Calcio - Competizioni per Club
di Adalberto Bortolotti e Salvatore Lo Presti
di Adalberto Bortolotti
Nel 1954 il calcio inglese era alla ricerca di consolazioni. Quattro anni prima, la decisione di partecipare al Campionato del Mondo, dopo un lungo periodo di sdegnoso isolamento, si era risolta in una delusione cocente: i maestri, gli inventori del football, eliminati dai dilettanti statunitensi. Al secondo tentativo (nel 1954, in Svizzera) le cose erano andate un po' meglio, ma non troppo. L'Inghilterra era stata estromessa nei quarti di finale, a opera dell'Uruguay campione in carica. Così, quando la formazione londinese del Wolverhampton Wanderers, in dicembre, vinse due partite amichevoli di prestigio, prima sulla grande Honvéd di Ferenc Puskas (3-2), poi sui quotatissimi sovietici dello Spartak Mosca (4-0), i giornali inglesi esultarono. La prima pagina del Daily Mail definì il Wolverhampton la migliore squadra del mondo. Questo eccessivo trionfalismo non piacque a Gabriel Hanot, un giovane giornalista francese che l'autorevole Équipe aveva inviato a seguire l'avvenimento. Dalle colonne del suo giornale, Hanot polemizzò: "Prima di proclamare l'invincibilità del Wolverhampton aspettiamo che replichi le sue vittorie a Budapest e a Mosca. E vediamolo di fronte al Milan o al Real Madrid. Certo, l'idea di un Campionato del Mondo, o almeno d'Europa, per club, più esteso, più significativo, e meno episodico della Mitropa Cup, e più originale di un Campionato d'Europa per squadre nazionali, merita di essere lanciata. Noi ci proveremo". Fu proprio l'Équipe a compiere concretamente i primi passi. L'UEFA, la Confederazione calcistica europea appena costituita, non era attrezzata per affrontare un progetto così ambizioso. Anzi, temendo che l'iniziativa sottraesse spazio e interesse alle competizioni per squadre nazionali, cercò di ostacolarlo, trovando un alleato naturale nella FA, la federazione inglese, per tradizione contraria ai programmi associativi.
Nulla poteva però fermare lo slancio dei francesi. Grazie alla sua eccellente organizzazione in tutta Europa, l'Équipe riuscì a convocare a Parigi, nell'aprile 1955, i rappresentanti dei principali club continentali. Da Vienna, l'UEFA lanciò una larvata forma di scomunica, ma l'idea di Hanot trovò un decisivo paladino in Santiago Bernabéu, il presidente del Real Madrid, che stava costruendo uno squadrone leggendario e che ambiva a esibirsi al di fuori della ribalta spagnola. Nominato vicepresidente esecutivo, Bernabéu impresse al progetto ritmi velocissimi. L'UEFA fu indotta a miti consigli dalla minaccia di una scissione, che sarebbe stata disastrosa. Così diede la sua approvazione, ponendo soltanto alcune condizioni per salvare il prestigio: dovevano essere le federazioni nazionali ad autorizzare la partecipazione delle squadre d'appartenenza e nella denominazione ufficiale del torneo non doveva figurare la parola Europa, riservata esclusivamente alle competizioni per rappresentative nazionali. Da qui il nome Coppa dei Campioni, che sostituì quello di Coppa Europa per club, previsto in origine.
L'efficienza degli organizzatori fece sì che nella stessa stagione 1955-56 potesse prendere il via una manifestazione destinata nel tempo a un successo difficilmente immaginabile anche da parte dei suoi promotori. La formula era semplice: ogni federazione europea aderente all'UEFA poteva iscrivere alla Coppa la squadra vincitrice del proprio Campionato. Le squadre sarebbero state accoppiate per sorteggio e avrebbero disputato eliminatorie dirette, con gare di andata e ritorno, decise dal computo dei gol. In caso di parità fra reti segnate e subite nel doppio incontro, si sarebbe disputato un match di spareggio in campo neutro. La finale si sarebbe invece giocata in partita unica, in una sede prefissata dall'UEFA. La prima, ovviamente, sarebbe stata Parigi, la città da cui era partito il progetto.
Questa formula rimase a lungo immutata. Nel 1969 alla partita di spareggio ‒ che appesantiva un calendario agonistico già fitto di impegni ‒ fu sostituito il computo dei gol esterni (a parità di gol fra andata e ritorno, era promossa la squadra che ne aveva segnati di più in trasferta). Per tutelare il valore tecnico del torneo, fu poi adottato nei primi turni il criterio delle teste di serie, onde evitare la prematura eliminazione di squadre candidate alla vittoria finale. Altri ritocchi, introdotti successivamente, furono il ricorso ai calci di rigore per spezzare l'ulteriore parità dopo i tempi supplementari e, dall'edizione 1991-92, la disputa in due gironi della fase di semifinale. Alla stessa data risale la decisione dell'UEFA di adottare la denominazione di Champions League, cioè torneo (e non più Coppa) dei campioni, una modifica che diventò sostanziale nelle stagioni successive, con l'introduzione dei gironi sin dalla prima fase e con la progressiva apertura anche alle squadre meglio classificate dei Campionati nazionali, tramite la disputa di turni preliminari. Dopo 38 edizioni, la gloriosa Coppa dei Campioni lasciava, così, il il posto a una competizione che ne tradiva in gran parte lo spirito originario, ma che meglio si adeguava alla gestione televisiva e commerciale dell'avvenimento, e che in pratica configurava l'embrione di un vero e proprio Campionato europeo per club, che rappresenterà il probabile passo successivo.
Che Santiago Bernabéu fosse stato nel giusto nel dare un impulso decisivo al lancio della Coppa dei Campioni, lo dimostrò il dominio che il suo Real Madrid impresse sul torneo, vincendone consecutivamente le prime cinque edizioni e diventando la squadra più famosa del mondo. In tempi in cui il calcio viveva ancora una realtà provinciale e stentava a valicare il limite dei confini nazionali, i fuoriclasse di Madrid (chiamati merengues dalla casacca, bianca come una meringa) attinsero in breve una popolarità universale.
Bernabéu era entrato nel Real nel 1909 come giocatore, poi ne era diventato tecnico, segretario e, dal 1943, presidente. Come tale, il suo primo atto era stato quello di ristrutturare il già maestoso stadio di Chamartín, che risaliva al 1924, sino a trasformarlo in un vero tempio del calcio mondiale. Inaugurato nel 1947, l'impianto, che nel 1978 sarebbe stato intitolato al nome di Bernabéu, ne simboleggiava perfettamente i programmi di grandezza. Ben integrato nel potere della Spagna franchista, il presidente del Real Madrid trovò un prezioso collaboratore in Raimundo Saporta, dirigente strappato al basket. Quel Real, ricco di formidabili campioni, si impose per la superiore qualità tecnica, ma fece anche valere, all'occorrenza, un forte peso politico. Il suo gioiello era Alfredo Di Stefano, il primo giocatore 'universale' della storia del calcio: centravanti dalle straordinarie medie di gol realizzati, nello stesso tempo si poneva nel cuore del gioco, dettava i tempi alla squadra, ne determinava l'atteggiamento tattico con i suoi spostamenti. Per averlo, Bernabéu aveva dovuto vincere un accanito braccio di ferro con il Barcellona, rivale storico del Real. Godendo di minori appoggi diplomatici, il club catalano aveva dovuto ritirarsi, pur vantando forse i diritti migliori. Attorno a Di Stefano, vero allenatore in campo, nacque pezzo dopo pezzo il Real della leggenda.
La prima Coppa dei Campioni fu contrassegnata dall'elevato numero di reti. Il Real, che era una macchina da gol, ma aveva una precaria organizzazione difensiva, vinse 7-0 sul Servette, 4-3 sul Partizan (con un bruciante 0-3 a Belgrado), 5-3 sul Milan in semifinale, 4-3 sul Reims nella finalissima parigina, giocata il 13 giugno 1956 di fronte a 40.000 spettatori entusiasti per l'emozionante altalena del punteggio. I francesi avevano avuto il loro leader nel fortissimo Raymond Kopa, che l'anno seguente fu ingaggiato dal Real.
Nella finale del 1957, giocata a Madrid nel proprio stadio, il Real, dove Gento e Kopa alle ali, Di Stefano al centro, Mateos e Rial interni formavano una prima linea straordinaria, affrontò la Fiorentina di Fulvio Bernardini, vincitrice del Campionato italiano anche grazie a un'ottima difesa, dal portiere Sarti ai terzini Magnini e Cervato. Per 70 minuti i giocatori viola riuscirono a contenere le offensive delle sbigottite merengues. Poi entrò in scena l'arbitro olandese Horn, fischiando un benevolo calcio di rigore, trasformato in gol da Di Stefano. Sullo slancio, Gento completò l'opera e fu il secondo trionfo, anche se in Europa si cominciò a dibattere sull'eventualità che quella squadra, già così forte per suo conto, godesse di qualche protezione.
Bernabéu e Saporta si resero conto che bisognava potenziare la difesa. Fu ingaggiato così un fuoriclasse uruguayano, José Emilio Santamaría, colonna del Nacional di Montevideo e della nazionale del suo paese. Più equilibrato e coperto, il Real nel 1958 toccò l'apice del rendimento. Sconfisse 8-1 l'Anversa e addirittura 10-1 il Siviglia nei quarti di finale (8-0 allo stadio Chamartin, con 4 gol di Di Stefano) e non ebbe problemi in semifinale contro il Vasas, travolto per 4-0 a Madrid. La novità era che il Real segnava tantissimo e incassava poco. La finale, a Bruxelles, lo vide affrontare un'altra squadra italiana, il fortissimo Milan di Pepe Schiaffino, Grillo, Liedholm, Cucchiaroni, Cesare Maldini, Radice. Quella finale viene tuttora ricordata come la più bella e di più alta qualità tecnica nell'intera storia della Coppa dei Campioni. Passò in vantaggio il Milan con Schiaffino, rispose Di Stefano, Grillo riportò avanti i rossoneri a 12 minuti dalla fine, un altro argentino, Rial, fissò il nuovo pareggio. Nei tempi supplementari, dopo 107 minuti di gioco, Gento siglò il 3-2 sul quale si chiuse lo splendido match.
Per festeggiare, Bernabéu acquistò Ferenc Puskas, il fuoriclasse dell'Honvéd che non era rientrato in patria dopo l'invasione sovietica dell'Ungheria. Aveva superato i 30 anni, appariva appesantito dall'inattività, ma il suo sinistro era ancora imbattibile. Puskas ottenne la maglia numero 10 e nel 1959 contribuì al quarto alloro europeo del Real, anche se non poté giocare la finale con lo Stade Reims a Stoccarda, perché la Germania gli negò il visto d'ingresso. In quella partita furono Mateos e il solito Di Stefano a regolare il conto con i francesi.
Puskas, invece, risultò decisivo nel 1960, per la quinta, consecutiva conquista della Coppa. Segnò quattro gol alla Jeunesse nel secondo turno, uno al Nizza nei quarti, tre al Barcellona in semifinale, quattro all'Eintracht Francoforte nella finalissima di Glasgow. I tedeschi finirono battuti per 7-3: ai quattro gol di Puskas si unirono i tre di Di Stefano.
Il successo sull'Eintracht nella finale europea del 1960 fu il canto del cigno del Real Madrid, che cadde al primo turno della Coppa successiva, per mano dei connazionali del Barcellona. Era il periodo della massima rivalità fra il Real di Bernabéu, che rappresentava in campo calcistico la centralità del potere franchista e ne riceveva puntualmente i favori, e il Barcellona, simbolo della dissidenza catalana. Allenati dal 'mago' Helenio Herrera, i catalani vincevano il titolo nazionale, mentre il Real dominava in Europa. Così le due squadre si trovarono insieme all'esordio della Coppa dei Campioni del 1961 e il sorteggio le mise subito di fronte. Avevano entrambe attinto dal calcio ungherese, i cui campioni erano stati costretti all'esilio dall'invasione sovietica. Nel Real giocava Puskas, nel Barcellona militavano il centravanti Sandor Kocsis, noto per il suo gioco aereo, e il mancino Zoltan Czibor, dal dribbling e dal tiro potentissimi. Alla forza dell'attacco catalano contribuivano, oltre ai due ungheresi, il fuoriclasse Kubala, anch'egli ungherese di nascita, il goleador brasiliano Evaristo e l'astro nascente del calcio spagnolo, Luisito Suárez. In panchina non c'era più Herrera (appena trasferitosi a Milano dove avrebbe poi chiamato anche Suárez). Il match di andata si giocò al Chamartín e il Real lo affrontò fresco del titolo intercontinentale, vinto contro il Peñarol. Finì 2-2 e fu il primo punto perduto in casa dalla squadra madrilena in sei Coppe dei Campioni. Al ritorno, i catalani si imposero per 2-1. L'arbitro inglese Laefe annullò tre gol al Real. Eliminata la grande favorita, il Barcellona pareva predestinato al trono europeo. Travolse nei quarti lo Spartak Kralov (5-1) e in semifinale venne a capo, nella terza partita, della fiera resistenza dell'Amburgo. Il titolo andò invece a un outsider, il Benfica.
La squadra di Lisbona era stata portata alla ribalta internazionale da un tecnico brasiliano, Otto Gloria, alla guida del club sin dal 1955. Grazie a lui erano arrivati dal Mozambico Mario Esteves Coluña, grande cervello calcistico, e un fortissimo portiere, Costa Pereira. Nella stagione della Coppa dei Campioni del 1961, però, il Benfica era affidato alle mani dell'ungherese Bela Guttmann, che aggiunse alla mentalità brasiliana un pizzico di realismo europeo. Il Benfica non figurava fra le favorite e fu aiutato da un sorteggio propizio. Cominciò superando l'Heart, scozzese, poi inflisse un netto 6-2 complessivo all'Ujpest di Budapest e nei quarti travolse l'Aarhus per 7-2. In semifinale, il Rapid Vienna fu eliminato con facilità: 3-0 all'andata, 1-1 nell'incontro di ritorno in Austria.
La finale si giocò a Berna e i tutti pronostici erano per il grande Barcellona, che schierava il suo eccellente attacco. In effetti, il dominio dei catalani in avvio di partita risultò persino troppo evidente. Quando Kocsis andò in gol dopo 20 minuti, il trofeo in pratica sembrava ormai assegnato. Era invece il momento atteso da Guttmann. Il Benfica aggredì un avversario troppo sicuro di sé e Aguas, cannoniere scelto della Coppa dei Campioni, col suo undicesimo gol personale firmò il pareggio. Un errore del portiere Ramallets consentì ai portoghesi la seconda rete. Il Barcellona furioso si spinse tutto in avanti, permettendo di fatto che il saggio Coluña lo inchiodasse con il terzo gol. Costa Pereira difese la sua porta con interventi prodigiosi e solo allo scadere dell'incontro si arrese all'ormai platonica stilettata mancina di Czibor. Così la Coppa varcò il confine e dalla Spagna passò nel vicino Portogallo, dove rimase anche l'anno seguente.
Nel 1962, il Benfica del confermato Guttmann era ancora più forte. Al nucleo campione d'Europa aveva aggiunto due fuoriclasse: l'ala sinistra Simões e, soprattutto, un altro mozambicano, Eusebio (al secolo Eusebio da Silva Ferreira), che a 19 anni irruppe sulla scena internazionale e subito la conquistò; caratterizzato da un fisico potente e statuario, un'agilità incredibile, un senso innato del gol, si propose come l'alternativa europea al grande Pelé. Il Benfica trovò in semifinale un durissimo ostacolo negli inglesi del Tottenham, superati dopo due sofferte battaglie con il punteggio di 4-3. Nella finalissima ebbe come avversario il risorto Real Madrid. Ma Di Stefano aveva ormai 36 anni, Puskas 35, Santamaría 33. Le merengues sapevano di non poter competere sul piano fisico. La loro unica possibilità era una partenza rapidissima e poi una sapiente gestione del vantaggio. Nello stadio olimpico di Amsterdam, con la direzione arbitrale affidata all'olandese Horn, amico di Bernabéu e del Real, il piano parve funzionare a puntino. Puskas segnò due gol nei primi 20 minuti: Costa Pereira appariva impotente davanti al più forte sinistro del mondo. Cavem e Augusto pareggiarono, ancora Puskas andò a rete. Nella ripresa, però, i vecchi campioni avevano esaurito le energie migliori. Coluña realizzò il 3-3, poi Eusebio ebbe via libera: 4-3 su rigore, 5-3 al termine di una travolgente azione personale.
Per sette anni il titolo europeo per club era rimasto nella penisola iberica. Nel quadro di una prevedibile rotazione, all'interno della dominante scuola latina, era quasi inevitabile che toccasse all'Italia, che peraltro nelle precedenti edizioni si era già ampiamente messa in luce, disputando due finali, con la Fiorentina nel 1957 e con il Milan nel 1958. Nel 1962-63 il Benfica, detentore del titolo, era il logico favorito ma non appariva invulnerabile. Ripresentava quasi la stessa formazione, ma con un rinforzo molto importante: al centro dell'attacco operava l'altissimo Carlos Alberto Torres, una sorta di pivot, che arrivava sempre primo sui palloni alti e smistava per i compagni, un giocatore quasi immarcabile, perché nessun difensore era alto a sufficienza per contrastarlo nei suoi balzi. In panchina al posto di Bela Guttmann era subentrato il cileno Ferdinando Riera, seguace di un calcio più speculativo.
L'Italia era rappresentata dal Milan, guidato dalla coppia Viani-Rocco, due geniali uomini di calcio, amici di vecchia data (era stato Viani a volere Rocco in panchina, quand'era stato promosso direttore generale), ma divisi da una rivalità originata da idee tattiche non sempre collimanti. Nel Campionato appena vinto, i contrasti erano stati frequenti. Viani aveva puntato su Greaves, il fuoriclasse inglese, ma Rocco non ne tollerava l'indisciplina. Pur avendo segnato un gol a partita, Greaves era stato rimandato in patria dopo una decina di giornate. Al suo posto era arrivato dal Brasile Dino Sani, lento, ma tatticamente magistrale. Al suo fianco era lievitato il rendimento di Gianni Rivera, il golden boy, mentre in avanti la squadra contava sulla potenza del cannoniere José Altafini. La difesa, ispirata da Rocco, era quasi insuperabile.
Il Milan iniziò il suo cammino europeo con un torrenziale 14-0 all'Union Lussemburgo; cinque gol furono segnati da Altafini, che mise così un'ipoteca sul titolo di capocannoniere del torneo. Nello stesso turno preliminare, il pericoloso, ma vecchio Real fu subito eliminato dall'Anderlecht. La notizia fu molto gradita dal Benfica, che in qualità di detentore del titolo era esentato dalla tornata iniziale. I portoghesi entrarono in scena con un netto 6-2 sul Norrköping, mentre il Milan si imbatté negli inglesi dell'Ipswich Town. Il 3-0 di San Siro consentì la sconfitta di misura in trasferta. Fuori spagnoli e inglesi, si delineava già un duello italo-portoghese. Il Milan in effetti giunse alla finalissima senza ostacoli: 6-1 al Galatasaray nei quarti, 5-2 al Dundee in semifinale. A questo punto Altafini aveva già realizzato 12 gol. Il Benfica trovò avversari più impegnativi, ma ne venne ugualmente a capo: 2-1 al Dukla Praga, 3-1 al Feyenoord. Rispetto al calcio offensivo di Guttmann, Riera curava maggiormente la copertura.
La finalissima si giocò nel tempio del calcio, lo stadio imperiale di Wembley a Londra. Viani e Rocco passarono la notte della vigilia litigando: Rocco era per una formazione tradizionale, con due ali pure, Mora e Barison, ai fianchi di Altafini in attacco. Viani consigliava l'impiego di Pivatelli, falsa ala, in marcatura stretta sul cervello degli avversari, Coluña. Alla fine la spuntò Viani e venne sacrificato Barison. Il Milan impiegò il peruviano Benitez in appoggio alla difesa, mentre anche Trapattoni agiva in posizione arretrata, in modo che il libero Cesare Maldini potesse contrastare Torres sui palloni alti. David si opponeva alle serpentine di Simões, Sani si occupava della regia, Rivera era pronto a lanciare il contropiede di Altafini.
Il Benfica prese subito l'iniziativa a centrocampo. Coluña disegnava le sue geometrie, Eusebio era inarrestabile e dopo 19 minuti un suo tiro in corsa inchiodò Ghezzi e portò il Benfica in vantaggio. Ma un duro contrasto di Pivatelli mise fuori causa Coluña e determinò una svolta. Senza di lui, il Benfica si spense e il Milan nella ripresa dominò. Due gol molto simili (lancio di Rivera e conclusione di Altafini) consegnarono l'Europa per la prima volta a un club italiano. Altafini segnò 14 gol, un record mai battuto finché la Coppa dei Campioni seguì la vecchia formula.
L'incoronazione europea del Milan nel 1963 stimolò le ambizioni della storica rivale cittadina, l'Inter. Dopo lunghi anni di infruttuosi investimenti il suo presidente Angelo Moratti era infine riuscito a costruire una squadra quasi invincibile, che già aveva impresso il suo dominio sulla scena interna. Sotto la guida di Helenio Herrera, giocatori del calibro di Suarez, Mazzola, Corso, Jair esaltavano il modulo del contropiede, forte di una difesa che poco o nulla concedeva agli avversari. Quell'Inter fu la migliore interprete di sempre del calcio all'italiana, avaro di spettacolo, ma prodigo di risultati. Così, nell'edizione 1963-64, entrambe le squadre di Milano affrontarono con eguali mire di successo la più importante coppa europea, sfidando una concorrenza che aveva nell'eterno Real Madrid la sua punta di diamante.
Il Benfica, infatti, non si era ancora ripreso dalla delusione di Wembley. Superato a fatica il turno preliminare, batté di misura il Borussia Dortmund nell'incontro in casa, ma al ritorno fu travolto per 5-0. Il Milan detentore cominciò bene, eliminando perentoriamente gli svedesi del Norrköping, ma nei quarti si imbatté nel Real. Sconfitti per 4-1 a Madrid, i rossoneri sfiorarono la rimonta, ma il 2-0 di San Siro non fece che rendere più amara la loro uscita di scena.
L'Inter, intanto, metteva fuori diversi avversari di rilievo. La sua mitica difesa, diretta magistralmente in campo dal libero Armando Picchi, resisteva a tutti gli assalti. Un solo gol nel doppio incontro fu sufficiente a eliminare i temuti inglesi dell'Everton nel turno preliminare; poi l'Inter prevalse sul Monaco (1-0 e 3-1), sul Partizan (2-0 e 2-1), sul Borussia (2-2 e 2-0) in semifinale. In un torneo che coltivava la tradizione degli alti punteggi, l'Inter arrivava alla finalissima avendo subito appena quattro gol in otto partite.
Secondo copione, la resa dei conti avvenne contro il leggendario Real, che dopo la vittoria sul Milan aveva dilagato sullo Zurigo, schiacciato con un complessivo 8-1. Per Herrera e Suarez, provenienti dal Barcellona, era il revival delle tante, roventi sfide spagnole. Si giocò al Prater di Vienna, il 27 maggio 1964. Dieci giorni dopo, l'Inter era attesa dallo spareggio-scudetto, l'unico nell'intera storia del calcio italiano, contro il Bologna. Nel Real, Di Stefano e Puskas veleggiavano verso la quarantina, ma nuovi innesti, Amancio in particolare, garantivano la continuità. Herrera, che conosceva bene i madrileni, indovinò le marcature, con Guarneri incollato a Puskas, Burgnich contro Amancio, Tagnin su Di Stefano. Bloccate le stelle del Real, l'Inter attese pazientemente il momento giusto per far scattare il suo micidiale contropiede. A due minuti dall'intervallo, un gran tiro di Sandro Mazzola superò il portiere Vicente. Da quel momento, l'Inter giocò come il gatto con il topo. Lasciò campo al Real, per colpirlo ancora con Milani. E quando il mediano Felo sembrò rimettere in discussione il risultato, ancora Mazzola superò in velocità la difesa spagnola, firmando la doppietta personale e l'inizio del ciclo neroazzurro. Erano giorni di gloria. Dopo la Coppa dei Campioni, l'Inter conquistò anche la Coppa Intercontinentale battendo l'Independiente, una sfida lunghissima che si concluse ai tempi supplementari del terzo incontro, grazie a un gol di Mariolino Corso.
I neroazzurri erano quindi i netti favoriti per la Coppa dei Campioni 1964-65 e onorarono puntualmente il ruolo. Il Bologna, che l'anno precedente un po' a sorpresa aveva battuto l'Inter nello spareggio-scudetto, fece in Coppa un'apparizione effimera e poco fortunata: al turno preliminare si arrese all'Anderlecht. Dopo una vittoria per parte, la 'bella' si chiuse in pareggio e il sorteggio favorì i belgi.
L'Inter entrò in scena con un 7-0 alla Dinamo Bucarest, proseguì con un più sofferto 3-2 ai Rangers di Glasgow e un 4-3 complessivo al Liverpool in semifinale: nell'andata, in Inghilterra, per la prima volta la difesa interista era apparsa in crisi, sotto i furiosi assalti dei 'Reds'. Il 3-1 ottenuto dal Liverpool appariva difficilmente ricuperabile, ma a San Siro l'Inter riuscì nell'impresa. Corso avviò la rimonta con uno dei suoi classici calci di punizione 'a foglia morta', Peirò ristabilì l'equilibrio con un gol insolito, ottenuto rubando il pallone dalle mani del portiere che si accingeva al rinvio. E sul 2-0 l'incitamento degli 80.000 spettatori spinse il terzino Facchetti a un'incursione offensiva, conclusa con il gol decisivo del 3-0.
Nella finale, programmata a Milano, l'Inter ritrovò un'altra vecchia gloria della Coppa dei Campioni, il risorto Benfica, che in semifinale aveva eliminato il Real Madrid e che ripresentava ben 9 degli 11 giocatori sconfitti dal Milan nel 1963 a Wembley. Doveva essere un match scontato, con l'Inter favorita dal fattore campo. Invece, sotto una pioggia torrenziale, fu decisiva una papera del portiere Costa Pereira, che si fece passare fra le gambe un tiro non irresistibile di Jair. Nella ripresa, il Benfica non poté neppure provare la rimonta, penalizzato da seri infortuni. Per l'Inter era il secondo alloro consecutivo, cui seguì anche il bis nella Coppa Intercontinentale, ancora sull'Independiente. Prima in Italia, in Europa, nel mondo, l'Inter viveva il suo biennio d'oro.
