cagione
. Nell'uso filosofico il termine ‛ causa ' (ma la forma prevalente in D. è c.) designa i principi operatori e giustificativi della vita, del movimento e di tutto ciò che accade nel mondo. In tal senso ricorre nelle opere latine e nel Convivio. Il termine correlativo, che designa il ‛ prodotto ' della c., è ‛ effetto '.
La dottrina dantesca della c. deriva da Aristotele e dal neoplatonismo, tramite soprattutto il Liber de causis.
È noto che Aristotele ha innanzitutto identificato le c. del divenire fisico e poi ne ha ripreso i temi nella Metafisica concependo la conoscenza filosofica come conoscenza delle c. prime (Metaph. I 3, 983a 25-26) e trasferendo le c. sul piano dell'indagine generale sull'essere (ibid. 26-32 e V 2, 1013a 24-36; Phys. II 3, 194a 16 ss.). Le c. sono ricondotte da Aristotele a quattro fondamentali: c. materiale è ciò da cui qualcosa si produce, la materia (ὔλη) e il sostrato; c. formale è l' εἶδος - μοφρή come comprincipio della materia, il τὸ τί ἧν εἶναι e la sostanza; c. efficiente (o movente) è il principio di ogni mutamento (come lo è l'agente: v.); c. finale è lo scopo di ogni mutamento e generazione e il bene. In Phys. II 3, 194b 26 e Metaph. V 2, 1013a 27, la c. formale è detta anche τὸ παράδειγμα (donde, nel Medioevo, c. exemplaris), mentre più oltre (Phys. 194b 35-195a 3 e Metaph. 1013a 36-b 3) si precisa che c. è anche tutto ciò che è mezzo al fine. Il concetto di c. è perciò relativo ai vari livelli dell'essere e dell'operare, e una stessa realtà può essere considerata c. diversamente, da differenti punti di vista.
Quanto alla terminologia, Aristotele designa c. con αἰτία; essa non va confusa con ςτοιχει̃ον (elemento), definito come ciò in cui si risolve qualcosa, il non ulteriormente divisibile, e perciò principio e c. intrinseca della realtà (con riferimento soprattutto alla c. materiale; Metaph. III 3, 998a 21 e VII 17, 1041b 31-33), mentre la c. efficiente e talora quella finale (non nella sostanza, nel qual caso s'identifica con la forma: Metaph. VIII 4, 1044b 1) sono c. estrinseche; né va identificata senz'altro con ἀρχη̃ (principio), giacché, se tutte le c. sono principi (Metaph. V 1, 1013a 17), non tutti i principi sono c., come si può vedere dall'analisi di ‛ principio ' in Metaph. V 1 (cfr. Alb. Magno Metaph. V I 1, 207b " Quia vero principium prius est quam causa, eo quod omnis causa principium est et non convertitur, quod omne principium sit causa ", e XI I 11, 476a " Sicut enim saepe diximus, illae causae quae insunt rebus aliae sunt ab illis quae quidem causae sunt, sed non insunt. Illae enim quae insunt, sicut materia et forma, dicuntur elementa, et materia magis proprie est elementum quam forma. Aliae autem quae non insunt, ut efficiens et finis, dicuntur principia. Et causa est nomen commune ad elementa et principia, licet quaedam dicantur principia quae non sunt causae ").
Inoltre, le espressioni con le quali vengono indicate le quattro c. non sono aristoteliche, ma hanno avuto origine molto più tardi. Nel Medioevo, nelle expositio dei luoghi relativi alla c. efficiente della Fisica e della Metafisica, si precisa che essa può essere di quattro specie: " perficiens ", " praeparans seu disponens ", " adiuvans ", " consilians " (cfr. s. Tommaso In Phys. II lect. 5 e In Metaph. V lect. 2; Alb. Magno Phys. II II 3, 126 b); la c. strumentale è propriamente la c. adiuvans (cfr. B. Nardi, Alla illustrazione del " Convivio " dantesco, p. 78).
