fondazione di Costantinopoli rappresenta per Burckhardt qualcosa di più della mera istituzione di una residenza collocata in un luogo strategico. Non si tratta di una manifestazione dell’avversione per la Roma tradizionale e i suoi riti. Secondo lo storico svizzero, piuttosto, la nuova capitale avrebbe dovuto simboleggiare – come «espressione delle nuove condizioni sussistenti nello Stato, nella religione e nella vita di ciascuno» ovvero, in una certa qual misura, come quintessenza tangibile del nuovo modo di concepire il governo – l’inizio di una nuova epoca, orientata sia al nesso con la religione pagana tradizionale sia al potenziale beneficio politico implicito nel cristianesimo.
Nelle sue osservazioni conclusive Burckhardt non si pronuncia sulla questione se sia vero o meno che Costantino abbia voluto ricevere il battesimo in punto di morte. Contro le tesi ispirate al concetto di decadenza ed elaborate da Gibbon e Voltaire, egli sottolinea la sostanziale continuità dell’ordine forgiato da Costantino con il suo contesto storico. Nonostante il suo carattere irreligioso e a dir poco temibile sotto il profilo morale, tuttavia, Burckhardt non priva l’imperatore dell’epiteto ‘il Grande’, attribuendogli anzi il merito di aver saputo riconoscere i tratti distintivi della sua epoca e di aver compiuto lo strappo necessario con la vecchia religione mediante il nuovo sostegno dell’Impero, il cristianesimo. Per dirla con l’ironia dello stesso Burckhardt:
L’uomo eroico realizza, spesso senza neppure esserne consapevole, disegni concepiti da autorità superiori, e tutta un’epoca trova espressione nella sua persona, mentre egli stesso crede di decidere le sorti del suo tempo e di governarlo38.
Come Jacob Burckhardt, anche Theodor Mommsen39 vide la luce in una parrocchia della Chiesa protestante, con la sola differenza che quest’ultimo nacque in una famiglia di assai modeste condizioni40. Fu suo padre ad avvicinare lui e i suoi fratelli alla letteratura di età antica. In seguito, egli tollerò anche l’atteggiamento sempre più critico del figlio nei confronti della Chiesa. A differenza di Burckhardt, Mommsen prese interiormente le distanze dalla fede cristiana già prima di cominciare il suo percorso di formazione, sebbene poi per tutta la durata della sua vita fu solito accostare il protestantesimo al sentimento di appartenenza nazionale e più in generale alla cultura, cosa che spiega anche il suo anticattolicesimo, peraltro tipico dell’epoca. Durante gli studi giuridici a Kiel (1838-1843), compaiono nel suo piano accademico corsi di filosofia, di storia locale e di lingue antiche e moderne. La sua carriera scientifica ebbe inizio con una borsa di studio triennale in Danimarca, che in seguito lo condusse in Italia, dove, a contatto con Bartolomeo Borghesi e Giovanni Battista De Rossi, specialisti nel campo dell’epigrafia, sviluppò uno spiccato interesse non solo per le iscrizioni di età antica ma anche per i manoscritti41. All’indomani del suo rientro in Germania, il rifiuto di una prima proposta di ricerca incentrata sul Corpus Inscriptionum Latinarum da parte dell’Accademia di Berlino portò Mommsen a seguire in prima persona, nelle vesti di giornalista, i moti rivoluzionari del 1848. Il suo impegno politico a favore dei nazionalisti e dei liberali lo costrinsero a riparare in Svizzera nel 1852 per poter progredire nella sua carriera scientifica. Precisamente a quest’epoca fu pubblicato il primo volume della sua Storia di Roma. Già nel 1854 furono dati alle stampe a Breslau il secondo e il terzo volume dell’opera. In seguito, nel 1858, Mommsen venne chiamato dall’Accademia di Berlino a dirigere il Corpus Inscriptionum Latinarum. Dal 1861 alla sua morte, avvenuta nel 1903, egli fu inoltre impegnato come docente di storia romana all’Università di Berlino. Accanto alle sue grandi doti di organizzatore scientifico e culturale, ciò che svolse un ruolo fondamentale nella formazione della sua fama fu senz’altro la sua Storia di Roma, i cui primi tre volumi coprono il periodo compreso tra la Repubblica di Roma e la battaglia di Tapso (46 d.C.). Oltre a ciò, Mommsen pubblicò un quinto volume dell’opera, dedicato alle province dell’Impero romano da Cesare fino a Diocleziano. Il quarto volume, invece, che avrebbe dovuto trattare la storia politica e quindi anche offrire una ricostruzione d’insieme sull’Impero romano, non vide mai la luce. A questo riguardo, come si evince da una lettera inviata nel 1882 alla sua figlia maggiore Marie, moglie di Ulrich von Wilamowitz-Moellendorf, Mommsen pensava senza requie all’idea di porre mano a una pubblicazione specifica sul tema42. Per quanto egli, nelle vesti di docente, tra il 1863 e il 1886 si fosse occupato in prima persona della storia dell’epoca imperiale, approntando almeno una ventina di corsi universitari, quella che ai suoi occhi rappresentava un’involuzione del principato nascondeva una raffigurazione drammatica degli avvenimenti, che egli, con il suo stile sempre attento al discorso politico della sua epoca, poté trasporre direttamente nella sua ricostruzione dell’età repubblicana, peraltro già coronata da un ampio successo in sede di critica. Ciò detto, da un punto di vista prettamente scientifico, Mommsen predilesse costantemente gli studi di natura epigrafica e costituzionale.
Per la ricostruzione dell’età imperiale, e in modo particolare per la sua valutazione della figura e dell’operato di Costantino, si fa qui pertanto riferimento alle dispense universitarie preparate a quattro mani da Paul Hensel e da suo padre Sebastian Hensel fra il 1882 e il 1886, pubblicate nel 1992 a cura di Alexander Demandt. Possono poi essere considerati ulteriori tasselli di questo puzzle il cosiddetto Akademie-Fragment, come pure gli appunti destinati alle lezioni universitarie conosciute sotto il titolo di Anonymus-Wickert. Non bisogna peraltro mai dimenticare che ci troviamo di fronte a una rappresentazione incompiuta. Un confronto con il quinto volume della Storia di Roma, data alle stampe nello stesso torno di tempo, e con l’opera dedicata al diritto pubblico romano, consente invece di penetrare più in profondità il pensiero di Mommsen a questo proposito43.
Come in Burckhardt, anche in Mommsen va notato come la sua immagine di Costantino si lasci comprendere per un verso alla luce del suo rapporto con il cristianesimo, per un altro entro la cornice dei suoi ideali politici nazional-liberali, profondamente delusi dalla politica di Bismarck. L’influsso di Hegel e una visione teologica della storia impregnata dalle conferenze tenute a Kiel da Johann Gustav Droysen si coniugano tuttavia in Mommsen con un’interpretazione delle fonti assai raffinata dal punto di vista filologico, che pare risalire a Otto Jahn, allievo di Karl Lachmann e August Boeck a Berlino. Con il suo empirismo assoluto, Mommsen tentò inoltre di superare la raffigurazione classica e idealizzante dell’antichità tipica del XVIII e del XIX secolo. L’entusiasmo e in parte anche la direzione dei progetti accademici sugli scrittori cristiani greci – va ricordato per inciso che Mommsen era membro della Commissione sui Padri della Chiesa –, l’edizione degli Auctores antiquissimi nella collana dei Monumenta Germaniae historica, come pure i suoi studi monografici su innumerevoli fonti letterarie, ad esempio su Ammiano Marcellino, mostrano quanto considerevole fu l’impegno da lui profuso anche a proposito dell’epoca tardoantica. Ciononostante egli lasciò intravedere nella sua opera quanto scarsa fosse la sua conoscenza dei restanti autori cristiani di III e IV secolo44. Diversamente da Burchkardt, Mommsen predilesse le fonti strettamente storiche e giuridiche a fronte dei più importanti lavori storici e filosofici di epoca tardoantica.
Per la sua raffigurazione di Costantino è necessario rifarsi agli appunti redatti per le lezioni universitarie dei semestri inverale ed estivo dell’anno accademico 1885-1886. In questo arco di tempo Mommsen tracciò una sintesi generale sullo sviluppo dell’Impero da Diocleziano fino ad Alarico45. Già dall’impostazione impressa al corso si evince con chiarezza come Mommsen avesse in mente una rappresentazione dal profilo pragmatico-politico. Sullo sfondo si intuiscono perciò anche gli sviluppi culturali e politici. Fra le opere disponibili al suo tempo, egli cita l’Histoire des empereurs di Le Nain de Tillemont – giudicata un «mero elenco di dati ispirato al fanatismo cattolico» –, il «più importante lavoro» di Gibbon, la rielaborazione di Gustav Friedrich Hertzberg, mal riuscita e rivolta al grande pubblico, la ricostruzione di Burckhardt, geniale e redatta con uno stile avvincente, come anche, in riferimento alle riforme amministrative e alla giurisdizione, i lavori di Heinrich Richte e Mauritz August von Bethmann-Hollweg46. Tra le fonti richiamate su Costantino, Mommsen aborrisce Eusebio, definito «il più bugiardo fra gli scrittori», mentre segue passo passo la testimonianza di Lattanzio47. Oltre a ciò, egli fa riferimento ad Ammiano Marcellino, definito «la fonte più attendibile»48 e Giuliano l’Apostata49. Occorre però tenere presente che uno studioso come Brian Croke ha saputo dimostrare che Mommsen utilizzò nella stesura del suo lavoro anche le altre principali fonti sull’epoca costantiniana50.
