CACHERANO DI BRICHERASIO, Giovanni Francesco Maria
Nacque a Bricherasio il 5 ott. 1736 da Giovanni Battista e Maria Vittoria Ripa di Meana. Terzogenito, scelse la via che gli apriva contemporaneamente la carriera ecclesiastica e quella amministrativa prendendo gli ordini minori, laureandosi in legge a Torino nel 1755, recandosi a Roma l'anno seguente e diventandovi il 13 marzo 1761: referendario delle Due segnature e quindi prelato della Fabbrica di S. Pietro. Lì si legò all'ambiente piemontese, che guardava a Denina come a un modello e faceva capo a Giacinto Cerutti e a Francesco Antonio Guasco. Un opuscolo di questi due autori, De l'usage de la raison et de l'autorité des gens de lettres dans les matières de religion, pubblicato nel secondo tomo dei Miscellanei di varia letteratura, apparso a Lucca nel 1763, è dedicato, il 24 dic. 1762, "A Monseigneur Caqueran de Briqueras, prélat à la Cour de Rome", in omaggio al suo "esprit", al suo "bon goût dans les matières de littérature" e soprattutto agli interessi apologetici ch'egli andava allora dimostrando. Nel 1763 ha inizio la sua attività di governatore, dapprima a Todi, dove rimane fino al 1765, per passare poi a Collevecchio (1765-1766), a Fano (1766-1775), Iesi (1775-1782), per diventare poi preside di Montalto dal 1782 al 1785. Poté così constatare quali e quanti fossero gli abusi e le miserie di questi territori pontifici. Fin dal 22 dic. 1764, in una sua Relazione sulla visita fatta alla communità di Norcia, metteva in rilievo come colà le gabelle (soprattutto quella sul vino) parevano esser calcolate per ricadere unicamente sulla parte più povera della popolazione. Infinite erano le vessazioni dell'amministrazione comunale, il pane era "pessimo" e il contado circostante si trovava "in grandissima confusione e perfetta anarchia". Cominciò presto a proporre rimedi, e riforme (a Norcia, diceva, "la gabella dovrebbe, a parer mio, esser tolta via per dar fine a tanti monopoli e angarie che si fanno sopra i poveri") e ad allargare le sue letture dei testi contemporanei di economia politica. Dopo un'esperienza ventennale, diede un primo saggio delle sue conclusioni in un intelligente libretto pubblicato a Macerata nel 1783: Della conservazione del grano e della costruzione e forma de' magazzeni o granai.
Vi affrontava una questione che, come diceva, "agita l'Europa tutta": favorire i proprietari terrieri con una politica di alti prezzi e di incentivi statali all'esportazione o tener soprattutto conto dei bisogni immediati dei consumatori, delle classi più povere, degli artigiani? Bastava una carestia per riporre in termini drammatici questa alternativa. "Il problema era difficilissimo a sciogliersi". I governi esitavano continuamente fra il timore di "arrestare o avvilire l'agricolturà" mantenendo bassi i prezzi, o rischiare di produrre invece "l'abbandono delle arti e delle manifatture" con la fame e la miseria, conseguenze fatali degli alti prezzi. Indicava per ora un palliativo, un mezzo tecnico e amministrativo per render meno grave e impellente la scelta. Una buona conservazione del grano avrebbe, se non altro, resi meno violenti gli sbalzi e alleviata la situazione dei più poveri. Riprendendo e discutendo la tradizione di Intieri e di Genovesi, suggeriva una serie di accorgimenti per creare dei granai pubblici efficaci. Il libretto venne accolto con grande stima, sia dalle Novelle letterarie di Firenze (14 maggio 1784), sia dall'Agricoltore di Perugia (27 ag. 1784) e ancora nelle Efemeridi letterarie di Roma (maggio 1786). L'opera gli valse l'elezione a membro corrispondente dell'Accademia dei Georgofili (1784).
Conclusioni più generali il C. espose in un volume pubblicato a Roma nell'autunno del 1785, intitolato De' mezzi per introdurre ed assicurare stabilmente la coltivazione e la popolazione nell'Agro romano.