Il processo di generazione e corruzione sulla terra è ricondotto da Aristotele alla sua c. prima che è il Motore immobile o primo Motore (Metaph. XII 6, 1072a 16), che muove il Primo Mobile o cielo delle stelle fisse, essendo oggetto del desiderio di esso (ibid. 7, 1072b 3): da questo il moto si trasmette (ibid. 4) di cielo in cielo fino al mondo sublunare. La molteplicità della generazione e della corruzione è sufficientemente spiegata per Aristotele dalla molteplicità dei movimenti dei pianeti (Gener. et corrupt. II 10, 336a 23-337a 15).
Tuttavia della dottrina della c. Aristotele non si ritiene scopritore; anzi, in Metaph. I 3-10, fornisce una storia dell'affacciarsi dei vari concetti di c. nelle dottrine dei filosofi che l'hanno preceduto. Per quanto riguarda Platone, ricordiamo l'affermazione della necessità della c. (designata da lui sia con ἡ αἰτία che con τὸ αἴτιον) per il mondo del movimento e della generazione (Tim. 28 A, C, 57 E; cfr. Plotino Enn. III I 1), la distinzione tra l'operare diretto del Demiurgo e quello mediato dall'intervento degli dei che il Demiurgo ha creati (Tim. 41 A-D), la distinzione (Tim. 46 D-E) tra c. principali (che operano con intelligenza, automoventisi, principi; per l'anima, cfr. Phaedr. 245 C-E) e c. secondarie (che operano a caso, si generano da altre che sono mosse e necessariamente ne muovono altre) e tutta la discussione di Phaed. cc. 45-49 (in part. 101 C: le idee sono ciò da cui tutto si genera, per partecipazione, da raffrontare con Phil. 26 E: ‛ ciò che fa ' e ‛ ciò che è c. ' sono la stessa cosa; due luoghi, questi, importanti per precisare il pensiero platonico a proposito della c. efficiente e motrice, mentre Aristotele attribuisce a Platone solo le c. materiale e formale).
Il neoplatonismo concepisce il mondo come una serie di rapporti causali (in Plotino Enn. V 1 8, il Bene è padre della C. [cfr. Platone Ep. II 312 E e VI 323 D]; VI 8 18: l'Uno è c. della C. cioè la C. è il ‛ Nous ', da cui tutto emana) in specie con Proclo (Elementatio theologica): dal Bene-Uno, fonte di tutto, deriva ogni cosa in una catena gerarchica di c., per cui le c. seconde operano subordinatamente alle c. prime, sicché degli effetti delle seconde sono a maggior ragione c. le prime (§ 56), giacché la potenza della c. si misura dalla capacità di produrre effetti (§ 60). Per questa catena di c. passa la virtualità che emana dall'Uno e dalle c. prime e che viene ‛ specificata ' dalle c. seconde (§§ 70-71).
Il Medioevo ricevette le dottrine aristotelica e neoplatonica prevalentemente dal mondo arabo e cercò di conciliarle col concetto biblico di creazione. Il Liber de causis, che ha tanta parte nell'opera dantesca, rivela un'impronta creazionista che denota la sua origine medievale; ma dipende dall'Elementatio theologica di Proclo, come già aveva intuito Tommaso d'Aquino che nel suo commento al De Causis pose a confronto le due opere.
D. accolse queste dottrine e su di esse strutturò la sua concezione del mondo e dei rapporti sui quali esso si regge. In particolare, per D. la causalità diretta di Dio (creazione) si esplica nei riguardi delle Intelligenze separate, della materia e dei cieli, composti di materia e forma e incorruttibili; nel mondo sublunare la forma è data da Dio alla materia attraverso l'azione dei cieli.
Riuniremo in tre gruppi le occorrenze di c. aventi più stretta attinenza con le dottrine filosofiche ricordate, in modo da fornire un'esposizione il più possibile unitaria.
Le quattro cause. - In Cv IV XX 10, a proposito della definizione di nobiltà, D. afferma: E se bene si guarda, questa diffinizione tutte e quattro le cagioni, cioè materiale, formale, efficiente e finale, comprende: materiale in quanto dice: ne l'anima ben posta, che è materia e subietto di nobilitade; formale in quanto dice che è seme; efficiente in quanto dice: Messo da Dio ne l'anima; finale in quanto dice: di felicità; in III XI 15, nel confronto tra vera amistade e filosofia, occorre l'espressione tutte le sue cagioni, con preciso riferimento alle quattro c.: subietto, forma, cagione efficiente (§ 13, due volte), fine.