Dalla sua roccaforte costituzionalista Mommsen si occupò approfonditamente della tetrarchia e delle riforme a essa connesse, che incisero in modo determinante sulle vecchie strutture organizzative e sui valori politici dell’epoca imperiale, e che introdussero il cosiddetto dominato, il potere assoluto proprio dell’imperatore. Il suo promotore è raffigurato come un genio politico di primissimo rango, capace di realizzare con imparzialità e chiarezza le necessarie riforme in materia di costituzione, legislazione, finanza e politica monetaria, quasi alla stessa stregua di Federico il Grande in Prussia51. Per questo, secondo Mommsen, il IV secolo meriterebbe di essere designato non già come l’epoca costantiniana, bensì come l’epoca di Diocleziano. Le persecuzioni inflitte ai cristiani sono interpretate come un processo del tutto legittimo sotto il profilo giuridico, attuato da un monarca profondamente religioso che interviene in tal modo a favore della tolleranza religiosa tipica degli antichi culti tradizionali e al tempo stesso contro la pretesa di assolutezza della nuova religione a seguito delle agitazioni innescate nei palazzi52.
In questo quadro, l’affermazione del cristianesimo rappresenta agli occhi di Mommsen il prodotto di una generica ricerca dell’al di là, attestata dal momento in cui l’Impero aveva smarrito il suo dinamismo a causa della sua eccessiva espansione territoriale. La reazione rassegnata sotto il profilo politico di fronte alla continua perdita di responsabilità e di partecipazione politica lo avrebbe inoltre reso assai attrattivo agli occhi dei letterati e degli altri membri degli strati superiori della società. A differenza di Gibbon, tuttavia, Mommsen non difende la tesi secondo cui a provocare il tramonto dell’Impero romano furono il cristianesimo da un lato, e l’insediamento massiccio di popoli barbari stranieri entro i suoi confini dall’altro. Entrambi i fattori rappresentano per lui semplicemente i sintomi di un processo determinato da precise ragioni di ordine politico, come ad esempio la sovra-espansione territoriale, il commercio di schiavi, la corruzione e una diffusa degenerazione nei costumi53. Per questa ragione, Mommsen può essere definito un classico rappresentante della teoria della decadenza, già testimoniata dalle fonti di età antiche54.
Dotato di un naturale talento letterario, Mommsen fa ruotare le proprie considerazioni su Costantino attorno a uno studio sulla sua personalità orientato, dal punto di vista stilistico, alle raffigurazioni dell’imperatore fornite da Ammiano Marcellino. Nei capitoli a esso dedicati, il giudizio sull’operato del governo costantiniano, durato nel complesso trent’anni, è suddiviso in eccellente, mediocre e pessimo, e viene accostato in parallelo agli sviluppi sortiti nelle Gallie, ai cambiamenti che interessarono l’istituzione dell’Impero e alla sua espansione verso Oriente. Mommsen giudica sleale e inaffidabile il carattere di Costantino, prestando particolare attenzione alla narrazione di Licinio, il quale non si sarebbe mai permesso di trattare così male un Diocleziano. Alle uccisioni perpetrate tra i familiari egli non attribuisce motivi politici: poiché altrimenti le fonti ne avrebbero parlato espressamente. In tal modo Mommsen, a differenza di Eutropio (il quale in X 6.3 accenna anche ai numerosos amicos di Crispo tra le vittime), segue la tesi del presunto incesto, presente in Aurelio Vittore, Ammiano Marcellino e Zosimo, e sottolinea così la dimensione più truce dell’immagine di Costantino, posto sullo stesso piano di un «sultano lunatico». Questo carattere instabile si manifestò anche al momento della successione al trono imperiale e nelle sue cruente conseguenze. Come già in Gibbon e in Burckhardt, anche il Costantino di Mommsen è un personaggio animato quasi esclusivamente da motivazioni di ordine politico. La sua acclamazione a York non è soltanto il frutto dell’usurpazione interpretata da un unico individuo. Essa si spiegherebbe al contrario con il desiderio dei galli di essere governati da quel momento in poi nello stile di suo padre, Costanzo I. Ecco perché, nella stesura della sua descrizione dell’imperatore, Mommsen tende a raffigurare Costantino quale naturale successore di suo padre. Il suo successo politico viene imputato al fallimento di Galerio – almeno sotto il profilo di uomo di Stato – incolpato di aver posto le basi per il conflitto fra gli imperatori.
Come anche per Burckhardt, la spedizione contro Massenzio rappresenta una necessità militare volta a salvaguardare il proprio potere in Occidente55. Anche nell’opera di Mommsen è perciò possibile reperire il paragone con la spedizione di Napoleone nell’Italia settentrionale. Come avverrà più tardi anche nella descrizione della battaglia nei pressi di Calcedonia contro Licinio (324), Mommsen non si interessa perciò alla presunta motivazione religiosa dell’imperatore o dei soldati tramandata dalla letteratura apologetica cristiana: egli sembra addirittura non prenderla in alcun modo in considerazione. In questo quadro Mommsen spiega allora l’accordo di Milano come il risultato di un’iniziativa di Licinio, alla quale Costantino avrebbe semplicemente aderito56. Così facendo Mommsen entra però in contraddizione con Lattanzio, fonte ritenuta fra le più affidabili, che considera autori dell’editto entrambi gli imperatori e che solo in seconda battuta nomina come suo primo promotore Costantino57.
Le riforme attuate da Costantino sono interpretate da Mommsen nei termini di un ampliamento dell’evoluzione introdotta da Diocleziano. La riforma monetaria assume i contorni di un netto peggioramento rispetto alla situazione già esistente. Si salva solo la scelta di Costantinopoli quale nuova capitale dell’Impero, considerata da Mommsen come una decisione di grande rilievo politico in vista della costruzione del nuovo Stato greco-cristiano: essa, infatti, collocata in vicinanza della patria degli Illiri, si trova a metà strada fra Oriente e Occidente. In materia di politica religiosa, Mommsen, come già Burckhardt, riconosce nell’adozione di forme di culto neutrali – come ad esempio la celebrazione della domenica quale giorno festivo, l’istituzione di feste comuni (calendario del Feriale Campanum) o l’adozione della preghiera del soldato, tramandata poi da Eusebio – il tentativo di accostare l’una all’altra la religione tradizionale e il cristianesimo. Sulla scorta di Burckhardt, Mommsen richiama l’attenzione sul processo di istituzionalizzazione della Chiesa e sull’organizzazione delle sue istituzioni dedicate ai pellegrinaggi, che per gli antichi rappresentavano un’autentica novità. Egli definisce come prevaricante e al di sopra delle parti in causa la posizione di Costantino rispetto alle diatribe teologiche interne alla Chiesa – come nel caso dell’arianesimo e del donatismo – comportamento che egli, da buon politico liberale, giudica esemplare in considerazione del Kulturkampf in Germania58. La condanna di Ario viene in questo contesto imputata ai consiglieri dell’Imperatore e interpretata come una testimonianza dell’elemento irrazionale, in quel periodo diffuso su larga scala. Sulla base di questa considerazione si è affermato che Mommsen non abbia avuto alcun fiuto per le sottili questioni di ordine teologico, correlate a tali diatribe, o che egli non abbia avuto conoscenze adeguate sulle principali fonti documentarie59. L’introduzione del cristianesimo quale religione ispiratrice dell’imperatore si verifica di conseguenza soltanto sotto il governo di Costanzo II e non viene considerata esito ultimo della scelta di un grande uomo di Stato, bensì è imputata alle non troppo influenti condizioni dell’epoca. Così Mommsen si distingue in modo sostanziale dall’interpretazione di Burckhardt e disconosce a Costantino qualsivoglia strumentalizzazione del cristianesimo finalizzata ad affermare la propria linea politica.
Nella visione di Mommsen la grandezza di Costantino si evince dall’accostamento fra libertà d’azione e necessità. In tal modo l’imperatore romano è trasfigurato a portavoce della filosofia della storia della teologia cristiana. La sgradevole personalità di Costantino sollecita in modo inconsapevole, promuovendo il cristianesimo, l’instaurazione del legame tra romanità e germanesimo: un nesso che «produrrebbe fiori freschi e vitali»60.
Il teologo, nonché storico della Chiesa, protestante, Adolf von Harnack61 è importante per lo studio della ricezione di Costantino nel XIX secolo, perché se da un lato egli, insieme a Mommsen, ha offerto un contributo determinante per la realizzazione del progetto finanziato dall’Accademica di Berlino sul mondo tardoantico, dall’altro esercitò un forte influsso su Otto Seeck, il principale allievo di Mommsen, e della sua interpretazione di Costantino, incentrata sul ruolo di primo piano svolto da quest’ultimo per l’affermazione del cristianesimo. Oltre a ciò, egli ha aiutato il metodo storico-critico a far breccia nel campo della storia della Chiesa. Harnack nacque a Dorpat/Tartu, in Livonia (oggi Estonia), figlio, come Burckhardt, di un teologo molto apprezzato. Al contrario degli storici ai quali si è già fatto riferimento in questa sede, egli era un protestante convinto, fedele ai principi del luteranesimo, e in seguito alla maturità liceale, conseguita nel 1868, intraprese, sempre nella città natale, lo studio della teologia, che a partire dal 1872 portò avanti a Lipsia. Qui si addottorò e nel 1873 conseguì la libera docenza con un lavoro sulle testimonianze documentarie di Giustino sullo gnosticismo.
