Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel Cinquecento l’ars combinatoria di Lullo e le speculazioni cabalistiche di origine ebraica si fondono, dando luogo a una tradizione cabalistica propriamente cristiana. Combinandosi poi con la credenza magica che la pronuncia di certi nomi permetta di mutare l’ordine dell’universo e con l’idea che l’ebraico sia la lingua edenica, il cabalismo sfocia nell’elaborazione di cerimoniali magici fondati sull’uso di lingue segrete.
Premessa
La tradizione cabalistica si sviluppa presso gli ebrei della Spagna e della Provenza dal XIII secolo in poi. Attraverso l’opera di un pensatore come Pico della Mirandola si vede come essa stesse già esercitando un’influenza ragguardevole sulla cultura umanistica, ma è alla fine del XV secolo che si verifica un fatto di fondamentale importanza. Con la cacciata dei Mori dalla Spagna, nel 1492, la monarchia spagnola costringe gli ebrei, tollerati sino ad allora dai musulmani, a disperdersi per l’Europa. La migrazione di molti cabalisti in Italia, in Francia e nell’Europa centrale darà impulso sia allo studio dell’ebraico sia alla nascita di un cabalismo cristiano.
La cabala si innesta sulla tradizione del commento alla Torah e si svilupperà come una tecnica di lettura e interpretazione del testo sacro. Ma il rotolo della Torah su cui il cabalista lavora rappresenta solo un punto di partenza: si tratta di ritrovare, al di sotto della lettera della Torah scritta, la Torah eterna, preesistente alla creazione e consegnata da Dio agli angeli. Una delle versioni della tradizione cabalistica, la cabala teosofica, mira a individuare, al di sotto della lettera del testo sacro, accenni alla decade delle Sefirot come dieci ipostasi della divinità nel suo processo di emanazione, e quindi come entità intermedie tra Dio e il mondo, canali o gradini attraverso i quali l’anima può compiere il ritorno a Dio, oppure come aspetti interni alla divinità stessa. La teosofia delle Sefirot può essere comparata alle varie teorie delle catene cosmiche che appaiono anche nella tradizione ermetica, gnostica e neoplatonica. Non era difficile identificare nella tradizione neoplatonica e nel neoplatonismo cristiano aspetti simili, e quindi integrare il sapere cabalistico alla tradizione teologica precedente.
La lettura cabalistica lavora sulla stessa lettera del testo, attraverso le tecniche del Notarikon, della Gematria e della Temurah.
Il Notarikon è la tecnica dell’acrostico (le iniziali di una serie di parole formano un’altra parola). La Gematria assegna a ogni parola un valore numerico e ciò è possibile perché in ebraico i numeri sono rappresentati da lettere alfabetiche; il valore di ogni parola deriva quindi dalla somma dei numeri rappresentati dalle singole lettere, per cui si tratta di trovare parole dal senso diverso, ma con lo stesso valore numerico, investigando così le analogie che intercorrono tra le cose o idee designate. La Temurah è l’arte della permutazione delle lettere e cioè dell’anagramma: in tal modo, dovutamente scomposto e permutato, un testo può rivelare messaggi segreti.
Abraham Abulafia (XIII secolo), con la sua cabala dei nomi, diffonde una tecnica estatica, per cui recitando i nomi divini che il testo della Torah nasconde, e cioè giocando sulle varie combinazioni delle lettere dell’alfabeto ebraico, si possono ottenere rivelazioni mistiche.
Pico della Mirandola, nel secolo XV, aveva notato incidentalmente che alcune tecniche cabalistiche ricordavano l’ars Raimundi, ovvero l’Ars magna del mistico catalano Raimundo Lull (o Lullo). Ma è nel Cinquecento che l’ars Raimundi si unisce definitivamente alle speculazioni cabalistiche.
Lullo (che, nativo di Maiorca, era vissuto al crocevia delle tre religioni, cristiana, ebraica e musulmana) aveva immaginato un sistema di lingua filosofica perfetta, comprensibile a tutte le genti, attraverso il quale si proponeva di convertire gli infedeli alle verità cristiane. Per sintetizzare al massimo l’essenza del progetto di Lullo, l’ars magna si avvale di un alfabeto di nove lettere - da B a K - che, a seconda della posizione, possono corrispondere a principi assoluti (chiamati anche Dignità divine), a principi relativi, a Questioni, Soggetti, Virtù e Vizi. Attraverso complicate tecniche matematiche di permutazione e combinazione, egli arrivava a produrre un numero sterminato di proposizioni (come “La bontà è grande”, “La grandezza è gloriosa”, ecc.) che a loro volta potevano generare argomentazioni di tipo sillogistico.
