Cadavere
Il termine latino cadaver (dal verbo cado, "cadere") indicava ogni tipo di corpo senza vita, sia umano sia animale. In italiano invece - per influsso della cultura cristiana che, nel nome della superiore dignità spirituale dell'uomo, ha imposto termini differenziati per i corpi morti degli altri esseri - cadavere designa unicamente il corpo umano dopo la morte, mentre quello degli animali è preferibilmente chiamato carcassa e, se in putrefazione, carogna. Di norma lo stato di cadavere è segnato dall'arresto delle funzioni vitali (costituite dal cosiddetto tripode vitale di Bichat: sistemi nervoso, respiratorio e circolatorio). Dal punto di vista biologico, tuttavia, dopo la morte persistono temporanee funzioni cellulari, come, per es., la contrattura delle fibre muscolari che è causa della temporanea rigidità cadaverica.
Aspetti biologici e legali. 1. Morte biologica, morte apparente e morte cerebrale. 2. Fenomeni trasformativi del cadavere. Aspetti culturali. □ Bibliografia.
Nel cadavere umano le trasformazioni post mortem, fino a un certo stadio di evoluzione, vengono di solito indicate con aggettivi: cadavere putrefatto, macerato, saponificato, corificato, colliquato, mummificato, scheletrizzato. Nelle fasi trasformative finali si utilizza spesso la dizione 'resti cadaverici', specie quando le ossa non sono più tenute insieme dalle parti molli e pertanto possono disperdersi o ne possono residuare solo alcune o i loro frammenti. Si parla comunemente di resti cadaverici anche nei casi di depezzamento dovuto alle modalità della morte o all'intervento di fattori mutilanti successivi.Il concetto di cadavere presuppone dunque quello di 'morte' biologica e questa è una condizione che da sempre si fa coincidere, anche dai profani, con l'arresto del battito cardiaco, e quindi della circolazione del sangue, ma contestualmente anche della respirazione e delle funzioni nervose, con conseguente immobilità del corpo. La certezza della morte, cioè dell'arresto definitivo e irreversibile della vita, è presupposto indispensabile per l'inumazione del cadavere o per altri procedimenti (cremazione, imbalsamazione). In passato è sempre stato vivo il timore della morte apparente, e quindi dell'inumazione di soggetti in realtà ancora vivi, timore ormai scomparso, almeno nei paesi occidentali, per la fiducia riposta nella capacità dei medici, i quali dispongono di mezzi tecnici di controllo, anche strumentale, dell'arresto definitivo della funzione cardiaca. Questo timore spiega le numerose leggi che dal Settecento in poi hanno stabilito l'obbligo di un periodo di osservazione per accertare la comparsa di fenomeni cadaverici inequivocabili. In Italia, l'attuale regolamento di Polizia mortuaria (d.p.r. 10 sett. 1990, nr. 285) mantiene queste regole, vietando l'autopsia, la chiusura in cassa, la conservazione in cella frigorifera, l'inumazione, la tumulazione e la cremazione prima che siano trascorse 24 ore dal decesso, salvo i casi di decapitazione o quando l'arresto definitivo dell'attività cardiaca è accertato elettrocardiograficamente per almeno 20 minuti. Nei casi di morte improvvisa e in quelli in cui si abbiano dubbi di 'morte apparente', l'osservazione deve essere protratta fino a 48 ore.La paura ancestrale della morte apparente si è trasferita in qualche misura sulla diagnosi di 'morte cerebrale', concetto introdotto nella seconda metà del 20° secolo a seguito dei procedimenti di rianimazione che consentono a soggetti nei quali la funzione cerebrale sia definitivamente spenta di presentare ancora un'attività respiratoria, sia pure mantenuta artificialmente, e una perdurante attività cardiaca. In una prima fase, la possibilità di diagnosi di morte cerebrale è stata limitata ai casi in cui fosse prospettabile l'utilizzo degli organi - reni, polmoni, cuore e fegato - ancora 'vivi' per trapiantarli in altri soggetti (l. 2 dic. 1975, nr. 644). La successiva legislazione (l. 29 dic. 1993, nr. 578, seguita dal regolamento emanato con il decreto del Ministero della Sanità 22 ag. 1994, nr. 582) ha esteso la possibilità di diagnosi di morte cerebrale, indipendentemente dalla prospettiva di un trapianto, purché si tratti di soggetti affetti da lesioni encefaliche e sottoposti a trattamenti rianimatori. La diagnosi di morte cerebrale può essere formulata solo quando si verifichi la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo, accertata con le modalità clinicostrumentali previste dal citato decreto, il quale prescrive di norma 6 ore di osservazione nell'adulto, 12 ore nei bambini di età compresa tra un anno e quattro anni e, infine, 24 ore per quelli di età inferiore a un anno. Durante questo periodo devono essere contemporaneamente presenti lo stato di incoscienza, l'assenza dei riflessi corneale, fotomotore, oculocefalico e oculovestibolare, un elettroencefalogramma sicuramente piatto, nonché l'assenza di flusso cerebrale e di respirazione spontanea dopo sospensione temporanea della ventilazione artificiale. L'introduzione del concetto di morte cerebrale, sia pure limitato a soggetti affetti da lesioni encefaliche e sottoposti a rianimazione, continua a incontrare resistenze nei congiunti per il timore di errori o di forzature (e quindi fa riemergere sotto altri aspetti la paura della morte apparente), e ciò a causa del suo inevitabile tecnicismo e della persistenza del battito cardiaco in chi viene tuttavia giudicato già cadavere.
