Cahiers du cinéma
Rivista francese con periodicità mensile, nata nel 1951 (il primo numero ad aprile), sulle orme della seconda serie di "La revue du cinéma" (1946-1949) diretta dal critico Jean-Georges Auriol, prematuramente scomparso nel 1950. La nuova rivista venne fondata da tre collaboratori della "Revue", André Bazin, Jacques Doniol-Valcroze e Jean-Marie Lo Duca, e divenne culla della Nouvelle vague nonché punto di riferimento per gli autori, i critici e i teorici del cosiddetto nuovo cinema internazionale degli anni Sessanta, in virtù di una critica di stampo fenomenologico, attenta allo stile e ricca di valenze teoriche.
Il lavoro dei C. du c. nei primi anni fu caratterizzato, per impulso di Bazin, dalla definizione del cosiddetto cinema della realtà, insieme delle pratiche autoriali che instaurano con il reale un rapporto di ricerca e sperimentazione, teso a esaltare sia le qualità specifiche, riproduttive, del mezzo, sia la ricchezza di senso di cui la realtà è portatrice e che il cinema può rivelare. All'origine di questo percorso si trova un'interpretazione originale del Neorealismo cinematografico italiano, in particolare dei film di R. Rossellini e della coppia De Sica-Zavattini, nei quali venne sottolineato il primato del 'fatto' rispetto alla 'inquadratura' e al 'montaggio', che fanno del film il veicolo di un senso predeterminato. La lezione del Neorealismo italiano, in questa prospettiva, venne giocata sia in opposizione a quella delle avanguardie storiche, in particolare del Surrealismo, sia, e più ancora, in opposizione al découpage classico, che rappresentava la norma estetica dominante. In opposizione alle avanguardie storiche, i C. du c. proposero una diversa avanguardia per il cinema contemporaneo. All''inconscio cinematografico' del 'cinema puro' dadaista e surrealista, Bazin contrappose (Le pour et le contre, nr. 4, luglio-agosto 1951) l'importanza della componente razionale del testo, della varietà degli stili e dei motivi culturali che nell'opera vengono formalizzati. E fu un L. Buñuel 'realista', attento alle contraddizioni di una realtà che si costruisce nel sociale (l'anno prima era uscito Los olvidados, I figli della violenza), quello proposto da Pierre Kast nel nr. 7, dicembre 1951. Il punto sulla questione venne espresso nel nr. 10, marzo 1952, con la pubblicazione di quattro Opinions sur l'Avant-Garde, firmate da Michel Mayoux (che elogiava il cinema di J. Broughton, C. Harrington e K. Anger), Hans Richter, Bazin e Maurice Schérer (più tardi regista sotto lo pseudonimo di Eric Rohmer). Mentre Richter, uno dei capi storici dello sperimentalismo, si rifece al concetto di cinema 'puro', Bazin propose come film che sono 'avanti' rispetto alla norma estetica dominante La règle du jeu (1939; La regola del gioco) di J. Renoir, Les dames du Bois de Boulogne (1945; Perfidia) di R. Bresson e l'intera opera di E. von Stroheim. Rispetto alle avanguardie storiche, questa nuova, disse Bazin, è anche più 'maledetta', perché, sforzandosi "di iscriversi nelle condizioni normali del cinema, corre il peggiore dei rischi: il malinteso con il pubblico e il ritiro immediato della fiducia dei produttori". L'intento di Bazin fu quello di proporre una critica in grado di arrivare al pubblico e agli autori non appesantita da schemi o ideologie. Sulla stessa linea si mosse Schérer, che propose come esemplare il caso del film Traité de bave et d'éternité di I. Isou, fondatore con Maurice Lemaître del Lettrismo, l'unico movimento d'avanguardia contemporaneo "che abbia preteso di porsi alla sinistra del Surrealismo". All'enfasi del testo, osservava il critico, si contrappongono nel film immagini indifferenti, quotidiane, e il metodo 'discrepante' bretoniano è confinato nel commento parlato e in un'operazione iconoclasta di graffiatura del negativo. Nel confronto con il cinema, Isou superava dunque l'esperienza surrealista, in virtù di un'attenzione alle proprietà specifiche del mezzo, alla sua capacità di andare, scrisse Schérer citando E. Husserl, alle "cose come sono".