Uno dei modi proposti per generare tali combinazioni era un meccanismo mobile, composto di tre cerchi concentrici di dimensione decrescente, applicati uno sull’altro, e di solito tenuti fissi al centro da una funicella annodata. Facendo ruotare i due cerchi minori entro il maggiore, si generavano triplette di lettere corrispondenti ad altrettante proposizioni. L’arte lulliana viene ripresa nel Rinascimento e, nel clima di scoperta dei misteri della cabala, si nota che le nove Dignità più una lettera A al centro del cerchio possono ricordare le dieci Sefirot cabalistiche. Le lettere da B a K, usate nell’arte lulliana, vengono facilmente associate alle lettere ebraiche che per i cabalisti significavano nomi angelici e attributi divini. Inoltre, anche nei testi cabalistici (dove svolgeva un’importante funzione la tecnica dell’anagramma ovvero della permutazione delle lettere) ci si rifaceva all’immagine di una ruota come matrice, attraverso la quale le lettere dell’alfabeto divino generavano l’intero universo. D’altra parte i nomi cabalistici potevano essere anche incisi su sigilli, e tutta una tradizione magica e alchemica aveva reso popolari sigilli di struttura circolare. È controverso quanto Lullo conoscesse - dato l’area in cui viveva - questi procedimenti cabalistici; ma è certo che nel Cinquecento il rapporto tra lullismo e cabalismo viene posto decisamente. A fine secolo, nella monumentale edizione degli scritti combinatori lulliani (1598), sotto il nome di Lullo appare un De auditu kabbalistico, una trascrizione di un trattatello lulliano, l’Ars brevis, in cui erano stati inseriti alcuni riferimenti cabalistici (probabilmente opera tardoquattrocentesca).
È con Agrippa di Nettesheim che si intravede la prima possibilità di mutuare dalla cabala e dal lullismo congiunti la pura tecnica combinatoria delle lettere, e servirsene per costruire un’enciclopedia che sia immagine di diversi mondi possibili. Il suo In artem brevem R. Lulli (che appare nell’edizione 1598 degli scritti lulliani) a prima vista sembra una silloge abbastanza fedele dei principi dell’ars magna, ma è animato da un’energia magico-enciclopedica di spirito ben diverso da quella del suo ispiratore medievale.
Vediamo fremere le stesse inquietudini nell’Aureum opus di Valerio de Valeriis (1589), per cui l’ars insegna ulteriormente a moltiplicare sino all’infinito i concetti.
Anche la visione cosmologica di Giordano Bruno implica un universo infinito, di cui la circonferenza (come già diceva Cusano) non è in nessun luogo e il centro è ovunque. L’idea dell’infinità dei mondi si compone con quella che ciascuna entità mondana può al tempo stesso servire come ombra platonica di altri aspetti ideali dell’universo, come segnatura, rinvio, immagine, emblema, geroglifico, sigillo. Queste immagini, che Bruno trova nel repertorio della tradizione ermetica o addirittura si costruisce con accesa immaginazione, sono rivelative proprio per il rapporto naturalmente simbolico che si pone tra esse e la realtà.
E la loro funzione non è tanto, come nelle mnemotecniche precedenti, quella di aiutare a ricordare, bensì quella di aiutare a scoprire l’essenza delle cose e le loro relazioni.
Queste immagini non hanno solo la capacità di risvegliare l’immaginazione: hanno anche capacità magico-operativa, nel senso dei talismani ficiniani. È anche possibile che molte delle affermazioni magiche di Bruno altro non siano che metafore per indicare, secondo la sensibilità del suo tempo, operazioni intellettuali, o che in realtà le immagini abbiano la funzione di trascinarlo, dopo intensa concentrazione, in esperienze di tipo estatico; ma non possiamo ignorare che alcune delle sue affermazioni sulla capacità teurgicamente operativa dei sigilli appaiono proprio in un testo che s’intitola De magia (1589).