Il calcio latino continuava a dominare la scena europea per club. Nel 1966 Milano, che aveva monopolizzato per tre anni la Coppa, con la staffetta fra il Milan di Rocco e l'Inter di Herrera, passò di nuovo la palla a Madrid, per un breve ritorno di fiamma del Real. La squadra di Madrid appariva in piena fase di transizione. Era uscito di scena il mitico Alfredo Di Stefano, andato a concludere la sua carriera nell'Espanyol di Barcellona. Si apprestava a lasciare l'attività Puskas, che però fece l'ultimo, determinante regalo al suo club. Il Real aveva infatti cominciato il torneo con una sconfitta sul campo del Feyenoord nel turno preliminare. Al ritorno, fu un sonante 5-0, con quattro gol di Puskas, il cui sinistro continuava a sfidare le leggi dell'età. Puskas (non più titolare fisso), Santamaria e Gento erano i soli superstiti leggendaria formazione di un tempo. Pirri era il giovane emergente, secondo la nuova politica di Bernabéu, che aveva posto fine agli ingaggi stratosferici, indirizzando il suo tecnico (ed ex giocatore) Miguel Muñoz alla valorizzazione di talenti autarchici. Quel Real non sembrava davvero un ostacolo serio sulla strada dell'Inter, protesa verso il terzo titolo consecutivo.
I neroazzurri trovarono difficoltà impreviste a superare la Dinamo Bucarest (1-2, 2-0), ma nei quarti prevalsero agevolemente sul Ferencváros (5-1 complessivo), mentre il Real veniva a capo dell'Anderlecht (0-1, 4-2) grazie a vistosi aiuti da parte dell'arbitro Barberan, che riaprirono le annose polemiche sulle protezioni di cui godeva il club di Santiago Bernabéu. In semifinale, l'Inter giocò a Madrid una partita di puro contenimento, difendendo la sconfitta (0-1), nella certezza di potersi rivalere a San Siro. Invece Herrera sbagliò le previsioni: a Milano, un contropiede di Amancio portò subito il Real in vantaggio e soltanto agli sgoccioli del match Facchetti siglò un inutile pareggio. Il Real passava a disputare la finale, l'Inter era eliminata.
La sorpresa del torneo era stato il Manchester United, la squadra di Matt Busby. Alla Coppa dei Campioni, la squadra di Manchester era legata da una tragedia ancora recente: il 6 febbraio 1958, al ritorno da una vittoriosa trasferta sul campo della Stella Rossa, l'aereo che la riportava in patria precipitò a Monaco. Persero la vita 22 persone e fra esse 8 calciatori. Miracolosamente si salvarono Busby e il giocatore simbolo, Bobby Charlton. Proprio Charlton, in coppia con il geniale George Best, aveva riportato in auge il Manchester, che in questa edizione del 1966-67 andò a vincere nei quarti in casa del Benfica per 5-1, offrendo uno spettacolo memorabile. Quando tutti lo ritenevano favorito per la vittoria finale, il Manchester cadde in semifinale contro il Partizan che, impostosi a Belgrado per 2-0, limitò i danni nella partita di ritorno e conquistò inaspettatamente il passaggio alla finale di Bruxelles contro il Real. Fu una partita più tattica che spettacolare: primo tempo senza gol, vantaggio iugoslavo con Vasovic, vittorioso forcing finale del Real con Amancio e Serena. Le merengues erano tornate al vertice del calcio europeo, anche se c'era un abisso fra il Real di Di Stefano e i suoi pallidi eredi.
L'anno seguente, saltato il turno preliminare, il Real detentore superò a fatica il Monaco, con la solita rimonta al Chamartín, e nei quarti ritrovò l'Inter. Questa volta Herrera non commise errori e i neroazzurri imposero la loro netta superiorità, vincendo in casa e fuori per un complessivo 3-0. Sgombrato il terreno dal rivale storico, l'Inter sembrava avviata al trionfo finale. Tutte le avversarie teoricamente più pericolose erano uscite di scena: il Liverpool a opera dell'emergente Ajax, successivamente eliminato dal Dukla di Praga, che già si era sbarazzato dell'Anderlecht. L'Inter era rimasta la sola rappresentante del calcio latino, contro due formazioni dell'Est Europa, Dukla e CSKA Sofia, e gli scozzesi del Celtic. In semifinale, il Celtic eliminò il Dukla, rivelazione del torneo, mentre l'Inter ‒ che era alla fine del suo ciclo d'oro ‒ ebbe grandi difficoltà contro i bulgari, per superare i quali, dopo due gare terminate con l'identico punteggio di 1-1, fu necessario lo spareggio, giocato in Italia sul campo di Bologna. Lo risolse un gol di Cappellini, conquistando per i milanesi la finalissima di Lisbona.
L'Inter l'affrontò senza Suarez, sua guida indiscussa, sostituito dal cursore Bicicli. Il Celtic di Jock Stein era una formazione di grandi risorse atletiche, a fronte di una tecnica non proprio raffinata. Praticava un calcio d'attacco, in apparenza assai propizio per il contropiede interista. Passati in vantaggio grazie a un rigore di Mazzola dopo otto minuti appena, i milanesi potevano attuare il loro copione preferito. Ma sotto l'assalto continuo degli scozzesi, le energie cominciarono a vacillare. Il terzino incursore Gemmel aprì una prima breccia nel muro neroazzurro e a cinque minuti dalla fine il centravanti Chalmers inferse il colpo decisivo. Per l'Inter fu una sconfitta traumatica, perché subito dopo perse anche scudetto e Coppa Italia, passando dal possibile en plein ipotizzato alla vigilia alla totale assenza di trofei in quella stagione. Il Celtic spezzò il dominio della scuola latina e avviò una nuova fase della Coppa dei Campioni.
Gli inglesi, secondo la loro abitudine, all'inizio non avevano preso in grande considerazione la Coppa dei Campioni, arrivando a impedire la partecipazione al torneo alle proprie squadre. Il veto della FA era stato infranto da Matt Busby, il tecnico del Manchester United, creatore di una squadra irresistibile e giovanissima, che decise di sfidare con i suoi ragazzi (i Busby babes) l'aristocrazia continentale, nella seconda edizione del torneo (1956-57). Dopo un debutto clamoroso, 12-0 all'Anderlecht, l'United si era arenato in semifinale, davanti all'imbattibile Real Madrid. Raggiunte in altre due occasioni le semifinali, nel 1968 fu la prima formazione inglese a conquistare la Coppa, fruendo anche del vantaggio di giocare la finale a Wembley.
Dopo la sciagura aerea del 1958 la squadra era stata ricostruita a tempo di record, con ingaggi prestigiosi: il fuoriclasse scozzese Denis Law, il 'mastino' Nobby Stiles, soprattutto un giovane irlandese di grande talento, George Best, detto il beatle perché il suo gioco era emozionante e rivoluzionario come la musica del celebre complesso. Matt Busby sentiva l'impegno morale di completare l'opera interrotta dal rogo di Monaco, prima di lasciare l'United, alla cui guida resisteva brillantemente sin dai primi anni del dopoguerra.
Dal 1963 al 1967, il Manchester aveva imposto un netto dominio sul fronte interno, vincendo una Coppa d'Inghilterra e due Campionati. Poté quindi concentrarsi sulla conquista dell'Europa. La squadra, che aveva incantato per il suo gioco spettacolare e dispendioso, si era fatta più concreta. Stiles, normalmente preposto a neutralizzare la fonte di gioco avversaria, costituiva un'ottima protezione per il reparto arretrato, che aveva Brennan e Dunne sui lati, Crerand e Foulkes centrali. Charlton si sdoppiava nei compiti di regista a tutto campo e di centravanti, Best era un giocatore difficilissimo da affrontare per tutti i terzini e il poderoso Kidd costituiva un efficace realizzatore, specie nel gioco aereo.
I primi due turni non furono entusiasmanti, e furono superati ai danni dei modesti maltesi dell'Hibernian e del più ostico Sarajevo. L'United raggiunse comunque le semifinali, dove si trovò circondato dalle più qualificate rappresentanti del calcio latino: il Real Madrid, che seppur in fase di transizione appariva sempre temibile, l'eterno Benfica di Eusebio, Coluña e Torres, e l'italiana Juventus, che aveva spezzato, sul fronte interno, il ferreo dominio dell'Inter herreriana. Era una Juventus 'proletaria', guidata da un altro Herrera, Heriberto, che predicava i valori del collettivo e non aveva stelle nelle proprie file. Nella semifinale con il Benfica, la Juventus fu battuta sia a Lisbona (gol di Torres ed Eusebio) sia a Torino (ancora Eusebio). Più avvincente risultò l'altra sfida, che vide alle prese l'United con la sua proverbiale bestia nera, il Real Madrid. In casa, all'Old Trafford, i ragazzi di Busby si imposero per 1-0, grazie a un gol di George Best, un vantaggio che appariva troppo esiguo per evitare la rimonta che il Real effettuava sistematicamente sul proprio campo. Invece a Madrid, dopo che gli spagnoli erano saliti sino al 3-1 e ormai i 100.000 spettatori del Chamartin festeggiavano l'ennesima finale raggiunta, l'orgoglio dei Busby babes li portò a una reazione formidabile, un 3-3 che spalancava le porte di Wembley.
Il Benfica era molto più esperto. Tre giocatori, Cruz, Coluña e Augusto, giocavano la loro quinta finale di Coppa dei Campioni. Eusebio, che aveva incantato l'Inghilterra nel corso dei Mondiali 1966, aveva già realizzato sette reti nel torneo. Per tutto il primo tempo, il sapiente possesso di palla dei portoghesi costrinse gli inglesi a giocare sotto ritmo, mantenendo lo 0-0 di partenza. Fu una prodezza di Bobby Charlton ‒ un colpo di testa all'ottavo della ripresa ‒ a spezzare l'equilibrio. L'United prese coraggio, ma il Benfica pareggiò con Graca e mancò il raddoppio con Eusebio, il cui tiro fu magistralmente deviato dal portiere Stepney. I tempi supplementari furono micidiali per la squadra portoghese, che con la stanchezza perse lucidità. Best sferrò il primo colpo, Brian Kidd, che quella sera compiva 19 anni, e ancora Charlton completarono l'opera.
La Coppa dei Campioni del 1969, conquistata dal Milan sei anni dopo il primo trionfo di Wembley, rappresentò anche un autentico spartiacque nell'evoluzione tattica del gioco. In finale si trovarono infatti di fronte le migliori rappresentanti del vecchio e del nuovo. Da una parte il Milan di Nereo Rocco, che aveva portato vicino alla perfezione i dettami del calcio all'italiana: non solo difesa e contropiede, come etichettavano i superficiali detrattori, ma anche gusto della manovra, orchestrata da un Rivera nella sua piena maturità, e automatismi efficacissimi. Dall'altra, l'Ajax di Rinus Michels, il rivoluzionario profeta del calcio totale, che ai suoi giovani allievi aveva insegnato l'emancipazione dai ruoli: tutti difensori e tutti attaccanti, la scoperta del giocatore universale e polivalente. Il Milan e Rivera si trovavano però al loro culmine, l'Ajax e il suo fuoriclasse emergente Johan Cruijff erano ancora verdi d'esperienza e muovevano i primi passi sulla ribalta continentale. La netta e spettacolare vittoria dei rossoneri chiuse il capitolo degli anni Sessanta, mentre nel decennio successivo la rivincita degli olandesi sarebbe stata schiacciante.
Nell'edizione 1968-69, comunque, i campioni in carica del Manchester United erano i favoriti d'obbligo e in effetti cominciarono bene, superando il Waterford e poi battendo anche l'ostico Anderlecht. Il Milan aveva invece debuttato con una sconfitta, a Malmö, a cui peraltro aveva ampiamente rimediato nel ritorno di San Siro. Nel secondo turno, il Milan passò senza giocare. La delicata situazione internazionale, seguita all'invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe sovietiche, aveva infatti determinato il ritiro di alcune squadre dell'Est Europa. Milan e Benfica si trovarono così direttamente nei quarti.
In questa fase il Milan fu abbinato al Celtic. Dopo lo 0-0 a San Siro, il ritorno vide un fulminante contropiede di Pierino Prati nelle battute iniziali e poi un'accanita difesa a oltranza per respingere l'impetuoso assedio scozzese alla porta di Cudicini; il catenaccio italiano fu bollato con parole di fuoco dalla stampa di tutta Europa. Intanto il Manchester superava in sicurezza il Rapid Vienna e l'Ajax cominciava a mostrare il suo genio. Dai veterani del Benfica i giovani olandesi si fecero battere in casa per 3-1, ma a Lisbona, giocando uno spericolato calcio d'attacco, l'Ajax salì sino al 3-0, con una sensazionale doppietta del giovane Cruijff. Solo nei minuti finali un gol di Torres rese necessario lo spareggio, a Parigi: 90 minuti senza gol, poi, nei supplementari, 3-0 per l'Ajax. Era una novità che trovava impreparati anche i commentatori, un calcio fuori dagli schemi abituali.
In semifinale l'incontro principale era Milan-Manchester United. Gli inglesi erano sicuri di vincere, del Milan temevano unicamente la difesa. Ma Rocco non conosceva un solo copione: nell'andata a Milano fece praticare un calcio d'iniziativa alla sua squadra, che sorprese gli avversari e si impose per 2-0. Il ritorno vide gli inglesi all'attacco, con grande furore agonistico, e i milanisti arroccati in difesa. Il vantaggio, però, era importante: il Manchester United segnò solo un gol e il Milan andò in finale.
Per l'Ajax, dopo le prodezze con il Benfica, lo Spartak Trnava doveva risultare una formalità e così sembrò confermare il match in casa, che vide gli olandesi imporsi per 3-0. Al ritorno, però, presunzione o eccessiva tranquillità misero in difficoltà l'Ajax che, in svantaggio di due gol, dovette difendere strenuamente, all'italiana, il piccolo vantaggio che restava.
Grande era l'attesa per la finalissima di Madrid. Il gioco nuovo di marca olandese avrebbe infine umiliato il criticato catenaccio degli italiani? Rocco, ancora una volta, giocò d'anticipo, presentando una formazione molto offensiva, che vedeva Rivera alle spalle di tre punte, Hamrin, Sormani e Prati. In difesa, il libero Malatrasi copriva i tre marcatori, Anquilletti, Rosato e il tedesco Schnellinger. Nella zona di mezzo, Trapattoni e Lodetti erano chiamati al doppio lavoro di interdizione e di rilancio. Rocco e Rivera avevano studiato la tattica dell'Ajax, in particolare il suo ricorso al fuorigioco sistematico, con l'avanzata collettiva di tutta la linea di difesa. I lanci di Rivera trasformarono quell'arma in un boomerang. Prati scattava a tempo e si trovava davanti al portiere olandese. Fu la sua grande serata, sancita da tre gol. Il quarto lo segnò Sormani. Agli olandesi restò la magra consolazione di un rigore trasformato da Vasovic. Cruijff non riuscì mai a liberarsi dalla gabbia dei difensori rossoneri. Anche i nemici giurati del catenaccio dovettero riconoscere la piena legittimità della vittoria milanista. Ma quella gara fu anche l'ultimo exploit del calcio all'italiana.
Fallito il primo assalto con l'Ajax, il calcio olandese si prese una rivincita immediata, sia pure con un altro club. Nel 1970, infatti, a vincere il titolo europeo fu il Feyenoord di Rotterdam, guidato dal tecnico austriaco Ernst Happel. La rivincita fu completa, perché nel corso del torneo il Feyenoord eliminò proprio il Milan, al secondo turno, e perché l'incoronazione avvenne nello stadio milanese di San Siro, sede designata della finalissima.
Rispetto all'Ajax, con cui si alternò nella leadership nazionale per dieci anni consecutivi, dal 1965 al 1974, il Feynoord giocava un calcio meno spettacolare e avvolgente, ma più attento alle contromisure nei confronti dell'avversario. Si può dire che il Feyenoord di Happel rappresentasse una perfetta mediazione fra la rivoluzione del gioco totale e il pragmatismo del calcio all'italiana. La sua vittoria finale rappresentò comunque una notevole sorpresa, anche se fu oggettivamente propiziata da una serie di circostanze favorevoli.
Superato facilmente l'esordio con il Reykjavik grazie a un'impressionante serie di gol (punteggio complessivo di 16-2 nel doppio incontro), il Feyenoord si trovò di fronte il Milan, grande favorito del torneo. I rossoneri di Rocco erano però reduci dalle battaglie con gli argentini dell'Estudiantes per la Coppa Intercontinentale, in cui il trionfo finale aveva comportato un pesante sacrificio di uomini e di energie. Il Milan vinse di misura il match interno, ma la sua leggendaria difesa non resse l'urto impetuoso degli olandesi e a Rotterdam cedette per 2-0. Tolto di mezzo il rivale più insidioso, il Feyenoord imboccò la strada per la finalissima ripetendo un copione collaudato: partita di contenimento fuori casa seguita da irresistibili attacchi a Rotterdam. A farne le spese, nei quarti e in semifinale, furono due squadre dell'Est Europa, il Vorwaerts e il Legia Varsavia, quest'ultima illuminata da due campioni quali Deyna e Gadocha.
In quel secondo turno che aveva visto gli olandesi estromettere il Milan, una seconda squadra italiana, la Fiorentina di Pesaola, si era segnalata per un'importante vittoria a Kiev, grazie alla quale aveva eliminato la Dinamo, formazione emergente. Le sorprese erano continuate con lo Standard Liegi, capace di battere, in casa e fuori, il Real Madrid. Singolare fu l'andamento del match fra Benfica e Celtic: ciascuna squadra aveva vinto per 3-0 la partita interna, ai rigori erano stati promossi gli scozzesi. In assoluto, la squadra più in forma appariva il Leeds, debuttante in Coppa dei Campioni a difesa dei colori inglesi, che collezionò sei vittorie nei primi tre turni: 10-0 e 6-0 al Lyn Oslo, 3-0 e 3-0 al Ferencváros, 1-0 e 1-0 allo Standard Liegi (in totale 24 gol segnati e 0 subiti). In semifinale il sorteggio impose un derby britannico fra il Celtic (che aveva eliminato a fatica la Fiorentina nei quarti) e il Leeds. Quest'ultimo era contemporaneamente in corsa per la vittoria nel Campionato inglese, per la FA Cup e per la Coppa dei Campioni. Proprio alla vigilia della sfida con il Celtic, dovette affrontare un'estenuante semifinale di Coppa d'Inghilterra, contro il Manchester United, che si prolungò per tre partite. Esausto, il Leeds interruppe il suo cammino europeo, cedendo al Celtic in casa (0-1) e poi a Glasgow (1-2).
Celtic-Feyenoord non era certamente la partita che Milano aveva sognato, al momento di ottenere l'organizzazione della finale. L'unica presenza italiana fu quella dell'arbitro, il celebre Concetto Lo Bello, a disagio con il calcio atletico delle due rivali. Nel Celtic giocavano ben sette reduci della vittoria europea di Lisbona, nel 1967, contro l'Inter. Immutato era anche lo schema tattico, un 4-2-4 di ispirazione brasiliana, molto offensivo. Il Feyenoord era stato costruito da Happel con una ferrea logica collettivistica, ma vantava anche individualità di spicco: Van Hanegem, grande organizzatore di gioco e temibile bombardiere, specie nei tiri dalla distanza, il regista difensivo Israel, di grande duttilità tattica, che spesso scalava al ruolo di battitore libero e, in attacco, lo svedese Kindvall, implacabile cacciatore di gol, tecnico e agile. Gli scozzesi impostarono la gara aggressivamente e passarono in vantaggio con il terzino-goleador Gemmel alla mezzora di gioco. Israel, inseritosi a sorpresa in avanti, pareggiò due minuti dopo. Poi vi fu grande esibizione di atletismo sui due fronti, ma senza altri gol. Nei tempi supplementari, con il Celtic ormai stanco, un elegante gol di Kindvall al 117′ consegnò la prima Coppa dei Campioni a una squadra olandese.
Preceduta dal successo del Feyenoord del 1970, la supremazia dell'Ajax si impose inesorabilmente nel panorama continentale a partire dalla stagione successiva. Rinus Michel aveva ormai finito il tempo delle sperimentazioni. Il gioco dell'Ajax, pur conservando tutte le sue caratteristiche spettacolari, si era fatto via via più concreto. La squadra aveva assimilato l'arte di difendersi, di mandare a vuoto gli assalti avversari sia attraverso il prolungato controllo del pallone sia ricorrendo alla trappola del fuorigioco, pronta a scattare con puntuale precisione.
Nell'edizione 1970-71 l'Olanda si vide rappresentata da ben due squadre, a testimonianza del suo momento d'oro. Tuttavia i detentori del Feyenoord si persero presto per strada, eliminati dai romeni dell'Arad, mentre per l'Ajax fu una galoppata trionfale, avviata dai due agevoli turni iniziali contro Nentori Tirana e Basilea. Nei quarti di finale, invece, gli avversari erano molto diversi fra loro, ma ugualmente pericolosi. Il Celtic di Glasgow, con il suo atletismo britannico, e l'Atlético Madrid, con la sua raffinata tecnica latina, furono superati in modo analogo: sconfitta di misura in trasferta, netto 3-0 ad Amsterdam. Sul terreno di casa, Cruijff e i suoi sapevano esprimere un gioco travolgente, attaccando a folate, senza offrire punti di riferimento. L'Atlético aveva eliminato il Cagliari, alla sua prima e sinora unica partecipazione nella grande Coppa, e duramente penalizzato dall'infortunio che lo aveva privato del suo giocatore più illustre, Gigi Riva.
In finale, nella mitica cornice di Wembley, l'Ajax trovò a sorpresa una squadra greca, il Panathinaikos, alla cui guida tecnica era approdato, con esiti invero strabilianti, il vecchio eroe di Honvéd e Real Madrid, il 'colonnello' Puskas. L'Ajax andò in gol con Van Dijk dopo cinque minuti appena e a quel punto, temendo il crollo, i greci si rifugiarono in un rigido ostruzionismo. Solo un bolide di Haan, deviato, offrì nel finale un segno più tangibile della superiorità dell'Ajax.
Terminato con successo il suo ciclo, Michels passò la squadra nelle mani del romeno Stefan Kovacs, che molti considerano come il vero artefice del grande Ajax. In realtà, il suo lavoro fu più di perfezionamento che creativo. Rispetto a Michels, Kovacs privilegiava un gioco più libero, affidato al talento individuale. Cruijff assunse quindi un'importanza ancora maggiore e divenne il vero 'padrone' della squadra. Se nella stagione precedente l'Ajax aveva percorso un cammino sostanzialmente agevole, per arrivare alla sua seconda vittoria in Coppa dei Campioni dovette affrontare avversari fortissimi, come l'Arsenal nei quarti, battuto di misura ad Amsterdam, ma poi dominato con facilità nell'incontro di ritorno di Londra, quindi il Benfica (1-0, 0-0) in semifinale, a dimostrazione che quell'Ajax non solo disponeva di un attacco esplosivo, ma aveva anche una grande capacità difensiva. In finale, gli olandesi trovarono l'Inter, che aveva avuto un percorso tormentato. Travolta dai tedeschi del Borussia a Mönchengladbach, aveva però ottenuto la vittoria legale a causa degli incidenti avvenuti in quella gara, in particolare il lancio dagli spalti di una lattina, che aveva colpito e messo fuori causa il centravanti Boninsegna; poi, in semifinale, era riuscita a eliminare il Celtic con i calci di rigore, al termine di un doppio 0-0. L'Inter era tatticamente ostica e nella finale di Rotterdam cercò di neutralizzare Cruijff facendolo marcare strettamente da Oriali. Cruijff rispose da par suo, segnando entrambi i gol della vittoria.
Nella stagione 1972-73, che portò all'Ajax la terza consecutiva Coppa dei Campioni, la squadra di Amsterdam toccò forse il suo momento più alto. La sua fortissima prima linea aveva nel nuovo innesto Johnny Rep e in Keizer le due punte più avanzate, mentre Cruijff completava il tridente inserendosi al centro grazie a folgoranti partenze da lontano. Haan, Muhren e Neeskens davano vita a un centrocampo potente e tecnico insieme; in difesa, Krol e Suurbier ai lati, Hulshoff e Blakenburg al centro, costituivano un baluardo invalicabile. L'insieme formava una perfetta macchina da calcio, in grado di assicurare allo stesso tempo risultati e spettacolo.
Dai quarti di finale in avanti l'Ajax si trovò di fronte tre delle squadre più forti del mondo: il Bayern Monaco, il Real Madrid, la Juventus. Il 4-0 al Bayern (squadra ricca di giocatori della nazionale tedesca campione d'Europa) fu anche la vittoria di Cruijff su Beckenbauer, suo rivale storico. Il Real Madrid, in semifinale, venne battuto in casa, fra lo sconcerto dei 100.000 tifosi dello stadio Bernabéu, e fuori. Nella finale di Belgrado, la Juventus incassò dopo soli quattro minuti un gol di testa di Rep, che a qualcuno fece prevedere un'autentica grandinata; ma l'Ajax si limitò a gestire il vantaggio e la Juventus non trovò la forza di rimontare. A Belgrado finì la storia di quell'Ajax, che nelle tre stagioni del trionfo aveva vinto 19 partite su 26. Johan Cruijff si trasferì al Barcellona, chiamato dall'antico maestro Michels e con la sua partenza l'Ajax chiuse il suo ciclo vittorioso.
Al ciclo dell'Ajax seguì quello del Bayern Monaco, con tre vittorie consecutive: del resto, olandesi e tedeschi rappresentavano le scuole dominanti, l'una legata alle suggestioni del calcio totale, l'altra saldamente radicata nella tradizione, ma illuminata da interpreti d'eccezione, in grado di rendere attuale anche il modulo di gioco più datato. In quegli anni Settanta il Bayern viveva un periodo d'oro e forniva l'ossatura alla nazionale della Germania Ovest, che in un biennio concentrò il titolo europeo del 1972 e l'alloro mondiale del 1974.
