CACCIACONTI, Cacciaconte (Cazaconte, Cazacomes, Caziacomes, Cacciacomes)
Figlio di Ildibrandino di Guido, uno degli esponenti più in vista della nobiltà ghibellina di Tuscia, nacque con ogni probabilità nei pressi di Siena, a Trequanda o a Serre di Rapolano, forse verso il 1220. Nessuna notizia ci è giunta circa la sua formazione spirituale e la sua giovinezza. Tuttavia, poiché nel 1257 Alessandro IV riconobbe "expressis verbis" la "scientia" del C., è legittimo supporre che questi fosse persona di una certa cultura; inoltre, poiché nel 1257 e nel 1259 egli viene indicato nei documenti come semplice chierico, sembra probabile che egli non fosse, allora, canonico.
Quando il re Corrado IV, alla fine del 1251, durante la sua spedizione alla volta del Regno di Sicilia, cercò di consolidare la sua alleanza con i suoi seguaci italiani, rinnovò anche - in questo contesto - il legame con i Cacciaconti, capi della lega ghibellina della Tuscia, ai quali notificò, da Vicenza, i suoi piani ulteriori. Poco dopo Corrado IV si adoperò a insediare - in antagonismo col pontefice - suoi fautori fidati nelle maggiori cattedre vescovili del Regno: appunto nel quadro di questa politica, seguendo la proposta di un suo fratello, concesse al C. la cattedra di Cosenza, allora vacante. Non ci è stata tramandata la data della nomina. È sicuro, tuttavia, che essa venne conferita dopo l'ingresso di Corrado IV in Puglia, e, con ogni verosimiglianza, non prima della morte di Ildibrandino Cacciaconti: dunque, presumibilmente nel 1253. Poiché sappiamo soltanto che il C. accettò la nomina e che riscosse per qualche tempo ("aliquamdiu") le entrate di quella Chiesa, non possiamo affermare con sicurezza che egli risiedette a Cosenza. È certo che non ricevette la consacrazione episcopale. La fine del suo pontificato cosentino coincise senza dubbio col crollo della signoria sveva nell'Italia meridionale (1254). Nell'ottobre di quello stesso anno, infatti, senza tener conto dei diritti del C. (che peraltro non aveva mai riconosciuto), Innocenzo IV trasferì dalla sede di Amalfi a quella di Cosenza l'arcivescovo eletto Bartolomeo Pignatelli.
Per aver accettato dalle mani di un re scomunicato la nomina ad arcivescovo, il C. era incorso egli stesso nella scomunica, dalla quale, tuttavia, egli poté essere liberato per l'intervento del suo confessore quando, caduto gravemente ammalato, sembrò sul punto di morire. Dopo essere guarito in modo quasi miracoloso, rivolse una petizione al papa Alessandro IV, il quale nel febbraio del 1257 gli concesse la grazia e lo riabilitò completamente. In seguito il C. visse per alcuni anni presso la Curia pontificia, e venne ammesso, come cappellano, nella "familia" del cardinale Ottobono Fieschi. Fu appunto Alessandro IV che, tra il gennaio del 1259 e il luglio del 1260, lo nominò e fece consacrare vescovo di Cremona.
Allo scopo di rendere esecutiva tale nomina, nel luglio del 1260 Alessandro IV ordinava al vescovo di Parma di far allontanare da Cremona il candidato già ricusato nel 1249 da Innocenzo IV, ma nuovamente proposto dal capitolo della città, Giovanni Bono dei Giroldi, che esercitava le funzioni di procuratore generale della Chiesa cremonese grazie all'appoggio della fazione ghibellina, allora al potere. Del resto, anche l'immediato predecessore del C., Bernerio dei Sommi, per tutta la durata del suo pontificato si era visto negare l'ingresso in Cremona a causa dell'opposizione di Uberto Pallavicini, che dominava la città; e, come Bernerio dei Sommi, pure il C., nella sua veste di vescovo scelto dal papa, non poteva nutrire alcuna speranza di poter entrare in Cremona prima che il regime ghibellino non fosse stato rovesciato. Perciò il C. seguitò a vivere presso la Curia pontificia, con la quale viene ricordato dai documenti a Viterbo nel dicembre del 1261, a Perugia nel marzo del 1266 e, poco dopo, di nuovo a Viterbo. Era, ciononostante, riconosciuto come pastore legittimo dai procuratori della Chiesa cremonese, tanto che poteva, per il tramite di propri delegati, intervenire attivamente nel governo della diocesi. Allorché l'ultimo vicario ghibellino, Giovanni Bono (II) dei Giroldi, si dimise (maggio 1266), il C., da Viterbo, nominò un nuovo vicario; eppure, anche quando le condizioni poste dalla pace politica del 1267 garantirono la prevalenza dei guelfi in Cremona, sembra che il vescovo scelto da Alessandro IV non abbia potuto prendere possesso - almeno in un primo tempo - della sua diocesi, dato che compaiono regolarmente a governarla, in sua vece, dei vicari.