Giordano Bruno
Sulla scrittura
De Magia
Non tutte le scritture sono utili come quei caratteri che, per il loro stesso tracciato e configurazione, indicano le cose stesse, per cui ci sono segni vicendevolmente inclinati, che si guardano ed abbracciano l’un con l’altro, e ci costringono all’amore; oppure segni che reciprocamente divergono, così smembrati da indurre all’odio e alla separazione; e ve ne sono di duri e manchevoli, così rotti da produrre rovina; ci sono nodi per vincolare e caratteri sciolti per dissolvere. E questi non sono di forma certa e definita, ma chiunque, a seconda del proprio furore o dell’impeto dell’animo suo, nel compiere la propria opera, vuoi che desideri o esecri qualcosa, impetuosamente rappresentando a sé, e al nume come se fosse presente, la cosa stessa, esperimenta certe forze, di cui non avrebbe esperienza mediante alcun discorso o elegante orazione o scrittura. Tali erano le lettere meglio definite presso gli egizi, che le chiamavan geroglifici o caratteri sacri (...) con le quali ottenevano di colloquiare con gli dei per eseguire meraviglie (...). E così come, in assenza di un idioma comune, uomini di una razza non possono aver colloquio e contatto con uomini di un’altra, se non per cenni, così tra noi e un certo genere di numi non vi può essere rapporto se non per mezzo di alcuni definiti segni, sigilli, figure, caratteri, gesti ed altre cerimonie.
G. Bruno, Opera latine conscripta
Quanto al materiale iconologico che Bruno usa, troviamo immagini che derivano esplicitamente dalla tradizione ermetica, altre desunte dalla tradizione mitologica, diagrammi più o meno negromantici, suggestioni lulliane, animali e piante, figure allegoriche comuni a tutto il repertorio emblematico.
Nel De umbris idearum (1582) Bruno propone ruote concentriche mobili su cui sono iscritte lettere latine, greche ed ebraiche. Le singole lettere inviano ad altrettante immagini e azioni o situazioni, a seconda della ruota, così che si possono dare combinazioni come “Apollo nel convivio” o “Apollo in un convivio incatenato” o, con procedimenti più complessi, “Una donna a cavallo di un toro che si pettina i capelli tenendo uno specchio nella mano sinistra, mentre assiste alla scena un adolescente con un uccello verde in mano”. Qui, alle soglie dell’universo barocco, non si combinano più lettere alfabetiche o nomi divini, ma geroglifici misteriosi.
Di questi geroglifici si è forse esagerata la portata magica, visto che per taluni interpreti recenti le lettere non servivano a memorizzare immagini da usare a fini magici, ma erano piuttosto le immagini che servivano a ricordare delle sillabe.
Cioè, il congegno bruniano era una mnemotecnica e doveva consentire di memorizzare una moltitudine di parole (greche, ebraiche, caldaiche, persiane, arabe) che si riferivano a erbe, alberi, minerali, semi, generi animali, mediante un numero limitato di immagini.
Cabala cristiana
Accanto a questo filone cabalistico-lulliano, si sviluppa una cabala cristiana con intenti più decisamente teologici, in cui le tecniche numerologiche e anagrammatiche, quando sono presenti, servono (come già a Pico) per trovare in testi ebraici e nella serie dei nomi divini chiari annunci di Cristo come Messia. In questo clima, nel 1517 appare il De arte cabalistica di Johannes Reuchlin, primo trattato in materia scritto da un non ebreo imbevuto di platonismo; nel 1518 abbiamo il De arcanis chatolicae veritatis di Pietro Galatino, e nel 1525 il De harmonia mundi di Francesco Giorgi, francescano influenzato dal neoplatonismo, che cerca di fondere in un unico discorso cabalismo, ermetismo, Platone, Plotino e Sant’Agostino. Naturalmente le gerarchie angeliche, di cui parlavano i testi cari ai teologi medievali (come il De coelesti hierarchia dello pseudo-Dionigi), sono equiparate alle Sefirot cabalistiche.
Nello stesso spirito in cui nasce il cabalismo cristiano affonda le sue radici la filologia semitica.
I medievali non leggevano l’ebraico, e cabalisti come Pico lo conoscevano o di seconda mano o in forma dilettantistica.
Personaggi come Reuchlin, invece, mostrano una buona conoscenza di quella lingua. Inoltre, viene ripresa in questo secolo l’idea della possibilità di ritrovare la lingua perfetta parlata da Adamo nell’Eden, e per la maggior parte di questi utopisti linguistici la lingua perfetta coincide con l’ebraico, o almeno con un ebraico delle origini.