In altri luoghi si accenna solo ad alcuni tipi di causa o a uno solo: ‛ c. efficiente ' occorre, oltre che nel luogo citato, in I XIII 4 Non è secondo [lo Filosofo impossibile, si come dice ne la Fisica al libro secondo] a una cosa esser più cagioni efficienti, avvegna che una sia massima de l'altre; onde lo fuoco e lo martello sono cagioni efficienti de lo coltello, avvegna che massimamente è il fabbro (per il luogo aristotelico, cfr. Phys. II 3, 194b 16-195a 27); D. afferma la pluralità delle c. efficienti, distinguendo c. principale e c. secondarie o strumentali: il martello è strumento del fabbro, il quale è c. efficiente principale. Analogo discorso vale per Cv IV IV 12, dove torna la similitudine del fabbro e del martello (per la quale cfr. Alb. Magno De Coelo II III 14, 205a) e dove ‛ c. efficiente ' e ‛ c. movente ' sono sinonimi, in un contesto in cui D. afferma che c. dell'Impero romano fu anzitutto la ragione divina e secondariamente la forza: La forza dunque non fu cagione movente ... ma fu cagione instrumentale, sì come sono li colpi del martello cagione del coltello, e l'anima del fabbro è cagione efficiente e movente (v. anche I II 16 e cfr. III XII 1). In II VII 6 final cagione è la ‛ c. finale ', il fine dell'ascesa di Dante. Per ‛ c. formale ' cfr. qui di seguito la dottrina dell'anima. In Cv III XIV 10 la libertà della ‛ Donna gentile ', libera ne la sua propria potestade (§ 9) è provata con la definizione di Aristotele (Metaph. I 2, 982b 26): quella cosa è libera che per sua cagione è, non per altrui (dice Aristotele: " homo liber qui suimet et non ulterius causa est ").
Causa prima. - Causa seconda. - In Cv III II 4 è detto: Ciascuna forma sustanziale procede da la sua prima cagione, la quale è Iddio, sì come nel libro Di Cagioni è scritto, e non ricevono diversitade per quella, che è semplicissima, ma per le secondarie cagioni e per la materia in che discende: D., illustrando l'azione causale di Dio (cfr. III XII 8) nel mondo sublunare, precisa che c. prima di ogni forma sustanziale (espressione aristotelica - nota il Nardi [Le citazioni dantesche del " Liber de causis ", p. 106] - che sta per il principio informante la materia, in modo da costituire un sinolo con essa) è Dio, c. universale di tutte le cose (anche l'occulta c. di Cv II XII 5, può esser ricondotta per D. al divino imperio), il quale però agisce mediatamente, tramite i cieli: questi hanno il compito di introdurre le diversità nell'influenza semplicissima del Creatore, ricevendola e ‛ partendola ' (cfr. Pd II 116) in conformità alle loro diverse nature; i cieli perciò sono ‛ secondarie c. '.