Lo stato cadaverico, se dal punto di vista dell'individuo configura una situazione statica e irreversibile qual è la morte, sotto il profilo biologico si connota in verità per una continua evoluzione trasformativa che, se non intervengono fattori esterni artificiali, in genere dura anni e ha percorsi variabili. Le cause dei fenomeni trasformativi del cadavere sono endogene ed esogene. Quelle endogene sono costituite dallo stesso disfacimento autolitico delle singole cellule e dei tessuti, dovuto alla cessazione della circolazione, e sono variabilmente influenzate dalle cause e modalità della morte. Le cause esogene, la cui molteplicità dà luogo alla varietà delle trasformazioni e dei tempi in cui si verificano, sono costituite dalla temperatura esterna, che a sua volta dipende dalle latitudini e dalle stagioni, dall'inquinamento batterico, dal luogo e dalle modalità di conservazione e di inumazione (in cassa zincata o non).
I fenomeni cadaverici sono tradizionalmente distinti in negativi o abiotici e in positivi o trasformativi. I primi, a loro volta, si distinguono in immediati e consecutivi. I fenomeni negativi immediati sono costituiti dalla perdita della coscienza, della sensibilità superficiale e profonda, della motilità e del tono muscolare, dall'arresto della respirazione spontanea e della circolazione. I fenomeni negativi consecutivi sono costituiti dalla cessazione dell'eccitabilità neuromuscolare, da una serie di complesse modificazioni biochimiche che portano all'acidificazione dei liquidi organici e ai tre fenomeni più evidenti costituiti dalle ipostasi cadaveriche (livor mortis), dal raffreddamento progressivo del corpo fino al raggiungimento della temperatura ambiente (algor mortis) e dalla rigidità cadaverica (rigor mortis). Il sangue, non più pompato dal cuore entro il complesso sistema dei vasi arteriosi e venosi, obbedisce alla legge della gravità e scende passivamente nei vasi delle zone declivi del corpo fino ad addensarsi a livello della cute, a formare quelle macchie, usualmente di colore rosso-violaceo che, proprio in ragione della loro sede, vengono definite ipostasi (dal greco ὐπό, "sotto", e στάσις, "posizione"). Se il cadavere è in posizione supina le ipostasi si formano sulle superfici dorsali del corpo; se è in posizione verticale, come nell'impiccamento, si localizzano agli arti inferiori; nell'annegato o comunque nei cadaveri proni, si localizzano sulle superfici anteriori. Il loro colore può essere rosso-vivo nell'avvelenamento da ossido di carbonio o da acido cianidrico, o nell'assideramento, di colore tendente al marrone nei casi di avvelenamento con sostanze metaemoglobinizzanti. La loro estensione e la loro intensità sono minime nelle morti da cospicua emorragia esterna o interna. Le ipostasi sono in genere ancora tenui, di colore rosa-pallido, dopo mezz'ora dalla morte; si rendono più evidenti dopo 4-6 ore e raggiungono la massima estensione e intensità tra le 12 e le 18 ore dalla morte. Se il cadavere è rimosso dalla sua posizione iniziale entro 6-8 ore dalla morte, le ipostasi migrano totalmente nelle sedi del corpo divenute declivi.
