C’era una volta l’industria pubblica
Le inchieste giudiziarie, i legami perversi con la politica e gli effetti della globalizzazione stanno mettendo in ginocchio le grandi aziende di Stato come Finmeccanica e Fincantieri. Per riqualificarsi dovrebbero ritrovare la loro missione di ‘apripista’ dello sviluppo.
È un tramonto privo di bagliori quello dell’industria pubblica italiana. Le cronache del 2011-12 parlano di una realtà smarrita, che sembra aver perso il senso del proprio ruolo e appare minacciata sia sul fronte economico, sotto l’incalzare della globalizzazione, sia sul versante delle relazioni con la politica, ancora una volta con un grande gruppo industriale come Finmeccanica in affanno a causa dei legami perversi con un sistema politico per il quale l’industria di Stato resta la gallina dalle uova d’oro. Fincantieri e Finmeccanica sono i segnali di una decadenza che sembra voler sottrarre al polo pubblico dell’industria le ultime tracce di un ruolo svolto con orgoglio durante i decenni migliori dell’Italia repubblicana.
Difficile dire che cosa rimanga dell’IRI di un tempo, osservando il profilo attuale di Finmeccanica e Fincantieri. Si direbbe che di quella storia non sopravviva più nulla, a giudicare dall’impronta che la loro immagine deposita su un’opinione pubblica sospettosa davanti alle ultime vestigia dello Stato imprenditore di un tempo. La storia recente di Finmeccanica offusca quella passata, come se i giochi della spartizione politica sovrastino di fatto i nuclei di qualità che pur esistono dentro il reticolo della sua struttura.
A ciò contribuisce anche il fatto che la specializzazione militare di molte sue produzioni richiama il volto di un capitalismo collusivo (il bad capitalism di cui ha parlato l’economista americano William J. Baumol), disposto a perseguire spregiudicate pratiche di intermediazione pur di collocare i propri prodotti.
Quanto a Fincantieri, essa non pare più in grado di mantenere l’eredità della grande tradizione della meccanica navale italiana, quella che seppe costruire transatlantici reputati tra i migliori al mondo per la loro qualità. La globalizzazione mette in discussione la continuità dei suoi impianti, soggetti a negoziazioni interminabili dopo che la cantieristica mondiale ne ha intaccato la capacità competitiva. Tentare oggi di preservare i cantieri liguri o napoletani, in uno scenario mondiale di esasperata concorrenza, risulta una strategia residuale, destinata a mascherare un insuccesso che è scontato nel lungo periodo. Una guerra di resistenza, in buona sostanza, che si tende a derubricare come un atto dovuto, ma dall’esito prevedibile.
Lasciando da parte le inchieste giudiziarie, con i loro risvolti che denotano un’ansia invincibile da parte del sistema politico di esercitare un signoraggio dispotico e arbitrario su tutto quanto è attività economica pubblica, permane una domanda di fondo sul ruolo e sulla funzione dell’industria di Stato. Qual è lo spazio che essa può occupare, una volta caduta la cornice di riferimento costituita dalle istituzioni dell’‘economia mista’? Non è sufficiente, infatti, richiamare i nuclei di competenza, qualità e valore che rimangono comunque attributi della sua struttura. È evidente che le responsabilità dei vertici e la trama delle collusioni che li ha condizionati, o ha cercato di farlo, non bastano a distruggere il patrimonio di sapere accumulato negli assetti d’impresa. È fin troppo facile osservare che nelle pieghe dell’industria pubblica è concentrato un serbatoio cospicuo (e, in Italia, unico) di capacità non reperibili né disponibili altrove. Tuttavia, questa condizione non basta purtroppo a redimere poli d’impresa che per riqualificarsi avrebbero bisogno di una missione più rigorosa e specifica. Il problema di ciò che sopravvive dell’industria italiana di Stato sta proprio qui: nella relativa indeterminatezza del suo scopo. Non basta dire che la proprietà pubblica non può essere un deterrente a operare come qualsiasi altro soggetto d’impresa, che trova la propria ragion d’essere nelle capabilities che organizza e controlla e una garanzia nel loro esito di mercato. O, almeno, nell’esperienza italiana ciò non è mai bastato. In una logica simile, l’elemento della proprietà finisce con l’essere del tutto residuale, quasi casuale. Ma è la storia economica italiana a dimostrare che non è così: l’impresa pubblica ha giocato un ruolo di avanguardia e di battistrada che non può essere tralasciato in nessuna corretta ricostruzione del passato.
