Caina
Nome della prima delle quattro zone, in cui è distinto il nono cerchio dell'Inferno dantesco (If V 107 [dove la variante Cain, attestata da alcuni codici, risulta evidentemente dalla scrittura continua Cainattende]; XXXII 58). Tale nome deriva da quello di Caino (altrove ricordato invece come esempio di invidia punita: cfr. Pg XIV 133): " perch'egli fu lo primo che rompesse la fede speciale che nasce dal parentado " (Buti); anzi, si può precisare, il primo che uccidesse per tradimento un proprio congiunto. I peccatori compresi in questa zona (If XXXII 16-69) sono infatti, come già osservava il Bambagliuoli (" plectuntur omnes qui patres, fratres, filios, vel affines suos interemerunt proditorie "), non solo traditori ma anche assassini, nel fatto o nell'intenzione, di qualche loro parente: dai due fratelli Napoleone e Alessandro di Mangona, descritti direttamente dal poeta, ai personaggi che gli sono successivamente presentati dal Camicione de' Pazzi: Mordret, Focaccia dei Cancellieri, Sassolo Mascheroni e lo stesso Camicione. E si potrà altresì osservare che tutti questi personaggi, salvo Mordret, appartengono all'età immediatamente anteriore o contemporanea a quella di D.; e che, almeno in buona parte (certamente i due conti di Mangona, Mordret, Camicione de' Pazzi), furono mossi all'uccisione proditoria dei loro congiunti da ragioni politiche. Forse anche per questa ragione D. non si è preoccupato di distinguere nettamente la pena inflitta a questi peccatori da quella riservata ai veri e propri traditori politici compresi nella zona successiva del cerchio, l'Antenora.
Non trovano ormai più credito né l'affermazione di Guido da Pisa, che i peccatori della C. stiano " in superficie glaciei, vultibus, pectoribus et ventribus congelati ", né l'ipotesi (affacciata forse per la prima volta dal Costa, e accolta anche dal Chiappelli, dallo Zingarelli e dal Vossler) che i vv. 34-35 (livide, insin là dove appar vergogna / eran l'ombre dolenti ne la ghiaccia) vadano intesi nel senso che questi peccatori siano immersi nel ghiaccio soltanto fino all'inguine. Pare invece che debba intendersi che essi siano immersi fino alla faccia, " in qua apparet verecundia hominis per signum ruboris, per quod cognoscitur quando homo verecundatur " (Benvenuto): posizione, questa ultima, confermata anche dal paragone dei vv. 31-32 (E come a gracidar si sta la rana / col muso fuor de l'acqua). Né sembrano trovare preciso riscontro nel testo le proposte di altri commentatori (più ampiamente riportate e discusse sotto la voce ANTENORA), che tentano di distinguere le pene delle due categorie di traditori in base al diverso colore del viso o alla diversa inclinazione della faccia, che sarebbe eretta nei peccatori dell'Antenora, mentre quelli della C., a quanto dice esplicitamente il poeta (XXXII 37), la tengono rivolta in giù. In quest'ultimo particolare alcuni interpreti hanno creduto di scorgere un'allusione di carattere morale (all'abitudine, propria dei traditori, di non guardare in faccia le persone [Benvenuto, seguito dal Vellutello e dal Daniello]; alla volontà di non farsi riconoscere [Buti, seguito dal Lombardi, dal D'Ovidio, dal Casini e dal Chiari]): ma - a parte la considerazione che, almeno nel primo caso, anche i traditori delle altre zone avrebbero dovuto assumere (come non fanno) tale atteggiamento - le indicazioni di D. stesso (XXXII 46, XXXIII 112 -114) inducono a ritenere, con la maggior parte degli studiosi, che esso costituisca un alleviamento di pena " per dar modo alle lacrime di gocciar subito giù dai loro occhi, e per impedir così che si congelino " (Messeri).
In ogni caso, la rappresentazione della C. costituisce un conveniente preludio di quella, umanamente e artisticamente più intensa ma in sostanza ispirata a un medesimo stato d'animo e gusto, dell'Antenora e delle due zone successive. Già questi traditori, infatti, sono rappresentati con un atteggiamento di spietata condanna e di duro orrore, che si riflette in una forma rispondente alla poetica, enunciata all'inizio del canto XXXII per tutto quanto il cerchio nono, delle rime aspre e chiocce, e ricca in particolare di immagini bestiali (cfr. XXXII 31-32, 36, 50-51) e di suoni, ritmi e parole-rime ostentatamente rudi e dissonanti (cfr. vv. 34-39; 49-54; 61-66).
Bibl. - Oltre ai commenti, tra i quali si vedano in particolare, per la caratterizzazione critica, quelli del Momigliano e del Sapegno, cfr. A. Chiappelli, I primi traditori del Cocito dantesco, in " Rivista d'Italia " V (1902) 51-71 (poi nel vol. Dalla trilogia di D., Firenze 1905, 85-117); e le seguenti letture del canto XXXII: A. Messeri, Firenze 1917; A. Barbadoro, ibid. 1931; A. Chiari, La Caina e l'Antenora (1939), in Lett. dant. 163-193; C. Grabher, Firenze 1940 (poi in Lett. dant. 597 ss.); C. Iannaco, Il canto dei traditori, in Scritti di letteratura italiana, Firenze 1953, 45-58; A. Pézard, Le chant des traîtres (1959), nel vol. miscell. Letture dell'Inferno, Milano 1963, 308-342; G. Varanini, in Lect. Scaligera I 1967.