La prima conquista della Coppa dei Campioni da parte del Bayern, che fu anche la prima in assoluto di una squadra tedesca in 19 edizioni, fu piuttosto tormentata. L'Ajax, senza Cruijff, cedette presto ai bulgari del CSKA, mentre la Juventus cadde al turno inaugurale, contro i tedeschi orientali della Dinamo Dresda. Ma lo stesso Bayern partì stentatamente e solo grazie ai calci di rigore venne a capo dell'Atvidaberg. Nella partita in Svezia un oggetto lanciato in campo dal pubblico provocò la frattura della tibia al terzino Breitner del Bayern. L'Atvidaberg, quasi per una sorta di risarcimento, trasferì al club di Monaco l'attaccante Torstensson, che aveva segnato due gol e che si rivelò poi decisivo per i nuovi colori. Nei turni successivi, il Bayern fu messo ancora alle strette: la Dinamo Dresda fu battuta con un complessivo 7-6, dopo due gare ricche di spettacolo, e il CSKA fu faticosamente superato nei quarti grazie a una doppietta del nuovo acquisto Torstensson. Solo in semifinale, contro il modesto Ujpest, il Bayern vinse senza difficoltà, e aprendosi la strada per una finalissima in apparenza scontata. All'atto conclusivo di Bruxelles era infatti approdato a sorpresa l'Atlético Madrid, chiaramente inferiore dal punto di vista tecnico. Gli spagnoli, però, eressero un vero e proprio muro davanti al loro portiere Reina e chiusero i 90 minuti sullo 0-0. Nei tempi supplementari, un calcio piazzato di Luis portò in vantaggio l'Atlético. Tutto pareva perduto per i bavaresi, quando, proprio allo scadere del match, lo stopper Schwarzenbeck, con un bolide da 30 metri, segnò il punto del pareggio. Secondo il regolamento allora in atto, la finale fu ripetuta a due giorni di distanza. Il bis non ebbe storia: gli spagnoli, stremati, si arresero alle doppiette di Hoeness e Gerd Müller, che, con nove gol, fu il capocannoniere del torneo. A conferma ulteriore dello spessore tecnico del club bavarese, neppure un mese dopo ben sei dei suoi giocatori (Maier, Beckenbauer, Breitner, Schwarzenbeck, Müller e Hoeness) si laurearono campioni del Mondo nelle file della Germania, che proprio a Monaco sconfisse in finale l'Olanda.
Il Bayern aveva il suo fulcro in Beckenbauer, libero di manovra e in realtà regista della squadra, abile nel chiudere la cerniera difensiva come nel riproporre l'azione d'attacco. Attorno a lui, il tecnico Udo Lattek aveva costruito una formazione solida e tatticamente duttile, in grado di cambiare volto nel corso della gara. Subito dopo il trionfo europeo, però, il Bayern dovette registrare due gravi perdite: Lattek passò a guidare i rivali interni del Borussia Mönchengladbach (che peraltro vinsero tre scudetti consecutivi), mentre Paul Breitner, terzino d'attacco, cedette alle sontuose offerte del Real Madrid. Pur ridimensionato in patria, il Bayern confermò la sua supremazia in campo europeo, in un'edizione, quella del 1975, priva di rappresentanza italiana (la Lazio campione doveva scontare una squalifica internazionale) e che viene ricordata soprattutto per la sua finale. A Parigi, infatti, dove era arrivato eliminando in successione il Magdeburgo, l'Ararat e il St.-Étienne, il Bayern trovò gli inglesi del Leeds. Fu una dura battaglia sotto il profilo atletico, il Leeds si vide penalizzare da alcune decisioni dell'arbitro Kitabdjean, che annullò un gol di Lorimer a molti apparso regolare, e nel finale della gara la maggior freschezza dei tedeschi sfociò nelle reti di Roth e del solito Gerd Müller, ancora capocannoniere del torneo. I 30.000 inglesi al seguito del Leeds non accettarono il verdetto e misero Parigi a ferro e fuoco. Fu la prima grave manifestazione di un fenomeno, la violenza degli hooligans, che in seguito avrebbe fatto registrare episodi ancora più tragici nell'ambito di questo stesso torneo.
Nell'edizione seguente, che avrebbe sancito il suo terzo successo europeo, il Bayern presentò un'importante novità. Il suo attacco si era arricchito della presenza di un giovane fuoriclasse, Karl-Heinz Rummenigge, detto Kalle: una punta di grandi doti atletiche e tecnicamente in grado di esprimersi da esterno o da centrale, che formò con Gerd Muller e Hoeness un tridente assolutamente micidiale. Ancora una volta, però, la strada della vittoria fu irta di difficoltà. Dopo due autentiche battaglie con Malmö e Benfica, il Bayern in semifinale incontrò il Real Madrid, che aveva superato di stretta misura il Borussia, che a sua volta aveva eliminato la Juventus. Al Bernabéu le due squadre pareggiarono, a Monaco il Bayern vinse 2-0, accedendo alla finale a Glasgow contro il St.-Étienne. I francesi erano del tutto sfavoriti nei pronostici e invece furono sconfitti soltanto grazie a un gol su punizione di Roth, a metà ripresa. L'impresa dell'Ajax era stata eguagliata: Beckenbauer poteva, come già Cruijff, alzare al cielo la Coppa dei Campioni per la terza volta consecutiva.
Nella principale competizione europea per club gli anni Settanta furono contrassegnati dal dominio ciclico di tre scuole calcistiche: dopo le triplette degli olandesi dell'Ajax e dei tedeschi del Bayern, toccò agli inglesi chiudere da protagonisti il decennio. La loro punta di diamante fu il Liverpool.
Nel maggio 1977 il Liverpool (alla cui guida tecnica Bob Paisley aveva sostituito Bill Shankly, il vero artefice della rinascita del club dopo un lungo periodo oscuro) arrivò alla fine di una stagione massacrante con tutti i traguardi ancora aperti: puntava al secondo titolo nazionale consecutivo, si era qualificato per la finale della Coppa d'Inghilterra ed era approdato all'atto conclusivo della Coppa dei Campioni. A quel punto gli impegni si accavallarono a ritmi proibitivi. Il 17 maggio i 'Reds' si laurearono campioni d'Inghilterra, per la decima volta nella loro storia. Il 21 maggio disputarono la finale della FA Cup e la persero contro il fortissimo Manchester United. Il 25 maggio, all'Olimpico di Roma, giocarono la finalissima europea contro il Borussia Mönchengladbach, la stessa avversaria contro la quale avevano vinto la loro prima Coppa UEFA, nel 1973. Nel giro di otto giorni, tre appuntamenti fondamentali. Il Liverpool non era ritenuto in grado di far fronte, sul piano fisico, a un simile tour de force. Per questo i favori del pronostico si concentravano sulla squadra tedesca che, forte di campioni quali Vogts, Bonhof, Stielike, Simonsen, Heynckes, al secondo turno aveva eliminato il Torino di Radice e in semifinale aveva umiliato l'emergente Dinamo Kiev. In vantaggio con McDermott, il Liverpool fu raggiunto all'inizio del secondo tempo dal danese Simonsen. A quel punto ci si attendeva il crollo e invece proprio nel finale i 'Reds' dilagarono, prima con Smith, grazie a un potentissimo colpo di testa, poi con un lampo del fuoriclasse Keegan, che costrinse al fallo in area Vogts. Phil Neal trasformò il rigore e il 3-1 portò il Liverpool alla conquista del trofeo.
Era una squadra agguerrita e compatta, che giocava un 4-3-3 di base, molto dinamico, con i costanti inserimenti dei difensori laterali, Neal e Jones, mentre la coppia centrale Smith-Hughes svettava nel gioco aereo.
Il vero fenomeno era Keegan, detto King Kevin, che però, subito dopo il trionfo romano, lasciò la squadra, ingaggiato dall'Amburgo. Poteva essere una perdita fatale, ma il Liverpool indovinò subito la mossa vincente: al posto di Keegan, acquistò dal Celtic, per la cifra record di 400.000 sterline, Kenny Dalglish. Con l'innesto di Dalglish, attaccante completo, e di un altro scozzese, Graeme Souness, il Liverpool replicò il titolo europeo nel 1978. Combattutissima risultò la semifinale, contro il Borussia Mönchengladbach, assetato di rivincita: sconfitto in Germania, il Liverpool rovesciò la situazione con un netto 3-0 all'Anfield Road. La finale era programmata a Londra, contro un rivale apparentemente docile, il Bruges. Alla guida dei belgi era però il geniale tecnico austriaco Ernst Happel, che in semifinale era riuscito a eliminare la Juventus di Trapattoni. Happel piazzò anche a Wembley le sue efficaci trappole tattiche, e soltanto un gol di Dalglish, nella ripresa, consegnò ai 'Reds' il bis prestigioso.
Dopo aver lasciato per due anni la ribalta europea ai connazionali del Nottingham Forest, il Liverpool ‒ che continuava a mietere allori sul fronte interno ‒ conquistò la sua terza Coppa dei Campioni nel 1981. In semifinale compì una vera prodezza contro il fortissimo (e favorito) Bayern di Rummenigge: lo 0-0 all'Anfield Road sembrava aver promosso i tedeschi, ma nella gara di ritorno a Monaco l'1-1, con rete di Ray Kennedy, consentì ai 'Reds' di sfruttare la regola dei gol in trasferta. L'Inter, che aveva difeso i colori italiani, era caduta in semifinale contro il Real Madrid, mostro sacro di questo torneo, che da quindici anni mancava all'atto conclusivo. La finale, giocata a Parigi, fu una partita più emozionante che spettacolare: si chiuse sullo 0-0 nei tempi regolamentari e solo nella proroga vide il terzino sinistro Alan Kennedy piegare con un diagonale il portiere spagnolo Rodriguez.
Il poker del Liverpool si completò nel 1984 a Roma ‒ dove era iniziato il suo dominio europeo ‒ contro la squadra di casa. Nelle fasi precedenti il Liverpool, superata l'Odense, aveva stentato con l'Athletic Bilbao, ma si era poi scatenato con il Benfica e la Dinamo Bucarest, battute in casa e fuori. La Roma di Liedholm, esordiente nel torneo, aveva svolto un percorso caratterizzato dalle ottime prestazioni casalinghe, che l'aveva portata a eliminare gli svedesi del Göteborg, il CSKA di Sofia, la Dinamo Berlino e, in semifinale, il Dundee United, vincitore per 2-0 all'andata in Scozia. A proposito della partita di ritorno fra Roma e Dundee, terminata 3-0, si parlò di un presunto tentativo di corruzione dell'arbitro francese Vautrot, in realtà mai compiuto, ma che costò al presidente romanista Viola una squalifica e una lunga scia di polemiche che coinvolsero anche la Federazione. In finale, la Roma, andata in svantaggio in apertura con un gol sospetto di Neal, attaccò senza interruzione e pareggiò con il suo bomber Pruzzo. A quel punto, l'esperienza e la saldezza difensiva del Liverpool congelarono il risultato del match, sino ai tiri dal dischetto. Destò molte polemiche l'assenza del brasiliano Falcão dal gruppo dei tiratori romanisti, ma in sostanza furono gli errori di Conti e Graziani a decidere il quarto trionfo del Liverpool.
Pur di antichissima origine (era stato fondato nel 1865), il Nottingham Forest era assai povero di titoli: in più di un secolo di vita aveva conquistato soltanto due Coppe d'Inghilterra, a sessant'anni di intervallo l'una dall'altra (1898 e 1959). Fu quindi una grande sorpresa vederlo decollare improvvisamente, sul finire degli anni Settanta, verso i più alti traguardi interni e internazionali, una meteora che si spense altrettanto repentinamente, dopo un biennio di gloria. L'uomo-chiave fu Brian Clough, un tecnico irascibile e polemico, secondo il quale per una squadra la fame di successo era più importante del talento. Ciò lo portò a far emergere giovani sconosciuti, per poi liquidarli non appena li sospettava sazi di allori: Trevor Francis, Gary Birtles e Tom Woodcock furono i suoi uomini di punta, ma non restarono a lungo nella sua squadra. Diverso il caso di John Mc Govern, il capitano, che lo seguì per tutta la carriera e ne divenne il portaordini in campo.
Salito in prima divisione nel 1977, il Nottingham vinse il suo primo titolo l'anno seguente, affacciandosi quindi come matricola alla Coppa dei Campioni. Un sorteggio sfavorevole lo oppose, nel primo turno, al Liverpool, campione uscente e mostro sacro del calcio inglese. Pur sfavorito dal pronostico, Clough non si scoraggiò e fece aggredire il Liverpool con un ritmo ossessivo, senza lasciare ai più dotati avversari il tempo di pensare. Gary Birtles fu l'eroe di una serata indimenticabile per i supporter del Forest, che proveniva da un'incredibile serie positiva: 63 partite con una sola sconfitta. Il 2-0 ottenuto in casa fu difeso con accanimento all'Anfield Road, il terreno del Liverpool, dove il portiere Shilton eresse un muro invalicabile. Sullo slancio, il Forest si sbarazzò in successione di AEK, Grasshoppers e Colonia, e si presentò alla finale di Monaco forte di un invidiabile cammino: cinque vittorie e tre pareggi. Anche l'altra squadra finalista, il Malmö, era una outsider. Il torneo, infatti, aveva visto uscire presto di scena le favorite: come il Liverpool, la Juventus era caduta nella tornata inaugurale, per mano dei Glasgow Rangers; il Real Madrid si era fatto sorprendere al secondo turno dagli svizzeri del Grasshoppers. La finale fu molto modesta, sul piano tecnico. Un gol di testa di Trevor Francis spezzò l'ostruzionismo degli svedesi e il Forest chiuse il torneo senza sconfitte, come non succedeva da cinque anni (Ajax 1974). Nottingham realizzava un altro primato: era di gran lunga la città più piccola ad aver portato la propria squadra al vertice del calcio europeo.
Nel gioco il Forest era poco britannico: poggiava su una difesa molto chiusa, che si ispirava più all'Inter di Herrera che all'Ajax del calcio totale. Nella sua seconda partecipazione alla Coppa dei Campioni, trovò inizialmente sorteggi benigni (Vaxio e Arges Pitesti), ma parve concludere la sua parabola nei quarti di finale, quando fu sconfitto in casa dalla Dinamo Berlino. Lo 0-1 fu però clamorosamente rovesciato nell'incontro di ritorno in Germania, che portò la squadra di Clough in semifinale, contro l'Ajax. Il netto 2-0 sul campo amico fu difeso strenuamente ad Amsterdam, ancora con il portiere Shilton alla ribalta. Era la seconda finale consecutiva, in uno stadio prestigioso come il Bernabeu di Madrid e contro l'Amburgo, guidato dal miglior calciatore inglese del momento, Kevin Keegan. In semifinale l'Amburgo aveva travolto il Real Madrid e il tifo spagnolo si schierò a favore del Forest. I tedeschi avevano un autentico squadrone, con Kaltz, Hrubesch, Magath, oltre alla stella Keegan. Giocarono sempre in attacco, ma dopo 20 minuti Robertson approfittò delle licenze offensive del terzino Kaltz per involarsi sulla fascia sinistra, scambiare con Birtles e sorprendere il portiere Kargus. L'immediato pareggio dell'Amburgo fu annullato per fuorigioco e un successivo tiro di Kaltz centrò l'incrocio dei pali. Clough aveva preso contromisure decisive per neutralizzare Keegan, che infatti non incise sulla partita, marcato con determinazione da Kenny Burns. Il Forest gestì il risultato sino alla fine e mise a segno il più inatteso 1-2 nella storia della Coppa dei Campioni.
Lì finì il suo successo. Nella stagione seguente uscì al primo turno, battuto in casa e fuori dai bulgari del CSKA Sofia, e passò di nuovo il testimone al Liverpool, da cui l'aveva ricevuto. Continuava il dominio inglese e continuava la crisi italiana. Nell'anno del bis del Forest, il Milan era uscito presto dal torneo, cominciando male una stagione nefasta che l'avrebbe visto scendere in serie B, travolto dallo scandalo del calcio-scommesse.
Il sesto, consecutivo sigillo inglese sulla Coppa dei Campioni, dopo la staffetta Liverpool-Nottingham Forest, fu apposto nel 1982 da un club tanto glorioso quanto da tempo emarginato dai vertici delle classifiche. La prima Coppa dell'Aston Villa risaliva al 1887 e l'anno seguente fu uno dei dodici club che diedero vita alla Football league. Fu anche la prima squadra a varcare la fatidica quota dei 5000 gol in Campionato. Ma questi trofei appartenevano ormai a un lontano passato. Nel 1970 l'Aston Villa, travolto dai debiti, era addirittura sceso in terza divisione. Fu il tecnico Ron Saunders a riportarlo in quota e, nel 1981, a guidarlo addirittura al titolo inglese, grazie a un forte collettivo nel quale spiccavano Withe, Gary Shaw, Cowans (che ebbe poi un ingaggio in Italia, nel Bari), Morley e Mortimer. Iscritto, senza troppe ambizioni, alla Coppa dei Campioni, l'Aston Villa superò i primi due turni, ma si trovò all'improvviso senza guida tecnica, per le dimissioni di Saunders. La squadra fu provvisoriamente affidata a Tony Barton, uno degli osservatori, con un contratto a termine. Nei quarti di finale la Dinamo Kiev sembrava insuperabile, ma l'Aston Villa vinse per 2-0 il match interno, al Villa Park di Birmingham, e a Kiev costrinse gli avversari allo 0-0. Un copione simile fu seguito in semifinale contro l'Anderlecht: 1-0, con molti brividi, a Birmingham, e 0-0 a Bruxelles. Gli inglesi, che erano stati forse i censori più severi del catenaccio italiano, avevano imparato bene la lezione. Il loro gioco era diventato speculativo ed essenziale. L'Anderlecht, che aveva eliminato Juventus e Stella Rossa, giocò meglio, ma non trovò mai varchi. L'Aston Villa si era guadagnata la finale di Rotterdam, subendo soltanto due gol (entrambi dalla Dinamo Berlino, al secondo turno) in otto partite. A Rotterdam era arrivato anche il Bayern Monaco, più volte vincitore del trofeo, che in semifinale era riuscito a recuperare l'1-4 di Sofia, battendo il CSKA per 4-0 nella partita di ritorno. Forte di Breitner e Rummenigge, il Bayern tenne l'iniziativa del gioco, ma non riuscì a far breccia nel muro difensivo inglese. A 20 minuti dalla fine, Peter Withe in contropiede segnò il gol della vittoria: era la quinta finale consecutiva che un club inglese si aggiudicava con il punteggio di 1-0.
Battuto dal Nottingham Forest nella finale del 1980, quando era nettamente favorito, l'Amburgo si prese la rivincita imponendosi, da outsider, alla Juventus di Trapattoni nell'ultimo atto dell'edizione 1982-83. La finale di Atene costituì indubbiamente una sorpresa rispetto alle 27 Coppe dei Campioni disputate sino allora. La Juventus allineava infatti sei vincitori dei Mondiali spagnoli del 1982 (Zoff, Gentile, Cabrini, Scirea, Tardelli, Paolo Rossi), oltre a Bettega, cui il titolo iridato era stato sottratto da un infortunio, a Boniek e a Platini, le stelle di Polonia e Francia, terza e quarta classificata nello stesso Campionato del Mondo: uno degli organici più forti di tutti i tempi. Superate Hvidovre e Standard Liegi nei primi due turni, la Juventus aveva eliminato nei quarti l'Aston Villa, il campione in carica, vincendo a Birmingham e a Torino, con un complessivo 5-2. In semifinale aveva liquidato il Widzew Lodz, l'ex squadra di Boniek. Alla finale di Atene, la Juventus, seguita da una massa imponente di sostenitori, arrivava senza sconfitte.
L'Amburgo, che schierava ancora Kaltz, Magath, Hrubesch, ma non aveva più Keegan (rientrato in Inghilterra), dopo aver eliminato Dinamo Berlino, Olympiakos e Dinamo Kiev, era stato duramente impegnato in semifinale dalla Real Sociedad, di cui era venuto a capo con un complessivo 3-2. Il suo vero punto di forza era l'allenatore: il pluridecorato Ernst Happel, che aveva raccolto successi ovunque ed era uno specialista in trappole tattiche. Ma neppure il tecnico austriaco sembrava in grado di rovesciare un rapporto di forze chiaramente sproporzionato. Invece, una Juventus troppo sicura di sé non riuscì mai a guidare la partita. Sorpresa dopo appena nove minuti da un tiro a rientrare di Magath, che aveva ingannato Zoff, la squadra cercò invano di sviluppare il suo potenziale offensivo. Senza mai chiudersi, l'Amburgo gestì magistralmente il vantaggio. Rolff, deputato da Happel al controllo di Platini, eseguì il suo compito alla perfezione. Milewski e Bastrup, che in teoria avrebbero dovuto affiancare Hrubesch in attacco, furono estremamente efficienti in fase di interdizione. Fu una vittoria della tattica, quasi una nemesi per la scuola italiana, sconfitta con le sue stesse armi.
Il 29 maggio 1985, allo stadio Heysel di Bruxelles, la Juventus concluse la sua lunga corsa verso la Coppa dei Campioni, l'unico torneo che sino a quel momento era sfuggito allo straordinario albo d'oro della squadra torinese. Eppure, in una serata dominata dall'orrore, nessuno poté gioire per la conquista.
Alla finale con il Liverpool, campione in carica, la Juventus era arrivata eliminando, in successione, Ilves Tampere, Grasshoppers, Sparta Praga, Bordeaux in semifinale. Con i francesi, la squadra italiana aveva rischiato molto: dopo una netta vittoria per 3-0 nel turno interno, in trasferta aveva subito la furia del Bordeaux, fermatosi a un soffio dalla clamorosa rimonta. L'Europa concedeva così alla squadra di Trapattoni un'altra chance, dopo quella sprecata, due anni prima, ad Atene contro l'Amburgo. Nel gennaio precedente, a Torino, la Juventus aveva già battuto gli inglesi del Liverpool in una partita che metteva in palio la Supercoppa Europea e che, giocata su un campo coperto di neve, in condizioni proibitive, era stata decisa da due gol di Zibì Boniek, il fuoriclasse polacco in odore di divorzio (a fine stagione avrebbe lasciato la Juventus per la Roma). La rivincita con il Liverpool era molto attesa. La Juventus aveva concentrato tutta la sua stagione sugli obiettivi europei, trascurando il Campionato, che avrebbe concluso con un deludente quinto posto, il peggior piazzamento del primo decennio di Trapattoni allenatore.
Il Liverpool aveva eliminato nei sedicesimi il Lech Poznan, con un complessivo 5-0, poi si era imposto al Benfica negli ottavi e all'Austria Vienna nei quarti. In semifinale, mentre la Juventus soffriva con il Bordeaux, gli inglesi si erano sbarazzati del Panathinaikos, vincendo 4-0 in casa e 1-0 in Grecia. Nel corso del torneo, su otto partite, il Liverpool ne aveva vinte sei, pareggiata una, persa una (ininfluente, a Lisbona).
A Bruxelles la Juventus era stata seguita dalla solita folla dei suoi sostenitori, provenienti da ogni parte d'Italia e d'Europa: famiglie intere, arrivate per assistere a una festa di sport, non certo attrezzate per una battaglia.
Lo zoccolo duro dei supporter inglesi era invece costituito dai famigerati hooligans, orde finalizzate alla distruzione e alla violenza, in cerca dello scontro fisico con i tifosi avversari e con le forze dell'ordine, già resesi tristemente celebri in ogni trasferta fuori dai confini.
Nonostante questo, gli organizzatori belgi si fecero trovare clamorosamente impreparati. Non conoscendo, o sottovalutando il fenomeno, cedettero all'avidità di vendere i biglietti rimasti, senza rispettare la rigida suddivisione fra le due tifoserie. Alle 19.20, un'ora e dieci minuti prima dell'inizio della partita, i gruppi d'assalto degli hooligans sfondarono la doppia recinzione metallica, in verità un ben fragile scudo, nel settore Z dello stadio, e aggredirono gli spettatori italiani sistemati in quella gradinata. Travolti, calpestati, terrorizzati, molti cercarono la salvezza lanciandosi dall'alto, mentre altri vennero schiacciati contro le reti e i muri di recinzione. I pochi poliziotti di guardia furono presto costretti alla fuga, mentre gli agenti a cavallo erano bloccati sul campo e impossibilitati a intervenire sugli spalti. Le vittime furono 39, mentre le squadre, del tutto ignare dell'entità del disastro, completavano negli spogliatoi la fase di riscaldamento. La decisione logica sarebbe stata quella di non far disputare la partita, ma motivi di ordine pubblico consigliarono una soluzione diversa: la situazione avrebbe potuto degenerare e diventare del tutto incontrollabile, se le migliaia di inglesi e di italiani si fossero ritrovate a contatto nel centro della città.
In campo le due squadre giocarono praticamente per onor di firma. Dopo un primo tempo a reti inviolate, al dodicesimo minuto della ripresa l'arbitro svizzero Daina concesse alla Juventus un calcio di rigore assai dubbio (Boniek era stato fermato in modo falloso, ma fuori area). Platini trasformò il tiro dal dischetto e l'1-0 regalò alla Juventus il trofeo meno festeggiato.
In seguito al clamore e all'indignazione suscitati dalla tragedia dell'Heysel (e di fronte alla pratica impossibilità di fronteggiare il tifo violento degli hooligans), i club inglesi, prevenendo le sanzioni dell'UEFA, si autoesclusero dalle Coppe europee, in cui avevano recitato sino allora un ruolo di assoluti protagonisti.
Il Liverpool fu colpito da un supplemento di pena: sarebbe rientrato in lizza soltanto tre anni dopo la riammissione delle altre formazioni inglesi (l'UEFA poi lo riammise con un solo anno di ritardo). Alla Juventus, ritenuta parzialmente corresponsabile, fu inflitta la sanzione di due partite da giocare a porte chiuse nella successiva edizione.
L'assenza delle formazioni inglesi, che avevano vinto ben sette delle ultime nove edizioni della Coppa dei Campioni, contribuì a favorire il cammino di squadre che fino ad allora non avevano mai conquistato il trofeo. Si aprì infatti nell'albo d'oro del torneo un piccolo ciclo di 'matricole'. A inaugurare la serie, nel 1986, furono i romeni della Steaua (Stella) Bucarest, la prima squadra dell'Europa dell'Est riuscita a salire sul trono continentale dei club.