Dedicata al pontefice, quest'opera intendeva indicare una via pratica e sperimentale alla volontà di riforma ripetutamente dimostrata da Pio VI. "La necessità, l'utilità, il metodo e i mezzi per l'esecuzione della legge agraria sono il soggetto del libro che umilio e consacro alla Santità Vostra". Bisognava mutare del tutto il rapporto tra la città e la campagna, tra la capitale e le province. Roma era troppo grande, troppo popolata, priva di manifatture e di artigianato (troppo alto il costo della vita perché questo potesse svilupparsi) e viveva soltanto dei proventi dell'amministrazione, dei tribunali, del lusso. La sua situazione era notevolmente aggravata dal fatto che il territorio circostante era "mal coltivato o affatto incolto". "Roma si è sostenuta con i capitali delle province in difetto de' fondi suoi propri. Ma ora che le medesime ancora esauste sono di denaro, non le rimane altro mezzo fuorché rivolgersi alla coltivazione delle sue terre". Per far questo bisognava abbattere tutta una serie di ostacoli: i grossi proprietari, i quali sempre avevano preferito la pastorizia; la nobiltà romana, che fin dal tempo dei Gracchi si era opposta alle leggi agrarie; gli ecclesiastici, che tenevano nelle loro mani due quinti di quelle terre. Bisognava rovesciare una storia millenaria. Dove mai Machiavelli aveva potuto vedere la molla della grandezza e dell'espansione romana nella lotta fra patrizi e plebei, quando si trattava soltanto di un conflitto, sempre ripetuto, tra una classe di usurpatori ed una plebe "afflitta, disprezzata, ridotta in miseria"? Persino i Longobardi avevano rappresentato un vantaggio di fronte al perpetuo "dispotismo"del mondo romano, "ridonando all'Italia popolazione, animando la coltivazione delle terre, il commercio e le arti". Ma Roma, anche nelle invasioni barbariche, aveva avuto la peggio. Saccheggiata e devastata, "non fu a parte del benefizio di acquistare nuovo popolo". Era tempo ormai, malgrado tutte le "difficoltà grandissime" che si sarebbero frapposte, di riparare ai danni che Roma aveva subito "nel corso di tanti secoli". Lo Stato doveva incamerare almeno una parte dell'Agro romano, lottizzarlo, assumendosi il compito della bonifica e dell'insediamento. Proponeva d'incominciare da una zona relativamente piccola, che avrebbe dovuto servire d'esempio e di modello. Tutta la seconda parte dell'opera era dedicata a descrivere minutamente i villaggi che sarebbero stati così costruiti, con le loro chiese, i loro parroci e medici, tratti dai conventi e ospedali romani, rendendo così questi ultimi finalmente utili e attivi, ma senza scuole e senza fiere, veri avamposti d'una dura colonizzazione, che avrebbero dovuto sostituire una florida popolazione fissa agli affamati e macilenti braccianti che ogni anno scendevano a lavorare l'Agro romano infestato dalla malaria. Cultura intensiva ispirata a Tarello e che teneva conto dei prati artificiali voluti dagli inglesi. Lotta a fondo contro la pastorizia. Oculata conservazione dei boschi. Severa, quasi militaresca amministrazione, tutta intesa ad un aumento della produzione. E ogni anno, a conclusione della loro dura fatica, i contadini sarebbero stati chiamati a Roma a celebrare di fronte al Papa il loro rustico trionfo "vestiti coll'antico abito romano".
Tutta l'Italia riformatrice plaudì a questi progetti. Il Giornale fiorentino di agricoltura, arti, commercio ed economia politica disse l'autore guidato "dalle più solide massime di economia" (20 e 27 genn. 1786). Le Efemeridi letterarie di Roma affermarono che finalmente si era trovato il modo di realizzare le "benefiche mire dell'immortale Pio VI" (8 apr. 1786). Giuseppe Compagnoni, nel Giornale enciclopedico di Bologna, sognò un momento di aver nelle proprie mani l'autorità necessaria per mettere in pratica un simile piano (maggio 1786). Marco Lastri nella Biblioteca georgica plaudì anch'egli.