La formula rinvia alla lezione della fenomenologia, mediata dagli studi di J.-P. Sartre e di M. Merleau-Ponty, insieme direttori, all'epoca, della rivista "Les temps modernes", sulla quale scrissero, tra gli altri, Bazin, Schérer e Alexandre Astruc; non senza una componente spiritualista implicita, riconducibile al 'personalismo' di E. Mounier e alla rivista "Esprit" di A. Béguin, cui Bazin collaborava abitualmente, tra l'altro introducendovi Amédée Ayfre, l'autore della definizione del Neorealismo italiano come 'realismo fenomenologico'. Ma fu del tutto originale il modo in cui la rivista fece lievitare questi stimoli nel campo della critica e della teoria del cinema. Il concetto di 'realtà' proposto dai C. du c., infatti, aveva un'estensione nuova rispetto ai multiformi 'realismi' della storia delle teorie cinematografiche e appariva vicino al concetto di 'materiale' dei formalisti russi. È quanto si trova nel saggio di Bazin su Le journal d'un curé de campagne (1951; Il diario di un curato di campagna) di Bresson (nr. 3, giugno 1951), dove il testo del romanzo di G. Bernanos è considerato nel suo tessuto stilistico, come 'realtà pura', 'materiale' che il film lavora, alla stregua delle scenografie, del paesaggio e del volto dell'interprete. Fu un cinema antiespressionistico, antipsicologistico, quello che Bazin propose, tutto risolto sulla superficie dello schermo. Un cinema il cui senso era nello stile, inteso come operazione interpretativa del cineasta sul 'reale', concetto che comprendeva dunque non soltanto la strada e la piazza neorealiste ma anche i testi realizzati nei diversi linguaggi espressivi (posizione ribadita nel nr. 60, giugno 1956, a proposito del film Le mystère Picasso, 1956, Il mistero Picasso, di H.-G. Clouzot). Fu questo il nodo concettuale di fondo del cinema della realtà proposto dai C. du c.: un cinema che esibisce la dialettica di formatività e materiali che ne costituisce il fondamentale paradosso estetico. E fu il nodo che unificò e catalizzò i temi più rilevanti dell'intero discorso della rivista: la messa a fuoco di una particolare funzione della mise en scène, nella contrapposizione di un cinema della riproduzione (di cui è esempio l'uso del piano-sequenza e della profondità di campo da parte di cineasti quali Renoir, W. Wyler e O. Welles) a un cinema dominato dal montaggio, tanto nell'accezione dei sovietici quanto in quella del découpage classico hollywoodiano; il lavoro sul problema dell'adattamento e sul rapporto del cinema con le altre arti; la promozione presso il grande pubblico di autori francesi non sempre di successo, come Renoir (cui sono dedicati il nr. 8, gennaio 1952, e il nr. 78, Natale 1957), Bresson, J. Becker; la messa a fuoco del problema di un uso creativo del sonoro; l'apertura nei confronti delle innovazioni tecniche (per es. il cinemascope), che permettono di restituire sullo schermo un 'di più di realtà'; la stessa passione per cineasti come A. Hitchcock (cui sono dedicati il nr. 39, ottobre 1954, e, in parte, il nr. 62, agosto-settembre 1956), H. Hawks (cui è dedicato il nr. 139, gennaio 1963) e altri hollywoodiani, che caratterizza la 'politica degli autori' dei critici più giovani. All'interno di questa prospettiva estetologica si svilupparono anche le poetiche di quelli che si preparavano a diventare i registi della Nouvelle vague. François Truffaut, innanzitutto, che criticava radicalmente la 'tradizione della qualità' francese e il cosiddetto cinéma de papa (i registi C. Autant-Lara, J. Delannoy, R. Clément, Y. Allégret, M. Pagliero, e gli sceneggiatori J. Aurenche e P. Bost), rivendicando l'autonomia del cinema rispetto alla letterarietà del realismo psicologico (nel saggio Une certaine tendance du cinéma français, nr. 31, gennaio 1954). E poi Schérer, che nel saggio Vanité que la peinture, nr. 3, giugno 1951, propose una particolare 'comprensione del reale' come sinonimo di 'poesia'; e nel saggio del 1955 Le celluloïd et le marbre (nr. 44, febbraio; 49, luglio; 51, ottobre; 52, novembre; 53, dicembre) introdusse una distinzione significativa tra 'realismo', come imitazione della natura, e 'verità', come conoscenza del reale, risultato di un processo