L'Italia partecipava con due squadre, la Juventus campione in carica e il Verona, che a sorpresa si era aggiudicato il titolo nazionale. Scavalcato l'ostacolo iniziale in bello stile (in particolare il debuttante Verona, capace di battere in casa e fuori gli ostici greci del Paok Salonicco), le due italiane furono costrette dal sorteggio allo scontro diretto. In seguito ai tragici fatti di Bruxelles, la Juventus era stata condannata a disputare le prime due partite interne a porte chiuse. Dopo il pareggio a reti inviolate di Verona, quindi, il ritorno si giocò nello stadio di Torino senza pubblico. Fu una partita molto polemica, decisa dall'arbitraggio decisamente inadeguato del francese Robert Wurtz. Il Verona uscì dalla Coppa fra accese proteste, mentre la Juventus vedeva confermato il suo ruolo di favorita, che riceveva ulteriore legittimazione dal successo ottenuto a Tokyo nella Coppa Intercontinentale, l'unico trofeo ancora assente nella ricca bacheca torinese. I bianconeri caddero invece nei quarti di finale contro il Barcellona, anche con molta sfortuna. Superata 1-0 al Camp Nou, la formazione italiana dominò il match di ritorno, ma non andò oltre l'1-1. La partenza di Trapattoni era già annunciata, dopo dieci anni di grandi successi. Per la Juventus si profilava la fine di un ciclo irripetibile.
La Steaua, forte di buone individualità quali Lacatus, Belodedici, Balint, Boloni, e soprattutto di un portiere formidabile, Ducadam, si affermò in semifinale sull'Anderlecht, mentre il Barcellona vinse ai calci di rigore un'appassionante sfida con il Göteborg (entrambe le squadre si erano aggiudicate con il medesimo punteggio di 3-0 l'impegno interno). Nella finale era nettamente favorito il Barcellona, tanto più che la gara si disputava in Spagna, a Siviglia. I romeni, fidando nelle doti del loro portiere, badarono soltanto a difendersi e conservarono lo 0-0 sino alla fine dei tempi supplementari. Il calcolo si rivelò esatto. Ducadam realizzò l'impresa di parare tutti i tiri dal dischetto, mentre Lacatus e Boloni centrarono la porta di Urruti. Dopo 30 edizioni, la Coppa dei Campioni d'Europa prendeva la strada dell'Est.
Nella stagione seguente, toccò al Porto rinverdire gli ormai lontani allori del Benfica, riportando dopo venticinque anni la Coppa dei Campioni in Portogallo. Per l'Italia era in lizza ancora una volta la Juventus; passata sotto la guida tecnica di Rino Marchesi, la squadra torinese si arrese al Real Madrid nel secondo turno, dopo due partite molto equilibrate, decise dai calci di rigore. Il Real proseguì la sua corsa, superando nei quarti la Stella Rossa, ma fermandosi contro il fortissimo Bayern Monaco in semifinale. I tedeschi erano guidati dal grande Udo Lattek, l'uomo dei primi trionfi bavaresi in Europa, rientrato in patria dopo molteplici esperienze, e contavano su autentici campioni quali Brehme, Matthäus, il portiere Pfaff. Erano i favoriti per il titolo, tanto più che la rivale designata, la Dinamo di Kiev, era stata eliminata in semifinale dagli outsider del Porto. Nella finale giocata a Vienna, il Bayern poté godere del massiccio favore del pubblico. Il gol di Kogl, che chiuse il primo tempo a favore dei tedeschi, parve una solida ipoteca, ma nella ripresa si scatenarono l'estro e la fantasia dei portoghesi, con Futre, Sousa e l'algerino Madjer in grande evidenza. Il tecnico Arthur Jorge, un abile stratega, indovinò tutte le mosse, compreso l'inserimento a partita inoltrata di Juary, un brasiliano scartato dal calcio italiano. In tre minuti, dal 77′ all'80′, la situazione si capovolse: assist di Juary, gol di Madjer, che onorò il suo soprannome (il 'tacco di Allah') realizzando appunto di tacco uno dei gol più spettacolari della Coppa dei Campioni; poi, a ruoli scambiati, assist di Madjer e gol-vittoria di Juary. Il Bayern era definitivamente battuto.
L'anno seguente il PSV Eindhoven riportò in auge il calcio olandese, dopo i lontani successi del Feyenoord (1970) e dell'Ajax (1971-1973), costituendo il terzo caso consecutivo di vittoria, in Coppa dei Campioni, di una squadra mai affermatasi in precedenza. Per l'Italia era in lizza il Napoli di Maradona, che (complice un sorteggio sfavorevole) ebbe vita brevissima, eliminato al primo turno dal Real Madrid. Il Real, sullo slancio, negli ottavi di finale si sbarazzò del Porto e nei quarti liquidò il Bayern, cancellando così in sequenza le due finaliste della precedente edizione. Il PSV arrivò al titolo senza vincere neppure una partita, fra quarti, semifinale e finale, grazie a due pareggi con il Bordeaux e due pareggi con il Real, sempre sfruttando la regola del gol esterno (1-1 in trasferta e 0-0 in casa). Anche nell'atto conclusivo contro il Benfica (alla sua sesta finale, di cui solo le prime due vittoriose) il PSV chiuse sullo 0-0 i tempi regolamentari e supplementari, per imporsi poi ai calci di rigore. Sinonimo in passato di calcio-spettacolo, la scuola olandese offrì nella circostanza una versione utilitaristica, con forte caratterizzazione della fase difensiva.
Assenti per il quarto e quinto anno consecutivo le formazioni inglesi, i contenuti tecnici della Coppa dei Campioni, decisamente impoveriti nelle ultime edizioni, tornarono ai massimi livelli grazie a una delle squadre più forti di tutti i tempi: il Milan di Arrigo Sacchi, che si impose nel 1989 e nel 1990 e che, come a suo tempo aveva fatto l'Inter di Herrera, riuscì ad abbinare al doppio primato europeo anche quello intercontinentale.
Nel 1988 la vittoria degli olandesi del PSV aveva deluso i nostalgici del gioco totale dell'Ajax; l'anno seguente, proprio tre assi olandesi, Ruud Gullit, Frank Rijkaard e Marco Van Basten, nel Milan, fecero rivivere i tempi esaltanti di Cruijff, Neeskens e Krol. Il nuovo Milan era nato dall'incontro fra un presidente dalla spiccata mentalità imprenditoriale, Silvio Berlusconi, e un tecnico senza un grande background, Arrigo Sacchi, animato però da spirito innovativo e deciso a rivoluzionare le tradizioni tattiche del calcio italiano. Il suo modello era appunto l'Olanda degli anni Settanta: zona integrale, pressing a tutto campo, fuorigioco sistematico, squadra corta e costante iniziativa di gioco. Sacchi riuscì a trasferire questa impostazione nel Milan, anche (o soprattutto) perché gli venne messa a disposizione una schiera di veri campioni. A parte i tre fuoriclasse olandesi, la squadra si giovava infatti di un forte gruppo italiano, specie in difesa, dove i terzini esterni Tassotti e Maldini e la coppia centrale Costacurta-Franco Baresi costituivano una linea quasi insuperabile, davanti al portiere Galli. A centrocampo agiva un'altra linea di quattro giocatori, scelti secondo i casi tra Ancelotti, Colombo, Donadoni, Evani e Rijkaard. In avanti Gullit e Van Basten abbinavano tecnica sopraffina e devastante potenza atletica. Filippo Galli e Virdis erano eccellenti alternative per difesa e attacco. Era una macchina quasi perfetta, che nobilitava lo schema classico 4-4-2 con un'interpretazione mai avara, magari dispendiosa ma spettacolare nella sua costante aggressione dell'avversario.
Il Milan aveva già vinto due volte la Coppa dei Campioni, ma erano passati vent'anni dall'ultimo successo, ottenuto proprio contro gli olandesi dell'Ajax nel 1969. Il suo cammino verso la finale di Barcellona risultò molto faticoso e, per certi versi, anche fortunato. Solo con i calci di rigore, negli ottavi di finale, venne a capo della Stella Rossa, dopo ben tre partite, una delle quali sospesa per nebbia, con gli iugoslavi in vantaggio e i rossoneri in inferiorità numerica. Nei quarti, il Werder Brema oppose strenua resistenza e fu domato solo a un quarto d'ora dalla fine della partita di ritorno a San Siro, grazie a un rigore calciato da Van Basten.
Da quel momento, il Milan divenne irresistibile. Nella semifinale con il Real Madrid giocò un'ottima gara, pareggiata per 1-1 al Santiago Bernabéu e stravinta per 5-0 a San Siro, quando al Real, letteralmente annichilito, fu inflitta una delle più mortificanti sconfitte della sua storia gloriosa. Sicuri del successo, i tifosi milanisti emigrarono in massa verso Barcellona, dove ad attendere la loro squadra era la Steaua di Bucarest, la vincitrice di tre anni prima. I romeni non disponevano più del grande portiere Ducadam, in compenso si era affacciato alla ribalta un giovane fuoriclasse, Gheorghe Hagi, detto 'il Maradona dei Carpazi'. La Steaua aveva avuto un percorso più agevole: nei quarti il Göteborg e in semifinale gli emergenti turchi del Galatasaray, eliminati con relativa facilità. I moltissimi sostenitori del Milan contribuirono a riempire il maestoso stadio catalano, per una finale che fruttò 3 miliardi di incasso. Aggredita dal gioco avvolgente del Milan, la Steaua subì passivamente, quasi senza reagire, la pressione avversaria. Tre gol nel primo tempo, due di Gullit e uno di Van Basten, chiusero subito la partita. In apertura di ripresa, Van Basten segnò il gol del 4-0 e il Milan si placò. Marco Van Basten con nove gol fu il capocannoniere del torneo. La critica internazionale, per una volta, fu concorde nel definire il Milan la squadra più forte del mondo.
L'anno seguente, entrambe le formazioni milanesi parteciparono alla Coppa dei Campioni. L'Inter guidata da Trapattoni si era infatti aggiudicata il titolo italiano, vincendo il Campionato con un punteggio record. La sua avventura europea fu però di brevissima durata e fece sfumare il confronto, atteso da molti, fra il gioco avveniristico di Sacchi e quello tradizionale dell'allenatore neroazzurro. L'Inter cadde infatti al primo turno, a opera del Malmö, che fece fruttare l'1-0 interno pareggiando al ritorno a San Siro.
Il Milan, dopo aver superato l'HJK Helsinki, negli ottavi ritrovò il Real Madrid, ansioso di rivincita. A Milano dopo neppure un quarto d'ora la squadra di Sacchi era già in vantaggio di due gol e qualcuno pensò a una possibile replica del 5-0 della precedente stagione; ma il Milan non insistette e a Madrid corse i suoi rischi, quando Butragueño violò la porta di Galli. Contenendo la sconfitta sull'1-0, si assicurò comunque un faticoso passaggio di turno. Non era il Milan dilagante della precedente edizione, anche per l'assenza di Gullit, fermato da un grave incidente: lo si vide nei quarti, contro i belgi del Mechelen. Gli incontri finirono 0-0 all'andata, a Bruxelles, 0-0 al ritorno, a San Siro, dove soltanto nei tempi supplementari i gol di Van Basten e Simone piegarono la massiccia difesa disposta dagli avversari davanti al loro eccellente portiere Preud'homme.
Le semifinali opposero il Milan al Bayern Monaco e l'Olympique Marsiglia al Benfica. Con uno svolgimento speculare, tutte le squadre vinsero la partita in casa e persero in trasferta. Furono quindi decisivi i gol esterni, a favore di Milan e Benfica. Superato il Bayern a San Siro con un rigore di Van Basten, il Milan a Monaco era stato costretto ai supplementari, dove un provvidenziale gol della riserva Borgonovo gli consentì la sconfitta per 1-2, sufficiente per il passaggio in finale.
A Vienna l'avversario fu il Benfica allenato da Sven Goran Eriksson, che al centro della difesa presentava il brasiliano Aldair. Per l'occasione, il Milan ricuperò Ruud Gullit, peraltro in condizioni non ottimali di forma. Fu una partita non ricchissima di emozioni, dominata dalle difese, decisa a 20 minuti dalla fine da un gol di Rijkaard. Il Milan di Sacchi completava il suo miniciclo, ma il secondo alloro era stato decisamente meno esaltante del primo.
L'edizione della Coppa dei Campioni 1990-91 vide il primo successo di una squadra iugoslava, la Stella Rossa di Belgrado, ma ciò che destò particolare scalpore fu soprattutto l'eliminazione delle rappresentanti italiane. Oltre al Milan, per due volte campione in carica e nettamente il maggior favorito della vigilia, partecipava anche il Napoli di Maradona. L'avvio fu molto lusinghiero per le squadre italiane: il Napoli travolse l'Ujpest Dosza con un complessivo 5-0, mentre il Milan, esentato dal primo turno, debuttò negli ottavi di finale contro l'ostico Bruges e, bloccato sullo 0-0 in casa, si rifece andando a vincere in Belgio, nonostante l'espulsione di Van Basten. Subito dopo, però, cominciarono i problemi. Il Napoli, abbinato allo Spartak Mosca, non riuscì al San Paolo a venire a capo della squadra russa, munita di una difesa assai valida, e in occasione della partita di ritorno scoppiò il 'caso Maradona': il giocatore, infatti, aveva rifiutato di unirsi alla squadra in partenza per Mosca e solo poche ore prima del fischio d'inizio raggiunse i compagni con un volo privato. L'allenatore Bigon lo tenne inizialmente in panchina, per schierarlo nella ripresa. Di lì a poco sarebbe venuta a galla la triste verità: Maradona era ormai prigioniero della droga. In ogni caso il Napoli esercitò uno sterile dominio, colpendo anche un palo, ma dovette adeguarsi a un altro 0-0. La decisione fu affidata ai calci di rigore, che furono tutti messi a segno dallo Spartak, mentre nel Napoli sbagliò Baroni.
Il Milan, che dovette incontrare l'emergente Olympique Marsiglia, nella prima partita giocata a San Siro su un campo quasi impraticabile, senza Van Basten, squalificato dopo Bruges, e Franco Baresi infortunato, passò in vantaggio con Gullit, ma fu poi raggiunto da un gol di Papin, futuro acquisto milanista. Tutto era rinviato al match di ritorno a Marsiglia: qui, a un quarto d'ora dalla fine, dopo un gol dei francesi con Waddle, il Milan, ancora privo di Van Basten, si lanciò in un pressante assalto. Poi arrivò il colpo di scena: a tre minuti dal termine si spensero i riflettori, lo stadio piombò nel buio; dopo poco una parte dei fari si riaccese e l'arbitro svedese Karlsson ordinò di riprendere il gioco. Il Milan si rifiutò di tornare in campo, giudicando la situazione irregolare, e di conseguenza fu eliminato e squalificato per un anno dalle Coppe europee.
Il Marsiglia superò lo Spartak Mosca (che dopo il Napoli aveva eliminato anche il Real Madrid) e arrivò in finale, trovandovi la Stella Rossa, che si era fatta strada a spese di Grasshoppers, Rangers Glasgow, Dinamo Dresda e Bayern Monaco in semifinale. L'ultimo atto, giocato a Bari, viene ricordato come una delle finali più noiose dell'intera storia della Coppa. Per la quarta volta negli ultimi otto anni, il risultato fu deciso dai calci di rigore. Gli slavi vinsero realizzandoli tutti. Avevano grandi campioni, Savicevic, Jugovic, Mihajlovic, Prosinecki, Belodedici, ma nell'occasione si limitarono a conservare lo 0-0 per 120 minuti, contando proprio sulla loro superiore abilità nei tiri dal dischetto.
L'anno seguente, la Sampdoria, alla sua prima presenza nella Coppa dei Campioni (che nel frattempo si era mutata in Champions League), arrivò sino in finale, ma dovette arrendersi al Barcellona e al suo goleador 'Rambo' Koeman. La Sampdoria, allenata da Boskov, aveva iniziato molto bene la sua avventura europea, surclassando il Rosenborg, e negli ottavi era venuta a capo della Honvéd, ribaltando a Genova la sconfitta di misura incassata a Budapest. Nel frattempo erano usciti di scena l'Olympique Marsiglia, finalista dell'edizione precedente, e l'Arsenal, la prima squadra inglese a riaffacciarsi in questa competizione, dopo i sei anni di interdizione che erano seguiti alla tragedia dell'Heysel. Secondo la nuova formula introdotta dall'UEFA, le otto superstiti furono suddivise in due gironi di quattro: le due prime classificate si sarebbero disputate la Coppa. La Sampdoria capitò con la Stella Rossa, l'Anderlecht e il Panathinaikos. La Stella Rossa, nonostante fosse costretta, a causa della guerra civile in Iugoslavia, a giocare all'estero anche le partite interne, si rivelò l'avversaria più pericolosa. Nel match decisivo giocato a Budapest, gli slavi passarono in vantaggio con Mihajlovic, ma furono poi travolti dalla reazione dei genovesi, guidata dalla forte coppia d'attacco Vialli-Mancini. Nell'altro raggruppamento, il Barcellona allenato da Johan Cruijff dominò con un gioco spettacolare, che aveva in Koeman, Laudrup, Bakero e Stoichov i suoi punti di forza.
La finale si giocò a Londra, il 20 maggio 1992, davanti a 80.000 spettatori (40.000 arrivati da Genova). Il Barcellona, tre anni prima, aveva già battuto la Sampdoria nella finale di Coppa delle Coppe. Stranamente, per due squadre votate all'attacco, i 90 minuti si chiusero sullo 0-0. Nella Sampdoria c'erano molte tensioni, Boskov sapeva già che non sarebbe stato confermato ed era stata decisa anche la cessione di Vialli alla Juventus. Proprio Vialli fallì tre buone opportunità da rete e nei supplementari un calcio di punizione da fuori area consentì a Koeman di battere Pagliuca. Il Barcellona conquistò così l'unica Coppa che mancava alla sua collezione.
Nel 1993 scoccò l'ora della Francia, il paese che aveva inventato la Coppa dei Campioni e che mai, sino ad allora, aveva avuto la soddisfazione di vedere una propria squadra salire sul gradino più alto. Toccò all'Olympique Marsiglia colmare la lacuna, in una finale che l'oppose ancora al Milan, dopo che l'ultimo tempestoso incontro si era concluso con il ritiro dal campo dei rossoneri e la loro squalifica. Il Milan, chiusa l'era Sacchi, era passato sotto la guida di Fabio Capello e si era rinforzato con acquisti importanti: Savicevic, Papin (l'ex goleador del Marsiglia), Boban, Lentini. Il Milan partì alla grande (7-0 all'Olimpia Lubiana e 5-0 allo Slovan Bratislava) e proseguì senza un cedimento. Nel suo girone, opposto a Göteborg, Porto e PSV Eindhoven, vinse tutte le sei partite (memorabile il successo in Olanda, contro il fuoriclasse Romario), chiudendo a punteggio pieno, con undici gol segnati e uno solo al passivo. Alle frequenti assenze di Van Basten rimediavano Simone e Massaro. Il Marsiglia, per vincere il proprio girone, dovette invece dar fondo a tutte le risorse, precedendo di un solo punto i Rangers di Glasgow.
Nella finalissima di Monaco, l'esito appariva scontato ma il Milan, dopo un cammino tanto travolgente, cadde proprio nella partita più importante, l'ultima. Si presentò in piena emergenza, con Van Basten fresco di operazione alla caviglia, Gullit, Savicevic, Simone e Boban fuori causa, Papin in panchina. Passato in svantaggio nel finale del primo tempo per un colpo di testa del difensore Boli, non trovò le forze per rimontare, pur tenendo l'iniziativa del gioco. Il Marsiglia di Barthez, Desailly, Deschamps, Völler e Boksic fu un vincitore a sorpresa, ma non certo indegno.
Il Milan di Fabio Capello continuava a dominare la scena italiana, ma sembrava incapace di eguagliare quello di Sacchi in campo internazionale. Dopo la finale europea perduta, da favorito, contro il Marsiglia nel 1993, a dicembre aveva fallito nella Coppa Intercontinentale a Tokyo, di fronte ai non irresistibili brasiliani del San Paolo. Il Milan, in quell'occasione, aveva preso il posto proprio del Marsiglia, colpito da una pesante squalifica, e nonostante godesse dell'unanimità dei pronostici si era fatto battere per 3-2 dalla rappresentante sudamericana. Così, quando alla fine della stagione si ritrovò di nuovo all'atto conclusivo della Champions League, non tutti gli concedevano credito, tanto più che l'avversario era l'apparentemente imbattibile Barcellona di Johan Cruijff. Fu proprio in quell'occasione, invece, che la squadra rossonera, pur menomata dalle forzate defezioni di due uomini-chiave, offrì il meglio di sé, con una netta dimostrazione di potenza offensiva. Fu il quinto sigillo europeo nella storia del Milan, il primo di Capello dopo le doppiette di Rocco e Sacchi.
Van Basten aveva dovuto ritirarsi dopo un lungo calvario, Gullit era passato alla Sampdoria e Rijkaard era tornato in patria, al suo Ajax. Chiusa l'epopea degli olandesi, il Milan si affidava in attacco agli ultimi slanci di Papin e agli italiani Simone e Massaro, mentre Boban e Savicevic garantivano talento alla manovra. La formula era stata nuovamente ritoccata. Dopo i primi due turni a eliminazione diretta (che il Milan aveva superato con qualche difficoltà contro l'Aarau e più agevolmente contro i danesi del Kobenhavn), erano previsti ancora i due gironi, ma con semifinali incrociate per designare le due finaliste. Il Milan capitò con Porto, Werder Brema e Anderlecht, una compagnia impegnativa, però non impossibile. Un doppio 0-0 con i belgi dell'Anderlecht, una vittoria e un pareggio contro tedeschi e portoghesi garantirono il primo posto del raggruppamento, con un punto di vantaggio sul Porto.
Nell'altro girone, il Barcellona aveva sbaragliato le squadre avversarie, lasciando a tre punti di distacco il Monaco francese e ancora più lontane Spartak Mosca e Galatasaray. Le finaliste sarebbero dunque scaturite dagli accoppiamenti Barcellona-Porto e Milan-Monaco, in partita unica, da giocarsi sul campo della squadra meglio classificata.
Furono semifinali senza storia, vinte entrambe dalla formazione di casa con il punteggio di 3-0. Per il Milan, privo di cannonieri, il primo gol era stato segnato da Marcel Desailly, acquistato come difensore dal Marsiglia e trasformato da Capello in prezioso uomo di centrocampo. Neppure l'espulsione di Costacurta aveva fermato i rossoneri, che avevano anzi incrementato il punteggio con Albertini e Massaro. Il pedaggio era stato comunque alto: oltre a Costacurta, il Milan perdeva per squalifica anche Franco Baresi, ammonito nel corso della gara. Si vedeva così costretto a giocare la finale senza entrambi i difensori centrali titolari, proprio contro un Barcellona che nella semifinale contro il Porto aveva confermato la sua pericolosità in attacco, dove le punte di diamante erano il fuoriclasse brasiliano Romario e il bulgaro Stoichov.
Ad Atene, il 18 maggio 1994, il Milan non godeva dei favori del pronostico. Cruijff, sempre polemico con il calcio italiano da lui considerato inguaribilmente difensivo, prometteva gol a ripetizione. Capello, in emergenza in difesa, schierò come centrali, davanti al portiere, Rossi, Filippo Galli e il terzino Maldini, tenendo sui lati Tassotti e Panucci. Desailly era il centrocampista arretrato, con il compito di proteggere una difesa improvvisata. Donadoni, Albertini e Boban completavano la linea di metà campo, con Savicevic in posizione di trequartista e Massaro unico riferimento fisso in avanti: formazione priva di una punta centrale di ruolo, ma che, per uno dei paradossi frequenti nel calcio, si rivelò invece dotata di grande capacità di andare in gol. Subito il Barcellona si lanciò impetuosamente in attacco, scoprendo però grandi vuoti nelle retrovie, dove il regista difensivo, Koeman, molto dotato ma lento nello scatto, non aveva possibilità di recupero. Una doppietta di Massaro chiuse il primo tempo sul 2-0 per il Milan, mentre Romario e Stoichov venivano neutralizzati dalla perfetta organizzazione difensiva approntata da Capello. A Cruijff l'allenatore italiano impartì una grande lezione di tattica. Nella ripresa, Savicevic, con un gol di puro talento, e Desailly completarono l'opera: il Milan batteva nettamente un Barcellona che mai si era reso davvero pericoloso.
La formula dell'edizione 1994-95, forse più complicata nella teoria che nella pratica, prevedeva l'ammissione al torneo del Milan, detentore del trofeo, e delle 23 squadre campioni nazionali meglio piazzate secondo l'indice UEFA: le prime sette (più il Milan) accedevano direttamente alla fase successiva, mentre le altre dovevano disputare un turno preliminare a eliminazione diretta e lasciare in lizza solo otto concorrenti; le 16 squadre così selezionate venivano poi suddivise in quattro gironi all'italiana, le cui prime due classificate guadagnavano i quarti di finale del torneo, che da quel punto in poi era a eliminazione diretta.
La corsa al titolo europeo vedeva il Milan alle prese con un raggruppamento in apparenza agevole, che aveva nell'Ajax il solo avversario di spicco. Completavano il gruppo AEK Atene e Austria Salisburgo, che parevano facili prede per le due favorite. Il Milan debuttò ad Amsterdam, con una netta sconfitta da parte dell'Ajax, che il tecnico Luis Van Gaal stava riportando all'altezza degli anni d'oro. Con una grande attenzione al proprio vivaio, l'Ajax riusciva a costruire in casa gran parte dei campioni, che poi lanciava sulla ribalta internazionale: un modello da tutti invidiato, che l'imminente sentenza Bosman, sancendo la libera circolazione dei calciatori (soggetti quindi alle lusinghe del miglior acquirente) avrebbe in pratica smantellato. Sul piano tattico, Van Gaal giocava un calcio molto offensivo, con due ali, Finidi George e Overmars, un centravanti, Kluivert, e un interno di punta, Litmanen. A garantire gli equilibri provvedeva il grande dinamismo di Davids a centrocampo, mentre una vecchia gloria del Milan, Frank Rijkaard, offriva ancora un prezioso contributo di classe e di esperienza.