Ancora il Nardi rileva che il punto di partenza di questa dottrina è neoplatonico, ricavato da Avicenna: " a stabili in quantum stabile non est nisi stabile " (D. e Pietro d'Abano, p. 44); per esso, da Dio semplicissimo e immutabile non può derivare immediatamente niente di diverso e di mutevole. Quanto al rinvio al De Causi:, non si tratta precisamente di un luogo, ma generalmente della dottrina in esso enunciata che D. ha presente; si possono richiamare le propp. I, n. 1 (" Omnis causa primaria plus est influens super causatum suum quam causa universalis secunda "), 8 (9), n. 87 (" Et causa quidem prima... est supra [intelligentiam et] animam et naturam, quoniam est creans omnes res. Verumtamen est creans intelligentiam absque medio et creans animam et naturam et reliquas res, mediante intelligentia "), 9 (10), n. 98 (le intelligenze seconde " dividunt eam [la forma universale] et separant eam "), 19 (20), n. 157 (" causa prima est fixa, stans cum unitate sua pura semper, et ipsa regit res creatas omnes et influit super eas virtutem vitae et bonitates secundum modum virtutis earum [receptibilium] et possibilitatem earum. Prima enim bonitas influit bonitates super res omnes influxione una: verumtamen unaquaeque rerum recipit ex illa influxione secundum modum suae virtutis et sui esse "), 23 (24), n. 179 (" Et diversitas quidem receptionis non fit ex causa prima sed propter recipiens "). Il tema della bontà divina è timaico (Tim. 29 E; cfr. Boezio Cons. phil. III m. IX 5-6) e ricorre altre volte in D. (cfr. Pd VII 64-66); secondo D. la diversificazione dell'influenza celeste è a sua volta condizionata dalla ‛ materia ' (cera, in Pd I 41 e XIII 67), mentre il De Causis parla solo di res e recipiens, cioè di ‛ soggetto ' in generale (B. Nardi, Le citazioni dantesche dal " Liber de causis ", p. 107), quindi intelligenze superiori e cose corruttibili, dell'illuminazione divina (che la materia sia c. d'individuazione e di diversità è dottrina aristotelica: v. MATERIA); cfr. anche l'enunciazione della causalità nell'ordine naturale riassunta in Ep XIII 54-57, dove D. cita la prop. I n. I del De Causis e Arist. Metaph. II 2, 994a 1-2 (impossibilità del processo all'infinito risalendo, nelle c. agenti, verso la C. prima).
Affrontando il problema della conoscenza che le Intelligenze celesti hanno di sé e delle cose, in Cv III VI 4-5, e citando il De Causis (prop. 7 [8], n. 72 " Omnis intelligentia scit quod est supra se et quod est sub se; verumtamen scit quod est sub se quoniam est causa ei, et scit quod est supra se quoniam acquirit bonitates ab eo "), D. afferma che ciascuno Intelletto di sopra... conosce... Iddio sì come sua cagione, conosce quello che è sotto sé si come suo effetto, e aggiunge: e però che Dio è universalissima cagione di tutte le cose, conoscendo lui, tutte le cose conosce in sé, secondo lo modo de la Intelligenza; duplice è dunque la conoscenza che le Intelligenze hanno delle cose: le conoscono ‛ nella ' c. prima e come propri effetti. In Cv III XII 11 si afferma che Dio invece conosce le cose in sé stesso, in quanto la distinzione de le cose è in lui per [lo] modo che lo eretto è ne la cagione, perciò, si legge più oltre (§ 14), l'altre cose vede e distingue... veggendosi essere cagione di tutto.
In Cv III VI 11 D., citando Aristotele (Anima II 1, 412a 23), afferma che l'anima è atto del corpo: e se ella è suo atto è sua cagione; e però che, si come è scritto nel libro allegato de le Cagioni, ogni cagione infonde nel suo effetto de la bontade che riceve da la cagione sua, infonde e rende al corpo suo de la bontade de la cagione sua, ch'è Dio (cfr. Alb. Magno Metaph. XI 2 12, 498b " sed quoniam anima, quae est endelechia corporis organici, est principium et causa vitae "): l'atto-entelechia è forma, nel senso di ‛ c. formale ', del corpo; per la citazione del De Causis, il passo più vicino è la prop. I nn. 16-17 " Et non figitur causatum causae secundae nisi per virtutem causae primae. Quod est, quia causa secunda quando facit rem, influit causa prima quae est supra eam super illam rem de virtute sua, quale adhaeret ei adhaerentia vehementi et servat eam "; D. dunque considera l'anima-forma c. seconda del corpo rispetto a Dio, la cui bontà essa infonde (" influit ") in esso; cfr. Cv III VI 12 manifesto è che la sua forma, cioè la sua anima, che lo [il corpo] conduce sì come cagione propria, riceva miracolosamente la graziosa bontà di Dio.