Sebbene egli, già a Dorpat, avesse imparato alla scuola di suo zio, il teologo Moritz von Engelhardt (1828-1881), a distinguere tra il Gesù storico e il Gesù tramandato dalla tradizione greca ed ecclesiale, fu soltanto l’incontro con la scuola di Tubinga allora agli esordi, e in particolare con Ferdinand Christian Baur (1792-1860), grazie alla mediazione del teologo di Gottinga Albrecht Ritschl (1822-1889), e il suo rifiuto degli elementi metafisici e filosofici impliciti nella teologia cristiana a influire in modo determinante sull’ulteriore definizione della prospettiva di Harnack. A partire da quel momento i lavori di critica testuale e storici sulla letteratura cristiana antica cominciarono a coincidere con il vero e proprio fulcro della sua ricerca. Dal 1879 fu attivo come professore a Gießen, dove nel 1886 apparve il primo volume della sua storia dei dogmi, opera nella quale, per mezzo del metodo storico-critico, approfondì lo studio delle antiche origini dei dogmi cristiani. I risultati dei suoi lavori provocarono per lungo tempo interminabili proteste da parte dei teologi protestanti conservatori, che tuttavia non danneggiarono la sua carriera scientifica, come dimostrano le nomine a professore dapprima a Marburgo (1886-1888) quindi a Berlino (1888-1921) per volere dello stesso imperatore Guglielmo II. Già nel 1890, grazie all’intervento benevolo di Mommsen, Harnack venne accolto nell’Accademia di Berlino, e insieme al più anziano collega organizzò il Corpus Patrum Graecorum Antenicaenorum, a partire dal quale avrebbe poi preso forma la collana Griechische christliche Schriftsteller der ersten drei Jahrhunderte62. Egli riconobbe il compito prioritario della sua esistenza nell’indagine approfondita dello sviluppo storico del cristianesimo, cosicché accettò ripetutamente la sfida lanciata da problematiche e da metodi formulati in età antica. Harnack può essere definito come un tipico rappresentante del protestantesimo culturale, il quale, a differenza di Mommsen, non temeva di presentarsi come una sorta di consigliere conciliatore di fronte alla politica. Come scienziato al di sopra dei diversi partiti egli si propose di perseguire attraverso la ricerca storica compiti attuali relativi all’organizzazione del rapporto fra il cristianesimo e il mondo. Nelle sue posizioni, perciò, egli sembra essere assai più vicino agli storici dell’età antica, piuttosto che alle correnti contemporanee della teologia protestante. Nella sua concezione della storia, caratterizzata dalla fede in un movimento ininterrotto che attraversa l’intera storia dell’evoluzione del genere umano, egli sembra pertanto essere più vicino alle idee di uno storico come Burckhardt mentre prende apertamente posizione contro lo storicismo puro. In seguito Harnack si pronuncerà anche contro l’erezione di rigidi confini tra le diverse discipline scientifiche: poiché esse configurano per lui un unico organismo, e tutte insieme dovrebbero aiutare a dar forma con maggiore prudenza e lungimiranza al futuro. Diversamente da Mommsen e da Burckhardt, egli procede dalla premessa secondo cui le grandi personalità, guidate da forze di ordine superiore, sono nella condizione di esercitare un’influenza concreta sulla storia.
A partire da una tale posizione autenticamente teologica Harnack prende inoltre le distanze dalle correnti dello storicismo a lui contemporanee. Questo dato traspare con chiarezza in modo particolare nella sua trattazione della figura di Costantino il Grande, fornita nell’opera Die Mission und Ausbreitung des Christentums in den ersten drei Jahrhunderten (Lipsia 1902), per la cui stesura egli poté fare ricorso solo a un numero ristretto di lavori preparatori sul tema, come ad esempio quelli di Karl Johannes Neumann, Theodor Mommsen e anche Heinrich Kiepert63. Nelle annotazioni e nel corso della trattazione di questioni specifiche ci si rende però conto che sovente egli tende a fare riferimento, fra l’altro, alle opere di Gibbon e di Burckhardt. Tuttavia, il contributo più significativo di Harnack è la sua analisi storico-critica di trentadue scritti riconosciuti di sicura attendibilità storica e attribuiti ad altrettanti autori cristiani, fra i quali si annoverano anche gli scritti di Eusebio di Cesarea, di grande rilievo per la comprensione di Costantino.
Nella prima parte dell’opera, Harnack descrive un cristianesimo che grazie alla stabilità dell’Impero romano e alla sua disponibilità al dialogo con gli altri culti riesce a propagarsi fino ad assurgere al ruolo di «religione universale». Harnack difende in tal modo una posizione che non prende alcuna distanza dalle tendenze sincretistiche nel cristianesimo, nella misura in cui la fede resta connessa alla cultura e risulta al contempo salvaguardato il nucleo fondamentale del messaggio di Cristo. Egli perciò non scorge l’elemento che determina il successo del cristianesimo in particolari condizioni dell’epoca o in specifiche peculiarità locali, bensì nella sua universalità. Egli mette tuttavia in relazione l’anelito dell’essere umano verso sistemi universali con il processo di denazionalizzazione dell’Impero in età tardoantica64. Giunto all’epoca di Diocleziano, il cristianesimo era penetrato in tutti gli strati sociali e in tutte le istituzioni dell’Impero. Pur senza impegnarsi con cifre assolute o indici percentuali, Harnack suddivide le province dell’Impero in quattro categorie, attraverso le quali egli si propone di descrivere il rispettivo grado di cristianizzazione. Proprio in Asia Minore, dove Costantino soggiornò fino al 305, per lo più alla corte di Nicomedia, il cristianesimo avrebbe raggiunto la sua «massima diffusione reale», cosicché Harnack ne evince che Costantino ne rimase influenzato proprio attraverso il suo contatto immediato con questa religione. Già in quel tempo, nonostante l’intensa ondata di epurazioni realizzata per volontà dell’imperatore Galerio, la presenza dei fedeli cristiani nell’esercito restava così significativa che un’ulteriore persecuzione avrebbe messo seriamente a repentaglio la normale tenuta delle armate.
Secondo Harnack, la vera e propria svolta fu segnata sotto ogni punto di vista dalla battaglia di ponte Milvio nel 312, in occasione della quale Costantino fece apporre la croce cristiana nel repertorio delle insegne militari65, per permettere «a Cristo, da quel momento in avanti, di trionfare su Giove capitolino»66. Egli spiega anche il successivo conflitto con Licinio come un’azione volta a istituzionalizzare il cristianesimo67. Rientrerebbe sempre in questo processo il fatto che Costantino aveva riconosciuto nell’episcopato la vera istituzione che grazie alla sua tradizione, alla sua autorità, nonché al suo potere disciplinare avrebbe potuto meglio adattarsi all’esercito e allo Stato. In questo quadro, a partire dal 313 la legislazione di Costantino viene perciò salvaguardata come presidio utile a rafforzare il potere episcopale. Prendendo posizione contro Gibbon, Harnack formula quindi la tesi secondo cui al cristianesimo non spetterebbe alcuna responsabilità particolare per il declino dell’Impero, poiché esso avrebbe al contrario sollecitato una maggiore coesione entro i suoi confini. Allo stesso modo Harnack giudica l’idea di Burckhardt, secondo cui Costantino andrebbe considerato né più né meno che come un potente politico animato da sentimenti irreligiosi e da freddi calcoli opportunistici, una «esagerazione di cattivo gusto»68, anche se lo stesso Harnack si vede poi costretto ad ammettere che sulla base delle informazioni fornite dalle fonti documentarie non è possibile stabilire alcunché di certo sulle convinzioni personali di Costantino in materia di religione. Alla luce dell’Oratio ad sanctorum coetum, lo storico protestante è però portato ad affermare che Costantino «prese interiormente parte alle condizioni religiose» della sua epoca, anche se tentò di accostare il cristianesimo alle altre tradizioni monoteiste pagane o quantomeno cercò di instaurare un «rapporto amichevole» fra di esse69. Su questa stessa linea interpretativa egli colloca anche la politica religiosa in generale portata avanti dall’imperatore. Costantino è allora visto come un geniale uomo di Stato, che mediante il suo risoluto operato dalla portata storico-universale aiuta il cristianesimo a irrompere e a affermarsi sulla scena mondiale. Nonostante la sostanziale debolezza dello Stato, il processo di ellenizzazione e di romanizzazione subiscono un’ulteriore accelerazione sotto la spinta dell’avvenuto collegamento tra Chiesa e Stato, sino infine a germogliare sul terreno della cultura occidentale70.
