CADOLINGI
Il nome di questa famiglia comitale toscana deriva dal conte Cadolo, morto intorno al 988, il quale, peraltro, non ne può essere considerato il capostipite dato che nella zona di Pistoia si riscontrano suoi antenati per due generazioni. D'altra parte il nome Cadolo non è nemmeno caratteristico della famiglia: questo nome non si ritrova più nei suoi discendenti, mentre sono nomi tipici della famiglia quelli di Ugo, Lotario e Corrado che ricordano la famiglia reale, sotto la quale i C. iniziarono la loro ascesa. Subito dopo la morte del conte Cadolo, comunque, nei documenti del secolo XI si parla di "terra Kadulinga"; già da allora dunque col nome di Cadolo si designa ufficialmente la famiglia.
Alcuni autori hanno ritenuto che tra gli antenati di questa ci fosse anche Cadolo, marchese del Friuli tra l'817 e l'819, successore del marchese Errico del Friuli, che nell'819 aveva condotto una vasta campagna militare contro gli Slavi in rivolta ed era morto nel corso di questa. Il marchese del Friuli, però, era di stirpe alemanna, mentre i C. vivevano a diritto longobardo: è quindi molto difficile che questo nobile franco fosse antenato dei Cadolingi.
Anche sulla fine della famiglia, come sui suoi inizi, si è a lungo discusso: sembra comunque certo che essa si estinse nel 1113 con la morte del conte Ugo (Ugolino). è questo un dato importante, ignorato dai più antichi genealogisti secondo i quali la famiglia sarebbe continuata dopo quella data.
L'Ughelli la fa arrivare senza interruzione sino ai conti di Marsciano; il Gamurrini ha inserito la genealogia dei C. in quella degli Opizinghi di Pisa. Ma la confusione più grande l'ha provocata lo studio del fiorentino Passerini, che nel 1856 fece risalire l'albero genealogico dell'allora regnante Napoleone III direttamente ai Cadolingi. La sua argomentazione, allora molto apprezzata, si basava su un documento (conservato nell'Archivio di Stato di Firenze), del 15 maggio 1235, redatto a Fucecchio, secondo il quale un certo Jamfaldus di Firenze avrebbe fatto, per sé e per la sua famiglia, una donazione all'ospedale di Rosaia. Come figlio di Jamfaldus viene nominato un "Willielmo qui nuncupatur Bonaparte", e come fondatore dell'ospedale il gran conte Ugo, un antenato (abavus) di Jamfaldo. Basandosi su questo documento il Passerini stabilì un legame tra la casa Bonaparte e i C. e pensò di poter risolvere anche gli altri problemi genealogici. Non sappiamo se il Passerini, che dirigeva la Biblioteca Magliabechiana di Firenze ed aveva una lunga esperienza di studio su manoscritti, non si sia accorto che il documento del 1235 era una grossolana falsificazione moderna, o se, contro ogni evidenza, egli volesse attenersi ad esso per rendere omaggio con la sua opera all'imperatore francese. In ogni caso la sua costruzione genealogica non regge ad un esame critico e lo studio degli avvenimenti relativi alla famiglia dei C. si deve limitare perciò ai due secoli compresi tra il 923 e il 1113, durante i quali furono una delle famiglie più potenti di Toscana.
Bisogna prendere le mosse da un documento del 923: in esso un conte Corrado "filius quondam Teudici" donò alla cattedrale di Pistoia i suoi possedimenti a Vicofaro, presso Pistoia. Nel 944 un conte "Teudicius filius bone memorie item Teudici" dona alla chiesa di S. Zeno di Pistoia beni anch'essi posti nella zona a nord della città. I due fratelli Corrado e Teudicio vi dovevano avere dunque già allora vaste proprietà. Del loro padre, Teudicio, che nel 923 era già morto, si sa solo che presumibilmente, non era conte; ma forse può essere identificato con il visconte Teuditus che nell'897 fu presente ad un placito fiorentino in qualità di testimone.
