burocratese
Col termine burocratese si indicano, con accezione negativa, lo stile comunicativo e il linguaggio inutilmente complicato utilizzati da amministrazioni e istituzioni pubbliche nelle comunicazioni (prevalentemente scritte) connesse allo svolgimento dei loro compiti di mediazione tra le prescrizioni normative, le strutture che devono curarne l’applicazione e le categorie di cittadini cui sono destinate.
Il termine, circolante soprattutto sui giornali e la pubblicistica e di recente formazione (attestato a partire dalla metà degli anni Settanta del Novecento; risale agli anni Trenta il corrispettivo anglo-americano bureaucratese), è modellato su neologismi affini (politichese, sindacalese, ecc.), volti a indicare negativamente la tendenza di settori della società contemporanea a esprimersi con linguaggi/gerghi ‘separati’, di tipo e con effetto ‘iniziatico’.
Accanto a burocratese, che comincia a circolare anche in documenti ufficiali, in italiano esistono denominazioni equivalenti, quali antilingua (Calvino 1965), burolingua (Garelli 1968), lingua della burocrazia (Cassese 1983; Zorzi Calò 1995), italiano (linguaggio) burocratico (Basile 1991; Serianni 2003: 123-139; Trifone 2006) e scrittura burocratica (Raso 2005). In questa voce, oltre a burocratese, si utilizzerà la locuzione scrittura amministrativa (Manuale di scrittura amministrativa del 2003), denotativa e giuridicamente più precisa di altre (come comunicazione di interesse generale, Arena 1995; comunicazione pubblica e istituzionale, Piemontese 1999; comunicazione istituzionale, Zuanelli 2000; scrittura istituzionale, Cortelazzo & Pellegrino 2003).
Se il termine burocratese è recente, ciò ch’esso designa ha ben più estesa storia, caratterizzata dal ricorrente dualismo tra le necessità di unificazione proprie della scrittura amministrativa (delle cancellerie e, in seguito, degli uffici), che ne fanno una delle forze centripete di maggior rilievo nella storia dell’italiano, e la correlativa tendenza a stilizzarsi come lingua ‘ufficiale’, distante dagli usi comuni. Così, dopo il particolarismo comunale, nel corso del Quattrocento, con il costituirsi di formazioni statali regionali, si delineano delle koinè cancelleresche sovramunicipali nelle quali componenti del latino curiale e giuridico si mescolano con persistenze dialettali e soprattutto con il sempre più forte influsso del modello toscano. Non tardano a manifestarsi prese di posizione contro l’incomprensibilità di tali scritture, che, come lamentato già nel 1540 da ➔ Benedetto Varchi (Storia fiorentina XVI, 4), «appariscono ancora più lettere scritte non in cifra, ma in un gergo a uso di lingua furfantina molto strano», mentre nei suoi Avvertimenti della lingua (1584-86), Lionardo Salviati dedica un intero capitolo (I, ii, 5), assai severo, alla «lingua dei moderni Cancellieri, o come oggi si dice loro, Segretari di corte»; considerazioni altrettanto critiche si leggono nelle Lettere discorsive (1578) di Diomede Borghesi (cfr. Migliorini 1988: 363).
Nei secoli successivi, i contatti dapprima con l’apparato statale e burocratico spagnolo, poi (nel corso del Settecento) con il lessico politico e amministrativo francese arricchirono di termini e costrutti nuovi le scritture amministrative italiane, ma finirono per allontanarle ulteriormente dalla lingua comune, contribuendo anche a definire i caratteri specifici (locali e regionali) delle diverse burocrazie preunitarie. Accese reazioni contro questa evoluzione si ebbero a più riprese nel corso dell’Ottocento: già nel 1803, in un sonetto di stampo alfieriano, Carlo Botta si scagliava contro i termini e costrutti francesi nella lingua degli uffici, e l’anno successivo Vincenzo Monti, nella Prolusione al suo corso di eloquenza all’Università di Pavia, non si limitava a inveire contro «il barbaro dialetto nelle pubbliche amministrazioni, ove penne sciaguratissime propagano e consacrano tutto il dì l’ignominia del nostro idioma», ma ne determinava la perniciosa natura nell’«orrida mistura» tra oscuri latinismi, arcaismi latineggianti, voci «mal composte» e, soprattutto, crudi forestierismi (lessicali e morfosintattici). Appunto contro tali caratteri si scagliano numerosi repertori ottocenteschi d’ispirazione puristico-classicistica, dall’Elenco di alcune parole oggidì frequentemente in uso, le quali non sono ne’ vocabolari italiani (1812) compilato da Giuseppe Bernardoni, al Vocabolario di parole e modi errati che sono comunemente in uso specialmente negli uffizi di Pubblica Amministrazione di Filippo Ugolini (1848, 18552), alla raccolta di Alcune frasi e voci errate nel foro e ne’ pubblici uffizj (1876) di Carlo Gambini (Zolli 1980), fino al Lessico dell’infima e corrotta italianità di Pietro Fanfani e Costantino Arlia (1881).