In Cv II V 9 Dio Trinità è la Prima Cagione che i Serafini, più che gli altri angeli, contemplano; in II IV 14 D. precisa che, propriamente, lo divino intelletto (Nous, luogo delle idee-forma, la plotiniana causa prima) è cagione di tutto; lo è anche dell'intelletto umano, il quale quindi è infinitamente superato dal Verbo, giacché nullo effetto è maggiore de la cagione, poi che la cagione non può dare quello che non ha: per la seconda parte dell'enunciato, applicazione del principio per sé stesso evidente " nemo dat quod non habet ", cfr. B. Nardi, Dal " Convivio " alla " Commedia ", pp. 220 n. 143, 221, 222-223 n. 146; la prima parte risulta dal contesto neoplatonico delineato, dove vale per le c. intelligenti; in contesto aristotelico non può valere per le cause strumentali, ma solo per quelle principali.
Dalla luce del Verbo procede l'Empireo, divinassimo ciel quieto, il quale è cagione al Primo Mobile per avere velocissimo movimento (Cv II III 9); l'Empireo muove il Primo Mobile essendo oggetto del desiderio di esso (per lo ferventissimo appetito ch'è 'n ciascuna parte di quello nono cielo, III 9); la giustificazione del movimento è aristotelica; quanto poi all'introduzione di un nono cielo, che D. attribuisce a Tolomeo (II III 5) e all'elaborazione della dottrina dell'Empireo, cfr. B. Nardi, La dottrina dell'Empireo.
Causa - Effetto. - In Cv I XII 3 ricorrono le espressioni cagioni d'amore generative, che sono la prossimitade e la bontade, e cagioni d'amore accrescitive, che sono lo beneficio, lo studio e la consuetudine; e D. aggiunge: E tutte queste cagioni vi sono state a generare e a confortare l'amore ch'io porto al mio volgare.
L'autorità su cui è fondata la dottrina è il De Amicitia di Cicerone (il Busnelli cita il passo di V 19 " videor ita natos esse nos ut inter omnes homines esset societas quaedam: maior autem, ut quisque proxime accederet "; VI 20 " haec ipsa virtus amicitiam et gignit et continet nec sine virtute amicitia esse ullo pacto potest ", e IX 29 " confirmatur amor et beneficio accepto et studio perspecto et consuetudine adiuncta ") che, dice D. giustamente, non si allontana da quanto Aristotele insegna nei libri VIII e IX dell'Ethica nicomachea (gli argomenti di Cicerone sono presenti in Aristotele; in particolare il tema della bontà, dalla definizione di amicizia [VIII 1, 1155a 4 " Est enim virtus quaedam, vel cum virtute "] all'affermazione che amicizia è solo di chi è buono o appare tale [VIII 2, 1155b 21-27] e alla precisazione del senso in cui si dicono amici i cattivi [VIII 4, 1157a 16 ss.]). D. aggiunge ancora (I XII 6-7): se la prossimitade è seme d'amistà... manifesto è ch'ella è de le cagioni stata de l'amore ch'io porto a la mia loquela... La sopra detta cagione, cioè d'essere più unito... mosse la consuetudine de la gente; e ancora (§ 13): manifesto è ched ella [bontade] è de le cagioni stata de l'amore ch'io porto ad esso [volgare]; poi che... la bontade è cagione d'amore generativa. In I XIII 3 infatti D. attribuisce al volgare una causalità, strumentale e accidentale, nei riguardi del suo essere (esse, perfezione prima, atto primo: v. ATTO; PERFEZIONE) e del suo bene esse (perfezione seconda, atto secondo): se la propria loquela m'è stata cagione de l'una e de l'altra, grandissimo beneficio da lei ho ricevuto. E ch'ella sia stata a me d'essere [cagione, e ancora di buono essere] se per me non stesse, brievemente si può mostrare; infatti (§ 4) il volgare, facilitando l'incontro tra i genitori, ha contribuito alla generazione e in tal senso esso è alcuna cagione del mio essere; il volgare ha avviato D. ne la via di scienza, che è ultima perfezione (§ 5); perciò conclude essere a questa amistà concorse tutte le cagioni generative e accrescitive de l'amistade (§ 10).