L'arresto della circolazione sanguigna e delle funzioni metaboliche consente al calore, mantenuto costante nell'uomo, che è omeotermo, di disperdersi attraverso la cute fino a che il cadavere raggiunge la temperatura ambientale. Tale raffreddamento richiede ore e presenta caratteri di variabilità in rapporto a fattori interni e soprattutto esterni al cadavere. In linea di massima, l'andamento della perdita di calore di un cadavere è minimo nelle prime 3-4 ore della morte, anche perché perdura una certa produzione di calore dovuta a fenomeni di vita residua; è di circa 1 °C all'ora nelle successive 6-8 ore e rallenta nuovamente nelle ore successive, fino al raggiungimento della temperatura ambiente.
I muscoli, flaccidi e inerti subito dopo la morte, vanno poi incontro a una contrattura che costituisce la rigidità cadaverica. Essa inizia a formarsi al volto e ai muscoli delle piccole articolazioni, si diffonde in senso craniocaudale, completandosi entro 12-24 ore, e perdura in genere per 36-48 ore (fase di stabilizzazione). I processi di autolisi producono in seguito un progressivo rilasciamento della rigidità cadaverica fino alla totale scomparsa dopo 72-84 ore (fase di risoluzione).
Nel frattempo, le cornee diventano opache e il bulbo oculare si affloscia, per evaporazione dei liquidi oculari. L'evaporazione si realizza anche attraverso la cute, ed è più intensa nelle parti superficiali e scoperte dove la cute è più sottile (pinne nasali, labbra, padiglioni auricolari, scroto). Questi fenomeni perdurano in genere per alcuni giorni.
I successivi fenomeni cadaverici trasformativi naturali passano nella maggior parte dei casi attraverso lo stadio della putrefazione, che tuttavia ha caratteristiche molto diverse a seconda delle condizioni climatiche esterne (temperatura, umidità ambientale ecc.), e quindi delle stagioni. In estate essa può realizzarsi velocemente, nell'arco di pochi giorni, portando a una profonda modificazione cromatica della cute, marezzata per ampie chiazze verdastre o brunastre ovvero violacee, con disegno venoso superficiale verdastro (fase cromatica), a sfaldamenti epidermici, specie alle mani e ai piedi, e a un rigonfiamento del cadavere, in particolare al volto e all'addome, dovuto allo sviluppo di gas a loro volta causati dal metabolismo batterico (fase enfisematosa). Nei climi più rigidi la putrefazione è in genere molto più blanda e il cadavere può allora passare, nel corso di mesi (o anche anni se le condizioni climatiche si mantengono stabili), alla fase della lenta colliquazione che produce la disgregazione dei tessuti molli, anzitutto l'encefalo (che diventa una massa informe e fluente), la milza, il fegato, i polmoni, più lentamente i muscoli e la cute. Questo processo è comunque notevolmente accelerato se il cadavere, esposto all'aperto, viene aggredito da insetti, in special modo le mosche, che, con le loro larve, sono in grado di distruggere le parti molli nel corso di pochi giorni. I cadaveri abbandonati possono inoltre subire azioni distruttive a opera di animali o, se stazionanti in acque libere, di pesci. Il processo colliquativo si conclude in genere con la 'scheletrizzazione' completa del cadavere, non di rado seguita anche da rotture ossee, sebbene lo scheletro osseo possa rimanere inalterato nel corso dei millenni.In determinate condizioni ambientali, il cadavere può comunque andare incontro a particolari fenomeni trasformativi come la saponificazione, la corificazione e la mummificazione. La saponificazione si verifica nei cadaveri immersi a lungo nell'acqua ed è causata dalla formazione di una particolare sostanza chimica, l'adipocera, costituita prevalentemente da acidi grassi. La corificazione, che si osserva talora nei cadaveri inumati in casse di zinco, è caratterizzata dall'arresto del processo colliquativo in fasi precoci: il cadavere perde peso, gli organi sono ridotti di volume ma sono ancora sufficientemente riconoscibili. La mummificazione naturale si verifica nei cadaveri sepolti in cassa di legno in terreni sabbiosi che, assorbendo molto rapidamente i liquidi provenienti dalla putrefazione e dalle fasi iniziali della colliquazione, impediscono che questa giunga alla scheletrizzazione. Si può verificare anche in cadaveri esposti ad ambienti caldi e ventilati, in assenza di umidità. La cute si affloscia sulle strutture ossee, assume un colore giallastro e una consistenza come il cartone, gli organi sono in gran parte ridotti a pochi residui secchi.Il processo di mummificazione è stato realizzato in passato anche artificialmente mediante la sottrazione dei liquidi organici, sostituiti da sostanze capaci di conservare relativamente i tessuti. Tale risultato può essere ottenuto anche con mezzi più semplici, come l'esposizione al sole dei cadaveri che può portare a una rapida mummificazione come, per es., quella realizzata nei secoli scorsi nel Convento dei Cappuccini di Palermo. Attualmente, volendo conservare un cadavere si ricorre all'imbalsamazione, ottenuta mediante l'iniezione nei vasi di liquidi conservanti.In cadaveri conservati in maniera soddisfacente, se pur trasformati, è attualmente possibile eseguire, e non solo sulle ossa, accertamenti di biologia molecolare anche dopo millenni dalla morte, con tipizzazioni di marcatori polimorfi del DNA, così come è avvenuto, per es., nel caso dell'uomo di Similhaun ritrovato in un ghiacciaio.Il destino finale del cadavere non è dunque necessariamente la scomparsa definitiva di ogni suo resto, se questa non è deliberatamente attuata per scopi criminosi o è frutto della sua totale dispersione dovuta a eventi naturali.
