Calamità naturali
"Calamità naturale deve intendersi ogni fatto catastrofico, ragionevolmente imprevedibile, conseguente a eventi determinanti e a fattori predisponenti tutti di ordine naturale, e a loro volta ragionevolmente imprevedibili" (Franceschetti 1973, p. 331). Questa definizione tende a sottolineare il fatto che la locuzione calamità naturale può essere fuorviante, in quanto non sempre la responsabilità delle conseguenze calamitose può essere attribuita a eventi 'naturali': se si accerta l'incidenza di cause determinanti e di fattori predisponenti ricollegabili all'attività umana - come accade il più delle volte - occorrerà valutarne gli effetti sui processi risultanti, prima di attribuire all'evento naturale la responsabilità dei fatti accaduti. In altri termini, un evento naturale normale, che in sé non ha niente di calamitoso, in quanto fa parte del normale gioco delle forze della natura, e opera al fine di realizzare certi inarrestabili equilibri naturali, può indurre conseguenze calamitose proprio perché l'azione dell'uomo ha spesso creato le premesse perché ciò accada.
L'uomo vive e opera prevalentemente in corrispondenza della porzione più superficiale della crosta terrestre, in cui avvengono e si avvertono gli effetti dei processi evolutivi legati all'azione degli agenti endogeni (sismicità e vulcanismo) e degli agenti esogeni (piogge, escursioni termiche, vento ecc.). Ma fra gli agenti esogeni si può annoverare, ormai già da tempo, anche l'azione dell'uomo, che non di rado interferisce nei processi naturali accelerandoli o comportandosi in modo che essi abbiano conseguenze disastrose.
È allorché si prende coscienza dell'interazione tra fenomeni naturali, da un lato, e gestione dell'ambiente e uso irrazionale del territorio e delle risorse naturali, dall'altro, che ci si rende conto che non resta più molto spazio alla fatalità.
Ai disastri naturali si contrappongono quelli provocati essenzialmente dall'uomo - come l'esplosione della centrale elettronucleare di Černobyl´ (1986), la fuga di gas tossici da impianti chimici (Seveso, 1977; Bhopal, 1984), o lo sversamento in mare di grandi quantità di petrolio a seguito dell'affondamento accidentale di petroliere - nei quali sono del tutto ininfluenti i fattori naturali, e che perciò non verranno trattati in questa sede.
Tipi di calamità naturali
Calamità legate all'azione di agenti endogeni. - I fenomeni sismici e vulcanici sono le manifestazioni più spettacolari della vita turbolenta del nostro pianeta. Terremoti e vulcani si concentrano nelle zone in cui, secondo la teoria della tettonica globale, le zolle oceaniche entrano in collisione con quelle continentali e si immergono sotto di esse. Questo fenomeno, detto subduzione, dà luogo alla formazione delle catene montuose, alla sismicità e al vulcanismo. La zona di subduzione più estesa del globo è la 'cintura di fuoco del Pacifico' (fig. 1), una fascia di intensa attività sismica e vulcanica che si protende per circa 40.000 km lungo la costa occidentale delle Americhe, attraverso l'Alasca, le isole Aleutine, il Giappone e la Cina, sino alle Filippine, all'Indonesia e all'Australasia.
L'unica altra grande zona sismica del mondo è una fascia che si dirama dalla precedente in corrispondenza del Golfo del Bengala, e si estende fino al bacino del Mediterraneo, attraverso l'Himalaya, l'Altopiano Iranico e il Caucaso. È questa la zona orogenica del sistema alpino-himalayano, dove si scontrano le zolle eurasiatica e africana, innescando terremoti ed eruzioni vulcaniche che in più riprese hanno seminato morte e distruzione nell'Europa meridionale, nell'Africa settentrionale e nel Vicino e Medio Oriente.