Il principale allievo di Mommsen, nato a Riga nel 1850, è considerato un precursore fondamentale della ricerca storica sull’età tardoantica a cavallo tra XIX e XX secolo. Figlio di un fabbro poi divenuto industriale, conseguì la licenza liceale dopo un intenso periodo da autodidatta, per dedicarsi in un primo momento agli studi di chimica nella città di Dorpat/Tartu. Profondamente scosso dalla lettura della Storia di Roma di Mommsen si trasferì però a Berlino per seguire i corsi di scienze delle antichità. Grazie a un intenso impegno e a un’assidua frequentazione delle attività didattiche, Seeck divenne presto uno degli allievi di Mommsen più vicini al maestro, rispetto al quale non era affatto inferiore per scrupolosità, rapidità di apprendimento e desiderio di intraprendere viaggi. Nei confronti del Kaiserreich egli nutrì tuttavia un atteggiamento decisamente più positivo di Mommsen, e a differenza di quest’ultimo egli rifiutava la validità del parlamentarismo e della socialdemocrazia. Queste reciproche differenze sotto il profilo politico non esercitarono però mai alcun influsso sulla loro reciproca discussione scientifica72. Dopo essersi addottorato nel 1872 con Mommsen discutendo una tesi sulla Notitia dignitatum, alla quale fece seguito, nel 1876, la pubblicazione della sua fondamentale edizione critica73, nel 1887 Seeck ottenne la libera docenza con una dissertazione incentrata sull’edizione degli scritti di Quinto Aurelio Simmaco, la cui edizione completa fu poi pubblicata nel 1883 nella collana dei Monumenta Germaniae Historica, Auctores Antiquissimi74. Alla luce di questo impegno, Seeck viene considerato il tipico allievo di Mommsen, che si appassiona agli ‘archivi’ del passato indagandoli con scrupolosità filologica. Adeguatamente stretta e accurata era in effetti la guida esercitata da Mommsen su di lui75. Già a partire dal 1881 Seeck aveva ricevuto l’incarico di professore straordinario a Greifswald, dove già il genero di Mommsen Ulrich von Wilamowitz-Moellendorf insegnava Storia greca. In questa sede si manifestò però l’esclusivo interesse di Seeck per il periodo tardoantico. In seguito, sebbene egli dovette occuparsi dell’insegnamento dell’intera storia romana e, dal 1883, anche della storia greca, gli ultimi corsi e seminari furono sospesi a causa dello scarso numero di studenti che li frequentavano76. Anche i tentativi scientifici avviati in entrambi questi ambiti si rivelarono assai modesti. La sua specializzazione erudita sul periodo tardoantico, la consapevole subordinazione di tutti gli altri compiti di natura amministrativa a favore dei suoi propri progetti di ricerca come anche le sue maniere, assai brusche secondo quel che si dice, contribuirono a far sì che egli rimanesse un outsider nel panorama scientifico dell’epoca. Ad esempio, sebbene egli fosse impegnato come responsabile della sezione di storia profana della commissione per lo studio dei Padri della Chiesa, Seeck impiegò il materiale a disposizione non per realizzare l’edizione messa in cantiere della Prosopographia Imperii Romani saec. IV. V. VI., bensì, ciò che la dice lunga, per i suoi propri studi, poi pubblicati ne Die Briefe des Libanios zeitlich geordnet (Lipsia 1906), in numerosi lemmi della Real Enzyklopaedie, e da ultimo nei Regesten der Kaiser und Päpste fuer die Jahre 311-476 n. Chr. (Stuttgart 1919). In seguito alla sua morte, il lavoro alla Prosopographia Imperii Romani saec. IV. V. VI. venne sospeso, perché quel che rimaneva da completare fu considerato un’impresa irrealizzabile77.
La sua opera storica più importante è ritenuta essere la Geschichte des Untergangs der antiken Welt (Stuttgart 1921, V, 4a edizione), rielaborata a più riprese e continuamente ristampata sino ai giorni nostri. In essa, Seeck mostra la sua straordinaria familiarità con il vasto patrimonio delle fonti concernenti la storia politica del periodo tardoantico, che egli, grazie al progetto portato avanti da Mommsen presso l’Accademia di Berlino, poté estendere significativamente alle monete e alle iscrizioni epigrafiche. Quel che rappresenta il vero e proprio carattere di originalità dell’elaborazione di Seeck può essere considerato, in riferimento alle fonti di età antiche, lo studio della formazione della letteratura cristiana, la sua interpretazione, nonché la rassegna sistematica delle ricerche specialistiche dedicate all’argomento: come ebbe peraltro modo di spiegare suo genero, il filologo Ludwig Rademacher (1867-1952) nel suo necrologio78. Cionondimeno, occorre guardare con occhio critico alla propensione di Seeck a colmare lacune nelle fonti storiche dopo una riflessione ponderata. Egli non indietreggiò neppure di fronte a descrizioni di persone o all’impiego di caratterizzazioni storico-sociali o addirittura di categorie apertamente divulgative79. Come già il suo maestro Mommsen, anche Seeck nutriva la pretesa di influire su un ampio pubblico. Per questo, egli non concentrò la sua attenzione solo sul discorso politico-giuridico del suo tempo, bensì coltivò, quantomeno in linea programmatica, anche una certa apertura nei confronti di altre discipline, come l’antropologia, la sociologia, l’economia politica o la biologia, così da rinnovare la produzione della conoscenza storica attraverso l’impiego di un metodo positivista il più possibile trasversale, senza però applicare i contenuti specifici già presenti in ciascuna di queste discipline80. Negli spunti, e non nelle concrete realizzazioni, consiste – secondo Seeck – la vera e propria acquisizione dell’epoca tardoantica81. Questo assunto diventa chiaro soprattutto nella tesi di matrice social-darwinistica dell’eliminazione degli elementi migliori, con la quale, sulla base di raffinate indagini sociologiche, egli tentò di appoggiare le teorie decadentistiche largamente diffuse in ambito umanistico82. Il suo approccio linguistico dal piglio modernista, la trattazione a volte troppo superficiale dei singoli temi e non da ultimo l’esagerata semplificazione del formato del testo approntato per la stampa – ad esempio, egli era solito riportare la documentazione storica impiegata non nelle consuete note a piè di pagina, bensì in appendici nella parte conclusiva del volume – suscitarono in seguito durissime critiche nei suoi confronti83. Un tale aspetto permette anche di comprendere per quale ragione Ulrich von Wilamowitz-Moellendorf, nelle vesti di amministratore dell’eredità di Mommsen, si pronunciò veementemente contro la proposta di Seeck di provvedere egli stesso, al posto del compianto maestro, alla stesura del quarto volume della Storia di Roma84.
Nonostante tutte le critiche e i giudizi errati imputabili alle condizioni dell’epoca, l’opera di Seeck è ancor oggi considerata come l’opera più importante del suo tempo sul periodo tardoantico. Egli infatti la elaborò a partire da un confronto diretto con le fonti storiche e, attraverso le sue numerose versioni, seppe correggere anche gli errori più grossolani presenti nei suoi precedenti studi. Infine la sua interpretazione morfologico-culturale del tramonto dell’antichità andava incontro a una linea di pensiero ben presente all’epoca: da questo punto di vista basti pensare all’opera filosofico-storica di Oswald Spengler85.
Nella sua trattazione della figura di Costantino il Grande, Seeck rimanda, nelle annotazioni relative ai capitoli del primo volume dell’opera, alle ricostruzioni complessive di Burchkardt, Victor Duruy, Mommsen, Theodor Preuss e Hermann Schiller86. Allo stesso modo egli cita i più significativi lavori storico-religiosi dell’epoca focalizzati sul rapporto di Costantino con il cristianesimo in generale o con temi cristiani più specifici, come ad esempio quelli di Adolf von Harnack, di Viktor Schultze e di Lothar Seuffert87. Sorprendentemente, il grande assente di questa lista è Edward Gibbon88. Seeck aveva però pubblicato una parte non inconsistente di capitoli e di bozze di testi dell’opera, prima che egli finisse per integrarli nell’arco di venticinque anni nei sei volumi della sua opera di riferimento, più volte rielaborata. Così, per esempio, l’articolo Die Anfänge Constantins des Großen è quasi del tutto identico al corrispondente capitolo nel primo volume della Geschichte des Untergangs der Antiken Welt89. Ci sembra perciò superfluo riportare in questa sede l’elenco dettagliato di tutti i suoi lavori dedicati a Costantino90.
Come i suoi predecessori, anche Seeck contrappone nel primo volume della sua opera anzitutto entrambi i sistemi di governo implementati da Diocleziano e da Costantino, tipici delle rispettive epoche, nonché i risultati del loro operato nella storia, prima di passare a descrivere, nel secondo volume, il contesto dal punto di vista storico-sociale e i fattori principali che, da esso derivati, determinarono il tramonto del mondo antico. Solo nel primo capitolo del quarto volume, tuttavia, ritroviamo una valutazione più complessiva su Costantino. A differenza di quanto fanno Mommsen e Burckhardt, Diocleziano non è descritto come un grande uomo di Stato, bensì come l’«ideologo stravagante», come un «mezzo genio da strapazzo» privo di reali conoscenze sull’uomo91, come un soldato che governa con pugno di ferro, cosicché il giudizio di Seeck sulle sue riforme appare decisamente più critico di quello formulato a questo proposito dai suoi predecessori. È vero che le sue riforme vengono descritte come efficaci e talvolta ingegnose. La loro concreta attuazione renderebbe però visibile la completa mancanza di considerazione di Diocleziano per ogni aspetto dell’esistente. Nella politica commerciale e nei suoi provvedimenti economici si manifesta la sua ignoranza, specie nel momento in cui tenta di porre rimedio all’inflazione indotta dalle sue politiche mediante l’editto sui prezzi calmierati92. Con questi esperimenti, Diocleziano incarna lo spirito del tempo sempre più disorientato e rilassato che secondo Seeck avrebbe contraddistinto il IV secolo93. Al contrario, Massimiano è visto come un uomo d’azione determinato94, Costanzo Cloro come «un uomo silenziosamente fedele ai propri impegni»95, mentre ciò che sembra caratterizzare Galerio è la sua «sete di potere» e la sua «energia»96. Secondo l’interpretazione di Seeck, in seguito all’abdicazione di Massimiano e di Diocleziano, in un primo tempo si era previsto che Costantino e Massenzio succedessero al trono, poiché entrambi erano infatti sposi promessi delle figlie di Galerio97. Questo progetto fu tuttavia riveduto sotto l’influsso di Galerio, cosicché si giunse per via quasi obbligata alle usurpazioni di Costantino e di Massenzio98. Seeck segue da vicino per questa ricostruzione le testimonianze di Lattanzio99, nonché dell’Anonimo Valesiano100. Secondo Seeck, con la sua nomina ad Augusto Costantino fece valere delle pretese assolutamente legittime. Egli spiega il contemporaneo riconoscimento di Massenzio da parte di Costantino con il proposito di trasformare la tetrarchia differenziata al suo interno per gradi di potere in un collegio di quattro imperatori dalle stesse identiche prerogative di governo, destinato a esser presieduto da un’autorità imperiale superiore priva di uno specifico riferimento territoriale101. Anche il successivo atteggiamento di Costantino non viene interpretato come politicamente motivato e freddamente interessato all’instaurazione di un’unica signoria personale sin dall’inizio. Le particolari condizioni dell’epoca insieme alla debole volontà dei suoi coreggenti di riportare l’ordine lo costrinsero, in ultima analisi, a battersi per farli uscire dalla scena102. Sostenendosi alla testimonianza dei Panegyrici Latini – e recuperando il confronto con Massenzio: intrattabile, voluttuoso, superstizioso103 – Seeck raffigura quindi Costantino alla stregua di un imperatore pacifico ed eroico. Quest’immagine non perde la sua sostanziale validità anche nella spiegazione del conflitto con Licinio, allorché Costantino sarà trascinato in questo conflitto religioso e nella lotta per la conquista del dominio assoluto dall’errato comportamento del suo avversario104. Seeck prende così posizione contro le tesi di Burckhardt e di Mommsen, fondate sulla ricostruzione di Gibbon. Allo stesso modo, in riferimento a quanto scritto da Harnack, egli è consapevole del fatto che, già prima del 312, Costantino era riconosciuto come un credente cristiano, il quale tuttavia subiva l’influenza, più che di un monoteismo caratterizzato da un coerente impianto filosofico, della superstizione ampiamente diffusa nell’esercito, che Seeck giustifica dal canto suo in riferimento ai racconti delle visioni avute in sogno e all’applicazione del monogramma di Cristo sugli elmetti e sugli scudi dei soldati, che a loro volta avrebbero poi dimostrato la loro efficacia nella vittoria contro Massenzio. In conseguenza di ciò, la vittoria riportata sul ponte Milvio è considerata come un vero e proprio trionfo del cristianesimo – trionfo destinato a determinare le sorti dell’umanità per numerosi secoli. In questo modo divenne anche possibile per Costantino imprimere nuovi simboli cristiani sulle sue monete. Nel prosieguo, Seeck cerca di far passare l’idea che Costantino dovette accettare il mantenimento delle feste e dei simboli pagani, pur considerandoli gravi errori, al fine di salvaguardare la pace interna. La legislazione in ambito religioso si rivela funzionale alla diffusione di una severa morale religiosa, per soddisfare in tal modo con efficacia le esigenze del mondo pagano. Seeck respinge pertanto la tesi secondo cui Costantino volle servire il cristianesimo per ragioni puramente politiche, poiché esso si era già imposto come una forza politico-sociale di tutto rispetto, con il convincente argomento che il cristianesimo non era in realtà diffuso in misura maggioritaria tra i più vasti strati della popolazione, e in modo particolare tra i contadini e i soldati. Seeck non interpreta pertanto neppure l’influenza sulle diatribe interne alla Chiesa e sulla presidenza del concilio di Nicea come un’ingerenza diretta della Chiesa o come una prova della sua disponibilità per la difesa degli interessi dello Stato, bensì crede che Costantino abbia voluto convincere i vescovi a adottare un atteggiamento di maggiore tolleranza per condurre la Chiesa alla sua unità sul fronte interno e alla sua emancipazione dallo Stato105.