Figura di primo piano in questa fioritura di studi è Guillaume Postel. Consigliere dei re di Francia, in contatto con le maggiori personalità religiose, politiche e scientifiche del suo tempo, Postel è profondamente influenzato dai viaggi in Oriente che compie per diverse missioni diplomatiche e nel corso dei quali ha occasione di studiare l’arabo e l’ebraico, nonché di avvicinare la sapienza cabalistica. Nel 1552 egli traduce il più antico trattatello cabalista come Abrahami patriarchi liber Iezirah. Eccellente anche in filologia greca, Postel viene nominato intorno al 1539 mathematicorum et peregrinarum linguarum regius interpres in quello che sarà il Collège des Trois Langues e poi il Collège de France.
In De originibus seu de hebraicae linguae et gentis antiquitate (1538), Postel afferma che la lingua ebraica proviene dalla discendenza di Noè, e che da essa sono derivati l’arabico, il caldaico, l’indico e solo mediatamente il greco. In Linguarum duodecim characteribus differentium alphabetum, introductio (1538), che è uno studio di dodici alfabeti diversi, afferma non solo la derivazione di tutte le lingue dall’ebraico, ma anche l’importanza della lingua come strumento di fusione tra i popoli. La sua idea dell’ebraico come protolinguaggio si basa su un criterio di “divina economia”. Come scrive in De foenicum litteris (1550), come c’è un unico genere umano, un solo mondo, un solo Dio, così deve esserci stata una sola lingua, una “lingua santa, divinamente ispirata al primo uomo”.
Nel De orbis terrae concordia (1544) Postel afferma che la conoscenza dei problemi linguistici è necessaria all’instaurazione di una concordia universale fra tutte le genti e che la comunanza della lingua è necessaria a dimostrare ai seguaci di altre fedi che il messaggio cristiano interpreta e invera anche le loro credenze religiose, perché si tratta di ritrovare i principi di una religione naturale, una serie di idee innate comuni a tutti popoli.
È lo spirito che animava anche Lullo e Cusano, ma in Postel esso si accompagna alla persuasione che la concordia universale dovrà realizzarsi sotto l’egida del re di Francia, il quale può legittimamente aspirare al titolo di re del mondo, perché discende in linea diretta da Noè, dato che Gomer figlio di Jafet sarebbe il fondatore della stirpe celtica e gallica. Postel, inoltre (Tresor des propheties de l’univers, 1556), accetta una tradizionale etimologia per cui gallus significherebbe in ebraico “colui che ha superato le onde” e che quindi è scampato alle acque del diluvio.
In clima di cabalismo cristiano appaiono anche il De coelesti agricultura di Paolo Ricius (1541) e, nel 1564, la Monashieroglyphica di uno dei personaggi più singolari dell’ambiente magico rinascimentale, John Dee.
Dee, uomo di vasto sapere, consigliere di Elisabetta I, in contatto con il mondo magico e cabalistico della Praga di Rodolfo II, in questo trattatello, che contiene certamente riferimenti astrologici e alchemici, cerca piuttosto di rendere ragione dei rapporti cosmici partendo dalla contemplazione e dalla spiegazione del proprio simbolo fondamentale (la monade), fondato sul circolo e sulla linea retta, in quanto generati entrambi dal punto. Nell’immagine della monade il Sole è il cerchio che ruota intorno al punto, la Terra, mentre un semicerchio che interseca il corso del sole rappresenta la Luna. Sole e Luna poggiano su una croce capovolta che rappresenta il principio ternario (due linee rette connesse dal punto della loro intersezione) e quaternario (i quattro angoli retti che si generano all’intersezione delle linee). Con qualche sforzo Dee vi vede anche un principio ottonario, e dal ternario e quaternario congiunti può trarre un’aperta manifestazione del principio settenario. Se si sommano i quattro primi numeri si ottiene anche il principio decenario, e così via, in una sorta di vertigine generativa di ogni entità aritmetica. Da ciascuno di questi principi si possono poi agilmente derivare le quattro qualità fondamentali (caldo, freddo, umido e secco), e altre rivelazioni astrologiche.