Nel corso dei secoli, i terremoti che hanno squassato queste regioni sono costati la vita a milioni di persone. Il sisma più catastrofico in epoca recente è quello che, nel 1976, colpì la città cinese di Tangshan, 160 km a E di Pechino, uccidendo 240.000 persone secondo le autorità cinesi, ma circa 650.000 secondo fonti occidentali. Storicamente il terremoto con il maggior numero di vittime che si sia mai verificato fu quello che nello Shaanxi (Cina nord-occidentale), provocò la morte di oltre 800.000 persone (1556).
L'area mediterranea è stata colpita da una lunga serie di catastrofici terremoti. L'Italia, in particolare, è interessata da un'intensa attività sismica che, nel periodo compreso tra la fine della Seconda guerra mondiale e il 1997, ha interessato 1686 territori comunali (21% del totale). Le superfici dei territori comunali coinvolti da eventi sismici sono pari al 24% (circa 70.000 e 75.000 km²) di quella nazionale; le vittime sono state 4160, ascrivibili per il 98% a tre terremoti principali: nella valle del Belice, in Sicilia (1968), con 376 vittime; in Friuli (1976), con 989 vittime; in Campania e Basilicata (1980), con 2739 vittime. L'elevato numero di vittime è dovuto, in gran parte, all'inadeguatezza strutturale del vecchio patrimonio abitativo, ma pure, in misura tutt'altro che trascurabile, a crolli di costruzioni moderne, rivelatesi inadatte a resistere a scosse anche di media intensità.
Il rischio sismico, definito come il prodotto della probabilità di un evento per il costo delle sue potenziali conseguenze, tende ad aumentare, soprattutto nei paesi economicamente avanzati, che pure sono quelli dove comunemente si ricorre a misure di prevenzione, consistenti nell'adottare criteri di costruzione antisismici. Il numero straordinariamente alto di vittime (più di 5000) provocato da un violentissimo terremoto che ha colpito la città di Kōbe in Giappone (1995) ha ridimensionato la diffusa convinzione secondo la quale le conseguenze dei terremoti sono meno drammatiche nei paesi ricchi, più attrezzati per difendersi da questo tipo di calamità, che nei paesi arretrati, privi dei mezzi e delle conoscenze necessari per una valida politica di prevenzione.
In realtà, l'urbanizzazione odierna, che comporta una crescente concentrazione di abitanti e di capitale fisso sociale in determinate città, accresce la vulnerabilità di certi siti, e quindi la possibilità di 'superdisastri'. Se dovesse ripetersi il terremoto che rase al suolo Tokyo nel 1923, oggi i danni ammonterebbero a 900÷1400 miliardi di dollari, una cifra enorme anche rispetto alle possibilità di un paese economicamente molto florido.
Allo stato attuale delle cose, non si può fare assegnamento su efficaci previsioni sismiche, che sarebbero utili per allertare le popolazioni su cui sta per abbattersi un terremoto. La migliore difesa dai terremoti rimane pertanto l'adozione di particolari accorgimenti antisismici quando si costruiscono nuovi edifici nelle zone maggiormente esposte a questo tipo di rischio. A tale scopo si utilizzano carte di classificazione sismica, che vengono costruite in base a carte della pericolosità sismica.
Nel corso degli ultimi quattro secoli le eruzioni vulcaniche hanno causato circa 260.000 vittime (l'80% delle quali in soli sei eventi), meno del 3% del numero complessivo delle vittime di calamità naturali. Nondimeno l'attività vulcanica rappresenta un grave rischio incombente su decine di milioni di persone, in varie regioni della Terra. Non c'è dubbio che le eruzioni spettacolari del Monte Saint Helens (Stati Uniti nord-occidentali) nel 1980, e quelle simultanee del Chichón (Messico) e del Nevado del Ruiz (Colombia), occorse cinque anni dopo, abbiano accelerato la presa di coscienza del rischio vulcanico nei paesi più esposti a questo tipo di calamità. Spinta dalla forte motivazione di contribuire a mitigare gli effetti delle eruzioni, la vulcanologia moderna si è dedicata agli studi intesi a prevedere l'attività vulcanica, sia esplosiva sia effusiva, e i suoi potenziali effetti sulle comunità umane.