Per quanto concerne il rapporto del cristianesimo con i culti tradizionali, è vero che Seeck, come già Burckhardt, si richiama al concetto di spirito del tempo. Nella sua lettura, però, lo spirito del tempo non sollecita il grande uomo al compimento della sua opera, bensì, secondo un nesso di causalità opposto rispetto a quello postulato da Burckhardt, sarebbe stato solo l’alto grado di tolleranza implicito ai culti tradizionali a rendere possibile quella stessa opera. Alla luce di una tale argomentazione, il cristianesimo non è perciò giudicato neppure un’istituzione rappresentativa degli interessi dello Stato. Al contrario, la liberazione del clero dalle imposte e le offerte in denaro per le opere di carità rafforzarono «la schiatta di parassiti» presenti all’interno di una società sin troppo rilassata, alla quale il cristianesimo avrebbe potuto arrecare benefici soltanto attraverso la sua dottrina della rivelazione, una combinazione tra religione e filosofia, ma solo in quanto sostegno spirituale106. Ponendo l’accento sul ruolo giocato dai misteri e dalle speranze nell’aldilà nell’affermazione del cristianesimo sulla religione tradizionale, Seeck segue presumibilmente ancora una volta le tesi di Adolf von Harnack, che tuttavia trasforma con grande ironia nelle sue formulazioni, come anche del resto nella rappresentazione delle grandi forme della letteratura cristiana.
Nel rappresentare la personalità di Costantino, Seeck cita, quali punti deboli del suo carattere, in modo particolare l’esagerata clemenza nei confronti dei funzionari e degli uomini a lui più vicini, la vanità e la conseguente brama di autorappresentarsi mediante una «generosità sconfinata» e un’instancabile capacità di tenere discorsi pessimamente redatti. Il suo impegno nell’assistenza delle vedove e degli orfani deriva dalla convinzione di dover realizzare sino in fondo la missione affidatagli da Dio in quanto suo inviato107. La fondazione di Costantinopoli è interpretata come diretta conseguenza di questa vanità personale108. Seeck riconduce il dramma familiare consumatosi nell’uccisione di Fausta e di Crispo alle relazioni extraconiugali di Costantino, richiamando l’attenzione sul fatto che i suoi due figli Costanzo e Costantino non potevano essere figli della stessa madre. Il battesimo in punto di morte avrebbe dovuto permettergli di espiare la responsabilità di questi avvenimenti. Seeck rifiuta quindi la testimonianza di Zosimo secondo cui Costantino divenne cristiano solo dopo il 326 poiché solo a questo punto egli avrebbe potuto essere perdonato dalla Chiesa e la ritiene una mera invenzione. Seeck non interpreta i provvedimenti adottati in vista della successione e la suddivisione dell’Impero sotto l’autorità di quattro diversi Augusti come una prova del fatto che Costantino, già nel 308, era convinto della validità del principio tetrarchico del collegio degli imperatori109.
Seeck valuta tuttavia in modo assai meno positivo le sue riforme militari e amministrative. Così condivide l’accusa lanciata da Zosimo, secondo cui la politica di progressiva barbarizzazione dell’esercito avviata da Costantino promosse, di fatto, la moltiplicazione dei deboli e dei vigliacchi, poiché, in riferimento a Darwin e a Ribot110, Seeck afferma che i lunghi periodi di servizio dei soldati romani finirono per indebolire le loro capacità di riproduzione biologica e che, a causa della graduale esclusione degli elementi valorosi ed energici, andarono via via affermandosi la pigrizia mentale e una sorta di obbedienza acritica nei confronti delle istituzioni: due disposizioni che non potevano far fronte al carattere dei Germani, ricolmo di vitalità111. Le ulteriori innovazioni apportate nell’esercito e nell’amministrazione vengono quindi considerate anche come conseguenze dell’«influsso germanico» sulla parte occidentale dell’Impero romano112, come ad esempio nel caso del nuovo cerimoniale di corte, interpretato in riferimento al repertorio delle consuetudini tipiche dell’incoronazione o della destituzione dei sovrani germanici113. Cionondimeno, nel suo scritto Seeck non rende omaggio alla trasfigurazione mitica delle popolazioni germaniche, usuale per la sua epoca, non distinguendosi esse ai suoi occhi da quelle proprie di altre tribù selvagge114. A differenza di Zosimo115, però, egli attribuisce l’introduzione della separazione fra reparti di frontiera e truppe di movimento come pure il nuovo regolamento sul reclutamento militare a Diocleziano116. Alla luce dei suoi interessi economici Seeck giudica quindi come ben congegnata la riforma monetaria di Costantino. In questo modo lo studioso si pone in contraddizione con una sua precedente ricerca e non si occupa della critica esposta a tal proposito nell’Anonymus de rebus bellicis117, sebbene egli ravvisi anche nel riordinamento complessivo del sistema fiscale un ulteriore piaga della potenza imperiale, che avrebbe contribuito al suo declino118. Con la crescita a dismisura degli apparati amministrativi, la regolamentazione coatta delle province e delle città e le dissestate finanze che ne conseguirono Costantino presentò ai suoi figli compiti quasi irrisolvibili119.