Le civiltà tradizionali conoscono vari riti relativi ai cadaveri o alle parti di essi: lavacri, asportazioni di visceri e di organi interni (come nei processi egizi di mummificazione), riti funebri caratterizzati da due fondamentali forme: l'inumazione e la cremazione con o senza successiva custodia delle ceneri (v. funerale). L'inumazione è praticata secondo un'ampia gamma di trattamenti del cadavere e di preparazioni alla sepoltura, che includono la vestizione, oppure la nudità; la dipintura in colori diversi (in genere il rosso e l'ocra, di solito interpretati come colori richiamanti al sangue e pertanto alla vita); l'affumicamento come ulteriore mezzo di conservazione; l'ornamentazione; l'arredo delle tombe; il corredo di oggetti specifici per affrontare le prove dell'oltretomba, come l'obolo per il guardiano degli inferi o la barca in miniatura per passare il fiume della morte; la sigillazione degli orifizi corporei. Alcune culture uraloaltaiche conoscono poi la bollitura dei cadaveri e il loro consumo rituale da parte dei membri della famiglia; mentre è costume tradizionale diffuso in aree specifiche dell'Asia e dell'Africa, ma già conosciuto anche in Europa (per es. nel mondo celtico), la conservazione a scopo trionfale o rituale di parti del cadavere del nemico vinto, per es. delle teste: costume che sembra permanere, laicizzato, nell'uso di lasciare in mostra i cadaveri dei giustiziati, o parte di essi (appunto le teste), come ammonimento per scoraggiare il crimine.In linea di massima, gli atteggiamenti dinanzi al cadavere si possono ripartire, dal punto di vista dell'antropologia, in due grandi linee di tendenza, suscettibili peraltro di molte reciproche interferenze e di forme intermedie e sincretiche. Da una parte, l'idea che il cadavere non sia morto del tutto, ma continui a vivere una vita propria che si svolge all'interno della tomba, come si vede nelle costumanze egizie o etrusche, o dorma in attesa della resurrezione dei corpi, come si registra nelle credenze ebraiche posteriori all'età profetica; una concezione, quest'ultima, che non è universalmente condivisa nell'ebraismo classico - non, per es., dalla setta dei sadducei - ma fatta propria dal cristianesimo e dall'islamismo. Dall'altra parte, l'idea, prevalente per es. nel mondo classico, che il cadavere appartenga alla sfera del sacro, inteso come 'totalmente altro', e che quindi non debba essere contaminato, ma a sua volta possa contaminare con il suo stesso aspetto i viventi, per cui deve essere guardato e manipolato il meno possibile.Nello stesso mondo ebraico, i rituali di inumazione del cadavere denunziano l'incontro di tradizioni differenti, la loro ardua composizione, il permanere di conflitti concettuali all'interno degli esiti acculturativi in apparenza consolidati. Per un verso, il cadavere è inumato in tombe a grotta scavate nella viva roccia e accuratamente chiuse. L'uso di sigillare ermeticamente le tombe solo nell'ambito di una grossolana interpretazione di tipo positivistico serve a evitare la fuoriuscita di miasmi cadaverici e a impedire la profanazione delle tombe da parte di malintenzionati: vi si scorge in realtà l'esito della paura che il morto non si adatti alla sua nuova condizione e intenda continuare a mischiarsi ai viventi, uscendo dalla sede che gli è stata deputata. Per un altro verso, si riduce al minimo la manipolazione del cadavere: lo si avvolge in un semplice sudario, ma si riempie la tomba di aromi che hanno funzione al tempo stesso purificatrice e conservativa e che tendono a comporre il principio d'origine semitica della non-manipolazione del corpo con quello di tradizione egizia dell'imbalsamazione.