Il problema degli inizi della famiglia dei C. è strettamente collegato con quello delle origini della contea in Toscana. è comunemente accettato che, sino alla morte (nel 915 circa) del duca Adalberto il Ricco, nella Toscana settentrionale non esistevano conti perché questa zona era governata dal solo duca, in qualità di rappresentante regio. Il documento del 923, nel quale Corrado è indicato come conte a Pistoia, è la prima testimonianza dell'esistenza di un conte in questa zona. Nello stesso tempo a Pistoia compare per la prima volta anche un visconte di nome Petroni. Poco più tardi acquistò il titolo comitale anche quella famiglia che fu poi strettamente legata ai C., i Guidi. Il suo capostipite è un Tetgrim (Teudegrim) al quale il re Ugo nel 927 aveva donato, come possesso ereditario, il monastero reale di Alina, in Val d'Agna; nel diploma di donazione il re chiamava Tetgrim "dilectus compater". In breve tempo anche Tetgrim divenne conte: nel 941, infatti, i figli Raniero e Guido, in una donazione di beni al duomo di Pistoia, si qualificavano come "filii bone memorie Teudgrimi comitis". Per ciò che riguarda la storia delle origini dei C. e dei Guidi, è sorprendente il modo in cui esse procedono parallele. E ciò vale sia per le loro comuni donazioni alla chiesa di S. Zeno a Pistoia, sia per la stretta vicinanza dei loro possedimenti che si trovavano a nord e a nord-ovest della città, e in particolare a Vicofaro e Vincio. Bisogna aggiungere che il conte Cadolo aveva fatto una donazione "pro anima quondam Guidi", e che nel 997 nella zona di Pisa era presente un "Teudici filius bone memorie Teudelgrim", il cui nome testimonia un legame tra le due famiglie. Anche nella famiglia dei conti della Gherardesca, i cui possedimenti erano nella zona ove si trovava il monastero cadolingio di Morrona, il nome di Teudicio è frequente. Tutto ciò lascia pensare che nel IX secolo esisteva nella Toscana settentrionale una ricca ed influente famiglia da cui discendevano sia i primi C., sia i conti Guidi. Ambedue le famiglie al tempo di Berengario I e dopo la morte del duca Adalberto acquistarono una solida posizione comitale nella regione di Pistoia e Firenze.
Ma la storiografia, pur concorde sull'esistenza di un legame genealogico tra C. e Guidi - non è qui il caso di parlare dei rapporti dei Guidi con la Romagna e con Ravenna -, è divisa sul problema della contea in Pistoia.
L. Chiappelli sostiene che né i C. né i Guidi divennero mai conti di Pistoia: le funzioni comitali sarebbero state invece esercitate da visconti, i cui nomi sono testimoniati dal X secolo. Il Chiappelli, però, aveva difficoltà ad interpretare un documento dell'ottobre 1005 in cui un conte Lotario teneva un placito a Pistoia. Non si può mettere in dubbio il fatto che egli appartenesse alla famiglia dei C., né che i visconti in Pistoia operassero non accanto al conte, ma alle sue dipendenze. È certo comunque che i C. poco prima dell'anno 923, cioè ancora sotto l'imperatore Berengario e quando era ancora in vita Berta, la vedova del duca Adalberto, erano stati investiti dell'ufficio comitale in Pistoia, e che riuscirono a mantenerlo anche sotto il re Ugo. La potenza dei marchesi di Toscana, che si andava sempre più limitando alla sola Lucca, ne fu quindi decisamente Midebolita, mentre le famiglie comitali da quel momento in poi poterono accrescere notevolmente i loro possedimenti e la loro potenza. Il nucleo delle proprietà dei C. era costituito da terra fiscale: il che è confermato dalle ricerche compiute dal Davidsohn e dallo Schneider i quali hanno dimostrato che le zone intorno a Fucecchio, dove i C. eressero il monastero di famiglia, e intorno alla corte di Pescia, erano originariamente terre regie. La curtis di Pescia, dove il conte Cadolo stese un documento intorno al 950, si trovava, ancora poco prima, nelle mani del duca Adalberto; e anche questo prova che i C. all'inizio erano favoriti dal re e che il loro potere si sviluppò in opposizione al duca.
Il conte Cadolo, da cui trae nome la famiglia, era figlio del conte Corrado, citato nel documento del 923. Cadolo stesso è ricordato in documenti che vanno dal 923 al 986 e morì prima del novembre 988. Si sposò, a quanto sembra, due volte: la prima volta con una Berta, che nel 952 era già morta, poi con Gemma, figlia di Landolfo, il quale è stato identificato (Della Rena) con il principe Landolfo IV di Capua; Gemma era ancora in vita nel 1006. Cadolo, peraltro, non sposò mai Richilda, figlia di un conte Ildebrando, della quale egli, nel 952, funge da mundoaldo.