Nell’introduzione abbiamo già richiamato l’attenzione sul fatto che l’articolo pubblicato sulla Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft può essere considerato come lo specchio della ricerca storico-critica su Costantino nel XIX secolo. Il vero e proprio merito dell’articolo apparso sulla Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft a firma di Conrad Benjamin consiste tuttavia – come si sarebbe poi compreso nei decenni immediatamente successivi – nell’aver consistentemente incluso nella narrazione degli eventi storici il costante riferimento ai materiali documentari. La voce intende non tanto valutare questa o quell’azione intrapresa da Costantino, quanto piuttosto rappresentare il suo operato nel suo insieme. Così, ad esempio, sulla scorta delle fonti l’usurpazione di York è rappresentata come un fait accompli, con il quale entrambe le fazioni in lotta seppero addivenire a un accordo tutto sommato soddisfacente. Costantino è allora rappresentato come un politico realista animato da freddi calcoli opportunistici, che nella confusione tipica degli anni compresi fra il 306 e il 312, temporeggiando alla ricerca del proprio tornaconto, seppe cambiare con grande pragmatismo i rapporti di forza sulla scacchiera. Contrariamente alla prima parte dell’articolo, Benjamin descrive la vittoria sul ponte Milvio e l’adesione al cristianesimo a essa correlata non più sulla scorta di una minuziosa ricerca storica bensì occupandosi delle più importanti opinioni testimoniate dagli interpreti. Egli si contrappone quindi in modo arguto a Tillemont, accusato di «prendere tutto per oro colato» con lo stesso, univoco punto di vista di Burckhardt, che in Costantino non vedeva null’altro al di fuori di un uomo irreligioso interessato solo al potere. Nel prosieguo dell’articolo, lo stesso Benjamin, sulla scorta della critica mossa da Seeck, prende le distanze da Burckhardt e difende l’idea che Costantino abbia voluto trarre profitto dall’atteggiamento tollerante di suo padre nei confronti dei cristiani instillando la superstizione religiosa nell’esercito. Egli si batte quindi per dimostrare che l’intuizione del monogramma di Cristo e la sua applicazione sugli scudi dei soldati corrispose a un’idea personale di Costantino, cosa che sarebbe del resto testimoniata anche dalle iscrizioni presenti sull’arco di Costantino. Al contrario, egli ritiene che l’episodio dell’apparizione celeste narrata da Eusebio sia una mera invenzione120. L’operato di Costantino sul piano politico-religioso è suddiviso in due diversi periodi. In una prima fase, durata fino al 324, Costantino cercò di dotare il cristianesimo degli stessi diritti e privilegi propri dei culti tradizionali. In questa prospettiva, anche il conflitto decisivo tra la sua persona e Licinio, inevitabile da un punto di vista di Realpolitik, è interpretato come una guerra per la difesa dei cristiani nella parte orientale dell’Impero. Nella seconda fase, Costantino si allontana in modo inequivocabile dal paganesimo, e prende apertamente posizione a favore delle istituzioni ecclesiastiche. Durante il concilio di Nicea egli è raffigurato come un giudice al di sopra delle parti, sebbene poi le sue idee avrebbero esercitato un’influenza determinante. È vero che all’assassinio dei familiari del 326 viene attribuito un influsso sull’atteggiamento incerto mantenuto da Costantino nell’esecuzione dei provvedimenti adottati contro gli ariani nel 327. Al tempo stesso, Benjamin segue però l’interpretazione di Seeck, il quale riporta la responsabilità della condanna a morte di Fausta e di Crispo ai complicati intrighi di corte, e non piuttosto a un capriccio di Costantino, raffigurato da alcuni quasi alla stregua di un «sultano lunatico». Per un verso Benjamin attribuisce, come già Burckhardt, la fondazione di Costantinopoli alla vanità dell’imperatore, desideroso di erigere un monumento alla sua fama; per un altro egli riconosce anche l’importanza della sua posizione strategica e geografica, individuando nella sua scelta un atto ostile nei confronti di Roma. L’introduzione dei quattro Cesari nell’ambito delle disposizioni adottate per la successione al trono imperiale e la destinazione assegnata alle corrispondenti parti dell’Impero sono considerate come il ritorno al sistema tetrarchico di Diocleziano, alle cui riforme Costantino restò fedele nel corso di tutto il suo regno. Anche in questo caso Benjamin segue le argomentazioni esposte da Seeck. Costantino s’impone nel sistema del nuovo assolutismo monarchico alla stregua di un dominus. Fedele al principio enciclopedico, egli rinuncia nella sua descrizione alla narrazione dei provvedimenti intrapresi in ambito militare, come la separazione dell’esercito in truppe di confine e truppe di occupazione, delle riforme amministrative e della legislazione fiscale, quasi a formulare una valutazione di tipo moderno, come quella che possiamo ritrovare nelle monografie da lui citate in bibliografia. Al contrario, nella ricostruzione della ricchissima attività legislativa procede partendo dalla testimonianza delle fonti storiche e attribuisce a Costantino una costante aspirazione verso la giustizia. Benjamin si trattiene pertanto, anche nella parte conclusiva della sua ricostruzione, dal formulare qualsivoglia interpretazione storico-universale della figura di Costantino o dal fare un commento a margine della questione relativa al ruolo effettivo della politica di Costantino per il tramonto del mondo antico.
Anche in Germania il 1906 e il 1913 furono occasione di scritti e di discorsi commemorativi, nonché di convegni specialistici per via della ricorrenza del giubileo costantiniano121. Per fare solo un esempio, basti pensare all’opera di Edward Schwartz, Constantin und die christliche Kirche, pubblicata a Lipsia nel 1913. Tra le opere andate in stampa in quel periodo merita senz’altro di essere segnalato in questa sede il volume collettaneo edito a cura di Franz Joseph Dölger (1879-1940) con il titolo Konstantin der Grosse und seine Zeit. Gesammelte Studien (Freiburg im Breisgau 1913). Questo scritto commemorativo era dedicato alla memoria di Anton de Wals, rettore del Campo Santo Teutonico, dove Dölger soggiornò per ragioni di studio tra il 1908 e il 1911, perché i presupposti su cui si basavano le sue ricerche archeologiche e quindi anche storico-religiose avevano alimentato in patria il rimprovero che si trattasse di un cattolico appartenente al circolo riformista. Può essere considerato un merito di Dölger l’aver tratteggiato, nell’ambito di una tale rappresentazione orientata in senso cattolico, una rosa di specifiche problematiche dell’epoca di Costantino, un panorama delle molteplici ricerche avviate su Costantino, interessato per la prima volta alla sistematica trasposizione nel campo dell’arte di motivi tratti dalla sua biografia e al trionfo del cristianesimo, come pure al suo ambiente religioso. Nel solco di Burckhardt, ma senza tuttavia la sua interpretazione politica di Costantino, emerse così una pietra miliare della storiografia culturale. Negli anni successivi, Dölger, considerato uno dei più importanti rappresentanti dell’archeologia cristiana, specie dopo la fondazione, nel 1929, della rivista Antike und Christentum, avrebbe aperto la strada a questa considerazione storico-culturale dell’epoca precedente e successiva a Costantino.
1 Cfr. RE IV, C. Benjamin, s.v. Constantinus 2, cc. 1013-1026; Louis Sébastien Le Nain de Tillemont, L’histoire des empereurs et autres princes qui ont régné durant les six premiers siècles de l’Histoire, Paris 1691; E. Gibbon, The Decline and Fall of the Roman Empire, 3 voll., Londra 1776-1788; L. von Ranke, Weltgeschichte, 9 voll., Leipzig 1881-1888. Si veda B. Brennan, Burckhardt and Ranke on the Age of Constantine the Great, in Quaderni di Storia, 41 (1995), pp. 53-65; V. Duruy, Histoire des Romains jusqu’à la mort de Théodose, Paris 1870-1879; G.F. Hertzberg, Geschichte des römischen Kaiserreiches, in Allgemeine Geschichte in Einzeldarstellungen, hrsg. von W. Oncken, Berlino 1880; H. Schiller, Geschichte der Römischen Kaiserzeit, II, Gotha 1887; E. von Wietersheim, Geschichte der Völkerwanderungen, hrsg. von F. Dahn, Leipzig 1859-1864, II, pp. 358-462; O. Seeck, Geschichte des Untergangs der antiken Welt, 6 voll., 1895-1920, II (1898).
2 Cfr. J. Straub, Gibbons Konstantin-Bild, in Gibbon et Rome à la lumière de l’historiographie moderne. Dix exposés suivis de discussions, éd. par P. Ducrey, Genève 1977, pp. 159-185.
3 Cfr. T. Heinze, Konstantin der Große und das konstantinische Zeitalter in den Urteilen und Wegen der deutsch-italienischen Forschungsdiskussion, München 2005, pp. 36-54; K. Lux, Johann Kaspar Friedrich Manso, Der schlesische Schulmann, Dichter und Historiker, Leipzig 1908; J.K.F. Manso, Leben Constantins des Grossen nebst einigen Abhandlungen geschichtlichen Inhalts, Breslau 1817.
4 Cfr. S. Mazzarino, Introduzione a J. Burckhardt, L’Età di Costantino il Grande, Roma 1970, p. 18.
5 Cfr. J.K.F. Manso, Sparta: Ein Versuch zur Aufklärung der Geschichte und Verfassung dieses Staates, 3 voll., Leipzig 1800-1805.
6 Cfr. Louis-Sébastien Le Nain de Tillemont, Histoire des empereurs romains et des autres princes qui ont regné durant les six premiers siècles de l’église, VI, Paris 1690-1738; Bernard De Varenne, Histoire de Constantin le Grand, premier empereur chrétien, Paris 1728; E. Gibbon, The History of the Decline, cit., e Johann Matthias Schröckh, Christliche Kirchengeschichte, Leipzig 1786-1803.
7 Cfr. T. Heinze, Konstantin der Große, cit., pp. 42-43, con particolare attenzione alla nota 48.
8 Cfr. Lact., mort. pers. 29-30.
9 Cfr. J.F.K. Manso, Leben Constantins des Großen, cit., p. 22.
10 Cfr. ivi, pp. 80-83.
11 Cfr. ivi, pp. 89-90.
12 Cfr. ivi, p. 64. Di contro, cfr. Eus., v.C. II 18 e Zonar. XIII 1,26.
13 Zos., II 24,3.
14 Cfr. J.F.K. Manso, Leben Constantins des Großen, cit., p. 67.
15 Ivi, pp. 115-116.
16 Cfr. ivi, p. 119. Zos., II 29 e Soz., h.e. I 5.
17 S. Mazzarino, Introduzione, cit., p. 22.
18 Sull’imposizione fiscale si veda J.F.K. Manso, Leben Constantins des Großen, cit., pp. 184-186. Anche J.-M. Carrié, Le riforme economiche da Aureliano a Costantino, in Storia di Roma, a cura di A. Carandini, L. Cracco Ruggini, A. Giardina, Torino 1988-1993, III/1, Crisi e trasformazioni, pp. 283-322, 751-787, in partic. 308, difende questo punto di vista con riferimentpo a Cod. Theod. XI 1,2,3, XIII 11,1 e VII 20,1.