Alla stessa dottrina delle c. della perfezione prima e seconda si richiama il passo di Cv II XIII 5 dove si afferma che i cieli sono c. de la generazione sustanziale (per le autorità citate nel passo, cfr. B. Nardi, Alcuni luoghi di Alb. Magno e di D., pp. 66-69; la causalità dei cieli è affermata anche in Cv II V 14 perché li antichi s'accorsero che quello cielo era qua giù cagione d'amore, dissero Amore essere figlio di Venere), mentre de la induzione de la perfezione seconda le scienze sono cagione in noi (XIII 6); il contesto è quello della comparazione tra cielo e scienza; dell'uno e dell'altra è proprio lo inducere perfezione ne le disposte cose (XIII 5): le disposte cose richiamano il disposto paziente di II IX 7 (cfr. anche IV XX 7), per cui v. AGENTE; quanto, invece, allo inducere perfezione, si richiama alla dottrina dell'influsso delle c. (III II 4), che è a fondamento della similitudine che la c. induce nell'effetto, su cui D. insiste spesso (v. CAUSARE, e l'adagio " omne agens agit sibi simile ", in B. Nardi, L'arco della vita, p. 112; v. anche Cv IV X 9 per l'altera[nte] c., e cfr. Aristotele Gener. I 6, 322b 22-25 e Phys. VII 2, 244b 2-5), anche se sottolinea, contemporaneamente, che il processo di assimilazione è limitato dal ricevente: III II 5 Onde, con ciò sia cosa che ciascuo effetto ritegna de la natura de la sua cagione; XIV 2 Ove è da sapere che discender la virtude d'una cosa in altra non è altro che ridurre quella in sua similitudine; si come ne li agenti naturali vedemo manifestamente che, discendendo la loro virtù ne le pazienti cose, recano quelle a loro similitudine tanto quanto possibili sono a venire (l'occorrenza qui è agente, c. efficiente; cfr. Alb. Magno Metaph. V 2 8, 246a " causatum dicitur simile causae in talibus. Cuius sunt duae rationes, una quidem, quia nihil est et nihil habet de esse nisi per assimilationem sui ad causam, quantum potest. Alia autem, quia imitatur illam, quantum potest, et hoc sibi optimum, quod se totum refert ad eam "); IV IX 11 quanto la cosa è più propia de l'arte o del maestro, tanto è maggiore in quella la subiezione; ché, multiplicata la cagione, multiplica l'effetto: quanto più è proprio dell'arte o del maestro ciò che si fa, tanto maggiore è la soggezione che ne risulta (giacché col moltiplicarsi della causa si moltiplica l'effetto; cfr. anche IV XIII 2 questo cotale dilatare non è cagione d'imperfezione, ma di perfezione maggiore, per cui v. DILATARE, e XIV 7 quanto è migliore tanto è più cagione di bene) e, con la soggezione, l'assimilazione del discepolo al maestro e l'acquisizione dell'arte; e XXIII 5 ciascuno effetto, in quanto effetto è, riceve la similitudine de la sua cagione, quanto è più possibile di ritenere. Ancora: II VIII 4 ciascuna cagione ama lo suo effetto (cfr. Eth. nic. IX 7, 1167b 34 ss., con riferimento all'amore dell'autore per la propria opera e del benefattore per gli amici beneficati); IV XVIII 2 si procede... a sapere che ogni... virtude... proceda da nobilitade sì come effetto da sua cagione; D. fonda l'affermazione su di un assioma filosofico: quando due cose si truovano convenire in una, ambo queste si deono riducere ad alcuno terzo, o vero l'una a l'altra, sì come effetto a cagione (XVIII 2), cioè, se A e B sono simili, o l'uno si riduce all'altro come effetto a c., oppure entrambi si riconducono a C (cfr. Mn III XIII 4 e Cv IV Le dolci rime 94-97); analogamente in IV XXIII 5 Ché lo piè de l'albero, che tutti li altri rami comprende, si dee principio dire e cagione di quelli... e così nobilitade, [che] comprende ogni vertude, si come cagione effetto comprende, [e] molte altre nostre operazioni laudabili, si dee avere per tale, che la vertude sia da ridurre ad essa prima che ad altro terzo che in noi sia: la nobiltà, cioè, è radice e c. delle virtù nell'uomo.