La crescente importanza dei C. viene testimoniata non soltanto da questi legami di parentela con altre famiglie nobili, ma anche dalla creazione di un vero e proprio centro religioso della famiglia. Cadolo, che aveva destinato al duomo di Pistoia le sue prime donazioni, poco prima della sua morte fondò e dotò la chiesa di S. Salvatore a Borgonovo. Questa chiesa, posta presso la curtis cadolingia di Salamarthana, nel punto in cui la via Francigena attraversava l'Arno, fu il primo monastero di famiglia dei Cadolingi. Gemma, la vedova di Cadolo, e suo figlio Lotario la dotarono di beni negli anni 1001-1007; non si può dire con sicurezza quando essa sia diventata un monastero regolare. Nel 1001, in ogni caso, era retta dall'abate Sichelmo e in quel tempo era indicata come "monasterium". Il più antico documento di Sichelmo rimastoci è un livello del 12 febbr. 1006; il monastero di S. Salvatore veniva allora indicato "in loco ubi dicitur ponte Bonifilii prope fluvio Arno (vocatum Borgonovo)". Nel corso del secolo successivo il nome della curtis cadolingia di Fucecchio si trasferì a poco a poco al monastero. Quasi nello stesso tempo, sullo scorcio del secolo X, Lotario fondò a Settimo un altro monastero di S. Salvatore, che fu posto dal papa Benedetto VIII sotto la protezione di S. Pietro e che contemporaneamente (marzo 1014) ricevette una conferma dei propri possedimenti dal re Enrico II. Il figlio di Lotario, il conte Guglielmo Bulgaro, affidò questo monastero a Giovanni Gualberto, e qui si svolse nel 1068 la famosa prova del fuoco che segna il culmine della lotta contro la simonia a Firenze. Lotario, che aveva sposato una "Adelasia filia Wilbelmi", è citato nelle fonti sino al 1027, e morì prima del 1034.
I suoi figli Raniero, Ugo e Lotario morirono, a quel che sembra, prima di lui, gli sopravvisse il figlio Guglielmo detto Bulgaro che affidò ai vallombrosani non solo Settimo, ma anche Fucecchio, dove fu abate Pietro Igneo, il futuro cardinale vescovo di Albano. Anche gli altri documenti di Guglielino Bulgaro che ci sono stati tramandati per il periodo 1034-1074 (egli morì probabilmente l'8 apr. 1075) consistono per la maggior parte in donazioni ai suoi monasteri e alla cattedrale di Pistoia; il suo stretto legame coi vallombrosani fa pensare ad un uomo profondamente legato ai problemi della Chiesa e della riforma monastica. Ma la documentazione in nostro possesso è frammentaria e può trarre in inganno: infatti vediamo che, in un placito tenuto a Firenze nel dicembre 1059 alla presenza del papa Niccolò II, il conte Guglielmo Bulgaro restituì a Guido vescovo di Volterra due castelli che, a quanto pare, in precedenza erano stati disputati tra lui e il vescovo.
Questi contrasti per l'affermazione del potere territoriale sono caratteristici anche per Ugo (Uguccio), figlio di Guglielmo. Già nei documenti dei suoi figli egli è chiamato gran conte ("magnus comes"), e questo è indicativo per la stima di cui godeva presso la sua famiglia. Contemporaneo ed avversario della gran contessa Matilde, egli partecipò in modo determinante agli avvenimenti del turbolento periodo tra il 1073 (anno in cui è per la prima volta ricordato) e il 1096 (anno della sua morte). Naturalmente egli si distinse anche per le sue donazioni a monasteri e chiese, e nel 1089 insieme con la moglie Celia fondò e dotò un altro monastero nella diocesi di Volterra: l'abbazia di S. Maria di Morrona che più tardi passò ai camaldolesi.
Rangerio nella sua vita di Anselmo da Lucca (v. 4799) scrive che Ugo ("vir magnanimus Hugicio") si era schierato, insieme con altri nobili toscani, dalla parte dell'imperatore Enrico IV, sebbene non fosse mai stato amico di Pietro, vescovo di Lucca, partigiano dell'imperatore, che nel 1081 aveva sostituito a Lucca il vescovo filopapale Anselmo. Già nel sinodo quaresimale del 1078 Gregorio VII aveva minacciato la scomunica per il "filius comitis cuiusdam ecclesiae Lucensis invasor" che si era impadronito, dei beni della Chiesa di Lucca. è fuor di dubbio che questo passo, che si trova nel registro di Gregorio VII, si riferisce a Ugo. Il Davidsohn ha supposto che la disputa si accentrasse sul possesso del castello di Montecatini, assai importante dal punto di vista strategico, che si trovava al confine della circoscrizione diocesana di Lucca.