Il vero rischio di una precoce eliminazione il Milan lo corse al turno successivo, quando ospitò al Giuseppe Meazza il Salisburgo. La vittoria fu netta, però il portiere austriaco Konrad fu costretto a lasciare il campo, colpito da una bottiglia lanciata dagli spalti. L'UEFA tolse al Milan i due punti della vittoria, senza però assegnarli al Salisburgo. Così alla fine i rossoneri (nonostante un'altra sconfitta a opera dell'Ajax questa volta in casa) riuscirono a raggiungere gli austriaci al secondo posto della classifica. La vittoria a Salisburgo, con un gol di Massaro, valse poi il sofferto passaggio ai quarti di finale.
Qui, con Ajax e Milan, erano arrivati Göteborg e Barcellona, Paris Saint-Germain e Bayern Monaco, Benfica e Hajduk. Al Milan toccò il Benfica, battuto a San Siro da una doppietta di Simone e poi contenuto sullo 0-0 a Lisbona. L'Ajax scavalcò l'Haiduk in modo molto perentorio, il Bayern con i gol in trasferta eliminò il Göteborg, e il Paris Saint-Germain, trascinato dal centravanti George Weah, offrì la vera sorpresa mettendo fuori dal torneo il quotato Barcellona. Proprio i francesi furono gli avversari, in semifinale, del Milan, che con un gol di Boban al 91′ vinse a Parigi, mentre fu una doppietta di Dejan Savicevic a chiudere i conti a San Siro. Era un Milan in chiara fase di crescita, pronto per la rivincita con l'Ajax, che aveva a sua volta superato il Bayern per 5-2 ad Amsterdam, dopo lo 0-0 di Monaco.
La finale di Vienna sancì invece la terza vittoria stagionale degli olandesi sui rossoneri. Fu una partita a lungo equilibrata, in cui la tattica intelligente di Capello irretì la potenza offensiva dell'Ajax. A sei minuti dal termine, un'iniziativa di Rijkaard fu conclusa a rete da Patrick Kluivert, il giovane centravanti di Van Gaal, l'ultimo prodotto della sua fabbrica di talenti. Pareva l'avvio di un altro lungo ciclo per la squadra di Amsterdam, ma non fu così.
L'Ajax fu fermato da una squadra italiana, la Juventus, che tornava ad affacciarsi in Champions League dopo il prolungato monopolio del Milan. Era una Juventus rivoluzionata, sia sul piano societario sia su quello tecnico. Rivelatosi meno felice del previsto il ritorno di Boniperti e Trapattoni, le redini del club erano passate a Umberto Agnelli, già presidente tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Un allenatore emergente, Marcello Lippi, impostava la squadra su un coraggioso tridente offensivo, che non provocava squilibri tattici per la dedizione e il sacrificio di Vialli e Ravanelli, capaci di sdoppiarsi in un duro lavoro in attacco e in copertura. Appena vinto lo scudetto, quella Juventus cedette il suo campione più famoso e più amato, Roberto Baggio, avendo individuato nel giovane Del Piero il suo naturale erede. Attesa con molta curiosità alla ribalta europea, la Juventus vi debuttò clamorosamente, con una netta vittoria a Dortmund sul Borussia, la rivale più quotata del girone. L'assenza degli attaccanti titolari era compensata dal rendimento della coppia Padovano-Del Piero. Steaua e Glasgow Rangers furono le altre vittime dei bianconeri, che chiusero al primo posto, con chiaro margine sul Borussia. A Glasgow il 4-0 della Juventus coincise con una partita straordinaria di Del Piero, in quell'occasione gratificato da Gianni Agnelli con il soprannome di 'Pinturicchio'. Peraltro, ancora più perentorio risultò il cammino dell'Ajax, che inflisse sei punti di distacco al Real Madrid, mentre ai quarti di finale arrivavano anche Spartak Mosca, Legia Varsavia, Panathinaikos e Nantes. L'Ajax eliminò, con una doppia vittoria, i tedeschi del Borussia Dortmund, rafforzando il proprio ruolo di favorito; Panathinakos e Nantes ebbero la meglio su Legia e Spartak. Alla Juventus toccò affrontare il Real, che vinse il match di Madrid con un gol del suo giovane fuoriclasse Raul. Nella partita di ritorno a Torino, ancora Del Piero e Padovano firmarono la rimonta.
In semifinale, la Juventus sconfisse il Nantes in casa, con gol di Vialli e Jugovic, e poté consentirsi la sconfitta di misura (2-3) in Francia. Forse troppo sicuro di sé, l'Ajax fu battuto ad Amsterdam dai greci del Panathinaikos, ma poi ottenne una netta vittoria, per 3-0, ad Atene, conquistando la finale contro la Juventus in programma all'Olimpico di Roma.
Dopo 13 minuti di gioco segnò Ravanelli e al 41′ pareggiò Litmanen, capocannoniere del torneo. Il punteggio non cambiò più. Ai calci di rigore il portiere della Juventus, Peruzzi, parò due volte. Su quella inattesa sconfitta, si chiuse il sogno dell'Ajax di Van Gaal di rinnovare le gesta di Cruijff. Per la Juventus, formalmente, era il secondo trionfo europeo: in realtà il primo da festeggiare, visto che il precedente era legato alla tragedia dell'Heysel di undici anni prima. Sullo slancio, i bianconeri arrivarono alla finale della Coppa dei Campioni altre due volte consecutivamente, senza però far rivivere la notte magica di Roma.
Ceduti in omaggio alla politica societaria Vialli e Ravanelli, che passarono a club inglesi, la Juventus affrontò l'edizione 1996-97 con una nuova, poderosa coppia d'attacco, Christian Vieri affiancato dal croato Alen Boksic.
L'avvio fu fulmineo, caratterizzato da una netta supremazia nel proprio girone (cinque vittorie e un pareggio), mentre il Milan, seconda squadra italiana in lizza, non andava oltre il terzo posto del suo raggruppamento, alle spalle di Porto e Rosenborg, e veniva subito eliminato: cocente smacco per il tecnico Arrigo Sacchi, pluridecorato di questo torneo, che era subentrato all'uruguayano Tabarez proprio alla vigilia della partita decisiva, contro il Rosenborg, persa a San Siro.
Nei quarti di finale, la Juventus eliminò lo stesso Rosenborg, mentre il Borussia Dortmund venne a capo dell'Auxerre, il Manchester United batté largamente il Porto e l'Ajax con molti stenti scavalcò l'ostacolo dell'Atlético Madrid. Interpretata come una finale anticipata, la sfida fra Ajax e Juventus vide il completo dominio della squadra italiana, che si affermò 2-1 ad Amsterdam e 4-1 a Torino su un Ajax in fase calante, portando due volte al gol la coppia Vieri-Amoruso. Vincitrice anche della Coppa Intercontinentale, con una prodezza di Del Piero che aveva piegato il River Plate, la Juventus si sentiva legittimamente la squadra più forte del mondo. Fu accolta dai bianconeri come un colpo di fortuna la caduta in semifinale del temuto Manchester United, a opera del Borussia Dortmund, una squadra che schierava molti ex juventini ed era ritenuta poco pericolosa. Invece, nella finalissima giocata a Monaco di Baviera, i tedeschi colpirono nel primo tempo la distratta difesa bianconera con una folgorante doppietta di Riedle. Del Piero accorciò le distanze nella ripresa, ma Ricken fissò il 3-1 conclusivo. La Juventus recriminò su alcune controverse decisioni arbitrali, ma al di là degli episodi contestati pagò la sua prematura sicurezza di vittoria.
Ancora due squadre italiane scesero in lizza nell'anno seguente (la formula consentiva ora la partecipazione delle seconde classificate), ma il Parma, dopo aver superato il turno preliminare, non ebbe fortuna nel girone degli ottavi. La Juventus, che aveva sostituito Vieri con Inzaghi al centro dell'attacco, arrivò per la terza volta consecutiva in finale, pur con un cammino meno perentorio rispetto alla stagione precedente. Incontrò le maggiori difficoltà all'interno del proprio girone, dove fu sconfitta da Manchester United e Feyenoord. Nei quarti e in semifinale ebbe avversari non irresistibili, Dinamo Kiev e Monaco, mentre la finalissima, all'Amsterdam ArenA, la vide opposta al Real Madrid. Ancora una volta i pronostici erano dalla parte dei bianconeri, che schieravano in attacco la coppia Inzaghi-Del Piero, ispirata dal genio di Zidane, l'ultimo arrivo di grido nella formazione di Lippi. In una partita equilibrata, il colpo decisivo fu trovato a metà ripresa da Mijatovic, la punta del Real, sul filo del fuorigioco. La Juventus non ebbe la forza di rimontare. Il Real tornava sul trono d'Europa 22 anni dopo l'ultimo successo.
Dopo la lunga eclissi, il Real Madrid sembrava aver ritrovato un ruolo egemone nel calcio europeo. La sorprendente vittoria sulla Juventus fu replicata, due anni dopo, in una finale interamente spagnola contro il Valencia. In mezzo ai due trionfi del 1998 e del 2000 si collocò un altro ritorno, quello del Manchester United, che si segnalò per almeno tre motivi: fu il primo successo di una squadra non campione, nell'ambito di un torneo che andava progressivamente perdendo la sua originaria identità; si collocava a ben trentun'anni di distanza dal precedente alloro dell'United, che era stato firmato nel 1968 dai grandi Bobby Charlton e George Best; scaturì al termine di una partita incredibile, che gli inglesi stavano ancora perdendo nel finale e che rovesciarono nei minuti di recupero grazie a una rimonta sensazionale sui tedeschi del Bayern Monaco.
In quella edizione l'Italia era presente con Juventus e Inter, classificatesi ai primi due posti del Campionato 1997-98 dopo roventi polemiche. Entrambe le formazioni italiane furono eliminate a opera della squadra destinata a vincere il titolo europeo. L'Inter, superato il turno preliminare con lo Skonto Riga, aveva passato autorevolmente il girone degli ottavi, nonostante la caduta iniziale a Madrid, a cui però aveva posto rimedio a San Siro con una grande prova, specialmente da parte di Roberto Baggio, ma nei quarti la sconfitta a Manchester per 2-0 chiuse praticamente l'avventura, perché il match di ritorno a Milano si fermò sull'1-1. Negli stessi quarti la Juventus (uscita senza sconfitte da un girone con Rosenborg, Galatasaray e Athletic Bilbao) aveva eliminato con qualche brivido i greci dell'Olympiakos, difendendo il 2-1 di Torino con l'1-1 di Atene. Opposti al Manchester in semifinale, i bianconeri persero l'occasione di centrare la quarta finale consecutiva, sia pure dopo due sfide molto equilibrate, decise da un solo gol di scarto nel doppio confronto.
Tolta di mezzo la pericolosa concorrenza italiana, gli inglesi, nella finale di Barcellona, si trovarono di fronte il solido Bayern: più brillante la squadra di Ferguson, forte di grandi individualità quali Beckam, Giggs, il portiere danese Schmeichel; più quadrati i tedeschi, con una difesa bloccata attorno al veterano Lothar Matthäus. Un gol di Mario Basler in apertura consentì al Bayern di impostare la tattica preferita, copertura e contropiede. I tedeschi fallirono, per sfortuna e per errori di mira, numerose occasioni per incrementare il vantaggio. Nei minuti finali, il tecnico inglese Ferguson mandò in campo i due attaccanti di riserva Sheringham e Solskjaer e furono proprio loro a trovare il gol negli ultimi assalti, al 91′ e al 93′.
L'anno successivo, la Champions League estese ancora la possibilità di partecipazione: Spagna e Italia poterono iscrivere addirittura quattro squadre ciascuna. La Spagna dominò la competizione, perdendo per strada il solo Maiorca e inserendo ben tre formazioni (Real Madrid, Valencia e Barcellona) fra le quattro semifinaliste: un dominio collettivo inedito, in queste proporzioni, come inedita, nell'intera storia della manifestazione, fu la finale disputata fra due squadre dello stesso paese.
Delle rappresentanti italiane, il Parma si fermò addirittura nel turno preliminare, il Milan nel girone del primo turno, la Fiorentina nel girone del secondo turno, la Lazio nei quarti. La pletora di partecipanti aveva richiesto infatti un ennesimo ritocco di formula: tre turni preliminari a eliminazione diretta, per selezionare 32 squadre; otto gironi a quattro, per bocciarne 16 e promuoverne altrettante; altri quattro gironi per designare le 8 superstiti, che di lì in avanti si sarebbero affrontate a eliminazione diretta, nella consueta trafila di quarti, semifinali e finale.
Nei quarti, come abbiamo detto, si fermò la Lazio, ultima italiana in lizza, eliminata dalla rivelazione Valencia, che sul proprio campo si impose per 5-2. La marcia trionfale della Spagna vide ancora il Barcellona dominare nella partita di ritorno il Chelsea di Gianluca Vialli (5-1 al Camp Nou, dopo l'1-3 di Londra) e il Real Madrid eliminare il detentore Manchester United, con una straordinaria vittoria in Inghilterra. Si imponeva, il modello spagnolo, non solo per i risultati, ma per l'elevato numero di gol, frutto di un gioco dominato dall'abilità tecnica, più che dalla prestanza fisica o dal cinismo tattico. La sola squadra non spagnola, il Bayern Monaco, venne battuta dal Real in semifinale, mentre nello scontro fra connazionali il 'povero' Valencia, guidato dal tecnico argentino Cúper e forte di due anziani terzini, Angloma e Carboni, da tempo scartati dal calcio italiano, impartiva una dura lezione al 'ricco' Barcellona. Tuttavia il Valencia aveva speso troppo nel corso del torneo. Nella finale di Parigi, poco e nulla seppe opporre a un Real che con i gol di Morientes, McManaman e Raul si impose con facilità, iscrivendo per l'ottava volta il suo nome nell'albo d'oro.
Nell'edizione 2000-01 le squadre iscritte furono 72: 16 ammesse al primo turno e le altre destinate alle qualificazioni e ai turni preliminari. La Champions League era diventata un torneo lunghissimo che occupava ormai quasi l'intera stagione. Il titolo fu vinto dal Bayern. Dopo la tripletta consecutiva a metà degli anni Settanta, la squadra di Monaco si era mantenuta quasi sempre ai vertici del calcio europeo e nella Coppa dei Campioni si era più volte avvicinata alla vittoria, ma senza raggiungerla, sovente per circostanze sfortunate, come nell'atto conclusivo dell'edizione 1998-99, quando era stata superata dal Manchester United proprio in vista del traguardo. Può essere considerata dunque una sorta di rivalsa la vittoria conseguita dal Bayern nel 2001, al termine di un torneo appassionante, in cui i tedeschi non giocarono il calcio migliore, ma seppero imporre ad avversari più dotati e brillanti il loro realismo tattico. Tornò in finale, per la seconda volta consecutiva, il Valencia, pur allestito con mezzi non paragonabili a quelli messi in campo dai club più ricchi. La squadra spagnola, allenata da Cúper, andò vicinissima alla conquista del trofeo, sfiorata a più riprese nell'emozionante finale giocata a Milano.
Si ripeté, in proporzioni forse ancora più nette, la débacle delle squadre italiane, un fenomeno difficilmente spiegabile sul piano prettamente tecnico, se non con il superiore dispendio di energie fisiche e mentali richiesto dal Campionato nazionale, o con il ritardo con cui lo stesso si era avviato, rispetto alle altre leghe più importanti. Brevissima e ingloriosa fu l'apparizione dell'Inter, eliminata subito dai modesti svedesi dell'Helsingborgs: uno smacco che rese vacillante la posizione del tecnico Marcello Lippi (lo stesso che pure aveva condotto la Juventus a tre consecutive finali), poi esonerato dopo la prima giornata di Campionato. Restavano Lazio, Juventus e Milan, nelle quali venivano riposte grandi speranze ma che cedettero al primo contatto con avversari impegnativi. Non fu forse un caso che sia pure per ragioni diverse anche i tecnici di queste squadre, rispettivamente Eriksson, Ancelotti e Zaccheroni, furono tutti sollevati dall'incarico: Eriksson e Zaccheroni a stagione in corso (e gli insuccessi europei furono determinanti nella decisione delle rispettive società), Ancelotti non appena concluso il Campionato.
Delle spagnole, il solo Valencia ripeté i successi dell'annata precedente. Il Real cadde sconfitto dal Bayern, in grado di opporre al forte attacco madrileno una salda difesa, il cui ultimo baluardo, il portiere Oliver Kahn, ebbe modo in più occasioni di mostrare la sua bravura. Il Bayern aveva eliminato in precedenza il Manchester United. Per quanto accusato di praticare un gioco eccessivamente difensivo, un vero e proprio ritorno al catenaccio, il Bayern si era guadagnato l'ingresso in finale, superando negli scontri diretti le due formazioni in assoluto più forti e quotate.
La finale di Milano risultò in parte rovinata da un arbitraggio discutibile, che sanzionò rigori assai dubbi e ignorò altri falli più evidenti. Il gioco fu improntato, sia dal Bayern sia dal Valencia, a una prudenza esagerata. Le sole emozioni furono offerte dai calci di rigore, che decisero l'assegnazione del trofeo, dopo la parità al termine dei 120 minuti di gioco. Il portiere tedesco Kahn si mostrò protagonista assoluto della serata, con ripetute prodezze, e così il Bayern vide premiata la sua continuità ad alti livelli.
Come nell'edizione precedente, all'atto conclusivo della Champions League sono approdate una squadra tedesca e una spagnola: il Bayer Leverkusen, la grande rivelazione dell'annata, e lo storico Real Madrid hanno preso il posto di Bayern Monaco e Valencia, finaliste del 2001. Bocciata ancora una volta, e in modo clamoroso, la scuola italiana, che pure si era affacciata con molte ambizioni alla competizione. Il Parma è uscito di scena sin dai turni preliminari, preludio di una stagione sofferta, mentre la Lazio non ha superato il primo girone, malgrado il cambio di gestione tecnica (Zaccheroni al posto di Zoff) in corso di stagione. Restavano in lizza le due formazioni più competitive, la Roma e la Juventus. Tuttavia, tutte e due le squadre, dopo un avvio promettente, nel secondo girone, quando la qualificazione ai quarti di finale appariva quasi scontata, pagavano a carissimo prezzo la discontinuità di rendimento. Curiosamente, il girone in cui figurava la Juventus è stato vinto dal Bayer, battuto per 4-0 a Torino, mentre il raggruppamento che comprendeva la Roma ha registrato il successo del Barcellona, sconfitto per 3-0 allo Stadio Olimpico. A dimostrazione che le squadre italiane hanno accusato, più che un difetto di qualità, una mentalità sbagliata, che le ha portate a privilegiare, sia pure inconsciamente, gli impegni del Campionato nazionale a scapito degli appuntamenti europei.
Ha raccolto solo briciole anche la folta e qualificata rappresentanza inglese, che ha inserito Manchester United e Liverpool fra le otto qualificate ai quarti di finale, ma ha poi mancato lo sprint decisivo. In particolare il Manchester, che divideva con il Real Madrid il ruolo di primo favorito, è stato sorpreso in semifinale dallo slancio e dall'aggressività del Bayer, capace di rimontare per due volte lo svantaggio in trasferta, per poi gestire la situazione favorevole a Leverkusen.
Il Real Madrid, con una formazione ricca di grandi individualità quali Zidane, Figo, Raúl, e praticando un gioco spettacolare e di chiara impronta offensiva, ha dominato i due gironi iniziali. Successivamente, dai quarti di finale in avanti ha dovuto affrontare ostacoli quanto mai impegnativi, a cominciare dal Bayern Monaco, campione in carica, da cui era stato eliminato l'anno precedente. Dopo aver perso di misura, nei minuti conclusivi, a Monaco, il Real si è ripagato nettamente sul proprio terreno. In semifinale si è trovato di fronte il suo rivale storico, il Barcellona, in un derby spagnolo che ha confermato il momento d'oro del calcio iberico. Questa volta, il copione è stato rovesciato. Il Real ha costruito la qualificazione in trasferta, vincendo per 2-0 a Barcellona, e si è limitato a gestire il vantaggio nell'incontro di ritorno, chiuso in parità. La partita di Madrid ha avuto un prologo drammatico: poche ore prima dell'inizio, i separatisti baschi dell'ETA hanno fatto saltare in aria un'auto carica di esplosivo nei pressi dello stadio Bernabéu, provocando una decina di feriti. La partita si è poi comunque svolta in piena regolarità, in uno stadio gremito da 100.000 spettatori.
La finale, disputata la sera del 15 maggio a Glasgow (dove il Real aveva già vinto una Coppa dei Campioni nel 1960, e anche in quell'occasione ai danni di una squadra tedesca, l'Eintracht Francoforte) ha riproposto l'eterno dilemma fra tecnica e potenza fisica, fra il palleggio raffinato degli spagnoli e il pressing incalzante dei tedeschi. Passato rapidamente in vantaggio grazie a un lento diagonale di Raúl, sul quale il portiere Butt ha mancato l'intervento, il Real si è visto raggiungere da un imperioso colpo di testa del difensore centrale Lucio, uno dei protagonisti della partita. Sul finire del primo tempo, una sensazionale prodezza di Zidane ha riportato avanti il Real. Nell'ultima parte dell'incontro i giocatori del Bayer hanno cercato in tutti i modi il pareggio, che avrebbero sicuramente meritato. Anche il portiere Butt ha partecipato all'assedio della porta avversaria e un suo colpo di testa ha mancato il gol per pochi centimetri. Il Real ha così onorato il suo centenario con la conquista della nona Coppa dei Campioni, mentre il Bayer, che era rimasto in lizza sino all'ultimo per un clamoroso en plein (Campionato e Coppa di Germania, oltre che Champions League) ha visto sfumare uno dopo l'altro tutti i suoi obiettivi.
Tabella
Coppa delle Coppe
di Salvatore Lo Presti
La proposta di organizzare un torneo riservato alle squadre vincitrici delle singole coppe nazionali fu presentata all'esecutivo dell'UEFA, riunito il 18 marzo 1956 a Parigi, dall'austriaco Alfred Frey. L'idea prese corpo nel 1958. Il fatto che all'epoca in molte nazioni non si disputasse ancora una coppa nazionale rappresentava un freno, ma poi la prospettiva di un torneo riservato alle vincitrici di Coppa stimolò molte Federazioni a varare una seconda competizione nazionale. Così, nel 1960, l'UEFA lanciò la Coppa dei Vincitori di Coppe, delegandone l'organizzazione alla commissione preposta alla Mitropa Cup. La formula prevedeva la disputa della finale in doppia partita, andata e ritorno.
Alla prima edizione (1960-61) iscrissero una squadra dieci Federazioni (Austria, le due Germanie, Cecoslovacchia, Inghilterra, Italia, Iugoslavia, Scozia, Svizzera e Ungheria). In lizza la Fiorentina, i Glasgow Rangers, quel Borussia Mönchengladbach che negli anni Settanta sarebbe salito ai vertici continentali, ma anche club semisconosciuti come il Ruda Hvezda di Brno o i Vorwaerts di Berlino. La Fiorentina, allenata dall'ungherese Nandor Hidegkuti, vecchia gloria della Hónved, si misurò con successo con gli svizzeri del Lucerna e gli iugoslavi della Dinamo Zagabria, prima di affrontare in finale i Glasgow Rangers: gli scozzesi furono superati sia sul loro terreno (2-0, con doppietta di Luigi Milan, dopo che Eric Caldow aveva sbagliato un rigore), sia a Firenze (2-1, ancora con Milan e Kurt Hamrin in veste di cannonieri). Resterà l'unico trofeo internazionale per la squadra viola.
La seconda edizione, quella del 1961-62, fu organizzata direttamente dall'UEFA, che ritoccò immediatamente il regolamento, adottando la finale unica (assegnata alla città di Glasgow), mentre salì a 23 il numero delle squadre iscritte. In finale arrivarono ancora la Fiorentina (che aveva avuto agevolmente la meglio su Rapid Vienna, Dinamo Zilina e Ujpest) e l'Atlético Madrid (che aveva eliminato avversari difficili come Leicester City, Werder Brema e Motor Jena). A Ibrox Park, la sera della finale, erano occupati solo 30.000 dei 140.000 posti disponibili. Nello stadio semivuoto le due squadre si dettero battaglia per 120 minuti chiudendo in parità, grazie ai gol di due grandi campioni come Joaquim Peiró e Kurt Hamrin. Non essendo previsti i rigori, fu necessaria la ripetizione della gara, differita di quattro mesi e giocata il 5 settembre 1962 a Stoccarda: stavolta vinse nettamente l'Atlético, grazie ai gol di Miguel Jones, Jorge Mendonça e del solito, elegantissimo Peiró.
Il torneo cominciava a decollare, soprattutto per l'entusiasmo dei club meno noti. Pesavano però un paio di fattori negativi: la difficoltà di allineare squadre di primo piano (quelle che centravano l'accoppiata Campionato-Coppa optavano ovviamente per la Coppa Campioni, lasciando il posto all'altra finalista) e la progressiva lievitazione tecnica della Coppa UEFA. L'albo d'oro della 'E2' (com'è stato definito, per necessità di sintesi, il torneo) continuò, comunque, a comprendere nomi prestigiosi, visto che le poche squadre di alto livello avevano vita abbastanza facile.
Anche la Coppa delle Coppe è vissuta sulla sfida fra il calcio latino, più tecnico e fantasioso, e quello dei paesi nordeuropei, più atletico e vigoroso.
L'edizione del 1962-63 vide in campo da protagonista, con la maglia del Botev Plovdiv, il non ancora ventenne Georgi Asparuhov, autore di sei reti nelle prime quattro partite del torneo. Il titolo andò al Tottenham Hotspur che, trascinato dal futuro milanista Jimmy Greaves, superò l'Atlético Madrid con un pesantissimo 5-1.
Rivincita latina nel 1963-64 con i portoghesi dello Sporting Lisbona. Dopo aver travolto i modesti ciprioti dell'Apoel Nicosia per 16-1 (con 5 gol di Domingos da Silva 'Mascarenhas': la vittoria più ampia mai realizzata non solo in Coppa delle Coppe, ma in tutte le coppe europee) ed essersi resi protagonisti di un'epica rimonta ai danni del Manchester United (sconfitti per 4-1 all'andata, inflissero al ritorno a Bobby Charlton, Law e compagni un pesante 5-0), i portoghesi trovarono in finale l'MTK di Budapest. Finita 3-3 la gara di Bruxelles, lo Sporting Lisbona la spuntò nella ripetizione di Anversa, due giorni dopo, grazie all'unico gol di João Pedro Morais. Mascarenhas si laureò capocannoniere del torneo con 11 gol.