Il nostro sistema produttivo si è sviluppato all’interno di una logica di interazione fra pubblico e privato che prescriveva per l’industria di Stato un compito fondamentale di apripista. Tecnologia e organizzazione, management e responsabilità sociale formavano un mix di fattori determinanti per l’affermazione di sé e della propria missione.
Ma proprio tutto questo è venuto a sbiadirsi fino quasi all’inconsistenza nel corso degli ultimi vent’anni, quando il modello italiano di sviluppo si è appannato sino a dissolversi. La crescita italiana sarebbe inspiegabile senza l’architettura dell’economia mista che ha preso forma concreta ancor prima di definirsi sul piano teorico. Il blocco secolare (grosso modo compreso fra gli anni Ottanta dell’Ottocento e gli anni Ottanta del Novecento) a cui l’Italia deve il proprio sviluppo si è assestato intorno alla coesistenza di due poli, quello pubblico e quello privato, che hanno agito di conserva; tra i due, però, il primo ha mantenuto una posizione di nucleo trainante, una sorta di punta di lancia destinata a spianare la via all’industrialismo italiano.
Ma durante gli ultimi vent’anni questi lineamenti del nostro modello di sviluppo si sono offuscati, sotto i colpi di un dogmatismo economico che prescriveva per tutti i paesi le stesse regole e le stesse morfologie, a prescindere dalla loro storia effettiva. È ciò che ha scalzato le nostre imprese pubbliche dal loro ruolo, costringendole sulla difensiva, come se dovessero giustificare la loro stessa esistenza, o le ha ridotte a una posizione ancillare rispetto alla politica, che ne pretendeva la sudditanza.
Per restituire orgoglio e dignità all’industria pubblica italiana occorrono il ripristino e il rinnovamento di quel modello, sul quale l’Italia ha costruito la propria espansione. In caso contrario, il nostro paese sarà condannato a un’irreversibile decadenza.
Finmeccanica
Finmeccanica nasce nel 1948, allorché l’IRI costituisce la Società finanziaria del settore meccanico aggregando imprese preesistenti come l’Ansaldo, l’Alfa Romeo, la Salmoiraghi e altre ancora. È stata uno dei motori del boom economico degli anni Sessanta (del quale la Giulietta dell’Alfa Romeo rimane uno dei simboli) e in seguito, dopo la crisi degli anni Settanta, ha puntato su settori come difesa, trasporti e aerospazio, dov’è tuttora attiva con marchi come Agusta e Alenia (quest’ultima fondata nel 1990).
Un modello non solo italiano
Finmeccanica, Fincantieri e le altre grandi aziende statali italiane rappresentano la manifestazione italiana di un ‘modello di sviluppo’ ampiamente diffuso nel corso del Novecento, basato sull’industria pubblica come elemento di modernizzazione. Il cosiddetto ‘capitalismo di Stato’ ha conosciuto la sua massima diffusione tra il 1900 e il 1970 salvo poi battere in ritirata a partire dall’era Thatcher-Reagan, quando un po’ ovunque sono state privatizzate importanti compagnie statali. Tuttavia, ancor oggi le aziende pubbliche impiegano sei milioni di persone nei soli paesi OCSE e importanti realtà economiche di vari paesi europei sono largamente in mano allo Stato (proprietario, ad esempio, dell’85% di Électricité de France, in Francia, e del 32% di Deutsche Telekom, in Germania).
Fincantieri
La Fincantieri - Cantieri Navali Italiani S.p.A. è uno dei più importanti gruppi cantieristici europei; azienda pubblica, un tempo di proprietà dell’IRI, è oggi una controllata di Fintecna, la società finanziaria del ministero dell’Economia. Fondata nel 1937, essa è uno degli ultimi ‘resti’ del sistema industriale pubblico creato sotto il fascismo e ampliato durante la prima Repubblica e in buona parte privatizzato negli anni Novanta. Produce tuttora ricavi superiori ai due miliardi di euro l’anno (secondo i bilanci del 2010 e 2011) soprattutto grazie ad alcune produzioni cantieristiche di ‘nicchia’, come le grandi navi da crociera e i mega-yacht: in tal modo, Fincantieri rimane una realtà rilevante in un mercato in cui le compagnie europee e; americane sono state ormai marginalizzate da quelle sudcoreane, cinesi e giapponesi.