di elaborazione artistica (in cui, propriamente, consisterebbe la 'classicità') dotato di una sua autonomia ed esaltato proprio in quanto procedimento stilistico, sollecitazione, poetica e in progress, del senso delle cose. E Jacques Rivette, che nei suoi interventi (per es., Génie de Howard Hawks, nr. 23, maggio 1953, e Lettre sur Rossellini, nr. 46, aprile 1955) propose una concezione del cinema indefinitamente aperta alla sperimentazione, contrapponendo (implicitamente) all'equilibrio classicista di Rohmer uno squilibrio fondamentale, un'opposizione inconciliabile tra coscienza e realtà, che si risolve in corrosione delle certezze e mette in gioco procedimenti di scrittura che incrinano la nozione stessa di autore. E infine Jean-Luc Godard, che fin dai primi interventi (firmati con lo pseudonimo di Hans Lucas) difese il 'cinema dell'istante', vale a dire il cinema che, come quello di Renoir, procede più per aggregazione di dettagli, ciascuno dei quali conserva il proprio autonomo potere emotivo, che per concatenazione degli avvenimenti in vista di un astratto senso globale (Défense et illustration du découpage classique, nr. 15, settembre 1952); Godard era convinto più di ogni altro che nulla esiste fuori dell'artificio e che tutto implica la considerazione del linguaggio, del suo funzionamento, delle sue strutture.
La 'politica degli autori' dei critici più giovani si delineò presto nella storia dei C. du c., intrecciandosi con la ricerca fenomenologica sul 'cinema della realtà'. 'Autore', per i Jeunes Turcs (così chiamati per il fervore polemico che li animava), non è semplicemente il detentore di una poetica, di una personale visione del mondo, che nell'opera si esprimerebbe; 'autore' è anche, e soprattutto, il detentore di una particolare visione del cinema, in definitiva riconducibile proprio a quel cinema della realtà che caratterizza la tradizione della rivista. "Io non posso credere alla coesistenza pacifica della "tradizione della qualità" e di un "cinema di autori"", osservava Truffaut nel nr. 31 del gennaio 1954 (Une certaine tendance du cinéma français): "In fondo, Yves Allégret, Delannoy non sono che le "caricature" di Clouzot, di Bresson. […] l'esistenza esageratamente prolungata del "realismo psicologico" è la causa dell'incomprensione del pubblico di fronte a opere così nuove di concezione come La carrozza d'oro, Casque d'or, o Les dames du bois de Boulogne e Orphée". All'inizio le firme più ricorrenti furono quelle dei critici che Roger Leenhardt (intervista a cura di Jean Collet, nr. 137, novembre 1962) indicherà con l'espressione 'generazione dello scrupolo', qualificandola di 'idealismo di sinistra': Bazin, Lo Duca, Doniol-Valcroze, Astruc, Kast, Georges Sadoul, Schérer. Fu ben presto quest'ultimo a prendere le redini del gruppo dei più giovani (Chabrol, Godard, Rivette, Truffaut, Jean Domarchi, Louis Marcorelles, André S. Labarthe, Luc Moullet), che proporrà autori come M. Ophuls, J. Cocteau, A. Gance, R. Leenhardt, A. Hitchcock, e la schiera degli hollywoodiani: Hawks, J.L. Mankiewicz, J. Ford, O. Preminger, G. Stevens, B. Wilder, G. Cukor, N. Ray, V. Minnelli, S. Donen, H. Hathaway, A. Mann, il Lang americano. Pur discordando su un buon numero di giudizi critici (in particolare su Hitchcock e Hawks, Preminger, Ray e il Lang americano), fino a prendere le distanze da loro e dal loro 'culto della personalità' (nr. 44, febbraio 1955), Bazin non mancherà tuttavia di sottolineare sia la competenza degli hitchcocko-hawksiens sia la considerazione privilegiata da loro accordata allo stile: "Se essi apprezzano fino a questo punto la mise en scène è che vi scoprono in larga misura la materia stessa del film, una riorganizzazione degli esseri e delle cose che è a se stessa il proprio senso, tanto morale che estetico". La molla che spingeva i Jeunes Turcs andava in ogni caso al di là dell'esercizio della critica, che Truffaut e compagni interpretavano come un utile tirocinio per poi passare dietro la cinepresa. Fu anche per questo che a strumento privilegiato della politica degli autori vennero eletti gli entretiens, interviste di ampio respiro che i giovani critici facevano ai loro autori preferiti.