L'edizione successiva vide di nuovo la vittoria di una squadra inglese, il West Ham, vittoriosa in finale, con una doppietta di Alan Sealey, sul Monaco 1860. Nella semifinale, la squadra tedesca si era imposta su un irriducibile Torino, il cui fiore all'occhiello era Gigi Meroni, riuscendo ad averne ragione soltanto nella 'bella', a Zurigo.
I bavaresi diedero il via all'offensiva tedesca che si concretizzò nei due anni seguenti. Nel 1965-66 vi fu il successo del Borussia Dortmund ai danni del Liverpool (2-1, con gol decisivo di Reinhard Libuda nei supplementari): un Borussia trascinato dal suo bomber Lothar Emmerich, capocannoniere del torneo con 14 gol, dopo averne segnati ben sei con i maltesi del Floriana (8-0), record eguagliato ma non più superato. L'anno dopo continuò l'opera il Bayern Monaco di Zlatko Cajkovski, che in finale prevalse a Norimberga sui Glasgow Rangers per 1-0, con un gol di Franz Roth (l'arbitro era Concetto Lo Bello).
Le squadre italiane tornarono protagoniste con il successo del Milan di Nereo Rocco nel 1967-68, impostosi all'Amburgo di Uwe Seeler con una doppietta di Hamrin. La stagione successiva fu condizionata dalla situazione politica in Cecoslovacchia: molti club occidentali si rifiutarono di affrontare squadre dell'Est e l'UEFA dovette adattare i sorteggi alla situazione geopolitica, senza riuscire a evitare qualche dolorosa rinuncia, come quella del Gyor. Il torneo vide la vittoria dello Slovan di Bratislava. La formazione slovacca, dopo aver eliminato il Porto e il Torino, conseguì il primo successo in assoluto di una formazione dell'Est in una Coppa europea, imponendosi al Barcellona nella finale di Basilea.
Tornò poi sul podio il calcio inglese, con una doppietta (Manchester City e Chelsea), completata l'anno seguente dal successo degli scozzesi del Glasgow Rangers. Nel 1969-70 il Manchester City vinse per 2-1 in finale sui polacchi del Gornik Zabrze, mentre nel 1970-71 non facile fu il successo del Chelsea, che aveva dovuto superare il Bruges e proprio il Manchester City prima di affondare al Pireo un deludente Real Madrid. I Rangers, nel 1971-72, dopo aver rischiato con un Torino incompleto (concentrato sull'incombente derby di Campionato) e aver eliminato il Bayer, si imposero senza grossi problemi per 3-2 sulla Dinamo Mosca. La finale di Barcellona fu macchiata tuttavia da gravi incidenti, costati ai Rangers tre anni (poi ridotti a due) di esclusione dalle Coppe.
Nel 1972-73 il Milan vinse la sua seconda Coppa delle Coppe, pagando però il successo a caro prezzo. Superati Spartak Mosca e Sparta Praga, la squadra rossonera affrontò ad Atene un agguerrito Leeds United, battuto grazie a un gol di Luciano Chiarugi dopo tre minuti. La resistenza agli assalti inglesi era stata sfiancante, ma invano il Milan chiese alla FIGC di rinviare il successivo incontro di Campionato. Così Gianni Rivera e compagni, stanchissimi, dovettero giocare la domenica successiva a Verona e furono travolti (5-3) e sorpassati dalla Juventus proprio nell'ultima gara. Ripresentatisi l'anno successivo, i milanisti arrivarono ancora in finale, ma a sorpresa furono battuti a Rotterdam dai tedeschi dell'Est del Magdeburgo (0-2).
Cominciava a soffiare, infatti, il vento dell'Est. Nel 1974-75 s'impose la Dinamo di Kiev, guidata da un giovane tecnico ucraino, il colonnello dell'esercito Valery Lobanowski, e forte di un organico che in gran parte coincideva con quello della nazionale dell'URSS. Superati Eintracht, Bursaspor e PSV Eindhoven, in finale la Dinamo non lasciò scampo al Ferencváros (3-0).
Nella seconda metà degli anni Settanta visse il suo momento magico la formazione belga dell'Anderlecht, che in un triennio si aggiudicò due volte il trofeo e in una terza occasione andò in finale. Allenata inizialmente dall'olandese Hans Croon, raggiunse i vertici sotto la guida di Raymond Goethals, giocando un ottimo calcio grazie alla notevole valenza tecnica dei giocatori e a una rigida disciplina tattica. L'Anderlecht vinse nel 1975-76, battendo a Bruxelles gli inglesi del West Ham, ma l'anno dopo soffrì per eliminare Southampton e Napoli e in finale cedette all'aggressività dell'Amburgo di Felix Magath e Manfred Kaltz. L'edizione 1976-77 della Coppa vide fra i protagonisti un bomber proveniente dall'Est: Kiril Milanov, punta di diamante del Levski Spartak di Sofia, che nel corso del torneo fece 13 gol, di cui sei nella partita contro i finlandesi del Reipas Lathi (12-2), eguagliando il record stabilito 11 anni prima del tedesco Emmerich e mai migliorato. L'Anderlecht si rifece nel 1977-78 quando ritrovò (ed eliminò) l'Amburgo, superò di slancio Porto e Twente e nella finale di Parigi travolse l'Austria Vienna (4-0).
L'inversione di rotta fu operata da due formazioni spagnole di grande prestigio. Cominciò il Barcellona nel 1978-79: eliminato ai rigori il sempre pericoloso Anderlecht al secondo turno, dopo una straordinaria rimonta dello 0-3 subito a Parc Astrid, la squadra catalana superò poi Ipswich Town e un'altra compagine belga, il Beveren, imponendosi nella finale di Basilea al Fortuna Düsseldorf, al termine di una gara ricca di emozioni, risolta nei tempi supplementari (4-3) dai gol di Toshak e Hans Krankl.
Nel 1979-80 toccò al Valencia, guidato da Alfredo Di Stefano, che liquidò il Barcellona espugnando il Camp Nou, si sbarazzò del Nantes e in finale batté l'Arsenal ai rigori dopo che, per 120 minuti, nessuno era riuscito a far gol. In finale il Valencia, ricco di campioni come il tedesco Rainer Bonhof e l'argentino Mario Kempes, campione del mondo nel 1978 con la sua nazionale, avrebbe potuto affrontare la Juventus di Giovanni Trapattoni, ma i bianconeri, dopo aver eliminato Raba Eto Gyor, Beroe Stara Zagora e il Rijeka di Ciro Blazevic, si videro soffiare la qualificazione in extremis dall'Arsenal: dopo un'epica partita a Highbury (1-1 con autogol di Roberto Bettega e gol di Antonio Cabrini), in cui Dino Zoff fornì una delle più grandi prestazioni della sua straordinaria carriera, i bianconeri, nella partita di ritorno, stavano per ottenere lo 0-0 che avrebbe comportato la qualificazione alla finale quando, all'ultimo minuto, su un cross di Graham Rix, Paul Vaessen gelò il pubblico del vecchio Comunale di Torino.
Nella stagione 1980-81 il trofeo tornò all'Est. Furono gli ucraini della Dinamo Tblisi ad assicurarselo, al termine di una galoppata chi li aveva visti superare Waterford, West Ham e Feyenoord. In una finale tutta orientale contro il Carl Zeiss Jena, diretta dall'italiano Riccardo Lattanzi, a Düsseldorf, furono Vladimir Gutsaev e Vitali Darasselia a ribaltare (2-1) il temporaneo vantaggio di Gerhard Hoppe. Fu clamorosa l'eliminazione al primo turno della Roma, che dopo aver segnato tre gol proprio al Carl Zeiss Jena all'Olimpico (Pruzzo, Ancelotti e Falcao) fu travolta nella partita di ritorno in Germania Est (4-0).
Nel 1981-82 il Barcellona, sotto la guida del tedesco Udo Lattek, conquistò per la seconda volta la Coppa delle Coppe. Dopo un agevole percorso sulle strade dell'Est attraverso Plovdiv, Praga e Lipsia, i catalani eliminarono in semifinale il Tottenham Hotspur con un gol di Alan Simonsen; nella finale, disputata sul proprio campo, rimontarono senza problemi, ancora una volta grazie all'abilità di Simonsen e di Quini nel cogliere ogni opportunità, il gol di Guy Vendersmissen con cui lo Standard Liegi si era portato in vantaggio. Per quanto riguarda l'Italia, la Roma era stata eliminata dal Porto al secondo turno.
L'edizione 1982-83 portò alla luce un tecnico diventato poi famosissimo: Alex Ferguson, creatore dell'attuale Manchester United che, in vent'anni di carriera, ha accumulato più titoli del mitico Jock Stein, o di Lobanowski, Trapattoni e Hitzfeld. Vinta con l'Aberdeen la Coppa di Scozia (e l'anno successivo il Campionato), Ferguson conquistò nel 1983 il primo successo internazionale. Agevole nei primi turni, dove aveva superato il Sion, la Dinamo Tirana e i polacchi del Lech Poznan, il cammino dell'Aberdeen si fece più impegnativo con il Bayern Monaco nei quarti. Dopo una facile semifinale contro i belgi del Waterschei, affrontò nella finale di Göteborg (diretta dall'italiano Gianfranco Menegali) il Real Madrid, che aveva eliminato l'Inter nei quarti. Dopo le reti iniziali in rapida successione di Eric Black e Juanito, occorsero i supplementari per consentire a John Hewitt di piegare la tenace resistenza spagnola.
Nel 1983-84, venne il terzo successo italiano con la Juventus, trascinata da campioni come Zibi Boniek e Michel Platini. La squadra di Torino, però, dovette faticare al secondo turno con il Paris Saint-Germain, e nei quarti, con i non irresistibili finlandesi dell'Haka, prima di dar vita a un'avvincente semifinale contro il Manchester United (1-1, 2-1). Opposta al Porto (che in semifinale aveva avuto ragione dell'Aberdeen), nella finale di Basilea la Juventus vinse grazie a un gol decisivo di Boniek, dopo che il vantaggio iniziale di Beniamino Vignola era stato neutralizzato da Antonio Sousa.
Quella del 1984-85 fu una stagione magica per la città di Liverpool, che piazzò i 'Reds' nella finale di Coppa dei Campioni (contro la Juventus) e vide l'altra sua squadra, l'Everton guidato da Howard Kendall, vincere la Coppa delle Coppe, superando in finale a Rotterdam (arbitro l'italiano Paolo Casarin) il Rapid Vienna. L'ostacolo più grosso era stato il Bayern (vincitore della Roma nei quarti), eliminato in semifinale.
Il 'calcio robotizzato' di Lobanowski stava intanto aprendo nuove frontiere tattiche. Basato su una durissima preparazione atletica e sull'applicazione di schemi ripetuti centinaia di volte, esaltava il collettivo più che le doti individuali, facendo sì che la squadra si muovesse a grande velocità con una perfetta sincronizzazione dei movimenti. La Dinamo Kiev di Sacha Zavarov, del velocissimo Vasili Rats e di Oleg Blokhin fu artefice, nel 1985-86, di una galoppata irresistibile. Mentre la Sampdoria cedeva al Benfica, la Dinamo superò di slancio il Craiova, travolse il Rapid Vienna e si liberò con disinvoltura del Dukla Praga. E in finale impartì un'autentica lezione di gioco moderno, spettacolare ed efficace all'Atlético Madrid, battuto dai gol di Zavarov (che di lì a poco sarebbe approdato alla Juventus), Blokhin e Vadim Evtuchenko.
Dal calcio robotizzato si tornò al 'calcio totale' dell'Ajax, vecchia conoscenza del podio di Coppa dei Campioni, ma che non aveva ancora vinto gli altri due trofei europei. Nel 1986-87 gli olandesi si aggiudicarono la Coppa delle Coppe, con Johan Cruijff in panchina, grazie all'apporto di campioni come Frank Rijkaard, Aron Winter, Denis Bergkamp, Jan Wouters e Marco Van Basten. L'Ajax superò facilmente Bursaspor, Olimpiakos e Malmö, eliminò senza grossi problemi il Real Saragozza in semifinale e ad Atene (arbitro Luigi Agnolin) prevalse sul monocorde Lokomotive Lipsia grazie a un gol di Van Basten.
Nella stagione 1987-88, a dieci anni dall'ultimo successo dell'Anderlecht, il calcio belga si ripropose con il Malines (o Mechelen, in fiammingo), allenato da un tecnico olandese, Aad de Mos, che viveva un momento di grande popolarità anche se alla distanza non avrebbe mantenuto le aspettative. La squadra, che si avvaleva del portiere Michel Preud'homme, di Erwin Koeman, di Marc Emmers e del poderoso Piet Den Boer, mostrava un calcio pratico, veloce, soprattutto ben organizzato. Ne fecero le spese la Dinamo Minsk e in semifinale l'Atalanta, protagonista di una bella performance (aveva eliminato lo Sporting Lisbona nei quarti). Nella finale di Strasburgo contro l'Ajax di Barry Hulshoff, il Mechelen si trovò la strada spianata da un'espulsione forse troppo frettolosa del libero Danny Blind dopo un quarto d'ora. E quando Den Boer sbloccò il risultato, gli sforzi di Johnny Bosman, Bergkamp e Robert Witschge non bastarono a evitare la sconfitta.
Ma c'era un pezzo di Ajax pronto a vendicarla. Nel 1988-89 fu il Barcellona di Johan Cruijff ad assicurarsi la Coppa, battendo in finale la Sampdoria di Vujadin Boskov. Dopo aver superato le prevedibili difficoltà per affermare la mentalità olandese in Catalogna, Cruijff cominciò a cogliere i primi risultati tangibili e rimise le mani su quella Coppa che aveva vinto con l'Ajax due anni prima. Le due squadre arrivarono in finale in scioltezza, senza dover affrontare ostacoli difficili. Il Barcellona soffrì solo nei quarti contro l'Arhus, la Samp eliminò in semifinale il Malines. Nella finale di Berna furono Julio Salinas e Luis Lopez Rekarte a siglare il successo che valse ai catalani la loro terza Coppa delle Coppe.
La Sampdoria, in crescita, si rifece nella stagione successiva (1989-90) contro l'Anderlecht di Aad de Mos, che al secondo turno aveva eliminato il Barcellona. La squadra di Boskov superò il Borussia Dortmund, il tenace Grasshopper e il Monaco. Nella finale di Göteborg dovette attendere i tempi supplementari per piegare (2-0) la resistenza dei belgi. Gran protagonista Gianluca Vialli, con una doppietta in tre minuti che gli consentì di proporsi come capocannoniere del torneo con sette gol. Per la Sampdoria di Paolo Mantovani era il primo, storico trofeo internazionale.
Nella stagione 1990-91 la sfilata dei grandi nomi continuò con il Manchester United, ormai nelle mani di Alex Ferguson. In finale, dopo aver eliminato formazioni non irresistibili come Wrexam, Legia Varsavia e Montpellier, trovò il Barcellona vincitore della presuntuosa e disorganizzata Juventus di Luigi Maifredi, che pure aveva superato Austria Vienna e Liegi. A Rotterdam fu inutile la risposta di Ronald Koeman alla doppietta di Mark Hughes e l'espulsione di Nando pose fine alle ultime speranze catalane: 2-1 il risultato finale.
Nel 1991-92, una delle finali meno spettacolari della storia delle Coppe premiò il Werder Brema ai danni dell'emergente Monaco di Arsène Wenger (che aveva eliminato la Roma nei quarti con un gol di Rui Barros), al termine di una gara in cui Youssouf Fofana e George Weah non riuscirono a finalizzare una discreta mole di gioco. Decisero la partita, diretta da Pietro D'Elia, Klaus Allofs e Wynton Rufer.
Il calcio italiano si ripropose l'anno dopo (1992-93) con il Parma di Nevio Scala. Il cammino di Alessandro Melli e compagni non fu facile: dopo l'Ujpest dovettero superare avversari competitivi come Boavista, Sparta Praga e Atlético Madrid. Nella finale di Wembley contro l'Anversa, dopo che Francis Severeyns aveva risposto al gol iniziale di Lorenzo Minotti, furono decisive le reti di Alessandro Melli e Stefano Cuoghi (3-1).
Il Parma partecipò nella stagione successiva come detentore del trofeo, mentre il Torino si iscrisse come vincitore della Coppa Italia. Fu una delle edizioni di Coppa delle Coppe qualitativamente più valide per il numero di grandi squadre partecipanti. Per la compagine di Scala le difficoltà non mancarono. Dopo gli israeliani del Maccabi Haifa dovette infatti superare prima l'Ajax (battuto con i gol di Minotti e Tomas Brolin dopo lo 0-0 dell'andata), poi il Benfica, eliminato grazie a un gol di Nestor Sensini al Tardini dopo l'1-2 di Lisbona. Il Torino, dopo aver prevalso su Lillestrom e Aberdeen, fu eliminato dall'Arsenal nei quarti, dopo aspra battaglia, con l'unico gol dei 180 minuti realizzato a Highbury da Tony Adams con un micidiale colpo di testa. In finale, a Copenhagen, lo stesso Arsenal ebbe ragione anche del Parma (1-0, gol di Alan Smith).
Il 1994-95 fu l'anno del Real Saragozza di Victor Fernandez, che superò ai supplementari (2-1, gol di Juan Esnaider, John Hartson e Mohammed Naym) l'Arsenal. La squadra inglese si era confermata una bestia nera per le italiane: in semifinale aveva eliminato la Sampdoria, battuta solo ai rigori dopo una vittoria per parte con l'identico punteggio (3-2).
Nel 1995-96, primo successo francese nel torneo (il secondo in una coppa europea, dopo quello di tre anni prima del Marsiglia in Coppa dei Campioni) con il Paris Saint-Germain. I parigini arrivarono alla finale eliminando in sequenza Celtic, Parma e Deportivo La Coruña. Per battere il Rapid Vienna, nella partita giocata nel nuovo stadio Re Baldovino di Bruxelles e diretta dall'arbitro Pairetto, bastò un unico gol, di Bruno N'Gotty. Sulla panchina c'era Luis Fernandez, omonimo del tecnico che aveva vinto il titolo l'anno prima col Saragozza.
Nella stagione successiva si ripresentò il Barcellona, che vinse la sua quarta Coppa delle Coppe al termine di un'altra edizione di alto livello tecnico. I catalani di Bobby Robson, al primo turno, superarono l'AIK, mentre l'avversario del turno successivo, la Fiorentina, fu eliminato per ragioni disciplinari: il lancio dagli spalti di Salerno (campo neutro su cui si giocava per una precedente squalifica) di una bomba-carta causò alla squadra viola non soltanto l'eliminazione dal torneo ma anche l'esclusione per un altro anno dalle competizioni europee. In finale, a Rotterdam, il Barcellona ritrovò il Paris Saint-Germain, che aveva liquidato l'AEK e il Liverpool, e dopo aver sprecato molte occasioni conquistò la Coppa grazie a un rigore di Ronaldo.
Il 1997-98 fu l'anno del Chelsea e, in parte, del Vicenza. La squadra italiana, guidata da Francesco Guidolin, collezionò una serie di successi che la portarono a superare Legia Varsavia, Shaktjor Donetz e Roda. Cedette, dopo averlo messo in seria difficoltà, solo al Chelsea di Vialli: lo batté 1-0 a Vicenza (gol di Lamberto Zauli) e resistette a Londra, fino al gol di Gianfranco Zola nella ripresa. In finale, a Stoccolma, contro lo Stoccarda, fu ancora Zola, con l'ennesima prodezza, a regalare a Vialli il suo primo trofeo continentale da allenatore. Per il Chelsea era la seconda Coppa delle Coppe, a 27 anni dalla prima.
Intanto le grandi e potenti squadre europee continuavano a premere per avere più spazio in una Champions League sempre più allargata. Ne pagò le spese la Coppa delle Coppe che, nell'ambito di un riassetto generale della formula delle Coppe europee, fu abolita. L'ultima edizione si è celebrata nel 1998-99 e la sorte ha voluto che il suo albo d'oro, aperto dalla Fiorentina, si sia chiuso con un'altra squadra italiana, la Lazio di Sven Goran Eriksson, vittoriosa in finale (2-1) sul Real Maiorca di Héctor Cúper grazie a un gol di Pavel Nedved, dopo che alla prima marcatura di Christian Vieri aveva replicato Garcia Dani. Un gol che ha messo la parola fine a un'avventura lunga 38 anni.
Tabella
di Salvatore Lo Presti
La Coppa delle Città di Fiere (più comunemente nota come Coppa delle Fiere), ideata e istituita nel 1955, a poco più di un anno dalla fondazione della UEFA, per iniziativa di un gruppo di dirigenti inglesi, spagnoli, svizzeri, tedeschi, danesi e iugoslavi capeggiati da Ernst Thommen, Stanley Rous e Ottorino Barassi, si può considerare l'antecedente della Coppa UEFA. Il torneo fu varato con il sostegno delle municipalità e il patrocinio degli enti fieristici interessati, con l'evidente obbiettivo di legare saldamente il calcio al mondo degli affari, incrementando così i motivi di richiamo delle grandi rassegne fieristiche.
La prima edizione della Coppa delle Città di Fiere, disputata su un arco triennale (1955-58) e aperta a squadre di otto nazioni (Austria, Danimarca, Germania, Inghilterra, Italia, Iugoslavia, Spagna e Svizzera), ebbe buon successo, per risultando molto diluita nel tempo. La seconda edizione fu opportunamente condensata in modo da conferirle una durata biennale (1958-60) e vide l'ulteriore adesione di Francia, Belgio e Ungheria. Già con la terza edizione (1960-61) si passò alla più snella e coerente disputa del torneo nell'arco di una sola stagione sportiva.
L'organizzazione venne affidata inizialmente a un apposito comitato su cui l'UEFA esercitava un controllo prevalentemente tecnico. A partire dal 1971-72, però, la Confederazione europea ‒ rispondendo alla sempre maggiore richiesta, da parte delle squadre escluse dalla Coppa dei Campioni e dalla Coppa delle Coppe, di un'attività internazionale regolare e regolamentata ‒ avocò a sé l'organizzazione della competizione, cui diede il nome di Coppa UEFA.
Il significato sportivo della Coppa crebbe notevolmente quando l'ammissione dei club fu legata alla posizione raggiunta dalle squadre nelle classifiche dei rispettivi Campionati nazionali. Infine fu introdotto anche un criterio di ripartizione dei posti riservati alle singole Federazioni in base all'attribuzione a ognuna di queste di un coefficiente, calcolato prendendo in considerazione i risultati ottenuti nelle ultime cinque stagioni dalle squadre di ciascuna nazione nei tornei internazionali. Così, da un torneo a invito di stampo fieristico, si passò a una regolare competizione aperta a tutte le squadre che ne meritavano l'ingresso.
Questo sistema è stato ripetutamente ritoccato negli ultimi anni, finché non si è giunti, nel 1999-2000, all'abolizione della Coppa delle Coppe e non è stato introdotto un meccanismo di interconnessione con la nuova Champions League. La nuova formula prevede, oltre alla partecipazione delle squadre qualificatesi grazie al piazzamento nel Campionato di appartenenza e alle squadre vincitrici delle rispettive Coppe nazionali (che prima disputavano la Coppa delle Coppe), anche la 'retrocessione' in Coppa UEFA innanzitutto delle squadre eliminate al terzo turno preliminare, infine di quelle classificate al terzo posto nei gironi della prima fase della Champions League. Evidente lo scopo di consentire alle squadre storicamente più forti di poter contare, anche in caso di eliminazione dal torneo più prestigioso, su una decorosa attività internazionale, sempre assai remunerativa grazie alla crescita esponenziale dei diritti televisivi. Purtroppo, con questa scelta si penalizza il valore sportivo della competizione, dal momento che la vincitrice della Coppa UEFA potrebbe essere una squadra eliminata al primo turno della Champions League la quale avrebbe quindi titolo sportivo inferiore a tutte le sedici squadre che abbiano invece passato quel turno.
La prima edizione fu disputata fra il 1955 e il 1958 da dieci formazioni: sei selezioni cittadine, formate da giocatori appartenenti a squadre diverse (era questa l'idea del progetto originale) in rappresentanza di Copenhagen, Zagabria, Lipsia, Londra, Basilea, Francoforte (Colonia e Vienna si ritirarono all'ultimo momento), più alcuni club come Barcellona, Inter, Birmingham City e Losanna (reclutati laddove non era stato possibile allestire una selezione, ma autorizzati a utilizzare qualche giocatore 'in prestito').
Il primo incontro, fra la Selezione di Londra e quella di Basilea (5-0), fu giocato il 4 giugno 1955 nella capitale inglese e si può considerare la prima partita di una Coppa europea (la Coppa dei Campioni avrebbe preso il via solo tre mesi dopo, a Lisbona il 4 settembre, con Sporting Lisbona-Partizan Belgrado, 3-3). Nella doppia finale si affrontarono il Barcellona e la Selezione londinese, che comprendeva giocatori dell'Arsenal (come Vic Groves), del Tottenham (l'irlandese Danny Blanchflower), del West Ham e del Chelsea (come il futuro milanista Jimmy Greaves). Dopo aver limitato i danni nella gara di andata in Inghilterra, il Barcellona di Balmanya, che poteva contare sul portiere Ramellets e sul giovanissimo Luisito Suarez e che comunque vantava un maggior affiatamento di squadra, si assicurò il trofeo nella gara di ritorno con un clamoroso 6-0 (doppiette di Suarez ed Evaristo e gol di Martinez e Verges), il 1° maggio 1958.
Il Barcellona fu ancora protagonista nella seconda edizione, disputata a cavallo delle stagioni 1958-59 e 1959-60, con una partecipazione più ampia (16 squadre, fra cui due italiane, l'Inter e la Roma). Eliminata l'Inter nei quarti e la Selezione di Belgrado in semifinale, i catalani, che erano guidati da Rabassa e schieravano il fuoriclasse Ladislao Kubala, si imposero al Birmingham City con un 4-1 interno (doppietta dell'ungherese Zoltan Czibor e gol di Martinez e Coll), dopo lo 0-0 in Inghilterra.