Il rischio vulcanico tende infatti a crescere con il passare del tempo: più si allunga il periodo dall'ultima eruzione di un vulcano quiescente, maggiore è la probabilità che una ripresa dell'attività eruttiva si traduca in una catastrofe, in quanto nel frattempo la densità della popolazione umana alla base e sulle pendici dell'apparato vulcanico tende di regola ad aumentare. Su molte città, come Tokyo, Seattle, Quito, Auckland e Napoli, incombe il rischio di un cataclisma che, se dovesse raggiungere le dimensioni dell'eruzione del Tambora (a Sumbawa, nelle Piccole Isole della Sonda, 1815), avrebbe conseguenze ben più catastrofiche di un sisma di forte intensità, le cui vittime possono già raggiungere le centinaia di migliaia.
Contrariamente ai terremoti, per i quali non sono ancora stati messi a punto metodi di previsione fondati su solide basi scientifiche, le eruzioni vulcaniche possono essere previste. La previsione a lungo termine si basa sull'analisi della storia eruttiva dei singoli vulcani, e consente di definire la probabilità di una ripresa dell'attività in un determinato intervallo di tempo, nonché le caratteristiche dell'eventuale massima eruzione attesa. La previsione a breve termine, basata sulla rilevazione e sulla misurazione in superficie dei fenomeni che preannunciano l'inizio dell'eruzione, riesce a indicare, con una precisione sempre maggiore via via che l'eruzione si avvicina, il momento in cui l'evento è atteso.
Tutte le maggiori eruzioni avvenute negli ultimi venti anni sono state previste, e in alcuni casi (Piñatubo, Filippine, 1991; Rabaul, Nuova Guinea, 1994; Montserrat, Piccole Antille, 1995) sono state precedute da evacuazioni di decine di migliaia di persone, che hanno fatto diminuire in maniera sostanziale il prezzo di vite umane imposto da questo tipo di calamità. La mitigazione delle perdite economiche e dei danni sociali a esse collegate potrebbe essere invece realizzata con una pianificazione dell'uso del territorio che tenga conto delle carte probabilistiche di pericolosità vulcanica, evitando in primo luogo che gli insediamenti residenziali e produttivi continuino ad addensarsi in aree esposte al pericolo di devastazione.
Calamità legate all'azione di agenti esogeni. - In questa categoria rientrano i fenomeni conseguenti ai processi della dinamica fluviale (piene e alluvioni), della dinamica dei versanti (erosioni e frane) e della dinamica dei litorali (variazioni delle linee di costa). Si tratta di processi naturali che modificano in continuazione le forme della superficie terrestre, che fanno parte del normale gioco delle forze della natura e che agirebbero anche senza la presenza dell'uomo. Se diventano calamità, il più delle volte è perché questi fenomeni vengono accelerati da azioni antropiche, per cui gli effetti disastrosi sono imputabili, più che alla natura, all'uso imprevidente o sconsiderato del territorio da parte dell'uomo. Per es., in determinate circostanze, i danni provocati dalle piene e dalle alluvioni sono da attribuire, oltre che a condizioni naturali, all'occupazione umana delle aree pianeggianti adiacenti al letto dei fiumi, che sono naturalmente predisposte ad accogliere le portate di piene eccezionali.
A scala mondiale, il numero delle vittime in questo secolo è stimato in quattro milioni, delle quali almeno mezzo milione nel territorio dell'odierno Bangla Desh. Pare che spetti a un'alluvione il triste primato della c. n. con maggior perdita di vite umane: tre milioni e mezzo di vittime provocate dall'inondazione del Fiume Giallo nel 1931, nella Cina settentrionale.
In Italia eccezionalmente gravi sono state le alluvioni del 1951 (Polesine, un centinaio di vittime) e del 1966; queste ultime interessarono circa un terzo del territorio nazionale (1119 comuni colpiti), provocarono 112 vittime e danni irrimediabili al patrimonio artistico e culturale di Firenze e Venezia.
