Burgenses
Fra gli elementi più tradizionalmente 'medievali' della politica di Federico II vi fu l'incapacità di cogliere le potenzialità di sviluppo economico e sociale che il fenomeno cittadino, prorompente nell'Italia centrosettentrionale, avrebbe offerto al suo Regno. Contro certe tendenze celebrative degli storici tedeschi, la storiografia italiana ha sottolineato questo aspetto fin dalla prima metà del secolo scorso, forse anche per rispondere alla questione dell'arretratezza del Mezzogiorno d'Italia che, per l'appunto, si poneva urgentemente nella politica e nella cultura nazionale. Alla caccia di tracce dell'organizzazione comunale nell'Italia meridionale, Francesco Calasso doveva ammettere già nel 1929 che il sistema amministrativo promosso dal monarca svevo non previde mai una partecipazione al governo cittadino dell'"elemento popolare" ‒ cioè appunto i non nobili abitanti delle città: i burgenses. Più severo, se possibile, il giudizio di Ernesto Sestan (1950), secondo il quale "Federico non riuscì mai a capire le città come autonomi organismi politici, sociali, economici, morali; come dire che non riuscì a capire o a intuire una delle forze storiche più vive e possenti del suo tempo e del tempo avvenire". Un giudizio ripreso e argomentato in anni più recenti da Salvatore Tramontana (1983) e ‒ infine ‒ da David Abulafia (1988).
In effetti l'architettura amministrativa del Regnum dettata attraverso le norme del Liber Augustalis non attribuisce valore rilevante alla categoria dei burgenses, che pure trova numerose menzioni nelle norme federiciane. Ma si tratta nella maggior parte dei casi di citazioni fatte nel quadro di graduazioni di pene che si applicavano in misura diversa a seconda del ceto al quale apparteneva il responsabile di un'infrazione. Così le rubriche I, 10, I, 32, I, 101, II, 3, mentre altrove la menzione dei burgenses compare ove si prescrive il numero di testimoni necessari nella prova giudiziaria sostitutiva del duello di diritto franco (II, 32), che doveva adeguarsi alla qualitas dei testimoni: a due conti equivalgono quattro baroni, oppure otto milites, o sedici burgenses.
Ancora la qualitas personarum, cioè la distinzione legislativa in ceti, giustifica l'equiparazione dei rustici ai burgenses ove Federico prescrive la pena della mutilazione per l'aggressore di un nobile.
Chi sono dunque questi borghesi che si situano nella gerarchia cetuale un gradino sopra i villani e uno sotto la nobiltà militare inferiore? Lo chiarisce Andrea d'Isernia nel suo commento alla citata costituzione che abolisce il duello (II, 32) e poi in qualche passaggio della Lectura feudorum: i burgenses sono i sudditi che non abitano in casali sparsi o in ville rurali, ma si concentrano nei centri urbani. Possono essere personaggi stimati e ricchi, ma non partecipano dello speciale rapporto con il sovrano che godono i nobili feudali. Il fatto di non detenere beni in feudo dal sovrano, però, non li svincola dal rapporto di fedeltà che è dovuto indistintamente dai sudditi del Regno. Questi artigiani, bottegai, mercanti che dimorano nelle città demaniali o nelle poche città feudali rappresentano in qualche modo il passaggio dalla soggezione del vassallo, personale e dipendente dal giuramento feudale, alla soggezione del suddito, dovuta piuttosto alla sua appartenenza al territorio soggetto a iurisdictio.
Su questa iurisdictio, però, i borghesi delle città non riuscirono a mettere le mani, almeno durante il regno di Federico. Anche la partecipazione di rappresentanti delle città alle Curie generali non si tradusse in una forma di partecipazione alle dinamiche di governo, ma tutt'al più offrì l'occasione di innalzare suppliche al sovrano e di ricevere le sue decisioni insindacabili.
I burgenses delle città demaniali, del resto, traevano la propria relativa agiatezza dalla dipendenza diretta dal sovrano, che ne garantiva la libertà dalle richieste di potentati locali e assicurava loro il godimento dei beni allodiali. Tanto che nel Meridione i beni goduti non in feudo, ma in piena proprietà, saranno detti per secoli 'burgensatici'. Il che fa pensare che in fondo, nonostante le peculiarità feudali del Regnum, anche nel Mezzogiorno federiciano la città sia stata il luogo dello scambio economico meno influenzato dai rapporti di potere feudali, e la proprietà privata si sia configurata come istituto caratteristico del mondo borghese.
fonti e bibliografia
Die Konstitutionen Friedrichs II. für das Königreich Sizilien, a cura di W. Stürner, in M.G.H., Leges, Legum sectio IV: Constitutiones et acta publica, imperatorum et regum, II, Supplementum, 1996.
F. Calasso, La legislazione statutaria dell'Italia meridionale, Roma 1929.
E. Sestan, Il significato storico della 'constitutio in favorem principum' di Federico II, in Atti del Convegno Internazionale di Studi Federiciani, Palermo 1950.
M. Caravale, Il regno normanno di Sicilia, Milano 1966.
S. Tramontana, La monarchia normanna e sveva, in Il Mezzogiorno dai Bizantini a Federico II, a cura di A. Guillou et al., Torino 1983 (Storia d'Italia, diretta da G. Galasso, III), pp. 435-810.
D. Abulafia, Frederick II. A Medieval Emperor, London 1988 (ediz. it. Federico II. Un imperatore medievale, Torino 1990).