L'apprendistato sfociò, alla fine degli anni Cinquanta, nelle prime opere dei vari Truffaut, Godard, Chabrol, Rohmer e Rivette, che si aggiunsero a quelle di L. Malle, A. Resnais, J. Demy, A. Varda. Bazin morì all'età di quarant'anni nel 1958. La rivista, spopolata del gruppo dei Jeunes Turcs impegnati nella realizzazione dei loro primi film, fu gestita da Rohmer, il quale, restio a che i C. du c. assumessero funzioni di manifesto della Nouvelle vague, aprì la rivista al contributo di un gruppetto di giovani critici (tra cui spiccano Jean Douchet e Michel Mourlet), che presero il nome di mac-mahoniens, dalla via della sala cinematografica alla cui programmazione furono legati, e che saranno protagonisti di una forma estrema di politica degli autori, non più supportata dall'estetica del cinema della realtà. I mac-mahoniens proposero autori come J. Losey, R. Walsh, S. Fuller e Mizoguchi Kenji, e il V. Cottafavi del peplum, mentre si faceva strada, per opera di Marcorelles, una riflessione su B. Brecht, su J. Rouch e sul cinema diretto, e degli italiani l'unico a essere preso in considerazione fu M. Antonioni. Poco si scrisse sulla Nouvelle vague, dopo il dibattito sulla situazione del cinema francese nel nr. 71, maggio 1957, e la tavola rotonda su Hiroshima, mon amour (1959) di A. Resnais nel nr. 97, luglio 1959. Per un interesse organico nei confronti sia della Nouvelle vague sia del complesso del 'nuovo cinema internazionale' bisognerà attendere il 1964, dopo che si fu stabilizzato il cambiamento redazionale in precedenza auspicato da Truffaut, Chabrol e Godard (nr. 138, dicembre 1962, monografico sulla Nouvelle vague), con l'affidamento della rivista a Rivette e a due giovani critici, Jean-Louis Comolli e Jean Narboni, sintonizzati sulla lunghezza d'onda della tradizione fenomenologica di stampo baziniano. Accanto a un rinnovato interesse per il cinema francese nel suo complesso, divenne costante il collegamento con le nuove produzioni del cinema internazionale, in particolare italiano (P.P. Pasolini, B. Bertolucci, E. Olmi, G. De Bosio, M. Bellocchio, il Rossellini televisivo), tedesco, canadese, giapponese. Contemporaneamente, si delineò nella rivista un processo critico nuovo: da un lato si generalizzò una critica alla politica degli autori che finirà per coinvolgere il concetto stesso di autore; dall'altro, e convergentemente, si approfondì l'aspetto strutturalista dell'approccio critico di sempre, nella direzione di una critica 'testuale'.