19 Cfr. J.F.K. Manso, Leben Constantins des Großen, cit., pp. 197, 212.
20 Cfr. ivi, pp. 144, 260. Sulle riforme dell’esercito si veda invece, di contro, Zos. II 34.
21 Cfr. T. Heinze, Konstantin der Große, cit., pp. 73-91; J. Irmscher, Jacob Burckhardts Konstantinbild, in Jacob Burckhardt und die Antike, hrsg. von P. Betthausen, M. Kunze, Mainz 1998, pp. 89-96; B. Brennan, Burckhardt and Ranke on the Age of Constantine the Great, in Quaderni di Storia, 41 (1995), pp. 53-65.
22 Cfr. W. Kaegi, Jakob Burckhardt, Eine Biographie, Basel 1947-1977, VI.
23 Cfr. J.R. Hinde, Jacob Burckhardt and the Crisis of Modernity, Montreal-Ithaca 2000, pp. 88-112; E. Flaig, Im Schlepptau der Masse. Politische Obsession und historiographische Konstruktion bei Jakob Burckhardt und Theodor Mommsen, in Rechtshistorisches Journal, 12 (1993), pp. 405-442; E.W. Zeeden, Die Auseinandersetzung des jungen Jakob Burckhardt mit Glaube und Christentum, in Historische Zeitschrift, 178 (1954), pp. 493-514.
24 Cfr. W. Kaegi, Jacob Burckhardt, cit., III, p. 377.
25 J. Burckhardt, Gesammelte Werke, I, Die Zeit Constantins des Großen, Basel 19782, p. 105.
26 Cfr. G.W.F. Hegel, Werke, XII, Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, Frankfurt a.M. 1986, pp. 45-46; su questo punto si veda inoltre J. Irmscher, cit., p. 95.
27 Cfr. J.K.F. Manso, Das Leben Constantins des Großen, cit.; F.C. Schlosser, Universalhistorische Übersicht, III, Frankfurt a.M. 1831; H.G. Tzschirner, Der Fall des Heidentums, Leipzig 1829; H.F. Clinton, Fasti Romani, Oxford 1845-1850. Nella seconda edizione dell’opera, pubblicata a Lipsia nel 1880, si fa cenno ad alcuni lavori coevi su Diocleziano, come ad esempio K.A. Vogel, Der Kaiser Diokletian. Ein Vortrag am 10. Dezember 1856 zu Jena, Leipzig 1857; O. Hunziker, Zur Regierung und Christenverfolgung des Kaisers Diocletianus und seiner Nachfolger, in Untersuchungen zur römischen Kaisergeschichte, hrsg. von M. Büdinger, II, Leipzig 1868; Th. Preuß, Kaiser Diokletian und seine Zeit, Leipzig 1869; F. von Görres, Kritische Untersuchungen über die licinianische Christenverfolgung, Jena 1875. Su questo punto si veda anche H. Leppin, Zum deutschen Diokletiansbild im 19. Jahrhundert, in Diokletian und die Tetrarchie. Aspekte einer Zeitenwende, hrsg. von A. Demandt, A. Goltz, H. Schlange-Schöningen, Berlin-New York 2004, pp. 193-208.
28 Cfr. H. Leppin, Constantin der Große und das Christentum bei Jacob Burckhardt, in Historie und Leben. Der Historiker als Wissenschaftler und Zeitgenosse. Festschrift für Lothar Gall, hrsg. von D. Hein, K. Hildebrand, A. Schulz, München 2006, pp. 441-452, in partic. 442
29 Cfr. H.G. Tzschirner, Der Fall des Heidentums, hrsg. von C.W. Niedner, I, Leipzig 1829. Sebbene Tzschirner scrisse nelle vesti di teologo, le sue posizioni risultano ispirate a una sostanziale neutralità ideologica. Influenzato da Immanuel Kant egli promosse un’indagine critica del cristianesimo e del suo messaggio etico.
30 Cfr. S. Mazzarino, Introduzione, cit., p. 13.
31 J. Burckhardt, Briefe, Vollständige und kritische Ausgabe, hrsg. von M. Burckhardt, 10 voll., Stuttgart 1949-1994; cfr. la lettera numero 630 indirizzata a Bernhard Kugler nel 1874.
32 Cfr. J. Große, Geschichte lesen oder Geschichte schreiben? Zu Jacob Burckhardts Quellenlektüren, in Archiv für Kulturgeschichte, 81 (1999), pp. 339-370, in partic. 340 e 353-355.
33 Cfr. J. Burckhardt, Über das Studium der Geschichte. Der Text der “Weltgeschichtlichen Betrachtungen” auf Grund der Vorarbeiten von Ernst Ziegler nach den Handschriften herausgegeben von Peter Ganz, München 1982, p. 251.
34 Questo accadde, beninteso, ancor prima che fossero state redatte le grandi edizioni dei testi letterari, delle iscrizioni e del catalogo di monete, cosicché Burckhardt fu per così dire costretto a dare maggior spazio al singolo esempio specifico piuttosto che alla ricostruzione d’insieme. Cfr. J. Burckhardt, Gesammelte Werke, I, cit., München 1982, p. 375.
35 Una panoramica sulla questione è offerta da W. Kaegi, Jakob Burckhardt, cit., III, pp. 383-385.
36 Cfr. K. Christ, Jakob Burckhardt und die römische Geschichte, in Saeculum, 14 (1963), pp. 82-122, in partic. 89 e 93.
37 J. Burckhardt, Gesammelte Werke, I, cit., p. 272.
38 Ivi, cit., p. 309.
39 Cfr. T. Heinze, Konstantin der Grosse, cit. pp. 92-109.
40 Cfr. S. Rebenich, Theodor Mommsen. Eine Biographie, München 2002.
41 Cfr. S. Rebenich, Giovanni Battista de Rossi und Theodor Mommsen, in Lebendige Antike, Rezeptionen der Antike in Politik, Kunst und Wissenschaft der Neuzeit, hrsg. von R. Stupperich, Mannheim 1995, pp. 173-186.
42 Cfr. J. Malitz, Nachlese zum Briefwechsel Mommsen-Wilamowitz, in Quaderni di Storia, 17 (1983), pp. 123-150, in partic. 127; K. Christ, Th. Mommsen, Römische Kaisergeschichte nach den Vorlesungsmitschriften von Sebastian und Paul Hensel 1882/86, in Göttingische Gelehrte Anzeigen, 245 (1993), pp. 201-236, in partic. 202-204.
43 Cfr. Th. Mommsen, Römische Kaisergeschichte nach den Vorlesungsmitschriften von Sebastian und Paul Hensel 1882/86, hrsg. von A. Demandt, B. Demandt, München 1992, pp. 36-45.
44 Cfr. K. Christ, Von Caesar zu Konstantin. Beiträge zur Römischen Geschichte und ihrer Rezeption, München 1996, p. 208; Id., Th. Mommsen, Römische Kaisergeschichte cit., p. 236.
45 Cfr. Th. Mommsen, Römische Kaisergeschichte nach den Vorlesungsmitschriften von Sebastian und Paul Hensel 1882/86, cit., pp. 429-581.
46 Cfr. G.F. Hertzberg, Geschichte des römischen Kaiserreiches, Berlino 1880-1896; H. Richte, Das weströmische Reich, Berlino 1865; M. August von Bethmann-Hollweg, Der germanisch-romanische Civilprozess, Bonn 1868.
47 Cfr. Th. Mommsen, Römische Kaisergeschichte nach den Vorlesungsmitschriften von Sebastian und Paul Hensel 1882/86, cit., p. 520.
48 Ivi, pp. 429 e 527.
49 Cfr. ivi, p. 514.
50 Cfr. B. Croke, Theodor Mommsen and the Later Roman Empire, in Chiron, 20 (1990), pp. 159-189; B. Croke, Mommsen on Gibbon, in Quaderni di Storia, 32 (1990), pp. 47-59.
51 Cfr. Th. Mommsen, Römische Kaisergeschichte nach den Vorlesungsmitschriften von Sebastian und Paul Hensel 1882/86, cit., pp. 474-475.
52 Cfr. ivi, pp. 499-500.
53 Cfr. A. Demandt, Geschichte der Geschichte, Köln 1997, pp. 236 e 239.
54 Cfr. A. Demandt, Mommsen zum Niedergang Roms, in Historische Zeitschrift, 261 (1995), pp. 23-49.
55 Cfr. Th. Mommsen, Römische Kaisergeschichte nach den Vorlesungsmitschriften von Sebastian und Paul Hensel 1882/86, cit., p. 508.
56 Cfr. ivi, p. 511.
57 Cfr. Lact., mort. pers. 48. J. Bleicken, Constantin der Große und die Christen, München 1992, pp. 18-19.
58 Cfr. Th. Mommsen, Römische Kaisergeschichte nach den Vorlesungsmitschriften von Sebastian und Paul Hensel 1882/86, cit. 1992, p. 524; H. Schlange-Schöningen, Konstantin der Große und der “Kulturkampf“, Bemerkungen zur Bewertung des ersten christlichen Kaisers in Theodor Mommsens Römischer Kaisergeschichte, in Gymnasium, 104 (1997), pp. 385-397, in partic. 392. A questa attitudine di Mommsen è riconducibile anche la sua critica, ribadita con insistenza, alle correnti antisemite sempre più diffuse nella società del suo tempo, O. Seeck, Zur Charakterisierung Mommsens, in Deutsche Rundschau, 118 (1904), pp. 75-108, in partic. 104.
59 Cfr. A. Demandt, Mommsen zum Niedergang Roms, cit., p. 35; Th. Mommsen, Römische Kaisergeschichte nach den Vorlesungsmitschriften von Sebastian und Paul Hensel 1882/86, cit., p. 233.
60 Ivi, p. 581.
61 Cfr. T. Heinze, Konstantin der Große, cit., pp. 155-166.
62 Cfr. S. Rebenich, Theodor Mommsen und Adolf Harnack, Wissenschaft und Politik im Berlin des ausgehenden 19. Jahrhunderts, Berlin 1997.
