Cabaret
(USA 1971, 1972, colore, 134m); regia: Bob Fosse; produzione: Cy Feuer per Allied Artists/ABC; soggetto: dall'omonima commedia musicale di Joe Masteroff, ispirato al testo teatrale I Am a Camera di John Van Druten e ai racconti Berlin Stories di Christopher Isherwood; sceneggiatura: Jay Presson Allen, Hugh Wheeler; fotografia: Geoffrey Unsworth; montaggio: David Bretherton; scenografia: Rolf Zehetbauer; costumi: Charlotte Flemming; coreografie: Bob Fosse; supervisione musicale: David Burns; musica: John Kander, Fred Ebb.
Nella Berlino della Repubblica di Weimar, Sally Bow-les si guadagna da vivere esibendosi in un cabaret e offrendo la sua compagnia a ricchi signori. Si innamora però di Brian Roberts, un britannico dall'aria introversa che si mantiene dando lezioni di inglese. Le insicurezze del loro rapporto emergono con evidenza quando Sally rimane incinta: capendo che Brian non è entusiasta alla prospettiva di diventare padre, la donna decide di abortire. Le vicende di Sally e Brian si intrecciano con quelle di altri personaggi, in un quadro sociale in cui il nazismo è alle porte. In particolare, la storia dell'ebrea Natalia, divisa dal suo innamorato per questioni razziali, e quella del barone Maximilian von Heute, nella cui villa lussuosa Sally e Brian consumano giorni di piacere, prima della catastrofe.
Oggi, a più di trent'anni di distanza dalla sua prima apparizione, possiamo comprendere meglio il senso più profondo di Cabaret, un film che ha fortemente anticipato determinati temi un poco nascosti nel dibattito su Hitler, Weimar, il primo nazismo. Su Hitler sono già stati pubblicati più di cinquantamila libri, ma oggi lo sguardo si volge con rinnovata attenzione verso i suoi 'volenterosi' carnefici, cioè verso quel popolo tedesco così poco studiato proprio mentre si guardava ossessivamente al suo capo. Ma in Cabaret, le accurate citazioni, ricavate specialmente da quadri di Otto Dix, alludono a una Germania più durevole e più colpevole, perché Dix deduce tante delle sue immagini tetre e insinuanti da un'ascendenza pittorica germanica che arriva fino a Dürer. Nell'anima tedesca che si manifesta a Weimar vi sono due entità solide e compatte, rese da Bob Fosse con sorprendente rigore. C'è il cabaret, fortilizio liberale e libertino, hortus conclusus di una libido che si rende sociale e politica perché contiene tutto il sapore della sperimentazione weimariana che, non a caso, aveva trovato il proprio simbolo politico nel geniale uomo di stato, libertino e liberale, Walter Rathenau, presto assassinato dai Corpi Franchi. Il cabaret è una realtà separata, lì non solo si gremisce il palcoscenico di corpi alternativi nei confronti di una realtà tedesca, gotica, protestante, puritana, calvinista, ma si offrono autentiche innovazioni fondate sull'eros e sul gioco. Mentre la boxe femminile si delinea secondo trame che esaltano la mimesi del piacere, un militante in camicia bruna raccoglie offerte per il partito di Hitler; il proprietario lo vede e lo scaccia a calci dal locale. Prestissimo, sarà lo stesso proprietario a giacere nel proprio sangue, massacrato dai camerati del milite. Così l'hortus conclusus della libido liberante può essere profanato, anche se si ostina a resistere, fino allo splendido canto di Money Money, che sembra un preciso manifesto politico, tanto è puntuale e rilevante. Fuori dal fortino, romantici carri di birrai trainati da possenti cavalli, grandi carrozzine con molti posti e tanti biondissimi bambini, manifesti politici macchiati scientificamente di rosso da militanti comunisti, un morto steso sul marciapiede, con i passanti che non sono interessati, perché quella è la quotidiana dimensione del vivere nella Berlino weimariana.