Nel 1274 il C. prese parte al concilio di Lione, dove sigillò la nuova costituzione riguardante l'elezione del papa. Negli anni 1275 e 1276 rilasciò dei documenti, datandoli nelle sedi della Curia, da Piacenza, da Viterbo, da Parma. Nel 1268, mentre suo fratello Bonifacio si era unito a Corradino di Svevia nel temerario tentativo di riconquista del Regno, il C. aveva saputo resistere ad una analoga tentazione politica. Benché Gregorio X avesse messo il veto (1273) alla postulazione avanzata dalla maggioranza del capitolo di Volterra, che aveva designato il C. come nuovo vescovo della città, tuttavia il papa si adoperò con successo, due anni dopo, in suo favore, interponendo per lui i suoi buoni uffici presso il Comune di Siena: in seguito all'intervento del pontefice, infatti, le autorità municipali restituirono il castello di Serre di Rapolano, già feudo di Ildibrandino Cacciaconti, a un procuratore del vescovo di Cremona. Garanzie furono offerte dal fratello del C., Bonifacio (1275).
Ci sono pervenuti documenti rilasciati dal C. e datati da Cremona solo a partire dal 1280. Nel 1284, nella sua qualità di vescovo di Cremona, rinnovava l'investitura feudale alle maggiori casate nobili della città, i Dovara e i Sommi, concedendo loro alcuni feudi ecclesiastici. Una volta entrato nella sua legittima sede, si tenne generalmente lontano dai conflitti politici, dedicandosi soprattutto a compiti pastorali. Già nel 1261 aveva introdotto in Cremona gli eremitani di S. Agostino, mentre nel 1284 conferì come nuova sede una chiesa anche ai domenicani. Per quanto riguarda le attività edilizie da lui promosse, si ricordano qui l'ingrandimento del duomo e l'erezione di un nuovo campanile. Nel 1286, come rappresentante del legato pontificio Bernardo di Porto, il C. fu inviato ad un processo riguardante benefici ecclesiastici. L'anno seguente confermò gli statuti capitolari riguardanti gli alti dignitari del duomo di Cremona.
Morì in Cremona il 16 luglio 1288.
Benché l'Ughelli, seguendo in ciò l'Ugurgieri Azzolini, avesse preso in considerazione anche l'ipotesi che il C. fosse oriundo di Siena, la storiografia locale ha sempre sostenuto, sin dalla prima metà del sec. XVII (Campo), la sua appartenenza alla nobile famiglia cremonese dei Sommi. Questa tesi venne messa in dubbio con buoni argomenti per la prima volta dal Sommi Picenardi (1882). Dato che il Comune di Siena aveva deciso nel 1275 di restituire al vescovo di Cremona Cacciaconte il castello di Serre di Rapolano, e dato che questo castello era stato concesso nel 1234 dall'imperatore Federico II a Ildibrandino di Guido Cacciaconti, è chiaro - argomentava il Sommi Picenardi - che quel vescovo di Cremona doveva essere un discendente di Ildibrandino, e cioè un Cacciaconti. A conferma dell'identificazione proposta dal Sommi Picenardi, tuttavia, si debbono aggiungere altre considerazioni. Risulta dalle fonti in nostro possesso che il vescovo di Cremona Cacciaconte si trovava, nel dicembre del 1261, presso la Curia pontificia, a Viterbo, come familiare del cardinale Ottobono Fieschi. Risulta altresì dai documenti che, nel gennaio del 1259, apparteneva alla "familia" del medesimo cardinale un Cacciaconte. "Aretine diocesis clerico", il quale era stato in precedenza vescovo eletto di Cosenza, ed era stato indicato "expressis verbis" in un documento del 1257 come figlio di Ildibrandino Cacciaconti. Sono elementi tali, questi qui ricordati, da permettere di affermare che il Cacciaconte, nominato arcivescovo di Cosenza da Corrado IV, ed il Cacciaconte, creato vescovo di Cremona da papa Alessandro IV, sono in realtà una medesima persona. Tanto più che, verso la metà del Duecento, i vescovi che non avevano potuto prendere possesso delle loro sedi erano soliti vivere presso la Curia pontificia, in genere nella stessa "familia" cardinalizia dalla quale provenivano.
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