Gli effetti distruttivi delle alluvioni possono essere ridotti evitando di aumentare la vulnerabilità delle zone esposte a questo rischio con accorgimenti quali il mantenimento delle aree di rispetto per il contenimento delle piene, la sistemazione dei bacini montani, l'adozione di sistemi di previsione e di segnalazione delle piene per mettere in moto in tempo utile l'apparato di protezione civile.
Le frane e l'erosione accelerata sono fenomeni legati alla dinamica dei versanti, che consistono nel distacco e nello spostamento verso il basso di rocce e di terreni lungo versanti divenuti instabili per decremento della resistenza e/o per incremento delle sollecitazioni. Il decremento della resistenza è di norma provocato dall'azione delle acque pluviali dilavanti: quindi a una causa naturale. Ma le sollecitazioni applicate a un pendio possono essere incrementate da interventi sbagliati dell'uomo, quali diboscamenti, tagli di scarpate e, in genere, sovraccarichi sui versanti imposti da attività antropiche.
Il territorio italiano è notoriamente interessato da frane ricorrenti, in massima parte concentrate in aree particolarmente vulnerabili per condizioni naturali o in conseguenza di attività antropiche (circa il 50% dei comuni italiani è interessato da frane o da fenomeni di erosione accelerata). La catastrofica frana del Vajont, che il 9 ottobre 1963 sconvolse la valle del Piave provocando 1899 morti, può essere considerata un tipico esempio di calamità alla quale l'aggettivo 'naturale' si applica impropriamente, per la parte preponderante che vi ebbe l'azione umana, in questo caso l'improvvida costruzione di un'opera di ingegneria - una diga finalizzata alla produzione di elettricità - in un sito geologicamente inadatto.
A questa rassegna dei principali tipi di calamità 'classiche' occorre aggiungere, per completare il quadro, almeno altri due tipi di calamità legati ad anomalie meteorologiche e climatiche: i cicloni tropicali e le siccità prolungate.
I cicloni tropicali sono l'unico tipo di c. n. che provoca un numero di vittime tendenzialmente decrescente per i progressi compiuti nel campo della previsione, che consentono oggi di individuarli in mare aperto sin dalla fase iniziale, e di segnalarne la probabile traiettoria alle popolazioni interessate affinché possano mettersi tempestivamente al riparo. I danni materiali tendono invece ad aggravarsi con il passare del tempo. Come per le altre calamità, il sottosviluppo accresce di molto la vulnerabilità delle popolazioni nei riguardi dei cicloni, come risulta, per es., dal confronto tra due rovinosi cicloni che colpirono rispettivamente il Bangla Desh (1970) e le regioni della fascia costiera atlantica degli Stati Uniti (1972). Nel Bangla Desh almeno 250.000 persone persero la vita; negli Stati Uniti orientali 250.000 abitanti furono evacuati nel volgere di poche ore, e le vittime non furono più di una dozzina.
Le siccità prolungate sono una particolare calamità che coinvolge ampie estensioni di territorio e trae origine da deficit pluviometrici che si protraggono anche per parecchi anni di seguito, come nel caso delle grandi siccità che hanno funestato l'Africa saheliana tra il 1968 e il 1986 e che sono costate la vita ad almeno un milione di persone. Anche in questo caso è emerso chiaramente che i fattori naturali e antropici sono intimamente legati, potendo essere causa o effetto a seconda delle circostanze, mentre la loro interazione è suscettibile di dar luogo a catastrofi ecologiche di inusitata ampiezza (fig. 5).
Effetti delle calamità naturali
È stato calcolato che, a partire dal 1960, le c. n. abbiano provocato in tutto il mondo la morte di circa tre milioni di persone, e ne abbiano inoltre lasciate senza riparo almeno 800 milioni.