Non mancarono certo prese di posizione più ponderate, come la raccolta di Voci italiane ammissibili benché proscritte dall’Elenco del sig. Bernardoni (1812) di Giovanni Gherardini, in cui si ammettevano i forestierismi necessari ai diversi usi della lingua (specie quelli burocratico-amministrativi) ed erano esclusi solo i tecnicismi dalla manifesta connotazione regionale; o l’equilibrato Dizionario di pretesi francesismi (1858) di Prospero Viani, in cui si riammettevano molti dei forestierismi burocratici infondatamente proscritti. E talora ci si poneva quello che oggi si chiamerebbe il problema della semplificazione del linguaggio burocratico:
«uno stile positivo, chiaro e conciso, per quanto può esserlo, senza nuocere all’intelligenza […] si otterrà se si eviteranno i vocaboli di multiforme significato; se la costruzione sarà la più semplice possibile; se i periodi saranno brevi; se non si adopereranno voci nuove o straniere che in caso di assoluta necessità» (Giuseppe Dembsher, Manuale, o sia Guida per migliorare lo stile di cancelleria, 1830, cit. in Scotti Morgana 1984: 66)
In ogni caso, il bisogno comune sullo sfondo di questo frastagliato panorama è la prima, e perlopiù inconsapevole, manifestazione dell’esigenza di unificazione e snellimento delle procedure e strutture burocratico-amministrative che si erano formate e consolidate nei diversi Stati preunitari e che rappresentavano un forte ostacolo alla unificazione italiana. Con il compimento dell’unità nazionale, la creazione di un’amministrazione pubblica centralizzata portò sicuri effetti di unificazione e razionalizzazione di procedure, regolamenti e terminologie. Ma tale unificazione, attuata da una schiera di funzionari che, trasferiti dalle regioni di provenienza a nuove sedi, avevano dovuto abbandonare le loro abitudini linguistiche originarie, avvenne soprattutto per via scritta e sulla base del ristretto modello linguistico imposto dalla piccola borghesia centro-meridionale che aveva occupato in gran parte i posti dell’amministrazione pubblica, specie dopo il trasferimento della capitale a Roma (cfr. Melis & Tosatti 2001). La forte centralizzazione burocratica perseguita dal regime fascista contribuì a consolidare questo stato di cose, rimasto sostanzialmente immutato fino al secondo dopoguerra.
Così definitasi, la scrittura burocratico-amministrativa si articola in una gamma di tipi o generi di testi caratterizzati da un maggiore o minore grado di vicinanza alle fonti normative di cui costituiscono la traduzione attuativa: circolari, lettere e istruzioni rivolte dalle amministrazioni al loro interno, ai propri funzionari, con lo scopo di dare istruzioni, indicazioni e/o regolamenti per l’applicazione di prescrizioni normative; comunicazioni al pubblico (lettere, avvisi, istruzioni, ecc.); moduli, stampati, formulari, ecc. In tutte queste forme testuali, ricorrono, naturalmente con diverse frequenze, alcuni tratti lessicali, morfosintattici, testuali e stilistici che possiamo considerare come distintivi dell’italiano burocratico.
Quanto al lessico, il tratto più frequente e caratteristico è certo quello dei deverbali a suffisso zero (➔ deaggettivali nomi; deverbali, nomi), che consente tra l’altro di evitare il cumulo dei suffissi: accompagno, esubero, immobilizzo, inoltro, reintegro, ripristino, scorporo, subentro, utilizzo, ecc. Molto diffusi (De Mauro 1991: 106, 221-222) sono anche i verbi denominali (➔ denominali e deaggettivali, verbi), costruiti coi suffissi -are (con o senza complemento diretto: contravvenzionare, defezionare, disdettare, incentivare, relazionare, attergare, dimissionare) e soprattutto -izzare (di derivazione francese): monopolizzare, ospedalizzare, quotizzare, regionalizzare, zonizzare (e zonizzazione), ecc. Diffuse anche le forme ellittiche costituite da sostantivi giustapposti senza preposizione: busta paga, comitato prezzi, tassa rifiuti solidi urbani, ufficio rimborsi. Ricerca di brevità e tendenza alla gergalità sono in egual misura all’origine della predilezione per acronimi (Artigiancassa, Confesercenti), sigle (ILOR, IRPEF, TARSU, TOSAP) e abbreviazioni (S.V. = «signoria vostra»; u.s. = «ultimo scorso», nelle date).