L'altro fortilizio è una serena trattoria di campagna, resa dolcissima da un sole complice, lontanissima da Otto Dix e dai suoi torvi emblemi, erede diretta, invece, della placida compattezza sorniona dello stile Biedermeier. A un tratto si leva a cantare un ragazzo, un esile ariano da manifesto, sottratto a uno dei tanti manifesti della NSDAP, in divisa bruna, con quel biancore nel volto che era prodotto dagli acquerellisti per i tanti manifesti delle adunate e dei convegni. È anche il frutto di un pittore 'nazareno' particolarmente capace di annunciare il futuro. Il ragazzo canta, come se pregasse, sorridente, devoto, pieno di speranza sincera: allude al proprio futuro di conquistatore, dice che ora gli manca lo spazio vitale. Uno alla volta, tutti gli avventori, ragazzine, massaie, inconfondibili professori di liceo, operai, mercanti, signore ben vestite, si levano a cantare con lui, tendendo il braccio nel saluto hitleriano, solo un vecchio resta seduto. Forse, l'onestà ideologica di Fosse, e la sua capacità di resa poetica, gli hanno consentito di creare una diagnosi politica fondandosi su una sintesi iconografica. E nasce, proprio dall'inequivocabile contrapporsi dei due fortini, una domanda: poteva salvarsi Weimar? Oppure le cupe esibizioni cabarettistiche, pure intrise di intelligenza, sapore, coraggio, piacere dovevano comunque cedere nei confronti del sole biedermeier della trattoria?
Questo è il cuore del dibattito su Weimar. Forse in realtà lo anticipa, e di molto. Uno strano vecchio signore vende copie di Claire la masochista, libro che vorrebbe anche far tradurre e diffondere all'estero. Sono, questi, sintomi da 'ultimi giorni di Pompei', emblemi della Roma decadente che cederà ai barbari? Non è solo così, perché Sally Bowles, Brian, Max e l'ebrea Natalia, i giovani che intrecciano amori multipli, champagne, presentimenti, profondo e inequivocabile senso della fine, non vorrebbero propriamente cedere. "La sifilide si prende anche fornicando": di questo sono tutti pacatamente convinti, ma non si arrendono all'idea di vedere odiosamente distrutto quel loro mondo dove si sperimentano passioni nuove, dalle quali è esclusa la gelosia mentre assai presenti sono il disincanto e la lucidità. Il gioco, però, fa scorgere proprio il senso della fine, del truce cambiamento: l'aborto di Sally e la partenza di Brian fanno capire che siamo già quasi nel dopo. Però Cabaret è un film che prende seriamente posizione, pur fra tanta allusiva eleganza, pur nell'eros liberato e onnipresente. Il film sembra dire che Weimar fu un esperimento lucido e creativo, fu un crogiolo che rise in faccia al demonio, fondando le proprie speranze sull'invenzione. Poi, però, prevalsero le cupe sperimentazioni demoniache del Doktor Faustus, ma Fosse ha il coraggio di contrapporre la festosa libido dei suoi giovani a quegli alambicchi infernali.
Il successo del film fu suggellato da una pioggia di Oscar: regia, attrice protagonista (Liza Minnelli), attore non protagonista (Joel Grey), scenografia, fotografia, montaggio, musica e suono.
Interpreti e personaggi: Liza Minnelli (Sally Bowles), Michael York (Brian Roberts), Helmut Griem (Maximilian von Heute), Marisa Berenson (Natalia Landauer), Fritz Wepper (Fritz Wendel), Joel Grey (maestro di cerimonie), Elisabeth Neumann-Viertel (Fraulein Schneider), Helen Vita (Fraulein Kost), Sigrid von Richthofen (Fraulein Mayr), Gerd Vespermann (Bobby), Rolf Wolter (Herr Ludwig).
A.H. Marill, Cabaret, in "Films in Review", n. 3, March 1972.
T. Milne, Cabaret, in "Sight & Sound", n. 3, summer 1972.
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Sceneggiatura: in "L'avant-scène du cinéma", n. 464, juillet 1997.