Altre, differenti tecniche di conservazione o di distruzione del cadavere comportano la sua esposizione all'aria aperta, che può condurre a un processo di essiccazione, come accade nelle culture indoamericane dell'emisfero settentrionale, o alla consumazione del corpo da parte dei rapaci, come avviene nella tradizione mazdaica, che, per evitare di contaminare il fuoco, sostanza sacra per eccellenza, tramite il contatto con il cadavere, espone i corpi dopo la morte in cima alle 'torri del silenzio', con un rito formalmente non lontano da quello indoamericano, ma da esso molto diverso sul piano della concezione, del contesto e della funzione.Il cadavere, in altri termini, risulta nelle culture tradizionali come il portatore di un messaggio ambivalente. Per un verso, si oppone resistenza all'idea che esso appartenga del tutto al mondo della morte, e gli si attribuisce una qualche forma di vita; per un altro, lo si sente, appunto, come cosa morta, e in tal senso lo si considera obiettivamente sacro nel senso di 'altro' rispetto alla vita stessa, quindi contaminante e pericoloso. Ne deriva una figura che assume differenti connotazioni nelle diverse culture, ma che si ripresenta con puntuale perentorietà: l'idea del 'morto vivente', del cadavere che continua a vivere e che, se riesce a ristabilire il contatto con il mondo dei viventi, può divenire una realtà malvagia e pericolosa in quanto, vivo solo di un'esistenza umbratile, invidia la vita, vuole riacquistarla a spese dei vivi o contagiarli della sua morte. Il 'ritorno del morto', oltre che sotto forma di spettro, può pertanto avvenire anche sotto forma di cadavere vivente. Dal mito balcanodanubiano del vampiro (erede di radicate credenze greche: si pensi al Tiresia dell'Odissea che beve sangue per riacquistare una qualche corporeità), sino al morto misteriosamente richiamato in vita nelle culture magiche afroamericane (lo zombie), le culture tradizionali parlano il linguaggio del morto che torna per vendicarsi o per trascinare il vivo alla tomba (come nella figura indù del sittipati, il 'signore degli scheletri danzanti', dalla quale deriva probabilmente l'iconografia della 'danza macabra' occidentale: v. cimitero) o per spaventare i viventi che invidia. Da qui la necessità di depistare il morto e di radicarlo nella sua condizione: le città dei morti (necropoli) sorgono, nei mondi greco, etrusco e romano, prossime e parallele a quelle dei vivi, ma segregate da esse; per impedire la permanenza del morto nella casa si velano gli specchi; si fa uscire il cadavere da una porta dell'abitazione inusitata ai viventi, affinché esso non ritrovi la strada dell'abituale dimora; si versa acqua sulla sua tomba (per placarne la 'sete di vita') o sul cammino del corteo funebre (per cancellarne le tracce e impedire che esso le ritrovi). D'altronde, il cadavere, proprio per queste sue caratteristiche, ha una sua forza, un mana: infatti, parti di esso, come i visceri, la testa, la mano, sono usate in molte culture tradizionali per riti e ricette a carattere magico.
Il cristianesimo, fondandosi sulla tradizione ebraica ed entrando tra il 1° e il 4° secolo in contatto con la legislazione imperiale romana, introduce nei riguardi dei cadaveri soluzioni in parte nuove, a seconda che si tratti di corpi di esseri umani in genere o di corpi venerati come appartenenti a santi o a martiri. Con la nuova religione, all'idea della necropoli si sostituisce quella del cimitero, del 'dormitorio': il morto non è del tutto tale nella misura in cui risorgerà, e dorme in compagnia dei vivi, mischiato a loro nei centri abitati. D'altro canto, contravvenendo alle norme imperiali sull'inviolabilità dei cadaveri, i corpi santi si parcellizzano e se ne venerano le parti come reliquie.
La modernità, con i problemi aperti dalla pratica dei trapianti, sta ora procedendo a una nuova definizione dello statuto del cadavere, nel quale la sacralità tradizionale, comunque risolta, entra in conflitto con l'utilitarismo e la funzionalità dei criteri tipici della nostra cultura; d'altro canto l'individualismo, che a tale cultura appartiene, entra in campo nell'impedire criteri di riutilizzo generalizzato del materiale cadaverico, mentre l'avvento della società multiculturale pone nei paesi occidentali delicati problemi, come quelli inerenti agli usi funebri, nei quali religione, diritto, igiene ed ecologia entrano variamente in rapporto.
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