Caratteristico, ma non troppo esteso, l’uso di tecnicismi (termini e locuzioni) specifici dell’ambito burocratico: accusare ricevuta, evadere una pratica, incartamento, oblazione, protocollare, vistare, visura, ecc.; mentre più diffusi risultano i ‘tecnicismi collaterali’: compiegare («allegare»), declinare (le proprie generalità), esito e riscontro («risposta»), (trattamento di) quiescenza («pensione»), ecc.
Ricorrono spesso anche gli aggettivi sostantivati: consuntivo, preventivo, ecc., in particolare derivati dal participio (presente e passato: il delegante, il verbalizzante, il comandato), e forme aggettivali in -ale (sul modello dell’inglese): compartimentale, concorsuale, dirigenziale, interinale, vertenziale, ecc.
È in netto aumento negli ultimi decenni l’introduzione di forestierismi (perlopiù anglicismi), di solito non adattati: customer care, front-office, governance, privacy, ecc. Ma resiste la presenza di latinismi, prevalentemente di ascendenza giuridica: afferire /afferenza, cooptare / cooptazione, dirimere / dirimente, inficiare, ubicare /ubicazione; ad acta (commissario), iter, memorandum, una tantum, ecc.; né mancano locuzioni di origine latina, come in calce («a fine testo, a piè di pagina»). E all’uso giuridico latino rimandano pure coppie quali locatario-locatore, donatario (o donante)-donatore, destinatario-mittente.
Abbondano, naturalmente, gli ➔ arcaismi (corresponsione, obliterare, previo, siffatto; alcuno invece di nessuno; addì e li nelle indicazioni di date), spesso d’ambito giuridico (dazione, rileva). E frequenti risultano attenuazioni (non vedente o ipovedente, motuleso; ➔ politically correct) e perifrasi eufemistiche (mancato accoglimento, messa in mobilità, distrazione di fondi).
A livello morfosintattico, nell’ambito dei connettivi frequente risulta l’uso di forme letterarie o comunque lontane dalla lingua comune: ancorché, altresì, onde, ove, purché, all’uopo. Frequente anche il ricorso a locuzioni preposizionali di sapore libresco: a far tempo da, ai sensi di, con riferimento a, a mezzo di, in ordine a, in osservanza a, ecc. Largamente presente è l’uso dell’enclisi pronominale con l’indicativo o il congiuntivo: dicesi, trattasi, vedasi.
Tra le forme implicite del verbo, il participio presente è spesso utilizzato in funzione verbale (la circolare avente per oggetto, spesso con anteposizione del participio: lo scrivente ufficio) e il gerundio e il participio passato sono spesso usati in luogo di subordinate esplicite (viste le risultanze, sentito il parere, avendo trasmesso la pratica). Allo stile del linguaggio giuridico rimandano anche il frequente impiego della costruzione passiva (la delibera è stata ratificata) e di forme verbali impersonali (si dà avviso che, si porta a conoscenza della S.V. che) e l’uso del futuro con valore deontico: l’ufficio ricevente trasmetterà (= «dovrà trasmettere») la documentazione, ecc.
Tipici della scrittura burocratica sono la predilezione per verbi sentiti come più specifici, tecnici (o comunque più elevati) in luogo di equivalenti considerati più generici: effettuare o realizzare (invece di fare), costituire (in luogo di essere) e il ricorso al tipo verbo + complemento al posto del solo verbo: dare comunicazione («comunicare»), effettuare/procedere a una verifica («verificare»).
E proprio la ridondanza, l’inutile complessità, l’aulica ampollosità sono, a livello sintattico, tratti salienti della scrittura amministrativa, a cominciare dalla tendenza alla costruzione di strutture periodali fortemente nominalizzate, nelle quali la funzione predicativa non è svolta dal verbo, di cui sono perlopiù sottintesi gli argomenti (a presentazione del rendiconto, l’accoglimento del ricorso, ecc.), fino alla spiccata predilezione per strutture periodali lunghe e complicate, basate su costruzioni ipotattiche (piuttosto che paratattiche) spesso faticosamente ramificate e mal puntellate dal frequente ricorso a formule anaforiche e cataforiche di sentore aulico: anzidetto / predetto, summenzionato, infrascritto, ecc.