63 Cfr. K.J. Neumann, Der roemische Staat und die allgemeine Kirche bis auf Diocletian, Lipzig 1890; Th. Mommsen, Römische Geschichte, Leipzig 1854-1886; e anche H. Kiepert, Historisch-geographischer Atlas der Alten Welt, Weimar 1857.
64 Harnack però non attribuisce la responsabilità del declino dell’Impero al cristianesimo, bensì piuttosto alla scomparsa del sentimento di reciproca appartenenza in seno alla popolazione dell’Impero. Cfr. A. Demandt, Der Fall Roms, Die Auflösung des römischen Reiches im Urteil der Nachwelt, München 1984, p. 257.
65 Cfr. A. Harnack, Die Mission und Ausbreitung des Christentums in den ersten drei Jahrhunderten, Leipzig 1902, p. 581.
66 Ivi, p. 955.
67 Cfr. ivi, p. 585.
68 Ivi, p. 512.
69 Cfr. ivi, p. 513.
70 Cfr. ivi, p. 954; J. Jantsch, Die Entstehung des Christentums bei Adolf von Harnack und Eduard Meyer, Bonn 1990, p. 142.
71 Cfr. T. Heinze, Konstantin der Große, cit., pp. 131-154; S. Lorenz, Otto Seeck und die Spätantike, in Historia, 55 (2006), pp. 228-243.
72 Cfr. S. Rebenich, Otto Seeck, Theodor Mommsen und die “Römische Geschichte“, in Imperium Romanum. Studien zu Geschichte und Rezeption. Festschrift für Karl Christ zum 75. Geburtstag, hrsg von P. Kneissl, V. Losemann, Stuttgart 1998, pp. 593-594. Cfr. anche O. Seeck, Zur Charakterisierung Mommsens, cit., pp. 102-104.
73 Cfr. O. Seeck, Quaestiones de Notitia Dignitatum. Dissertatio inauguralis, Berolini 1872, e Id., Notitia Dignitatum, accedunt notitia urbis Constantinopolitanae et laterculi provinciarum, Berolini 1876.
74 Cfr. O. Seeck, Die Reden des Symmachus und ihre kritische Grundlage, in Commentationes philologae in honorem T. Mommseni, Berolini 1877; Quinti Aurelii Symmachi quae supersunt, hrsg. von O. Seeck, Monumenta Germaniae Historica, VI, Berolini 1883.
75 Cfr. S. Rebenich, Otto Seeck, Theodor Mommsen und die “Römische Geschichte“, cit., p. 587. Allo stesso modo, la carriera scientifica di Seeck può essere considerata come un esempio di riferimento per la sua generazione di studiosi nel sistema universitario prussiano.
76 Cfr. S. Rebenich, Otto Seeck und die Notwendigkeit, Alte Geschichte zu lehren, in Wilamowitz in Greifswald, Akten der Tagung zum 150. Geburtstag Ulrich von Wilamowitz-Moellendorffs (Greifswald 19.-22. Dezember 1998), hrsg. von W.M. Calder III, M.C. Dubischar, M. Hose et al., Hildesheim 2000, pp. 262-298.
77 Cfr. S. Rebenich, Theodor Mommsen und Adolf von Harnack, cit., p. 288.
78 Cfr. L. Radermacher, Otto Seeck, in Biographisches Jahrbuch für Altertumskunde, 46 (1926), pp. 50-60.
79 Cfr. S. Rebenich, Otto Seeck, Theodor Mommsen und die “Römische Geschichte“, cit., p. 602, e H. Leppin, Ein “Spätling der Aufklärung“: Otto Seeck und der Untergang der antiken Welt, in Imperium Romanum, Studien zur Geschichte und Rezeption, Festschrift für Karl Christ, cit., pp. 472-491, in partic. 481.
80 Cfr. S. Rebenich, Einleitung zur Neuauflage, in O. Seeck, Geschichte des Untergangs der Antiken Welt, Darmstadt 20004, I, pp. XI-XV.
81 Cfr. S. Mazzarino, Storia romana e storiografia moderna, Napoli 1954, p. 44.
82 Cfr. S. Mazzarino, La fine del mondo antico. Le cause della caduta dell’impero romano, Milano 1959, pp. 125-140; A. Demandt, Der Fall Roms, Die Auflösung des römischen Reiches im Urteil der Nachwelt, München 1984, p. 375; H. Leppin, Ein “Spätling der Aufklärung, cit., pp. 472-491; S. Rebenich, Einleitung zur Neuauflage, in O. Seeck, Geschichte des Untergangs der Antiken Welt, cit., pp. XI-XV.
83 Cfr. S. Rebenich, Otto Seeck und die Notwendigkeit, Alte Geschichte zu lehren, in Wilamowitz in Greifswald, cit., pp. 290-2911, con una rassegna delle recensioni, fra le quali si segnala quella di B. Niese in Historische Zeitschrift, 77 (1896), pp. 277-280. Più positiva è invece G.F. Hertzberg in Berliner Philologische Wochenschrift, 15 (1895), pp. 1426-1431 e 1456-1461.
84 Cfr. S. Rebenich, Otto Seeck, Theodor Mommsen und die “Römische Geschichte”, cit., pp. 604-605.
85 Cfr. O. Spengler, Der Untergang des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte: I, Wien, 1918; II, München, 1922.
86 Cfr. J. Burckhardt, Die Zeit Constantins des Großen, Basel 1853; V. Duruy, Histoire des Romains, Paris 1879; T. Mommsen, Römische Geschichte, Leipzig 1854-1886; T. Preuss, Kaiser Diocletian und seine Zeit, Leipzig 1869; H. Schiller, Geschichte der römischen Kaiserzeit, Gotha 1883-1887.
87 Cfr. A. Harnack, Die Mission, und Ausbreitung des Christentum, Leipzig 1902; A. Harnack, Lehrbuch der Dogmengeschichte, Leipzig 1886-1890; V. Schultze, Geschichte des Untergangs des griechisch-römischen Heidentums, Jena 1887; L. Seuffert, Constantins Gesetze und das Christentum. Festrede zur Feier des 309ten Stiftungstages der königlichen Julius Maximilians Universität Wüürzburg, Würzburg 1891.
88 Cfr. H. Leppin, Ein “Spätling der Aufklärung, cit., p. 487.
89 Cfr. O. Seeck, Die Anfänge Constantins des Grossen, in Zeitschrift für Social-und Wirtschatfsgeschichte, 1 (1892), pp. 189-281; Id., Geschichte des Untergangs der antiken Welt, I, Stuttgart 1895, pp. 42-188.
90 Cfr. A. Gonzalez Blanco, Evocando a Otto Seeck. Studia Historica, in Historia Antigua, 6 (1988), pp. 7-15, dove si offre un elenco dettagliato dei suoi scritti; S. Lorenz, Otto Seeck und die Spätantike, cit. T. Heinze, cit., p. 134 nota 26.
91 O. Seeck, Geschichte des Untergangs der Antiken Welt, I, Stuttgart 19214, p. 1.
92 Cfr. ivi, II, p. 236.
93 Cfr. ivi, I, p. 10.
94 Cfr. ivi, I, p. 25.
95 Ivi, I, p. 29.
96 Ivi, I, p. 31.
97 Cfr. ivi, I, p. 34.
98 Cfr. ivi, I, p. 46.
99 Lact., mort. pers. 18,8.
100 Anon. Vales., I 4 e 9.
101 O. Seeck, Geschichte des Untergangs der Antiken Welt, I, cit., pp. 89 e 486 con il rimando a Paneg. 6(7)7,6: «tu potes imperium, Maximiane, donare, non potes non habere».
102 O. Seeck, Geschichte des Untergangs der Antiken Welt, I, cit., p. 112.
103 Cfr. ivi, I, p. 80.
104 Cfr. ivi, I, pp. 173-183.
105 Cfr. ivi, I, pp. 64-65.
106 Cfr. ivi, III, p. 235.
107 Cfr. ivi, I, pp. 55-56.
108 Cfr. ivi, III, p. 421.
109 Cfr. ivi, I, p. 186.
110 Cfr. T.A. Ribot, L’hérédité: étude psychologique sur ses phénomènes, ses lois, ses causes, ses consequences, Paris 1873.
111 Cfr. O. Seeck, Geschichte des Untergangs der Antiken Welt, I, cit., pp. 264-268.
112 Ivi, I, p. 422.
113 Cfr. ivi, II, pp. 11-12.
114 Cfr. ivi, I, pp. 196 e 201.
115 Cfr. Zos., II 34.
116 Cfr. O. Seeck, Geschichte des Untergangs der Antiken Welt, cit., II, p. 45.
117 Cfr. O. Seeck, Die Münzpolitik Diokletians und seiner Nachfolger: I, in Zeitschrift für Numismatik, 17 (1890), pp. 36-89; Die Münzpolitik Diokletians und seiner Nachfolger: II, in ivi, 17 (1890), pp. 113-166, in partic. 150-151.
118 Cfr. O. Seeck, Geschichte des Untergangs der Antiken Welt, II, cit., pp. 249-284.
119 Cfr. ivi, IV, p. 27.
120 A questo proposito si rimanda al volume di A. Crivellucci, Della fede storica in Eusebio nella Vita di Costantino, Livorno 1888.
121 H. Schlange-Schöningen, Das Bild Konstantins in der Neuzeit, in Konstantin der Große. Geschichte-Archäologie-Rezeption, Internationales Kolloquium zur Landesausstellung Rheinland-Pfalz ‘Konstantin der Große’ (Universität Trier 10.-15 Oktober 2005), hrsg. von A. Demandt, J. Engemann, Trier 2006, pp. 285-286; e J. Vogt, Constantinus der Große, in Reallexikon für Antike und Christentum, 3 (1957), cc. 306-307.