Il nr. 176, marzo 1966, presentò la prima Situation (con i dossier su Brasile e Canada) del 'nuovo cinema', definito dal redattore capo Comolli come l'insieme dei film di nuova produzione che si oppongono al mercato tradizionale e cercano un rapporto nuovo con il pubblico. Nello stesso anno, e fino al 1968, venne organizzata la Semaine des Cahiers, che presentò i film dei nuovi autori: oltre agli italiani, ai canadesi, ai brasiliani, e naturalmente a Godard e a Rivette, cineasti come J. Skolimowski, M. Jancsó, D. Makavejev, J.-M. Straub e D. Huillet, M. Forman, V. Chytilová, A. Delvaux, L. Moullet, J. Eustache, J.-D. Pollet, M. Duras, Ph. Garrel, R. Allio, R. Kramer, S. Clarke, J. Cassavetes. Ma non mancarono, sulle pagine dei C. du c. di quegli anni, I. Bergman, Ford, Hawks, Buñuel, Hitchcock, A. Warhol, Jerry Lewis, Satyajit Ray, A. Varda. La rivista si mosse di nuovo all'unisono con i tempi e, senza rinnegare la centralità dell'interpretazione critica dei testi, sviluppò, come mai in precedenza, un complesso teorico 'forte', che dialogava con la semiotica, la filosofia e le scienze umane. Alle interviste con R. Barthes, C. Lévi-Strauss e P. Boulez, volute da Rivette tra il 1963 e il 1964, seguirono i primi due saggi di Christian Metz, sull'impressione di realtà (nr. 166-167, maggio-giugno 1965) e sul cinema moderno e la narratività (nr. 185, dicembre 1966, monografico su cinema e letteratura), gli interventi pesaresi di Pasolini sul cinema di poesia (nr. 171, ottobre 1965) e sulla funzione della sceneggiatura (nr. 185, dicembre 1966), i saggi strutturalisti di Noël Burch, pubblicati sotto la rubrica Esthétique tra marzo e Natale 1967. Oltre a una serie di interventi in cui il di-scorso estetico si articola con quello politico-ideologico: sul film di J.-D. Pollet e Ph. Sollers Méditerranée (nr. 187, febbraio 1967), sulla Duras e su Eustache (sempre nello stesso numero), su Chytilová e Godard, su Rivette, Pollet, Garrel e Marc'O (nr. 204, settembre 1968), su Clarke, Cassavetes, Robert Kramer e Warhol (nr. 205, ottobre 1968). Non mancarono i saggi di carattere semiologico, tra il 1968 e il 1969, per opera di Paul-Louis Martin, Claude Ollier (critico della "Nouvelle revue française"), Jacques Aumont, Raymond Bellour. In un contesto trasformato dal Maggio francese, i C. du c. cercarono un accordo tra la propria tradizione e le nuove istanze politiche e culturali, con i discorsi sulla ripresa diretta del sonoro (Comolli, Le détour par le direct, nr. 209, febbraio, e 211, aprile 1969) e sul montaggio (tavola rotonda di Aix-en-Provence, con Narboni, Rivette e Sylvie Pierre, pubblicata nel nr. 210, marzo 1969). A essere in gioco era il superamento del sistema della re-présentation, come rappresentazione del mondo che veicola la ri-presentazione dei modelli culturali dominanti. La ripresa diretta del sonoro fu per Comolli il rivelatore della consapevolezza (che è propria del Renoir di La règle du jeu e di La carrozza d'oro, come del Rivette di L'amour fou e che ha anche un valore politico) dell'antinomia tra rappresentazione e coscienza della rappresentazione. Mentre il montaggio, distinto dagli 'effetti' di montaggio, venne definito come principio di soppressione e critica di un testo preesistente, come 'lavoro' del testo, rintracciabile in Chytilová e P. Perrault, Godard e Pollet-Sollers non meno che in S.M. Ejzenštejn e Dz. Vertov; e Rivette sottolineò come fosse contro la 'dittatura del discorso' nel cinema 'di propaganda' (identificato in una linea che collegava V.I. Pudovkin al cinema hollywoodiano), non contro il montaggio, che si erano di fatto posti Renoir o Rossellini, due autori che hanno re-investito "una parte del pensiero del montaggio allo stadio della costruzione del film e, soprattutto, della ripresa".