L'edizione del 1960-61 fu vinta dalla Roma di Luis Carniglia, con Antonio Valentin Angelillo, Pedro 'Piedone' Manfredini e Francisco Lojacono, che sconfisse il Birmingham City, pareggiando in Inghilterra e vincendo all'Olimpico (2-0, grazie a un autogol di Farmer e alla prodezza decisiva di Paolo Pestrin, l'11 ottobre 1961). Il successo romanista ribadiva il felice momento del calcio italiano, a pochi mesi dalla vittoria della Fiorentina nella Coppa delle Coppe del 1960-61, la prima di una squadra italiana in un torneo europeo.
Negli anni successivi il trofeo tornò in Spagna, grazie alla doppietta del Valencia (contro il Barcellona, nella prima finale fra due club dello stesso paese, nel 1961-62, e contro la Dinamo Zagabria nel 1962-63). Nel 1962 la Roma stabilì un record che resiste tuttora: battendo per 10-1 (con quattro gol di Manfredini e tre di Lojacono) i turchi dell'Altay Izmir nel primo turno, i giallorossi realizzarono il punteggio più largo mai ottenuto da una squadra italiana nelle Coppe europee.
Poi furono di nuovo due squadre spagnole, il Real Saragozza nel 1963-64 e ancora il Barcellona nel 1965-66, a iscrivere il loro nome nell'albo d'oro, con l'intervallo, nel 1964-65, del Ferencváros, la prima formazione dell'Est a vincere il torneo. Gli ungheresi superarono la Juventus a Torino nella prima finale della storia bianconera.
L'epilogo del 1965-66 fu tutto spagnolo: battuto all'andata in casa da un gol di Canario, il Barcellona ebbe bisogno dei tempi supplementari a Saragozza (arbitro Concetto Lo Bello) per aggiudicarsi il trofeo grazie a una tripletta di Puyol e un gol di Zaballa.
Dopo l'exploit della Dinamo di Zagabria (vincitrice sul Leeds nel 1967), si aprì un ciclo britannico: Leeds, Newcastle United, Arsenal e ancora il Leeds si aggiudicarono quattro edizioni del torneo. Fra le italiane si fecero notare il Bologna, il Napoli e la Fiorentina, che però non superarono il terzo turno, mentre l'Inter eliminò Barcellona e Hertha Berlino prima di cedere all'Anderlecht, in semifinale, nel 1969-70.
Protagonista dell'ultima edizione della Coppa delle Fiere, quella del 1970-71, fu ancora la giovanissima Juventus, appena rinnovata da Armando Picchi. Pietro Anastasi, Franco Causio, Giuseppe Furino e compagni, superati Barcellona, Twente e Colonia, si ritrovarono in finale con il temibile Leeds di Don Revie. Ma alla fine di febbraio Armando Picchi, ricoverato in clinica per una malattia che avrebbe subito rivelato la sua gravità, fu costretto a lasciare la guida della squadra a Cestmir Vycpalek, vecchio amico di Giampiero Boniperti. Il 26 maggio la prima finale venne sospesa sullo 0-0 al sesto minuto della ripresa perché il terreno del Comunale era stato reso impraticabile da un violento temporale. Si giocò di nuovo il 28, poche ore dopo che Armando Picchi era spirato nella sua casa presso Sanremo, con i giocatori ancora all'oscuro della terribile notizia: l'incontro finì 2-2 (gol di Bettega e Capello per la Juventus, Madley e Bates per il Leeds). Nella gara di ritorno, cinque giorni dopo a Leeds i giovani juventini, duramente provati dalla scomparsa del loro tecnico, riuscirono solo a pareggiare, con Anastasi, il vantaggio iniziale dell'inglese Clarke. L'1-1, grazie al valore doppio assegnato, in caso di parità di punteggio, alle reti realizzate in trasferta, consegnò l'ultima Coppa delle Fiere al Leeds, a scapito dell'imbattuta Juventus.
Come si è detto, dal 1971-72 l'UEFA si fece direttamente carico dell'organizzazione della manifestazione e la ribattezzò con il proprio nome. L'albo d'oro fu inaugurato da un'altra formazione britannica, il Tottenham Hotspur, che si aggiudicò una finale tutta inglese contro il Wolwerhampton, vincitore sulla Juventus nei quarti. La partecipazione della Juventus alla prima Coppa UEFA ebbe risvolti particolari. A soli quattro giorni da un derby di Torino importantissimo ai fini della lotta per lo scudetto e dopo il pareggio interno (1-1) dell'andata, il tecnico bianconero Vycpalek decise di non utilizzare alcuni titolari nella gara di ritorno con il Wolverhampton (analogamente si comportava il Torino, impegnato in Coppa delle Coppe sul campo dei Rangers di Glasgow) e così facilitò il successo di misura dei padroni di casa, che passarono il turno. Poche ore dopo la partita, nonostante l'espresso divieto ricevuto dalla società, il fuoriclasse tedesco della Juventus Helmut Haller venne sorpreso dai suoi dirigenti mentre si consolava in un night-club con qualche coppa di champagne. Il presidente Boniperti fu inflessibile e, oltre a multarlo, mise Haller fuori rosa per una settimana, rinunciando alla sua utilizzazione nel derby (vinto dal Torino per 2-1). Quella scelta tanto coraggiosa quanto autolesionista fu argomento di polemiche vivacissime, ma contribuì a consolidare l'immagine di serietà e rigore comportamentale della Juventus, che peraltro poche settimane dopo conquistò il suo quattordicesimo scudetto.
La serie delle vittorie inglesi si allungò nella stagione successiva con il successo del Liverpool, impegnato severamente in una combattuta finale dal Borussia Mönchengladbach. La squadra tedesca, battuta all'andata (0-3, doppietta di Kevin Keegan e rete di Lloyd), si rese protagonista di un serrato forcing, portandosi fino al 2-0 con la doppietta di Jupp Heynckes.
Erano gli anni del 'calcio totale' e nel 1973-74 anche la Coppa UEFA fu vinta da una squadra olandese, proprio quel Feyenoord che nel 1970, sotto la guida di Ernst Happel, aveva anticipato il ciclo dell'Ajax in Coppa dei Campioni. Mentre le formazioni italiane erano eliminate nei primi turni, il Feyenoord, dopo aver pareggiato la gara di andata con il Tottenham, si assicurò il trofeo a Rotterdam (arbitro Concetto Lo Bello), con i gol di Rijsbergen e Ressel.
Nel 1974-75 il Borussia Mönchengladbach di Udo Lattek, una delle più forti espressioni calcistiche degli anni Settanta, si prese la rivincita della sconfitta di due anni prima battendo gli olandesi del Twente (che avevano eliminato la Juventus in semifinale). Dopo aver pareggiato 0-0 a Düsseldorf, nella gara di ritorno i tedeschi vinsero con ampio margine segnando cinque gol (tre a opera di Heynckes, due di Simonsen) in azioni di contropiede.
Il calcio nordico continuava a dettare legge (per sei anni la Coppa non era uscita dal triangolo Inghilterra-Germania-Olanda) e non fece eccezione alla regola l'edizione del 1975-76, vinta dal Liverpool. Ma il calcio latino iniziava a insidiarne il primato. Il Milan uscì nei quarti, il Barcellona, superata la Lazio, insidiò in semifinale il Liverpool sul filo di un sostanziale equilibrio. La sfida fra la Lazio e il Barcellona fu drammatica, ma non per motivi calcistici. Dopo che in tutto il mondo aveva suscitato grande sdegno l'esecuzione a Burgos di cinque giovani oppositori del regime franchista, condannati per aver ucciso alcuni poliziotti (molti paesi europei avevano ritirato i loro ambasciatori a Madrid e tutta l'Europa si era mobilitata), la Lazio cercò di ottenere un rinvio della gara o di giocare in campo neutro. Fallito il tentativo, si vide costretta, anche per motivi di ordine pubblico, a rinunciare a ospitare i catalani nella gara di andata e fu punita dall'UEFA con uno 0-3 'a tavolino'. Al ritorno la squadra romana, presentatasi al Camp Nou con una formazione rimaneggiata e demotivata, incassò quattro gol e fu eliminata. In finale il Liverpool, dopo aver vinto di misura la gara di andata (3-2) contro il Bruges di Happel, si aggiudicò la Coppa, pareggiando con Kevin Keegan un rigore di Lambert (1-1).
Il dominio nordeuropeo fu infine interrotto nel 1976-77 dalla Juventus di Dino Zoff, Gaetano Scirea, Romeo Benetti, Roberto Bettega e Roberto Boninsegna, guidata da Giovanni Trapattoni. Dopo aver sconfitto entrambe le compagini di Manchester, lo Schakhtjor Donetz, il Magdeburgo e l'AEK di Atene, la Juventus entrò in finale con l'Athletic di Bilbao: vinta la gara di andata a Torino (1-0, gol di Marco Tardelli), nell'incontro di ritorno al San Mamés di Bilbao resistette agli assalti dell'Athletic, perdendo solo per 1-2 (reti di Bettega, Irureta e Carlos), risultato che le garantì la conquista del trofeo. Dopo la vittoria della Roma in Coppa delle Fiere, la Juventus iscriveva così per la prima volta il suo nome ‒ e quello di una squadra italiana ‒ nell'albo d'oro della Coppa UEFA e conquistava in assoluto il suo primo alloro continentale.
Al successo della Juventus seguì un altro lungo ciclo nordeuropeo, aperto nel 1977-78 dagli olandesi del PSV Eindhoven, vincitori in finale su una vera e propria rivelazione, il Bastia, e proseguito nelle stagioni successive con le vittorie del Borussia Mönchengladbach ai danni della Stella Rossa di Belgrado e dell'Eintracht di Francoforte, vittorioso sullo stesso Borussia. Era un periodo nero per le squadre italiane, che riuscivano a malapena ad arrivare al terzo turno, come accadde nel 1980-81 al Torino, eliminato dal Grasshopper. In quell'anno l'Ipswich Town riportò il trofeo in Inghilterra ‒ otto anni dopo l'ultima vittoria del Liverpool ‒ superando i modesti olandesi dell'AZ 67 di Alkmaar.
Nel 1981-82, tre stagioni dopo il successo del Malmö in Coppa dei Campioni, vinsero a sorpresa gli svedesi dell'IFK Göteborg, che umiliarono l'Amburgo, battendolo 1-0 a Göteborg e addirittura 3-0 in Germania. L'allenatore degli svedesi, che schieravano campioni come Glenn Hysen e Dan Corneliusson, era un tecnico semisconosciuto di appena 34 anni e dal modestissimo passato calcistico: Sven Goran Eriksson.
Nell'edizione 1982-83 i belgi dell'Anderlecht, finalisti in Coppa delle Fiere nel 1970, vinsero il trofeo ai danni del Benfica con i gol di Brylle e Lozano. In quella stagione si verificò una delle più grandi tragedie mai accadute su un campo di calcio: il 20 ottobre 1982 a Mosca, in occasione della gara di andata del secondo turno fra lo Spartak e gli olandesi dell'Haarlem (2-0), una violentissima rissa scoppiata sugli spalti provocò il crollo di un parapetto. Centinaia di persone precipitarono, insieme a pesanti detriti, sulle gradinate sottostanti. I morti furono 340, oltre 1000 i feriti (soltanto nel 1990 fu rivelata la gravità dell'incidente e reso noto l'esatto bilancio delle vittime, dopo che per anni la notizia era stata pesantemente censurata).
Nella stagione successiva (1983-84) l'Anderlecht (con il giovanissimo Enzo Scifo, campione nato in Belgio da genitori siciliani e cresciuto alla scuola di Paul Van Himst) arrivò ancora in finale ma non riuscì a replicare il successo: dopo due pareggi perse ai rigori (4-3) con il Tottenham.
La riscossa dei club latini allo strapotere del calcio nordico prese corpo grazie al Real Madrid, che vinse due titoli consecutivi. Nel 1984-85 la gara più avvincente del torneo fu la semifinale fra il Real e l'Inter, che vide le merengues, battute a San Siro (2-0) dai gol di Liam Brady e Sandro Altobelli, centrare un'entusiasmante rimonta con Santillana (doppietta) e Michel. La doppia finale con i modesti ungheresi del Videoton per Butragueño e compagni fu poco più che una formalità (3-0, 0-1). Nella stagione successiva il copione si ripeté: il Real eliminò nuovamente i neroazzurri al penultimo turno, grazie ai gol di Santillana nei tempi supplementari della gara di ritorno (5-1), dopo aver perso a Milano (1-3). Ipotecò poi il trofeo battendo nettamente (5-1) il Colonia nella gara di andata allo stadio Bernabéu.
Stava intanto crescendo il calcio italiano, per il concorso di vari fattori: la riapertura delle frontiere e l'arrivo dei grandi campioni stranieri, le innovazioni sostanziali introdotte da presidenti come Silvio Berlusconi, una forte politica di investimenti (a Napoli era arrivato Diego Maradona, considerato il numero uno del mondo). Il successo del Göteborg sul Dundee United (1986-87) e quello del Bayer Leverkusen sull'Espanyol (superato ai rigori nel 1987-88) furono gli ultimi sprazzi delle formazioni nordiche prima di una lunga serie di vittorie italiane, aperta nel 1988-89 dal Napoli di Maradona, Careca e Alemão. In undici edizioni, dal 1989 al 1999, la Coppa UEFA finì per otto volte in Italia (tre vittorie per l'Inter, due per Juventus e Parma, una del Napoli), in quattro occasioni la finale fu tutta italiana, e solo nel 1996 non ci furono squadre italiane in finale. Soltanto l'Ajax (nel 1992), il Bayern (nel 1996) e lo Schalke 04 (nel 1997) riuscirono a inserirsi, da vincitori, in questo panorama.
Il successo del 1989 diede al Napoli, guidato da Ottavio Bianchi, l'unico trofeo continentale della sua storia. Era l'epoca irripetibile di Maradona, che portò due scudetti e due secondi posti in Campionato. Il torneo fu durissimo. Il Napoli (superati Paok, Lokomotive Lipsia e Bordeaux) eliminò la Juventus ai supplementari, dopo aver rimontato lo 0-2 dell'andata, e prevalse su due grandi squadre tedesche, il Bayern e lo Stoccarda. Più agevoli, nel biennio successivo, furono il successo della Juventus di Dino Zoff (doppia finale contro una Fiorentina in piena crisi nel 1989-90) e quello dell'Inter di Trapattoni che, eliminati Partizan, Atalanta e Sporting Lisbona, superò di misura, in finale, la Roma (2-0 e 0-1) nel 1990-91.
Nel 1991-92 si affermò l'Ajax di Luis Van Gaal: dopo aver superato gli spagnoli dell'Osasuna, i belgi del Gent e il Genoa di Osvaldo Bagnoli, si impose a fatica sul Torino, eguagliando così il primato della Juventus, rimasta fino a quel momento l'unica squadra ad aver vinto tutte e tre le Coppe europee. Di grande livello fu comunque la prestazione del Torino di Emiliano Mondonico che, eliminato in semifinale il Real Madrid davanti a un pubblico record (3,5 miliardi d'incasso), in finale mise in serie difficoltà gli olandesi. Penalizzato dal pareggio in casa (2-2), il Torino giocò ad Amsterdam una partita generosa ma molto sfortunata, colpendo tre pali con Walter Casagrande, Roberto Mussi e Gianluca Sordo.
Nel 1992-93 vinse la sua terza Coppa UEFA la Juventus, guidata da Trapattoni (con cui aveva vinto la prima, nel 1977). Dopo aver sofferto con il Panathinaikos e aver superato Benfica e Paris Saint-Germain, la Juventus dominò nella doppia finale il Borussia Dortmund, vincendo sia al Westfalenstadion (3-1, con una doppietta di Roberto Baggio), sia nella gara di ritorno a Torino (3-0). Nelle prime battute del torneo, prima di farsi eliminare dal Paris Saint-Germain, il Napoli si rese protagonista di una clamorosa vittoria sul campo del Valencia, con l'uruguayano Daniel Fonseca, autore di cinque gol.
Il successo dell'Inter nel 1993-94 vide i pochi momenti d'incertezza nella sfida con il Borussia Dortmund nei quarti. Più agevoli la semifinale con il Cagliari e le due finali con il Salisburgo, decise dai gol di Nicola Berti e Wim Jonk. Contrastata fu invece la vittoria del Parma nel 1994-95, al termine di una sfida su tre fronti con la Juventus di Marcello Lippi. I bianconeri ebbero la meglio in Campionato e in Coppa Italia, il Parma di Nevio Scala prevalse nella Coppa UEFA, superando la Juventus, con gol dell'ex bianconero Dino Baggio sia all'andata a Parma (1-0) sia nella gara di ritorno giocata a San Siro (1-1). Nel primo turno lo juventino Fabrizio Ravanelli emulò la prodezza di Fonseca a Valencia segnando tutti e cinque i gol rifilati dai bianconeri al CSKA di Sofia a Torino (dopo il ribaltamento 'a tavolino' della sconfitta dell'andata, determinato dalla posizione irregolare del bomber Mihtarski).
La risposta alle tre affermazioni consecutive delle squadre italiane arrivò dalla Germania. Nel 1995-96 si aggiudicò il titolo il Bayern guidato da Franz Beckenbauer. Dopo aver eliminato in semifinale il Barcellona (superato 2-1 al Camp Nou, dopo il 2-2 in Germania), Jurgen Klinsmann e compagni prevalsero agevolmente sui francesi del Bordeaux, che avevano la loro stella nel giovanissimo Zinedine Zidane. Nella stagione successiva fu lo Schalke 04 a centrare l'obbiettivo, superando ai calci di rigore, dopo un'equilibrata finale, un'Inter non irresistibile, guidata da Roy Hodgson. Decisivi, dopo i supplementari, furono gli errori dal dischetto di Ivan Zamorano e Aron Winter.
L'Inter si rifece, con l'arrivo del brasiliano Ronaldo, l'anno dopo, prima eliminando proprio lo Schalke 04 nei quarti e successivamente conquistando la Coppa ai danni della Lazio, nell'ennesima finale tutta italiana, giocata (per la prima volta in gara unica) al Parco dei Principi di Parigi il 6 maggio 1998 e terminata 3-0, con tutti gol sudamericani, del cileno Zamorano, dell'argentino Javier Zanetti e del brasiliano Ronaldo.
Il 1999 riportò il titolo al Parma che, sotto la guida di Alberto Malesani, superò l'Atlético Madrid in semifinale e si impose nettamente a Mosca (3-0) sull'Olympique Marsiglia con gol di Hernan Crespo, Paolo Vanoli ed Enrico Chiesa.
Nelle due stagioni successive l'ottimo momento del calcio spagnolo e lo scarso rendimento delle squadre italiane in campo internazionale hanno pesantemente influito sull'esito del torneo. Nel 1999-2000, eliminate Udinese, Parma, Roma e Juventus addirittura negli ottavi di finale a opera, rispettivamente, di Slavia Praga, Werder Brema, Leeds e Celta Vigo (particolarmente pesante la sconfitta bianconera in Spagna), si è verificato l'inatteso exploit dei turchi del Galatasaray. Dopo aver fatto vittime illustri come Bologna, Borussia Dortmund, Maiorca e Leeds, la squadra di Fatih Terim ha conquistato il primo trofeo continentale del calcio turco battendo ai rigori l'Arsenal di Arsène Wenger.
Nel 2000-01, il Liverpool ha vinto la sua terza Coppa UEFA, a 25 anni dall'ultimo successo, superando in finale gli spagnoli dell'Alaves, in una partita ricca di emozioni e colpi di scena, terminata nei 90 minuti regolamentari sul 4-4 e risolta, grazie alla regola del golden gol, da un'autorete dello spagnolo Geli. Per le italiane è stata un'altra annata da dimenticare, con Roma, Parma e Inter già fuori dopo gli ottavi di finale.
La squadra olandese del Feyenoord ha sfruttato l'occasione di poter giocare la finalissima nel proprio stadio di Rotterdam per aggiudicarsi la Coppa UEFA 2002. Degno avversario è risultato il Borussia Dortmund, appena laureatosi campione di Germania, superato 3-2 dopo aver giocato per oltre un'ora in inferiorità numerica. Due delle reti olandesi sono state realizzate da Pierre Van Hooijdonk (una su calcio di rigore e una su calcio di punizione), che ha colpito anche un palo; il terzo gol è stato siglato da Tomasson, mentre il Borussia Dortmund è andato a segno con Marcio Amoroso su rigore e Jan Koller. Nelle semifinali erano state eliminate Inter e Milan. Il calcio italiano ha così fallito la possibilità di tornare alla ribalta della competizione di cui detiene tuttora il primato con dieci vittorie.
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Coppa dell'Europa Centrale/Mitropa
di Salvatore Lo Presti
La Coppa dell'Europa Centrale fu ideata dall'austriaco Hugo Meisl, allenatore della nazionale austriaca (nota come Wunderteam per il suo gioco spettacolare) e segretario generale, dal 1906 al 1937, della Federazione del suo paese. Il progetto di Meisl, che prevedeva un torneo riservato alle prime due squadre classificate dei Campionati di Austria, Cecoslovacchia, Iugoslavia e Ungheria, fu sviluppato nel corso di una lunga riunione svoltasi a Venezia tra il 16 e il 17 luglio 1927. Meno di un mese dopo, il 14 agosto, il torneo aveva già inizio.
La prima edizione della Coppa fu appannaggio dello Sparta Praga, cui fece seguito un biennio dominato da due formazioni di Budapest, prima il Ferencváros e poi l'Ujpest. A partire dalla terza edizione (1929), le squadre italiane sostituirono quelle iugoslave. Tuttavia, all'esordio, Juventus e Genoa non andarono oltre i quarti di finale. Dopo un biennio di predominio di due club di Vienna, il Rapid nel 1930 e il First nel 1931 (la Roma arrivò alla semifinale), il primo successo italiano fu ottenuto dal Bologna, che si vide assegnare il titolo senza neanche giocare la finale. Nell'altra semifinale, infatti, fra Juventus e Slavia Praga, si erano verificati deplorevoli incidenti in seguito ai quali la Commissione organizzatrice, dopo due lunghe riunioni a Klagenfurt e a Budapest, decise di squalificare entrambe le formazioni escludendole dal torneo. L'anno prima, l'Ambrosiana-Inter di Giuseppe Meazza, arrivata in finale, non era riuscita a evitare la sconfitta da parte dell'Austria Vienna trascinata da Sindelar, elegante attaccante soprannominato 'carta velina'.
Fallito il tentativo di trasformare la Coppa in un autentico Campionato internazionale a causa della difficoltà di accordarsi su date accettabili da parte di tutti, a partire dal 1934 il torneo fu allargato alle prime quattro classificate nei Campionati dei quattro paesi aderenti: vinse ancora il Bologna, che replicò il successo del 1932 superando in finale l'Admira Wacker con tre gol di Reguzzoni. Poi tornarono a prevalere le squadre dell'Est: Sparta Praga, Austria Vienna, Ferencváros (4-2, 5-4 alla Lazio) e Slavia Praga iscrissero in successione i loro nomi nell'albo d'oro. Le squadre italiane (la Juventus nel 1935, l'Ambrosiana nel 1936, il Genoa e ancora la Juventus nel 1938) non riuscirono a superare le semifinali. Nel 1936 intanto erano state ammesse le squadre svizzere (peraltro eliminate tutte nel turno preliminare) e nel 1937 anche quelle di Romania e Iugoslavia. Il numero delle squadre partecipanti per ogni paese fu poi ridotto a tre. Nel corso dell'edizione 1937 si verificarono nuovamente gravi incidenti di matrice politica che costrinsero gli organizzatori a escludere Admira e Genoa promuovendo d'ufficio la Lazio in finale.
Dopo l'annessione dell'Austria alla Germania, le formazioni austriache non parteciparono più alla Coppa, e le tre Federazioni più importanti portarono nuovamente a quattro unità il loro contingente. All'edizione del 1939, vinta dall'Ujpest Dozsa di Budapest, parteciparono soltanto otto squadre, mentre quella del 1940 fu interrotta a causa dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Alla fine del conflitto la manifestazione, che intanto cominciava ad assumere sempre più ufficialmente il nome di Mitropa Cup, stentò a riprendere un andamento regolare (furono organizzate anche due edizioni non ufficiali nel 1951 e nel 1958, vinte rispettivamente dall'Austria Vienna e dalla Stella Rossa di Belgrado). La cadenza annuale fu ripresa nel 1955 (salvo poche eccezioni come quella del 1958 e del 1979), ma la Mitropa non tornò agli antichi splendori, soprattutto a causa della concorrenza della Coppa dei Campioni e degli altri tornei della UEFA. Dal 1977-78, per cercare di mantenerla in vita, la competizione fu riservata alle squadre che avevano vinto il Campionato di serie B, formula che consentì al Milan di assicurarsi l'edizione del 1982 e poi al Pisa (due volte), all'Ascoli, al Bari e al Torino di iscrivere anche il loro nome nell'albo d'oro.
Nel 1989 si disputò un'isolata 'Mitropa Super Cup' fra le vincenti delle ultime due edizioni, che vide il cecoslovacco Banik Ostrava prevalere sul Pisa (3-0; 1-3). La Mitropa Cup continuò tuttavia a perdere credibilità fino a essere definitivamente 'cancellata', dopo il successo nel 1992 degli iugoslavi del Borac Banja Luka. Globalmente il maggior numero di vittorie è stato ottenuto dal Vasas Budapest, che ha conquistato per sei volte la Coppa fra il 1956 e il 1983.
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Supercoppa Europea
di Salvatore Lo Presti
L'idea di organizzare una sfida fra la squadra vincitrice della Coppa dei Campioni e la squadra che si era assicurata la Coppa delle Coppe fu lanciata dal giornale olandese De Telegraaf all'inizio degli anni Settanta, quando prima il Feyenoord e successivamente l'Ajax, nel suo triennio d'oro, balzarono ai vertici del calcio europeo, monopolizzando per quattro anni la leadership continentale e creando nel paese un grande entusiasmo per tutto quello che aveva in qualche modo a che fare con il calcio.