I danni materiali subiti dalle economie nazionali per effetto di singoli disastri sono impressionanti. Il terremoto che ha colpito Kōbe nel 1995 ha causato danni per 150÷200 miliardi di dollari, una cifra equivalente al 4% del prodotto interno lordo del Giappone. Secondo i dati di uno studio della Commissione tecnica della spesa pubblica costituita presso il Ministero del Tesoro, in vent'anni, fra il 1968 e il 1987, l'Italia ha speso 106.000 miliardi per interventi successivi a calamità naturali. Nella quantificazione dei costi materiali delle calamità si deve tenere conto: a) dei danni afferenti al sistema degli insediamenti e alle infrastrutture; b) dei danni 'di processo', derivanti dalla riduzione della capacità di produrre reddito per effetto dell'avvenuta perdita di capitale fisso e della riorganizzazione di un sistema economico-territoriale sinistrato; c) dei costi delle opere di prevenzione e di adattamento che tendono ad abbassare il tasso di probabilità dell'evento estremo o ad attenuare la gravità delle sue conseguenze.
Purtuttavia, una definizione interamente basata su una valutazione dei danni in termini di vite umane perdute, oppure in termini monetari, non è sufficiente a caratterizzare un evento calamitoso, in quanto prescinde dalla dimensione ecologica del danno. Nel 1990 l'eruzione del Saint Helens provocò pochissime perdite umane, per cui non dovrebbe essere classificata alla stregua di una calamità, visto che l'accesso alla zona, praticamente disabitata, era stato proibito. Invece l'eruzione di questo vulcano rappresentò una vera e propria catastrofe ecologica, perché ne risultarono distrutte parecchie decine di migliaia di ettari di foreste di conifere.
La distribuzione geografica
La distribuzione geografica delle c. n. fra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo indica che esiste una correlazione tra il luogo della catastrofe e l'ampiezza delle sue conseguenze. Nel periodo compreso tra il 1960 e il 1987, le perdite di vite umane a seguito di c. n. sono risultate enormemente superiori nei paesi socialmente ed economicamente arretrati rispetto a quelli più ricchi e progrediti. Se ne deve trarre la conclusione che la natura si accanisce sui paesi del Terzo Mondo? È in ragione di condizioni climatiche e geografiche particolarmente ingrate che le popolazioni dei paesi sottosviluppati sono le più colpite da calamità naturali? Niente conferma questa ipotesi. La maggior frequenza delle c. n. dovrebbe risultare da un aumento dei fenomeni naturali: piovosità eccessiva o insufficiente, intensificazione dell'attività sismica e vulcanica, ecc. Tuttavia le statistiche non indicano nessun aumento della media annuale dei terremoti, delle eruzioni o dei cicloni tropicali, o ancora variazioni sensibili del regime pluviometrico a scala mondiale.
Per spiegare la moltiplicazione delle calamità e delle vittime, non bisogna dunque guardare dal lato della natura, ma dal lato degli uomini e della loro crescente vulnerabilità. Nella maggior parte dei paesi arretrati la forte crescita della popolazione sottopone il territorio a una pressione crescente, e un numero sempre maggiore di abitanti tende a concentrarsi in aree particolarmente esposte al rischio di calamità. Assistiamo oggi a un'esplosione urbana senza precedenti. Le condizioni di vita precarie e la speranza di una vita migliore spingono sempre più le popolazioni del Terzo Mondo a emigrare verso le grandi città, dove il potenziale di rischio insito nella concentrazione spaziale di popolazione e di beni è accresciuto dai processi di segregazione sociale e di suburbanizzazione. La massa degli immigrati vive relegata in quartieri periferici costruiti precariamente, particolarmente vulnerabili di fronte a eventi naturali estremi (frane, alluvioni, terremoti) anche di modesta entità.
Un altro fattore che concorre ad aggravare le conseguenze delle c. n., anch'esso legato alla crescente pressione sul territorio e sulle risorse naturali, è la degradazione dell'ambiente: non è un caso che i paesi maggiormente colpiti in termini di incidenza e frequenza delle cosiddette c. n. siano quelli più soggetti alla riduzione del manto forestale, all'erosione dei suoli, all'eccessivo sfruttamento dei pascoli e delle terre coltivate.