Pio VI disse d'aver "assai gradita" l'opera del C., ma troppo bene conosceva gli ostacoli che si sarebbero opposti all'esecuzione della riforma per andar oltre l'espressione del suo benevolo compiacimento. Il progetto parve troppo dispendioso, troppo gravoso per i nobili e gli ecclesiastici, "qualche cosa di simile colla repubblica platonica" (N. M. Nicolai, Mem., leggi ed osserv. sulle campagne e sull'annona di Roma, Roma 1803, III, p. 178).
II C. restò così al posto al quale era stato nominato il 14 febbr. 1785: governatore di Campagna e di Marittima, una delle cariche più importanti dell'amministrazione locale pontificia. Il suo soggiorno a Frosinone, dall'inizio del 1786 al 1790, fu tutt'altro che agevole, tra lotte contro i malviventi, problemi dei calmieri dell'olio e innumeri questioni amministrative. Per incarico del cardinale Stefano Borgia compì pure, nel 1787, una ispezione a Pontecorvo, terra pontificia inclusa nello Stato napoletano. Invano egli aveva sperato, fin dall'anno prima, di essere trasferito a Viterbo. Non abbastanza energico era l'appoggio che in suo favore dimostrava il ministro sabaudo alla corte pontificia, Clemente Damiano di Priocca. Né certo gli era giovata l'energia e l'originalità delle sue idee e delle sue proposte. Soltanto nell'agosto del 1790 fu nominato segretario della congregazione dell'Immunità, "impiego - commentava il ministro piemontese - divenuto ora molto insignificante e che non frutta nulla". Negli anni difficili in cui si fecero anche in Italia sempre più insistenti gli echi e i riflessi della Rivoluzione francese, il C. era ridotto a campare a malapena "con una certa decenza". Nel 1798 fu costretto ad andarsene da Roma, lasciandovi quel poco che aveva.
All'inizio del 1800, da Intra, dove si era rifugiato, descriveva all'amico Carlo Fea la tragica situazione in cui era venuto a trovarsi, "le angustie, la continua agitazione"; anche là, inflazione, debiti e carestia. Politicamente, tutto sarebbe dipeso dall'imminente campagna militare. Ritorno dei giacobini, come qualcuno sperava? Ma, diceva, "come non vedere che la Francia à dato addio alla democrazia"? Dopo Marengo non tardò a constatare che aveva avuto ragione. "Ora è delitto la distinzione di aristocratici e democratici… qui il culto ed i ministri sono realmente rispettati. I francesi in generale procedono con dolcezza e con prudenza". A chi l'accusava d'esser "diventato francese" rispondeva ormai: "Io me ne vanto".
Nell'estate del 1800 scriveva un Saggio sopra la carta moneta del Piemonte o biglietti di credito sopra le regie finanze per consigliare il ritorno, il più presto possibile, alla moneta aurea e per deprecare in tutti i modi la politica inflazionistica di cui si era abusato, anche in Piemonte, nel decennio precedente. Ripensava spesso allo Stato pontificio. Il 7 febbr. 1800 scriveva all'amico Carlo Fea: "Ero attaccato a codesto paese, e forse tanto più quanto veggio allontanarsi la speranza di rivederlo". Si lamentava degli amici i quali poco o nulla facevano per permettergli di ritrovare le cose sue e per ottener di nuovo un impiego a Roma. Era sempre più convinto che anche là sarebbe stato necessario mutare l'intera struttura amministrativa. "Si dovrebbe riformare o distruggere la Camera e il despotismo de' chierici ed altri camerali". Il mutamento di pontefice avrebbe permesso forse a quell'"infelice paese" di risollevarsi finalmente. Lo sperava, ma poco ci credeva; troppo bene conosceva gli uomini che avevano in mano il governo: non avrebbero che pigramente continuato a seguire il tardo mercantilismo che il cardinale Ruffa aveva tentato d'imporre all'economia pontificia una decina d'anni prima. Il fiscalismo finì per parergli il carattere dominante non solo di Roma ma di tutti i governi esistenti in Italia, non escluso quello napoleonico. I Francesi parevano "cavalieri romani nelle provincie conquistate". "La finanza è veramente la puttana che nunquam satiata recessit", diceva l'11 apr. 1803.Né lo persuadevano le concessioni che i governanti napoleonici facevano alla Chiesa e agli ecclesiastici. "Neppure auguro molto bene per la religione", scriveva lo stesso giorno. Quanto alla libertà, era quella di prima: "ubbidire, e servire volontariamente o per forza… addio al cittadino, addio popolo sovrano, abbiamo avuta la dichiarazione di Napoleone Bonaparte imperatore dei Galli… Ma se si pagherà sempre, sarà lo stesso", diceva, sempre a Fea, il 27 maggio 1804.Tornava ostinatamente alle sue idee economiche, alle esigenze imprescindibili di riforma, dicendosi sempre disposto a servire, nella capitale o in provincia, per queste sue convinzioni; ma non ottenne nulla.