Tuttavia la situazione era piuttosto complicata: da una parte Ugo che era vicino alla cerchia riformatrice di Vallombrosa e teneva i contatti con i suoi monasteri di Settimo e Fucecchio; dall'altra in quel periodo aveva chiaramente preso posizione per il re Enrico IV e per il vescovo da lui insediato a Lucca, Pietro, ed aveva preso anche attiva parte alla cacciata del vescovo Anselmo, che era fuggito presso la contessa Matilde. Rangerio illustra molto bene questa situazione, ma trova per Ugo parole di giustificazione. Del resto anche papa Gregorio VII, nel ricordato sinodo quaresimale, parla in modo stranamente ermetico, tacendo il nome di colui al quale era stata rivolta la minaccia di scomunica, parlando invece della predilezione che sino a quel momento aveva nutrito per Ugo e per suo padre. Nel 1081 il papa scriveva di nuovo all'abate di Fucecchio e al prevosto di Camaldoli perché pregassero per il ravvedimento del conte Ugo, che si era reso colpevole della cacciata di Anselmo da Lucca. I giudizi stranamente indulgenti espressi sul conto di Ugo sono indicativi del fatto che nella coscienza del tempo la difesa della riforma e l'adesione al partito imperiale non si dovevano escludere necessariamente.
Si deve pensare che l'ostilità di Ugo fosse diretta anzitutto contro la casa di Canossa. Già prima della sconfitta militare della contessa Matilde era chiaro che il re sarebbe risultato vincitore e quindi Pambizioso conte capiva che sarebbe stato per lui vantaggioso schierarsi dalla parte del re. Ma pare, se si considera la forma usata da Gregorio nella lettera del 1081, che anche il papa tentasse di ottenere le simpatie di Ugo, e sembra con qualche successo. Infatti nel gennaio 1084 Ugo giurò davanti all'abate Pietro di Fucecchio che non gli avrebbe imposto il pagamento di alcun fodro in presenza del re o del marchese; ed è difficile pensare che il conte si trovasse nel monastero mentre egli era ancora colpito dalla scomunica. Anche la donazione che egli fece in questo periodo all'ospedale di Rosaia e a Fucecchio fa pensare che egli si sia rappacificato con la Chiesa, anche se non è chiaro se egli allora avesse già abbandonato il partito di Enrico IV. è evidente che egli disponeva di una forza sufficiente e di un'indipendenza che gli permettevano di assumere un atteggiamento del tutto personale nel gioco politico del suo tempo.
Ugo morì il 10 maggio 1096 e sua moglie Celia, figlia di un Teuzo, il 24 aprile dello stesso anno. Queste date sono fornite dal necrologio di Settimo (scritto nel Trecento, si conserva nel seminario arcivescovile di Firenze, B. I. 5), e sicuramente Ugo insieme con sua moglie venne sepolto in quel monastero, al quale aveva fatto numerose donazioni. Ancora pochi giorni prima della sua morte, nel suo castello di Montecascioli aveva steso un atto di donazione per Settimo; in quest'ultimo periodo della sua vita le pie fondazioni sono così numerose, da provare ancora una volta la sua riconciliazione con la Chiesa. Egli dotò e ampliò (1086 e 1091) l'ospedale di Rosaia situato sull'Arno vicino a Fucecchio e fondato probabilmente da Giovanni Bulgaro, e dotò di un ricco complesso di beni anche l'ospedale annesso al monastero di Fucecchio. Fu sottoposto alle dipendenze di Fucecchio il monastero di S. Bartolomeo in Cappiano e Ugo ottenne dal papa Urbano II anche il trasferimento della chiesa parrocchiale di Fucecchio, appena fondata, alle dipendenze dell'abbazia. Anche nei pressi del castello cadolingio in Pescia doveva essere sorto allora un ospedale che è ricordato nel 1082 e che fu anch'esso sottoposto alle dipendenze di Fucecchio.
Tutte queste nuove fondazioni testimoniano non solo la pia attività del gran conte, ma anche la sua sensibilità per la realtà politica. Attraverso la desolata e paludosa zona tra Altopascio e Fucecchio correva la via Francigena, la più importante strada della Toscana, percorsa da pellegrini ed eserciti, che da Lucca, passando per Siena, andava a Roma; i C. la dominavano nella zona tra Pescia, Cappiano e il punto in cui essa attraversava l'Amo. Presso il ponte (pons Bonifilii) si trovava il "portus vel navigium Arni", il porto dell'Arno, e qui si innalzava il primo monastero di Fucecchio, che più tardi, dopo l'inondazione del 1105, fu ricostruito sulla vicina collina. Era questo il centro di un dominio territoriale quasi unitario che garantiva ai C. una posizione chiave in Toscana e fu causa di una dura lotta dopo la loro estinzione. Questa lotta cominciò a delinearsi sin dagli anni immediatamente successivi alla morte di Ugo.