Se un debole livello di sviluppo economico è la causa determinante della trasformazione di fenomeni naturali in catastrofi, queste ultime costituiscono a loro volta un freno considerevole al processo di sviluppo dei paesi sinistrati.
Rischio e vulnerabilità
È fuori di dubbio il fatto che la forte concentrazione di popolazione e l'esplosione demografica rivestano un ruolo decisivo nell'esporre le società umane al pericolo di calamità. Hanno però molta importanza anche le modalità con cui tale esposizione si attua: occorre distinguere cioè tra il fatto di risultare soggetti al pericolo di calamità e quello di essere vulnerabili all'evenienza di quest'ultima. I californiani che vivono nella zona interessata dalla grande faglia di Sant'Andrea sono esposti a un elevato pericolo potenziale sismico, ma sono poco vulnerabili, in quanto abitano in edifici progettati secondo norme antisismiche molto rigorose e, in caso di disastro, possono contare con una ragionevole sicurezza su un'efficace organizzazione dei soccorsi, capace di far fronte rapidamente alle conseguenze dell'evento. Al contrario, gli abitanti di molti paesi più arretrati, come la Turchia, il Messico o l'Iran, esposti a un rischio sismico altrettanto elevato, sono molto più vulnerabili, perché abitano in case spesso non in grado di resistere a scosse anche modeste, e vivono in sistemi sociali la cui capacità di risposta economica e organizzativa in caso di calamità è minima.
La vulnerabilità agli effetti delle calamità è dunque intimamente correlata alla povertà: essere poveri, come nazione o come individui, significa essere particolarmente vulnerabili.
Strettamente associato con il concetto di vulnerabilità è quello di rischio. In termini socio-economici il rischio è il risultato delle diverse combinazioni di tre fattori: la pericolosità, la vulnerabilità e gli elementi a rischio.
La pericolosità rappresenta la probabilità che un evento naturale pericoloso, di date caratteristiche, si verifichi in un'area definita, entro un determinato intervallo di tempo considerato (che può corrispondere al 'tempo di ritorno'). Tale definizione è indipendente dal concetto di danno, in quanto si applica anche a eventi suscettibili di verificarsi in contesti non antropizzati.
La vulnerabilità indica l'entità delle perdite, in termini di vite umane, danni sociali e danni economici, subite da uno o più elementi a rischio in conseguenza di un evento naturale di data intensità. Essa esprime l'attitudine di un determinato sistema (composto dagli elementi a rischio) a sopportare gli effetti di un evento disastroso in funzione della sua intensità. Può essere espressa mediante una scala compresa tra 0 (nessun danno) e 1 (distruzione totale). Il prodotto della vulnerabilità per il valore esposto esprime il danno economico inteso come effetto negativo su popolazione, sistemi naturali, sistemi economici, sistemi sociali.
Per elemento/i a rischio si intende ogni elemento (per es. la popolazione, le opere umane, i manufatti, le attività sociali ed economiche) esposto al pericolo, in un'area definita. Ciò determina il 'valore' o 'valore esposto' in termini di vite umane, opere o risorse naturali che risultano esposte a un determinato evento calamitoso.
Il rischio pertanto può essere definito come il prodotto della probabilità che un determinato evento si verifichi per la dimensione del danno economico all'uomo e alle sue attività.
L'iniziativa di unificare la terminologia e le definizioni, che non presentavano univocità di interpretazioni, è stata sollecitata dalle Nazioni Unite, nell'ambito delle attività del Decennio internazionale per la riduzione dei disastri naturali 1990-2000, istituito nel 1989 per coordinare le attività internazionali finalizzate a questo obiettivo. Successivamente, nel 1994, si è svolta a Yokohama una Conferenza mondiale sulla prevenzione delle catastrofi naturali. In quell'occasione è stato approvato un piano d'azione che incoraggia la mobilitazione costante delle risorse della collettività internazionale a favore delle attività di prevenzione, riaffermando il principio che è meglio prevenire le catastrofi piuttosto che reagire a posteriori ai loro effetti.
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