bushido (giapp. «la via del guerriero»)
(giapp. «la via del guerriero») Complesso di norme morali che guidava l’agire della casta guerriera in Giappone. Nitobe Inazo (1862-1933) intitola così il suo libro, che descrive all’Occidente l’etica del bushi, il guerriero giapponese. Anche se il termine è relativamente recente, questo codice etico si è sviluppato nel corso dei secoli, a partire dall’epoca dell’ascesa della casta guerriera al potere (fine epoca Heian, 794-1185) e dell’instaurazione del primo governo militare (➔ shogunato) di Kamakura (1192-1333), per poi rifinirsi nelle epoche successive, durante gli shogunati degli Ashikaga (1338-1573) e dei Tokugawa (1603-1868). Con il corso del tempo il b. ha risentito anche di influssi confuciani e buddhisti, compatibilmente con l’attività marziale. In epoca Tokugawa vi furono i primi codificatori, come Yamaga Soko (1622-85), parallelamente alle critiche riguardo all’autorità dei bushi sul resto della popolazione nonostante la discrepanza fra i valori di cui si facevano portavoce e il loro agire effettivo. Nella stessa epoca, oltre ai «codici della casa» emanati nell’ambito dei feudi (han) e a testi che descrivevano il retto comportamento di un guerriero (come lo Hagakure), a livello governativo fu emanato nel 1615 il primo Buke sho hatto («leggi per le casate militari»), che prescriveva ai signori dei feudi (daimyo) le regole di condotta, un abbigliamento semplice e decoroso, il corretto approvvigionamento in caso di visite ufficiali ecc. Il bushi considerava supreme virtù la lealtà nei confronti del proprio signore, a costo della vita, l’onore, il dovere, la pietà filiale. Il disonore non era personale, ma colpiva anche il clan, e solo la morte aveva il potere di cancellare un’onta. I bushi dei tempi antichi si gettavano sulla loro spada sul campo di battaglia in una situazione estrema, pur di non cadere nelle mani del nemico; nei periodi successivi, e soprattutto quando morire in guerra era più difficile, il bushi ricorreva al suicidio rituale (harakiri o seppuku). Il coraggio per affrontare la morte veniva insegnato nelle famiglie di bushi sin dalla tenera età: il pericolo e il controllo di sé rendevano la classe guerriera «superiore» alle altre classi. Altri valori, come la frugalità e l’economia, erano inoltre essenziali a uno stile di vita semplice, in cui le distrazioni potevano costituire un pericolo: essi erano funzionali a situazioni in cui l’attaccamento a cose e persone avrebbe potuto costituire un impedimento a una chiamata del proprio signore o a una emergenza. Con gli Ashikaga la via del guerriero iniziò a «raffinarsi», inserendo nelle sue attività quotidiane, accanto all’addestramento marziale, la meditazione zen, la pittura, l’ikebana, la cerimonia del tè, la poesia, la letteratura. In epoca Tokugawa, con oltre due secoli e mezzo di relativa pace, la cultura divenne una parte fondamentale del bushido. In epoca Meiji (1868-1912), con la scomparsa delle classi sociali, alcuni valori furono trasferiti a tutta la popolazione, come il sentimento di lealtà, che fu rivolto all’imperatore.