CAFFÈ (VIII, p. 257; App. II, 1, p. 475; III, 1, p. 278)
La produzione mondiale del c. mostra, dal dopoguerra ai primi anni del decennio 1960-70, un trend ascendente (da 3,5 milioni nel 1958 a 4,4 milioni in media nel periodo 1961-65) con incrementi di circa il 10% all'anno, mentre il consumo registra aumenti del 2-5% annuo; tale tendenza di fondo tende a far stabilizzare l'offerta dei periodi successivi, fino al 1973, tra i 4 e 4,5 milioni di t a seguito di una maggiore conoscenza del mercato e di una precisa volontà dei paesi produttori che, ponendosi come scopi precisi la stabilizzazione e il rialzo tendenziale, nel lungo periodo, del prezzo del c., hanno contenuto e spesso anche ridotto i territori messi a coltura (da 10 milioni di ettari nel periodo 1961-65 a 8,5 milioni nel 1973).
Tale tendenza è soprattutto in atto in America latina dove nel periodo considerato si è avuta una riduzione di circa il 40% dei territori coltivati con un calo di produzione, in contropartita, solo del 30%, risultato reso possibile da un buon aumento della produttività; il contributo percentuale di tale area nel quadro della produzione mondiale va perciò diminuendo (dal 56,3% al 41,9%) anche in conseguenza di un analogo andamento in Brasile (dal 41,7% al 24,5% sempre nello stesso periodo) dove a causa, prima di gelate, poi di malattie, le produzioni del 1969-70 e 1971 risultarono molto scarse.
La Colombia, secondo produttore mondiale, lasciando pressoché invariati i territori coltivati, è passata dal 10,7% al 12,3% nello stesso periodo, ma non riesce a controbilanciare la tendenza generale dell'area latino-americana.
Altrove gl'incrementi dei territori messi a coltura sono stati più o meno ridotti (dal 4% dell'America Settentrionale e Centrale al 15% dell'Africa), ma i generali miglioramenti produttivi hanno portato a discreti aumenti di produzione specie nel continente africano (dal 23% al 30%), con particolare riguardo all'Angola, alla Costa d'Avorio e all'Uganda.
Lo stesso dicasi per l'America Centrale (dal 14,8 al 18,0%) dove forti produttori sono il Messico, il Salvador, il Guatemala, e per l'Asia (dal 5,6 al 9,0%).
I cinque maggiori produttori mondiali forniscono circa il 60% del totale mondiale.
Gli scambi internazionali di c. non rappresentano che il 75% circa della produzione, poiché i grandi paesi produttori dell'America latina (Brasile in particolare) sono anche grossi consumatori; tuttavia il c. costituisce in valore il secondo mercato dei prodotti di base dopo il petrolio, rappresentando così per i paesi esportatori, tutti paesi in via di sviluppo, una delle fonti di valuta pregiata più considerevoli. Ciò vale in particolare per il Brasile, maggiore esportatore con oltre il 29% delle esportazioni totali, che ricava dal commercio del c. tra il 27 e il 30% dei propri proventi da esportazione, ma anche per la Colombia (57% dei proventi totali) e, in varia misura, per tutti gli altri esportatori.
Gli SUA, principale paese importatore di c. (si approvvigionano per i due terzi da paesi sud-americani e per il resto da paesi africani) assorbono oltre un terzo delle quantità commerciate, mentre il continente europeo aumenta la sua quota a oltre il 50%.
L'andamento dei prezzi rimane quello che ha caratterizzato il mercato anche nei periodi precedenti: periodi di prezzi straordinariamente bassi e incredibilmente alti, e ciò a causa di molteplici questioni che rendono il mercato piuttosto caotico; prima tra tutte la difficoltà di amministrare l'offerta, vale a dire di variare le produzioni conformemente alla domanda, sia per la variabilità propria di quest'ultima, sia, soprattutto, per la natura stessa della coltivazione. Il maggiore o minor rinnovo delle piantagioni, in sostituzione di piante vecchie e malate o in aggiunta alle precedenti, allo scopo di variare l'offerta, presenta il problema di dover essere intrapreso con un certo margine di anticipo (4-5 anni) rispetto alla necessità.
Studi accurati sono stati effettuati sulla domanda internazionale nelle sue variabili causali, per poter prevedere in anticipo le variazioni dei consumi e ancorare la dinamica delle sostituzioni e degl'incrementi colturali a quella dell'assorbimento futuro.
In questa prospettiva sono stati ratificati gli accordi internazionali del 1958 e quello del 1962, rinnovato nel 1968, al quale aderivano 41 paesi esportatori rappresentanti il 99% delle esportazioni, e 21 paesi importatori (90% delle importazioni) compresi gli Stati Uniti, l'URSS e il Giappone.
Questo accordo non ha dato buoni risultati per difficoltà inerenti all'amministrazione delle quote e ai relativi controlli; ma le difficoltà principali risiedono nella determinazione del livello dei prezzi teorici; c'è infatti da tener presente che di tali accordi fanno parte paesi caratterizzati da condizioni economiche generali altamente differenziate con strutture produttive, e quindi produttività molto differenti, che dànno luogo a strutture di prezzi molto diversificate.
Cosicché l'accordo scaduto nel 1973, e prorogato fino al 30 settembre 1975, ha perso ogni valore, essendo state sospese di fatto le clausole economiche relative ai sistemi di contingentamento all'esportazione e ai fondi di diversificazione e propaganda; l'Organizzazione Internazionale del Caffè (OIC) non è dunque più che un organismo statistico e il mercato attuale si presenta come un mercato libero.
In seguito a ciò e in considerazione delle difficoltà di concludere un nuovo accordo, i principali paesi produttori, Brasile, Colombia e i paesi dell'OAMCAF (Organizzazione Africana e Malgascia del Caffè) hanno messo in essere una "Unione Caffeifera", organismo commerciale destinato a difendere il prezzo del c. attraverso eventuali acquisti di sostegno.