Fabrizio, C. Luscino
Console nel 282 e nel 278 a.C., censore nel 275, ottenne due volte il trionfo per le sue vittorie sulle popolazioni italiche riluttanti all'egemonia romana.
Durante la guerra tarantina ebbe una parte di rilievo quale avversario di Pirro, in una gara di cui la tradizione mise soprattutto in risalto i tratti generosi, onde la condotta di F., sullo sfondo di certa cavalleresca magnanimità attribuita anche al monarca epirota, appare assunta in prospettiva moralistica quale generico esemplare delle virtù romane, private e civili; non diversamente da quanto avvenne per M. Curio Dentato, collega di F. e protagonista della medesima guerra. Le fonti insistono soprattutto su due episodi. Nel primo F., messo a parte di una congiura per avvelenare Pirro, rivela ogni cosa al re sdegnando una vittoria procurata " non virtute, sed scelere "; e il senato l'approva, avocando all'intero popolo romano un così nobile sentimento (Cic. Off. III XXII 86; Val. Max. Dict. et fact. mem. VI V 1; Gellio Noct. Att. III VIII; ecc.). In altra occasione F. appare tentato con grandi ricchezze da emissari dei Sanniti (per es. secondo Val. Max. Dict. et fact. mem. IV III 6; Gellio Noct. Att. I XIV; Serv. ad Aen. VI 845) o dello stesso re Pirro che gli offre la quarta parte del suo regno (per es. secondo Floro Epit. I XIII 21; Agost. CIV. V 18); ma rifiuta sdegnosamente di tradire la patria, contento della propria povertà; e poverissimo muore. Di questa moderazione di F. è frequentissimo il ricordo proverbiale negli scrittori classici e medievali; e appunto come " parvo... potentem / Fabricium " lo saluta Virgilio nel sesto libro dell'Eneide (vv. 843-844).
Anche nell'opera dantesca la menzione di F. ritorna sempre con questa inflessione (con l'eccezione di Mn II IX 18, dov'è un rapido cenno alla guerra tarantina). In Cv IV V 13, l'onestà di F. è considerata un segno della presenza divina nella storia di Roma per indirizzarla ai suoi fini provvidenziali: E chi dirà che fosse sanza divina inspirazione, Fabrizio infinita quasi moltitudine d'oro rifiutare, per non volere abbandonare sua patria? Dove pare evidente, anche nel giro sintattico, un'eco diretta di s. Agostino: " Fabricium... tantis muneribus Pyrrhi, regis Epirotarum, promissa etiam quarta parte regni a Romana civitate non potuisse develli " (Civ. V 18). In Mn II V 11, nel corso della dimostrazione che l'Impero di Roma fu legittimo perché i suoi cittadini perseguirono il bene comune che è il fine del diritto, F. torna con il suo exemplum avaritiae resistendi, e sono citate le parole virgiliane: ma anche qui sembra probabile la presenza implicita di s. Agostino. Vero è che D. aggiunge che F. rifiutò l'oro verba sibi convenientia fundens, del che non è traccia nel De Civitate Dei; ma probabilmente qui si è sovrapposto il ricordo delle parole che M. Curio Dentato pronunziò in circostanze analoghe (cfr. Cv IV V 13). S. Agostino del resto nomina F. con ammirazione, proponendo ai cristiani stessi l'esempio del suo disinteressato amor di patria: ed è coerente con questa prospettiva il fatto che nella quinta cornice del Purgatorio il buon Fabrizio, con la sua virtuosa povertà, sia ricordato dalla voce che ammonisce gli avari (Pg XX 25-27).
Bibl. - E. Moore, Studies in D., I serie, Oxford 1896, 187-189.