Aver definito il concetto generale di montaggio come 'lavoro produttivo essenziale' permise ai C. du c. non solo di risintonizzarsi con la propria tradizione, ma anche di affrontare (presto dialogando con riviste di rilievo come "Tel quel" e "Cinéthique") nuovi territori di lavoro critico, in primo luogo la teorizzazione di Ejzenštejn. Con il nr. 209, febbraio 1969, ebbe inizio la pubblicazione degli scritti ejzenštejniani, tradotti dalla raccolta Izbrannye proizvedenija v šesti tomach (Opere scelte in sei volumi) edita a Mosca da Iskusstvo, 1963-1970, sotto la direzione di S.I. Jutkevič. La pubblicazione proseguì fino al nr. 226-227, gennaio-febbraio 1971 (speciale su Ejzenštejn), mentre una nuova attenzione venne dedicata al cinema e alla cultura sovietica degli anni Venti (nr. speciale, 220-221, maggio-giugno 1970). Subito dopo, l'interesse per il cinema di Vertov, insieme con i discorsi su cinema, politica, ideologia (nel 1971 venne pubblicato il saggio di Comolli Technique et idéologie), accompagnò la conversione maoista dei C. du c. nel periodo 1972-73. Dopo un anno in cui si dedicò spazio a cineasti come Straub e Huillet, N. Ōshima, R. Kramer, i fratelli Taviani, il nr. 236-237, marzo-aprile 1972, è un numero speciale su cinema e politica in cui si fa il punto sull'ideologia borghese, sulle teorie idealistiche del cinema (Bazin è criticato da Pascal Bonitzer e Serge Daney), sul cinema cinese e su J. Ivens. Intanto Godard lavorava con il Gruppo Dziga Vertov, e il suo Tout va bien (1972; Crepa padrone, tutto va bene) fu proposto a modello nel quadro del discorso su cinema e lotta di classe cui furono dedicati i nr. 238-239, 240 e 241. Il nr. 242-243, che fu l'ultimo del 1972, denunciò uno scontro interno: parte dei redattori si pronunciò contro l'eclettismo che avrebbe caratterizzato i C. du c., contro il neorevisionismo del Parti communiste français e a favore dell'adozione del pensiero di Mao Tse-Tung. Nel nr. 244, primo del 1973, la redazione era composta da Aumont, Bonitzer, Comolli, Daney, Philippe Pakradouni, Narboni, S. Pierre, Jean-Pierre Oudart, Serge Toubiana, Pascal Kané; ne era uscito Pierre Baudry. Per poco più di un anno la rivista si occupò di temi come l'animazione culturale, il cinema algerino, il rapporto tra cinema e resistenza palestinese. Fino a che, nel nr. 250, maggio 1974, Daney e Toubiana firmarono un'autocritica in cui si riproponeva il tema della specificità del campo cinematografico, e si riconosceva che "in nome di un politicismo astratto abbiamo corso il rischio di tagliarci fuori dal "milieu" del cinema e delle lotte che vi si svolgono". I C. du c. ricominciarono a occuparsi di cinema a tutto campo: J. Sanjinés e Miguel Littin, Buñuel e la censura, Lacombe Lucien (1974; Cognome e nome: Lacombe Lucien) di Malle (occasione per intervistare M. Foucault), Brecht, il rapporto tra cinema e storia, e poi Duras, Straub e D. Huillet (cui è dedicato il nr. 260-261), Godard, ma anche La Cecilia (1976; Cecilia ‒ Storia di una comune anarchica) di Comolli, M. Ferreri, Rohmer, i Taviani, Ch. Akerman, A. Varda e M. De Oliveira. Il nr. 285, febbraio 1978, si aprì con un editoriale della nuova direzione (Jean-Pierre Beauviala, Daney, Narboni, Toubiana), in cui si riaffermò l'importanza di Straub e Huillet e di Godard, portati a esempio per il loro rifiuto della distinzione tra il dichiararsi fuori o dentro il sistema, e si manifestò l'intenzione di lavorare, bazinianamente, sul cinema 'impuro'.Si è aperta così una fase ulteriore dei C. du c., che ancora prosegue, in cui la rivista lavora alla scoperta dei motivi più vitali del cinema contemporaneo, pronta a coglierli, oltre che negli amori di sempre, primo fra tutti Godard, in ogni parte del mondo, dalle Filippine di L. Brocka alla Germania di R.W. Fassbinder, dall'Unione Sovietica di A.A. Tarkovskij all'India, alla Cina e alla Hollywood di C. Eastwood e A. Ferrara, sempre implicata in un discorso militante che fa perno sul cinema, la sua storia, i suoi stili.
G. De Vincenti, Il cinema e i film. I Cahiers du cinéma, 1951-1969, Venezia 1980.
G. De Vincenti, Una certa tendenza della critica francese: i "Cahiers" e "Le cinéma de papa", in "Cinema e cinema", 1982, 32.
G. De Vincenti, Cahiers du cinéma. Indici ragionati 1951-1969, Venezia 1984.
G. De Vincenti, Modernità di Hitchcock: la critica dei "Cahiers du cinéma", in Hitchcock e hitchcockiani, a cura di S. Cortellazzo, D. Giuffrida, D. Tomasi, Torino 1985.
A. de Baecque, Les Cahiers du cinéma: histoire d'une revue, Paris 1991.