Morì dimenticato il 3 febbraio del 1812 a Torino.
Fonti e Bibl.: Lettere del C.alla Segreteria di Stato si trovano nell'Archivio Segreto Vaticano, Vescovi e Prelati, 283, ff. 346, 421; 284, ff. 182, 192, 369; 285, f. 100; 287, ff. 43, 231, 337-343; 288, f. 282; 289, ff. 144-145, 151-167; 290, f. 210; 291, ff. 5, 107-108, 476-481; 293, ff. 74-78, 415-461; 294, ff. 93, 102-108, 112-121, 338, 458; 295, f. 3; 297, ff. 3, 47-50, 146-149, 192, 196; 298, ff. 48, 111-113, 157-158; 301, ff. 4-6; 307, f. 418; 309, f. 293; 312, f. 38; 313, ff. 56, 149; 314, ff. 93, 198-203, 232-233, 246-247; 315, ff. 355-356; 316, ff. 37-47, 69, 322; 317, ff. 141-149, 158-159, 258, 313, 318, ff. 78, 108-118; 319, ff. 94-95; 320, f. 277; Archivio di Stato di Roma, Congregazione del Buon governo, serie IV, Visite, voll. 539 e 946 (Norcia); Ibid., serie II, 640 (Campagna e Marittima, 1760-1802) e 1804 (Frosinone); Annona, 16, 1764 (2a parte); Bibl. Ap. Vat., Borg. lat.294, ff. 213-214 e 217-218 (lett. al card. Stefano Borgia); Firenze, Arch. dell'Accad. dei Georgofili, Atti, c. 347r e classe I, sez. V, II, n. 13; Archivio di Stato di Torino, Lettere Ministri Roma, mazzi 293-296, 301, 305; Modena, Bibl. Estense, Autografoteca Campori (12 lettere a Carlo Fea). Il libro De' mezzi per introdurre ed assicurare la coltivaz. e la popolaz. dell'Agro romano èstato ripubblicato da Cesare Grinovero a Faenza nel 1936. La polemica antinflazionistica del C. è stata illustrata da M. Abrate, Documenti per la storia della moneta in Piemonte agli inizi del secolo XIX. Saggio sopra la carta moneta del Piemonte o biglietti di credito sopra le regie finanze di F. C. di B., in Archivio paleografico italiano, n.s., II-III (1956-1957), 1, pp. 17 ss. Sulla vita e le opere vedi: Notizie per l'anno 1762, Roma 1762, p. 80; Notizie per l'anno 1790, Roma 1790, p. 290; Notizie per l'anno 1791, Roma 1791, pp. 246, 248 s., 252; Notizie per l'anno 1798, Roma 1798, pp. 137, 145, 153; F. Re, Dizionario ragionato di libri d'agricoltura, Venezia 1808, II, pp. 50 s.; G. Tomassetti, La campagna romana antica, medievale e moderna, I, Roma 1910, p. 230; C. De Cupis, Le vicende dell'agricoltura e della pastorizia nell'Agro romano, Roma 1911, pp. 339 ss.; E. Piscitelli, La riforma di Pio VI e gli scrittori economici romani, Milano 1958, pp. 187 ss.; R. De Felice, Aspetti e momenti della vita economica di Roma e del Lazio nei secc. XVIII e XIX, Roma 1965, p. 150; Illuministi italiani, VII, Riformatori delle antiche repubbliche, dei ducati, dello Stato pontificio e delle isole, a cura di G. Giarrizzo-G. F. Torcellan-F. Venturi, Milano-Napoli 1965, pp. 583 ss.