Per l'uso del rapporto c.-effetto, in espressioni come ‛ tempo c. di nobiltà ', ‛ possesso c. di male ' ecc., cfr. Cv II XV 7, IV VIII 9 (due volte), X 2, XII 12, XIII 10 (due volte), XIV 1, 10 e 11; il termine ricorre ancora in I I 2, 4 e 5, II 3 e 12, III 10, III VI 5 e, nella volgarizzazione del titolo latino Liber de causis, come Libro de le Cagioni o Di Cagioni, in Cv III II 4, VI 4 e 11, VII 2, IV XXI 9.
In numerose occorrenze c. ha generico rapporto con le accezioni filosofiche, e fuori di un linguaggio strettamente o analogicamente scientifico, vale semplicemente " causa ", " motivo ", implicando spesso il senso di " occasione ", " origine " (per l'alternanza, assai diffusa in tutti i manoscritti, con ‛ ragione ', v. Petrocchi, Introduzione 117).
I luoghi ove c. ha questi significati sono: Rime LX 10 moviti a far ciò ch'è la cagione / che ti dichini a farmi compagnia; Vn VII 2 la mia donna fue immediata cagione di certe parole che ne lo sonetto sono; VIII 4 2, 7 (due volte) e 12, XII 6, XIV 10 e 14, XV 7, XVII 2, XIX 16, XXV 5, XXXI 5, XXXVII 7 6; Cv I II 3 Non si concede per li retorici alcuno di sé medesimo sanza necessaria cagione parlare; III 3, IV 6 e 12, VII 15 (due volte), XI 1 e 21, II VIII 11, IX 1, X 3, XI 7, XV 7 e 11, III XI 16, XII 1, IV I 4, II 3 e 5, IV 4; If I 41 si ch'a bene sperar m'era cagione / di quella fiera a la gaetta pelle / l'ora del tempo e la dolce stagione; I 78 perché non sali il dilettoso monte / ch'è principio e cagion di tutta gioia?; II 26 e 82, VI 62, XXII 125, XXIX 14, XXXI 5, XXXIII 108, Pg XVI 61, 67, 83 e 104, XVII 99, XIX 130, XXI 45 e 127, XXV 108, XXVI 10 e 110, XXIV 39, XXXI 90, Pd I 83, II 74, VI 99, VII 101, IX 35, XI 78, XIII 92, XX 132, XXI 57, XXII 140, XXIV 129, XXVI 113 e 116, Fiore CXXXII 3.
Si segnalano inoltre alcune locuzioni: avea cagione di dire (Vn XXII 7); non avea cagione onde piangesse (Pd XVI 150); La rigida giustizia che mi fruga / tragge cagion del loco ov'io peccai / a metter più li miei sospiri in fuga (If XXX 71); Ancor di dubitar ti dà cagione / parer tornarsi l'anima a le stelle (Pd IV 23).
Comuni sono le formule ‛ per c. ', ‛ per questa c. ', ‛ per tal c. ', e simili: Rime CII 30 per cagion del freddo; C 32, CVI 146, Vn X 2, XIV 13, CV I IV 2 e 6, XI 9 e 14, II XI 7, III Amor che ne la mente 79, IX 5 e 11, IV II 9, IX 8, XXVIII 19, Pg XXII 30, XXIII 38, XXIV 9, XXVIII 89, XXXIII 65, Pd XV 80, Fiore XIV 10, XLVI 6, CLI 10.
Nel modulo ‛ non sanza c. ' il vocabolo mantiene, seppure sfumato, il senso di " fine " o meglio " ragione ": If VII 10 Non è sanza cagion l'andare al cupo; X 90 " A ciò non fu' io sol ", disse, " né certo / sanza cagion con li altri sarei mosso... "; Cv III III 1 Non sanza cagione dico che questo amore ne la mente fa la sua operazione, X 4, IV XV 11, Fiore CLXXXI 11.
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