I suoi figli Lotario, Ugo, Raniero e Bulgaro concessero insieme, nel settembre 1097, un privilegio alla badia della Berardengha (Fontebuona) e poco dopo altri all'ospedale di Altopascio e ai lorcr monasteri di Morrona e Fucecchio. Ma sembra che già nel 1101 fossero rimasti in vita solo Lotario e Ugo. Lotario è ricordato per l'ultima volta in una donazione del 1105, mentre Ugo compare, da solo, ancora in molti documenti che riguardano i possessi della sua casa.
Ugo era sposato con "Cecilia filia Arduini", vedova del pisano Opizzo e dal matrimonio dovettero nascere alcuni figli. Ma da un documento del 1109 risulta che egli non aveva più, a quella data, alcun discendente diretto: le sue donazioni a Fucecchio e a Morrona sono infatti poste sotto la condizione "…si ego sine legitimo filio vel filia mortuus ero".
Dopo aver fatto ricche donazioni ai suoi monasteri, Ugo, in punto di morte, il 18 febbr. 1113 fece testamento; morì, a quanto pare, lo stesso giorno o il giorno successivo. Nel testamento lasciava l'usufrutto dei suoi beni alla moglie, la quale più tardi si risposò con il conte Tancredi Nontejuvat degli Alberti. Eredi principali erano istituiti i vescovi di Lucca, Pisa, Firenze, Pistoia, Volterra e l'abate di Fucecchio. Tale disposizione buscitò una violenta lotta per l'eredità, lotta in cui si inserirono, oltre ai vescovi, i conti Guidi. Le fonti parlano dell'assedio e della distruzione del castello di Montecascioli, assai importante strategicamente, compiuta dai Fiorentini; come loro antagonista figura allora il conte Guido Guerra, figliastro della contessa Matilde.
La morte della contessa, avvenuta il 24 luglio 1115, e la lotta che immediatamente si scatenò per la sua eredità resero la situazione in Toscana ancora più complicata e difficile di quanto già non lo fosse. L'anno seguente (1116) anche l'imperatore si intromise nelle questioni italiane, per conquistare una parte dell'eredità dei C.; per lui lottò in un primo tempo il marchese Rapoto, inviato imperiale (morì nel 1119 combattendo, a quanto pare, contro i Fiorentini a Montecascioli) e poi il marchese Corrado che l'anno successivo al suo invio in Italia (1120) combattè contro i conti Alberti in Val di Pesa. Il motivo di un così vivo interessamento da parte dell'imperatore risiede specialmente nel fatto che non era stata stabilita alcuna distinzione tra allodio e feudo imperiale nei beni dei C. né essa si poteva compiere in quella situazione politica. Tuttavia i rappresentanti dell'imperatore riuscirono ad ottenere che una parte dei beni ecclesiastici provenienti dall'eredità cadolingia, e particolarmente quelli che erano nelle mani dei vescovi di Lucca e Pisa, fossero riconosciuti come feudi imperiali.
Non sappiamo a quale titolo il conte Guido Guerra si inserisse nella contesa; forse s'impadronì della rocca di Salamarthana come rappresentante del potere marchionale (esercitato da Matilde ancora nel 1113-1114) prima che questa rocca, nel novembre 1113, fosse attribuita al vescovo di Lucca.
Fecero valere i loro diritti all'eredità della madre anche gli Opizinghi, i figli di primo letto della contessa Cecilia moglie di Ugo, ed infine lottarono per i loro interessi anche i vassalli degli ultimi conti cadolingi.
Si trova ancora un ricordo dei C. in un diploma di Enrico VI del 18 luglio 1194 per il "monastero imperiale" ("monasterum… specialiter imperio attinens") di Fucecchio, cui l'imperatore confermava le donazioni fatte dai conti Cadolo, Lotario, Bulgarello, Uguccione e Ugolino ("comitibus imperii fidelibus"). Questo diploma venne riconfermato dai re Ottone IV e Federico II, e ciò mostra l'interesse dell'Impero per questa zona, di grande importanza strategica, ai piedi della rocca imperiale di San Miniato. Il maggiore beneficiario del frazionamento della potenza dei C. fu indubbiamente il vescovo di Lucca, al quale toccò la rocca di Fucecchio con tutte le sue pertinenze e che in questo modo conquistò il controllo dei luoghi ove si passa l'Arno. La zona di Cerbaia e del padule di Fucecchio rimase sotto l'influsso comune dei vescovi di Lucca, Pisa, Firenze, Pistoia e Volterra, dopo che essa era diventata un vero e proprio dominio territoriale dei Cadolingi.
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