Dall’insieme dei tratti sin qui notati si possono trarre indicazioni per una caratterizzazione della scrittura burocratico-amministrativa. In primo luogo, è confermato il suo stretto legame con il linguaggio giuridico (e normativo in particolare; ➔ giuridico-amministrativo, linguaggio), da cui assorbe, estremizzandole, non poche peculiarità. In secondo luogo, la scarsità di tecnicismi specifici e la discreta presenza di pseudotecnicismi (o tecnicismi collaterali) sembrano differenziare la scrittura amministrativa dalla categoria delle lingue speciali, avvicinandola piuttosto all’ambito dei linguaggi settoriali (Sobrero 1993: 237-240). A questa peculiarità si associa, infine, la sua costitutiva lontananza dagli usi comuni e informali della lingua, il suo irrigidimento in una formalizzazione aulica del tutto diversa da quella delle lingue speciali scientifiche. Essa, tuttavia, anche per i frequenti contatti delle strutture e delle procedure burocratiche con la vita dei cittadini, si rivela come una varietà dotata di forte capacità di espansione nella lingua d’uso corrente, in particolare nelle forme meno sorvegliate della prosa giornalistica e in molti stereotipi d’uso comune, specie nelle comunicazioni del cittadino con gli uffici pubblici (cfr. Beccaria 1988: 168-177; Mengaldo 1994: 60-61, 64-65, 277-280), conquistandola, per così dire. Peraltro, nella forte tendenza conservatrice operante nell’uso burocratico-amministrativo può anche essere rilevata un’azione di contrappeso ai veloci cambiamenti che hanno interessato l’italiano negli ultimi decenni (Serianni 1986: 53).
Contro la pervasività e, soprattutto, l’oscurità del burocratese si sono levate in tempi anche molto lontani voci che ne chiedevano la semplificazione, anche attraverso la riforma dell’apparato amministrativo statale.
Trascurando iniziative precedenti (Piemontese 1998: 270-272), l’impulso decisivo a rendere gli atti amministrativi, oltre che giuridicamente coerenti, linguisticamente trasparenti è stato dato dal Codice di stile delle comunicazioni scritte a uso delle pubbliche amministrazioni, promosso nel 1993 dal ministro della Funzione pubblica Sabino Cassese, e seguito dal Manuale di stile (1997), con esempi di riscrittura semplificata di testi e documenti in burocratese e con un capitolo di «suggerimenti per un uso non discriminatorio» (non sessista e politicamente corretto) della lingua. Dalle raccomandazioni e suggerimenti si passa a prescrizioni operative, che impongono il ricorso a strategie di semplificazione, con la direttiva 8 maggio 2002 Per la semplificazione del linguaggio delle pubbliche amministrazioni emanata dal ministro Franco Frattini, ribadita dalla direttiva 8 maggio 2005 del ministro Mario Baccini e affiancata dal progetto Chiaro! (strutturato anche mediante uno specifico sito Internet). Infine, il Progetto per la semplificazione del linguaggio amministrativo (2002) crea un collegamento tra questi interventi relativi agli atti amministrativi e le numerose iniziative volte a migliorare la redazione degli atti normativi fino all’art. 3 della legge 10 giugno 2009 (sulla «chiarezza dei testi normativi»).
In questa serie di iniziative, la semplificazione della scrittura burocratica è stata perseguita prevalentemente con interventi sul livello lessicale (sfoltimento dei tecnicismi, soprattutto collaterali, e loro sostituzione con termini del vocabolario di base e/o di più larga disponibilità) e sulle strutture morfosintattiche (riduzione della lunghezza e dell’articolazione ipotattica dei periodi). Solo occasionalmente e non univocamente, invece, sono stati affrontati i problemi connessi all’organizzazione logico-concettuale dei diversi testi e alla distribuzione dei contenuti informativi nell’architettura degli enunciati da cui risultano costituiti.
Arena, Gregorio (1995), La comunicazione di interesse generale, Bologna, il Mulino.
Basile, Grazia (1991), Storia e caratteristiche dell’italiano burocratico, «Novecento» 1, pp. 23-40.
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