Di questo passo, e per 24 teoremi, Dee fa compiere alla sua figura iniziale una serie di rotazioni, scomposizioni, inversioni e permutazioni, come se stesse anagrammando una serie di lettere ebraiche; inoltre, compiendo nel contempo analisi numerologiche, e considerando anche aspetti iniziali o finali della sua figura, agisce su di essa manovrando le tre tecniche fondamentali della cabala, il Notarikon, la Gematria e la Temurah. La monade permette così la rivelazione di ogni mistero cosmico.
Ma la monade consente anche la generazione di lettere alfabetiche, e su questo punto Dee si dilunga molto nella lettera dedicatoria introduttiva, dove si appella ai “grammatici” affinché riconoscano che nella sua opera “si daranno le ragioni della forma delle lettere, del loro posto e situazione nell’ordine dell’Alfabeto, dei loro diversi legami, del loro valore numerale e di molte altre cose (che debbono essere considerate nell’Alfabeto primario delle tre lingue)”. L’evocazione delle tre lingue ci rinvia naturalmente a Postel (che ha rapporti con Dee) e a quel Collège des Trois Langues a cui era stato chiamato. Nel De originibus del 1553, Postel – a prova della primalità dell’ebraico – ricorda che ogni “dimostrazione” del mondo viene dal punto, dalla linea e dal triangolo, e che a figure geometriche possono essere ridotte non solo le lettere ma gli stessi suoni; e nel De foenicum litteris sostiene una quasi contemporaneità tra apprendimento linguistico e invenzione dell’alfabeto.
Dee sembra portare l’argomento alle estreme conseguenze.
Sempre nella lettera introduttiva, egli dichiara che le prime lettere mistiche degli ebrei, dei Greci e dei Romani, formate da un solo Dio, sono state trasmesse ai mortali in modo che potessero essere generate da punti, rette e circoli, disposti secondo un’arte che egli definisce come “Cabala reale”.
I nomi magici
Ora, si uniscano (a) la persuasione magica che manipolando certi oggetti e pronunciando certi nomi si possa influire sull’ordine dell’universo, (b) l’idea che l’ebraico sia la lingua perfetta e (c) il principio cabalistico per cui il mondo stesso è il risultato di una combinazione di lettere, ed ecco che avremo vari aspetti della magia cerimoniale, in cui diventa essenziale la pronuncia di nomi magici.
Agrippa sostiene che la pronuncia di alcuni nomi sia necessaria nelle operazioni magiche, perché la forza o virtù naturale delle cose passa anzitutto dagli oggetti ai sensi, dai sensi all’immaginazione, da questa alla mente, quindi si esprime con la voce e le parole. Naturalmente considera la scrittura ebraica come la più sacra, date la sua origine divina e la perfetta corrispondenza che essa istituisce tra lettere, cose e numeri.
L’idea dell’ebraico come lingua dotata di una “forza” appariva nella tradizione cabalistica, secondo cui l’ebraico originale era il solo linguaggio compreso dalle potenze celesti. Quindi l’ebraico era una lingua che non soltanto “diceva” ma “faceva”, metteva in opera forze soprannaturali.
Agrippa, nella parte del suo De occulta philosophia dedicato alla magia cerimoniale, fa gran conto della pronuncia dei nomi divini e diabolici, partendo dal principio che per quanto tutti i demoni o intelligenze parlino la lingua della nazione a cui presiedono, essi fanno comunque uso esclusivo dell’ebraico quando interagiscono con coloro che comprendono questa lingua madre. I nomi naturali degli spiriti, se giustamente pronunciati, possono piegarli al nostro volere.
Ma, se questa lingua deve essere usata come forza agente e non come mezzo di comunicazione, non è neppure necessario conoscerla. Agrippa dice esplicitamente che tali nomi, benché di suono e significato ignoto, hanno nell’opera magica maggior potere dei nomi che comprendiamo perché, dato che siamo attoniti per il loro enigma, li pronunciamo in modo reverente, mentre gli agenti soprannaturali li comprendono perfettamente.
A questo punto tale lingua non dovrà neppure più essere ebraico autentico; basterà che gli assomigli. Così il mondo della magia rinascimentale, nera o bianca che sia, si popola di suoni vagamente semitici, come certi nomi di angeli che Pico aveva consegnato alla cultura rinascimentale, non di rado già abbondantemente sfigurati sia dalla traslitterazione latina sia dall’incerta arte del tipografo occidentale: Hasmalim, Aralis, Thesphsraim. L’opera di Agrippa abbonda di alfabeti pseudoebraici, dove misteriose configurazioni talora nascono da una sorta di astrazione grafica da un carattere ebraico originario, ed ecco pentacoli, talismani e amuleti che recano versetti (ebraici) della Bibbia, da indossare per propiziarsi spiriti benigni o terrorizzare spiriti maligni.
Sulle pratiche magiche di John Dee possediamo un’opera pubblicata solo nel 1659, A True and Faithful Relation Of What Passed For Many Yeers Between Dr. John Dee... And Some Spirits. Non si sa quanto sia opera di Dee e quanto del curatore Meric Casaubon, ma è pur sempre rivelatrice della cultura dell’epoca: Dee vi appare mentre evoca angeli di dubbia celestialità con invocazioni quali “Zizop, Zchis, Esiasch, Od, Iaod”.
Lingue magiche e segrete
Una singolare commistione di cabalismo e neolullismo si stabilisce nelle ricerche sulle scritture segrete, ovvero le steganografie.
Il capostipite di questo fecondo filone, che produce una serie innumerevole di contributi tra umanesimo e periodo barocco, è il prolifico ed eruditissimo Johannes di Tritteheim (o Trithemius, o Tritemio, 1462-1516), abate di Spanheim. Di Tritemio viene pubblicata nel 1518 solo un’opera più tecnica, la Polygraphia, mentre le sue opere più sulfuree saranno stampate solo nel XVII secolo, ma i manoscritti, spuri o autentici che siano, circolano anche nel XVI secolo. Alla lezione di Tritemio si rifà certamente Della Porta con il suo De furtivis litterarum notis (1563), che avrà poi altre versioni nel secolo successivo. Tritemio propone dei cifrari, da usarsi nelle comunicazioni politiche e militari, e una delle forme che questi cifrari assumono è quella delle ruote lulliane (scrivendo un alfabeto sulla ruota esterna e uno sulla ruota interna, facendo ruotare quest’ultima si ottengono corrispondenze tra le lettere del messaggio “in chiaro” e quelle che devono essere sostituite dal messaggio in cifra). Ma Tritemio, forse per dare dignità a queste operazioni, raccomanda che prima di tentare di decifrare una scrittura segreta si evochino i nomi (dovutamente ebraicizzanti) di angeli, come Pamersiel, Padiel, Camuel, Aseltel. Questi sono probabilmente solo artifici mnemonici che permettono di ricordare la chiave del cifrario da usare, ma certo Tritemio elabora testi “mnemonici” come “Camuel Busarcha, menaton enatiel, meran sayr abasremon” che non possono non evocare la magia cerimoniale.
Se nei primi due libri della Steganografia (apparsa nel 1606), si possono intendere i richiami cabalistici come puramente metaforici, nel terzo libro si descrivono rituali certamente magici, in cui gli angeli vengono evocati modellando immagini di cera a cui si debbono rivolgere invocazioni, oppure l’operatore si deve scrivere sulla fronte il proprio nome con inchiostro mescolato a succo di rose. È pensabile che Tritemio conosca sia le ruote lulliane sia alcune tecniche anagrammatiche e combinatorie di origine cabalistica, e che civetti con la magia cerimoniale.
Comunque, se egli non cita queste fonti, lo fanno gli steganografi posteriori. Il Traité des chiffres di Blaise de la Vigenère, del 1587, riprende esplicitamente temi lulliani e li collega con le permutazioni cabalistiche.
Come accade a molti, Vigenère è affascinato, più che dalla possibilità di cifrare messaggi, dalla vertigine combinatoria che la tecnica induce, e costruisce tabelle dove stabilisce per esempio 400 duplette, nate dalla combinazione di venti lettere alfabetiche, e passando quindi a combinazioni per triplette si compiace di questo “mare d’infinite cifrature a guisa di arcipelago seminato di isole... imbroglio più inestricabile di tutti i labirinti di Creta e d’Egitto”. Il fatto poi che a queste tavole combinatorie si accompagnino liste di alfabeti misteriosi, sia inventati sia tratti dalle lingue mediorientali, e che il tutto sia presentato con aria di segretezza, continuerà a tener vivo un rapporto tra magia, cabala, lullismo e scritture segrete.