La prima edizione della sfida, che oppose l'Ajax ai Rangers Glasgow, fu organizzata direttamente dal quotidiano di Amsterdam e fu disputata, con la formula del doppio confronto (gare di andata e ritorno), il 16 e il 24 gennaio 1973. Cruijff e compagni dominarono gli scozzesi in entrambe le partite (3-1; 3-2) e si aggiudicarono il trofeo aprendone l'albo d'oro.
L'interesse di pubblico suscitato dall'iniziativa suggerì alla UEFA di istituzionalizzare la competizione e di provvedere direttamente alla sua organizzazione, anche se quello di reperire le date per la disputa di due gare rappresentò per parecchi anni un problema di assai difficile soluzione.
Il fatto che i confronti finissero con l'essere tenuti in periodi sempre diversi (da novembre a gennaio, da agosto a settembre, da dicembre a febbraio) generava confusione e nuoceva parecchio all'immagine della competizione, che si portava dietro un'alea di precarietà e che addirittura, in un paio di occasioni (come nel 1974 e nel 1981), non fu neanche disputata. Saltò anche, ma soprattutto per motivi di ordine pubblico, la sfida fra Juventus ed Everton del 1985, dopo il trauma provocato nel mondo del calcio dalla tragedia dell'Heysel e l'esclusione di tutti i club inglesi dalle competizioni continentali.
Dopo alcuni riusciti esperimenti di gara unica, a Torino per l'edizione 1984 (quando il Liverpool fu battuto sul campo della Juventus, liberato in extremis dalla neve), a Montecarlo (per l'edizione relativa al 1986, tra Steaua e Dinamo Kiev) e a Manchester nel 1991 (quando la Stella Rossa di Belgrado fu battuta sul campo dello United), la soluzione fu trovata nel 1998, quando proprio il Principato di Monaco, con il sostegno della casa automobilistica giapponese Nissan, decise di organizzare ogni anno a fine agosto ‒ in concomitanza con il sorteggio per il primo turno di Champions League ‒ la gara unica per l'assegnazione del trofeo. Dal 2000, successivamente all'abolizione della Coppa delle Coppe, la Supercoppa Europea viene disputata fra la squadra vincitrice della Champions League e la vincitrice della Coppa UEFA.
Nell'albo d'oro troviamo per tre volte i nomi di Ajax e Milan. Con due vittorie seguono Juventus, Barcellona e Anderlecht. La nazione regina del trofeo è comunque l'Italia, con 7 successi (Parma e Lazio si sono aggiunte ai plurivittoriosi Milan e Juventus), seguita dall'Inghilterra con 6, da Spagna e Belgio con 3. Nel 2000 si è registrato il primo successo di una squadra turca, il Galatasaray.
Il rapporto fra le vincitrici di Coppa dei Campioni/Champions League e le detentrici della Coppa delle Coppe/Coppa UEFA è a vantaggio delle seconde. In particolare negli ultimi cinque anni ha sempre vinto la squadra che è arrivata alla sfida vincendo la Coppa delle Coppe o la Coppa UEFA, forse perché più motivata. L'ultima vincitrice di Champions League che si è aggiudicata la Supercoppa è stata la Juventus di Lippi nel 1996.
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Intertoto
di Salvatore Lo Presti
Ideato e disputato per la prima volta nel 1962 per iniziativa del tecnico e dirigente austriaco trapiantato in Svizzera Karl Rappan e noto nei primi anni come Coppa Rappan, l'Intertoto fu inizialmente un torneo estivo fine a se stesso, non riconosciuto ufficialmente dalla UEFA. La formula originaria prevedeva la suddivisione delle squadre partecipanti in gironi con play-off finali per le vincitrici dei gironi stessi. Dal 1967 i play-off furono soppressi per la difficoltà di trovare date libere. A partire dal 1968 la partecipazione al torneo fu allargata in modo da consentire di non fermare, con la fine dei Campionati nazionali, l'attività dei concorsi a pronostici di alcuni paesi europei (come la Svizzera, la Francia, la Repubblica Federale Tedesca). Proprio a causa del periodo in cui si disputava ‒ dalla fine di giugno (in qualche occasione anche da maggio) ai primi di agosto ‒ l'Intertoto ha sempre stentato a coinvolgere club importanti, che dovevano fare i conti con le esigenze dei loro calendari e la necessità di consentire le vacanze ai calciatori.
Nel 1995 l'Intertoto è stato preso in carica dalla Coppa UEFA, e ristrutturato in un torneo, chiamato UEFA Intertoto Cup, che offre ai club esclusi un'ulteriore possibilità di qualificarsi per la Coppa UEFA. Dell'innovazione hanno approfittato alcuni grandi club, come il Valencia, la Juventus, il West Ham e il Celta Vigo, quando sono rimasti fuori a causa di piazzamenti mediocri.
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Altre Coppe Europee
di Salvatore Lo Presti
Varata nel 1949 con l'obiettivo di mettere a confronto le squadre campioni dei quattro paesi più tipicamente latini dell'Europa (Francia, Italia, Spagna e Portogallo), la Coppa Latina prevedeva l'assegnazione di un trofeo al club vincente di ogni singola edizione e quella di un supertrofeo alla nazione le cui squadre si fossero complessivamente meglio comportate al termine del ciclo quadriennale.
Mancando di adeguate coperture economiche, la manifestazione procedette con qualche difficoltà, subendo prima la concorrenza di tornei più remunerativi e successivamente quella della Coppa dei Campioni, e al termine del secondo ciclo quadriennale concluse la sua breve vita.
La prima edizione avrebbe dovuto avere fra i protagonisti il Grande Torino. Ancora scossa dalla tragedia di Superga, la società granata volle partecipare ugualmente, anche per onorare la memoria dei suoi campioni scomparsi, schierando, a meno di due mesi dalla sciagura, una formazione messa insieme con i giovani più maturi e con qualche prestito.
La Coppa Latina visse sulla supremazia del calcio iberico. La Spagna si assicurò il supertrofeo in entrambe le edizioni quadriennali, grazie ai due successi a testa di Barcellona (1949 e 1952) e Real Madrid (1955 e 1957). Fra le squadre italiane lasciò il segno solo il Milan, che si aggiudicò i tornei del 1951 e del 1956. Ancora meno brillanti le squadre francesi e portoghesi.
La Coppa dell'Amicizia Italo-Francese fu istituita nel 1959, sullo slancio del grande entusiasmo sollevato dai successi ottenuti nel 1958 dal calcio francese, con la nazionale semifinalista ai Mondiali di Svezia, e dalle gesta dello Stade Reims (che sarà addirittura finalista nella Coppa dei Campioni dell'anno successivo).
Nelle sue prime tre edizioni il torneo fu organizzato sotto forma di un confronto fra le leghe professionistiche delle due nazioni. Solo nelle ultime due edizioni, prima di scomparire, nel tentativo di suscitare maggior interesse nel pubblico, la formula fu corretta, trasformando il torneo in una competizione fra club.
La prima edizione, quella del 1959, vide in lizza le prime quattro classificate della serie A italiana e della prima divisione francese (Fiorentina, Inter, Juventus, Milan; Nizza, Nîmes, Racing Club Parigi e Reims) e le prime della B (Atalanta e Le Havre) delle due nazioni. L'andata fu disputata sui campi delle squadre francesi alla fine del Campionato 1958-59, il ritorno in Ita-lia durante il precampionato del 1959-60. Netta (14 punti contro 6) la supremazia dei club italiani. Successo italiano (41 punti contro 23) anche nella secon-da edizione, disputata tutta fra il 12 e il 19 giugno 1960 ed estesa a 32 squadre, 16 per nazione. Vittoria della Lega italiana, seppur meno schiacciante (22 punti contro 18) anche nella terza edizione, quella del 1961, che vide la partecipazione di venti squadre, dieci italiane e altrettante francesi.
Nel 1962 il torneo fu allargato alle squadre svizzere e disputato dai club a livello individuale, non più di nazione. Ai nastri sei formazioni francesi, sei italiane e quattro elvetiche e successo finale al Lens, vittorioso sul Torino (2-1; 1-1). La quinta e ultima edizione, riservata nuovamente ai club italiani e francesi (quattro per nazione), si concluse con il successo del Genoa (2-1 a San Siro) in una finale tutta italiana con il Milan che un mese prima aveva vinto la Coppa dei Campioni battendo il Benfica a Wembley. Ma ormai le Coppe dell'UEFA reclamavano sempre maggiore spazio e in maniera sempre più esclusiva e la Coppa dell'Amicizia Italo-Francese cessò di essere disputata.
La Coppa delle Alpi fu varata nel 1960, aperta a 16 squadre di serie A e B (otto italiane e altrettante elvetiche) con l'obbiettivo di soddisfare la richiesta di attività internazionale pre- e postcampionato, sollevata dal successo della Coppa dei Campioni e della neonata Coppa delle Coppe. Nelle prime due stagioni, con la formula per nazioni, la Coppa delle Alpi vide il successo delle formazioni italiane (per 19 punti a 13 nel 1960, addirittura per 29 a 3 nel 1961). Dal 1962 il torneo venne esteso alle squadre francesi e disputato a livello di club. Al via tre squadre italiane (tutte di B), tre francesi e due svizzere. Prevalse il Genoa, vincitore sul Grenoble (1-0) nella finale di Marassi.
Il cambiamento di formula e la caratterizzazione come torneo estivo post-campionato rivitalizzò la manifestazione che vide ai nastri anche formazioni di prestigio. Juventus, Napoli, Eintracht Francoforte, Schalke 04, Basilea (tre successi), Lazio, Nîmes, Servette Ginevra (regina della manifestazione con quattro successi), Young Boys, Reims, Monaco (tre trofei), Bordeaux, Nantes e Auxerre iscrissero il loro nome nell'albo d'oro. Il declino della manifestazione iniziò quando i calendari internazionali presero ad affollarsi, le coppe dell'UEFA a ingrandirsi, i campionati nazionali ad allungarsi e le estati a riempirsi delle grandi competizioni ufficiali. E così, disertato dai club italiani dal 1972, il torneo ha chiuso definitivamente i battenti dopo il successo dell'Auxerre nel 1987.
Il Torneo Anglo-Italiano fu istituito nel 1970 come frutto degli eccellenti rapporti fra il mondo del calcio italiano e quello del calcio inglese creati dall'opera di Gigi Peronace (manager italiano trapiantato a Londra, scomparso improvvisamente nel 1980, quando curava le relazioni esterne della nazionale azzurra), cui dal 1986 la manifestazione fu intitolata.
La prima edizione, cui presero parte dodici squadre (sei italiane: Juventus, Napoli, Roma, Vicenza, Lazio e Fiorentina) e sei britanniche (Sheffield, Swindon Town, Middlesbrough, WBA, Sunderland e Wolverhampton), fu appannaggio dello Swindon Town, vincitore sul Napoli in una finale sospesa per incidenti. Successivamente iscrissero il proprio nome nell'albo d'oro Blackpool, Roma e Newcastle. Sospeso per due anni (1974 e 1975) per problemi economici, il torneo fu ripreso dal 1976 configurandosi come sfida fra le squadre vincenti della serie B o C italiana e della seconda o terza divisione inglese. La manifestazione si è interrotta nel 1996.
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Coppa Libertadores
di Salvatore Lo Presti
La proposta di organizzare in Sud America una competizione sulla falsariga della Coppa dei Campioni che si disputava in Europa fu lanciata dalla Federazione uruguayana nella seconda metà degli anni Cinquanta. Fu accolta con favore in virtù della consolidata tradizione di organizzare ciclicamente importanti tornei internazionali, seppur ufficiosi. Già a partire dal 1900 e fino al 1919, per iniziativa del presidente della Lega Sudamericana, Francis H.C. Boutell, si disputava infatti in Argentina la Copa Competencia, un torneo che opponeva annualmente le maggiori squadre dell'Argentina e dell'Uruguay. Nel 1929 due dirigenti del Nacional di Montevideo, Roberto Espil e José Usera Bermudez, idearono un torneo a partecipazione più ampia; i primi a organizzarlo furono i cileni, alla fine degli anni Trenta, grazie all'iniziativa di Robinson Alvarez de Marin, appassionato dirigente del Colo Colo, squadra di Santiago del Cile. Fra gli anni Trenta e Quaranta le squadre campioni di Argentina e Uruguay si sfidarono regolarmente nella Copa Río de la Plata. Nel 1948, sotto la presidenza di Luis Valenzuela, la CSF (Confederación Sudamericana de Fútbol) organizzò a Santiago, fra febbraio e marzo, una Copa de Campiones che allineava le squadre vincenti dei Campionati nazionali della stagione precedente; vi parteciparono il River Plate, il Nacional, il Colo Colo, l'Emelec, il Litoral La Paz, il Deportivo Municipal de Lima e il Vasco da Gama, squadra che si assicurò il successo. Nella prima metà degli anni Cinquanta, infine, a Caracas, in Venezuela, si disputava un torneo chiamato Piccola Coppa dei Campioni fra i club d'élite del Sud America e d'Europa.
Alla luce di questi precedenti, il congresso della CSF che si svolse a Rio de Janeiro nel 1958 accolse la proposta uruguayana di istituire un torneo tra le squadre sudamericane vincitrici dei Campionati nazionali. In quella occasione, dirigenti esperti ed entusiasti, come gli argentini Eduardo Palma e Raul Colombo, gli uruguayani Washington Cataldi, Fermin Sorhueta, Luis Troccoli e Pedro Brasilecco, il boliviano Quiroga, il peruviano Teofilo Salinas, i brasiliani João Havelange e Abilio d'Almeida, il cileno Alberto Goni, e i paraguayani Lidyo Quevedo e A. Mendoza Sanchez, posero le basi per l'organizzazione della manifestazione. Il segretario generale dell'UEFA, Henri Delaunay, propose al collega sudamericano José Ramos de Freitas di organizzare una sfida annuale fra la squadra vincitrice della Coppa dei Campioni in Europa e la squadra campione del Sud America, in modo da creare una solida connessione fra le due competizioni. Nel corso del 24° congresso della CSF, svoltosi il 5 marzo 1959 a Buenos Aires, non solo si confermò la volontà di far partire il torneo, ma furono definiti tutti i dettagli per il suo avvio, calendari compresi. Il 18 febbraio 1960 l'organo esecutivo della CSF, riunitosi a Montevideo sotto la presidenza di Fermin Sorhueta, rese operative le precedenti delibere. La competizione, che inizialmente ebbe la denominazione di Copa de Campeones de America, prese avvio il 19 aprile di quello stesso anno.
Alla prima edizione, nel 1960, parteciparono sette squadre: San Lorenzo de Almagro (Argentina), Bahia (Brasile), Peñarol (Uruguay), Millonarios (Colombia), Jorge Wilstermann (Bolivia), Universitad de Chile (Cile), Olimpia Asunción (Paraguay). Ecuador e Venezuela non aderirono, i peruviani dell'Universitario Lima rinunciarono. Vinsero gli uruguayani del Peñarol di Montevideo, che superarono nella doppia finale l'Olimpia di Asunción (1-0, 1-1).
Nel 1961, con l'adesione di Ecuador e Perù, le squadre partecipanti salirono a nove. Il Peñarol replicò il successo dell'anno precedente, battendo nella gara di andata i brasiliani della squadra del Palmeiras, grazie a un gol del suo implacabile attaccante ecuadoriano Alberto Spencer (miglior realizzatore di tutti i tempi della competizione, con 54 gol). Nella partita di ritorno i brasiliani, ancorché trascinati dal grande Julio Botelho (Julinho), non riuscirono ad andare oltre un inutile pareggio. L'anno dopo, nel 1962, spuntò la stella del Santos, che si impose nella finale contro il Peñarol, dopo avere disputato tre partite, regalando così il primo trofeo al Brasile. Il Santos vinse a Montevideo e fu battuto clamorosamente in casa, prevalendo infine nello spareggio (3-0), con una doppietta di Pelé e un autogol di Caetano.
Il 1963 fu l'anno della conferma del Santos. Ammessi direttamente alle semifinali quali detentori del titolo, i brasiliani, dopo aver superato in semifinale il Botafogo grazie a una tripletta dello scatenato Pelé e a un gol di Lima, in finale si aggiudicarono entrambe le partite con gli argentini del Boca Juniors. Nel corso del torneo, l'ecuadoriano Alberto Spencer (Peñarol) mise a segno cinque gol nel 9-1 inflitto ai suoi connazionali dell'Everest Guayaquil. Sarebbero occorsi ventidue anni per registrare una prodezza migliore. Nel 1964 anche il Venezuela iscrisse una squadra, il Deportivo Italia, alla manifestazione, mentre il Brasile ne presentò addirittura due: il Santos, detentore del titolo, e il Bahia, squadra che si era aggiudicata il Campionato nazionale. Ma fu l'Argentina a conseguire il primo successo per merito dell'Independiente di Avellaneda. Il club argentino, dopo aver eliminato in semifinale il Santos di Pelé, si impose nella finale sul Nacional di Montevideo grazie a un gol di Mario Rodriguez. In quello stesso anno i dirigenti uruguayani, spinti dalle pressioni dei due grandi club di Montevideo ‒ Nacional e Peñarol ‒ proposero all'Assemblea della CSF di ammettere alla manifestazione anche le squadre seconde classificate dei Campionati nazionali. La proposta fu approvata al congresso di Santiago del 1965, con il voto favorevole degli argentini e malgrado il parere contrario dei delegati brasiliani. In quella occasione si decise anche di dedicare il torneo agli eroi che si erano battuti nel corso del 19° secolo per l'indipendenza del continente, battezzandolo Campeonato de los Libertadores de America, nome che fu abbreviato in Copa Libertadores.
Gli argentini dell'Independiente replicarono il successo anche nel 1965, sconfiggendo i connazionali del Boca Juniors in semifinale, e superando in finale la strenua resistenza del Peñarol. La sfida richiese tre partite e, nel corso dello spareggio, l'Independiente inflisse al Peñarol una sconfitta pesante (4-1), con gol di Bernão, Avallay e Mura. L'unico gol del Peñarol fu un'autorete del tutto ininfluente. La notte del 31 marzo 1965, Pelé, il più grande calciatore di tutti i tempi, soprannominato o rey dai suoi tifosi brasiliani, fece la sua ultima apparizione in Coppa Libertadores, allo stadio Monumentale di Buenos Aires, in occasione dello spareggio fra Santos e Peñarol per l'accesso alla finale. Dopo di allora il Santos, che aveva partecipato a quattro edizioni consecutive della Coppa (dal 1962 al 1965) vincendone due, restò fuori dal torneo per ben diciotto anni, fino al 1984 (quando o rey, ormai quarantaquattrenne, si era ritirato dal calcio da oltre dieci anni). Il fuoriclasse brasiliano comunque aveva vinto il torneo per due volte e si era aggiudicato il titolo di capocannoniere nell'edizione del 1965, segnando 8 gol; il suo bilancio complessivo in Coppa Libertadores è di 17 reti realizzate nelle 15 partite disputate.
Dal 1966, con la partecipazione delle squadre seconde classificate dei tre paesi calcisticamente più forti del Sud America (Brasile, Argentina e Uruguay), migliorò ulteriormente la qualità tecnica del torneo. Dopo il terzo successo del Peñarol, con Roque Maspoli come allenatore (vittoria sul River Plate dopo tre partite: 2-0, 2-3, 4-2) si aprì un lungo periodo di supremazia delle squadre argentine, che nei dodici anni dal 1967 al 1978 vinsero la Coppa dieci volte. Diede inizio alla serie di vittorie argentine il Racing Club, che nel 1967 batté nella finale il Nacional di Montevideo. Nel corso della competizione l'attaccante uruguayano, Daniel Onega, realizzò ben 17 gol, record stagionale che nessun altro bomber ha più eguagliato. Seguì un triennio dominato dagli Estudiantes de la Plata, che riuscirono a neutralizzare inesorabilmente gli assalti di Palmeiras, Nacional Montevideo e Peñarol, prima di essere sconfitti, al quarto tentativo, nel 1971, dagli uruguayani del Nacional.
Risultati ancora più significativi furono ottenuti dall'altra squadra argentina, l'Independiente che dal 1972 al 1975 si aggiudicò il trofeo per quattro volte consecutive, realizzando la miglior sequenza di vittorie nella storia della competizione (furono sconfitti, in successione, Universitario Lima, Colo Colo, San Paolo e Unión Española). Poi, nell'edizione 1976, la Coppa fu appannaggio dei brasiliani del Cruzeiro di Belo Horizonte, trascinati dai 13 gol segnati nel corso del torneo dall'attaccante Palinha, e vincitori in finale sul River Plate. Si trattò, tuttavia, soltanto di una parentesi poiché, nelle due stagioni successive, il Boca Juniors, allenato da Juan Carlos Lorenzo, riportò il trofeo in Argentina, battendo nel 1977 il Cruzeiro e nel 1978 i colombiani del Deportivo Calí.
I cinque anni successivi hanno registrato un'interessante alternanza sul podio della Coppa Libertadores. Nel 1979, l'Olimpia Asunción fu la prima squadra paraguayana a imporsi nel torneo, battendo il Boca Juniors. Nel 1980 il titolo andò al Nacional di Montevideo, vincitore sull'Internacional Porto Alegre; quello stesso anno il Peñarol rimase per la prima volta, dopo 15 partecipazioni consecutive, fuori dalla Coppa. Nel 1981 i brasiliani del Flamengo vinsero la competizione sui cileni del Cobreloa. Nel 1982 il Peñarol ottenne il suo quarto successo; secondo ancora il Cobreloa. Nel 1983 si affermarono i brasiliani del Grêmio di Porto Alegre sul Peñarol. Dal 1984 al 1986 un altro triennio di predominio argentino nella Coppa Libertadores, con l'Independiente ‒ che mise il suo settimo sigillo sul torneo, battendo il Grêmio ‒ e le 'matricole' Argentinos Juniors e River Plate, che si assicurarono la loro prima vittoria nel torneo, ambedue a scapito dell'América Calí. Nel corso della prima fase dell'edizione del 1985, l'attaccante Juan Carlos Sanchez del Blooming (Bolivia) realizzò sei gol nella partita vinta contro i venezuelani del Deportivo Italia (8-0), ottenendo così quella che resta la performance record della Libertadores, ventidue anni dopo la prodezza di Alberto Spencer.
Dopo un'altra doppietta uruguayana, nel 1987 con il quinto successo del Peñarol ‒ guidato da Oscar Tabarez e giunto alla sua nona finale, questa volta contro l'América Calí ‒ e nel 1988 con il terzo del Nacional (vincitore sul Newell's Old Boys), nel 1989 la Coppa Libertadores registrò la prima vittoria di una squadra della Colombia, grazie all'Atlético Nacional Medellín di Francisco Maturana che riuscì a prevalere in finale sull'Olimpia Asunción. L'Olimpia si riscattò nel 1990 battendo il Barcelona Guayaquil, ma fu nuovamente superata nel 1991 dal Colo Colo, prima squadra cilena ad affermarsi nel torneo.
Poi la Coppa diventò un affare esclusivo fra argentini e brasiliani. Nel biennio 1992-1993 dominarono i brasiliani del San Paolo (vincendo il primo anno sugli argentini del Newell's Old Boys, il secondo sui cileni dell'Universidad Católica). Nel 1994 si imposero gli argentini del Vélez Sarsfield di Carlos Bianchi, prevalendo sul San Paolo. Il 1995 vide vittorioso il Grêmio, grazie al talento dell'attaccante Jardel, autore di 12 gol; al secondo posto si piazzò l'Atlético Nacional Medellín. Il River Plate di Ramon Diaz vinse l'anno successivo, sull'América Calí, ribadendo così il felice momento del calcio argentino. I brasiliani reagirono nel 1997 e per un triennio portarono a casa la Coppa Libertadores. Al Cruzerio, vincitore sullo Sporting Cristal Lima, seguì nel 1998 il Vasco da Gama (che sconfisse il Barcelona Guayaquil), mentre il Palmeiras nel 1999 chiuse il triennio, iscrivendo per la prima volta il suo nome nell'albo d'oro della manifestazione dopo la vittoria sul Deportivo Calí. Intanto, nel 1998, la Libertadores aveva preso il nome di Toyota Cup, in seguito all'accordo di sponsorizzazione fra la casa automobilistica giapponese e la Conmebol, che prevedeva un consistente contributo alle dieci squadre meglio classificate. Dal 1999 la partecipazione alla Coppa Libertadores è stata estesa a 32 squadre.
Gli anni 2000 e 2001 sono stati all'insegna del Boca Juniors di Carlos Bianchi. Il club di Buenos Aires, dopo aver sconfitto i brasiliani del Palmeiras, nella prima edizione del terzo millennio ha avuto la meglio sulla squadra del Cruz Azul di Città del Messico, prima finalista messicana dal 1998, anno in cui squadre del Messico sono state per la prima volta ammesse alla manifestazione.
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Altre Coppe Sudamericane
di Salvatore Lo Presti
La Recopa è stata istituita nel 1988 (nel 1970 si era svolta una prima edizione che non aveva avuto seguito) e si è disputata fino al 1997. La competizione prevedeva il confronto tra la squadra vincitrice dell'ultima edizione della Coppa Libertadores e quella vittoriosa nella Supercoppa João Havelange. La Recopa era assegnata mediante una sola partita, che veniva giocata in campo neutro. A partire dal 1997 la Recopa è praticamente stata sostituita dalla Coppa Mercosur.
Nel 1993, in luogo del San Paolo, che si era aggiudicato sia la Coppa Libertadores sia la Supercoppa, è stato invitato a gareggiare il Flamengo, in quanto vincitore della Coppa Conmebol. L'edizione del 1997, disputata in realtà fra agosto e settembre del 1999, è stata inserita nel tabellone della Mercosur 1999. Aperta con il successo del Nacional di Montevideo nel 1988, nei dieci anni in cui è stata disputata, la Recopa ha visto una leggera supremazia delle squadre brasiliane (vittoriose per quattro volte: 1992, 1993, 1995, 1997) su quelle argentine (tre successi: 1989, 1994, 1996). L'unica squadra che abbia vinto due volte è stata il San Paolo, che si è assicurato il trofeo nel 1992 e nel 1993.
Istituito nel 1988, il Campionato Sudamericano dei club vincitori della Coppa João Havelange, più comunemente e sinteticamente detto 'Supercopa', era aperto a tutte le squadre che avessero vinto almeno una volta la Coppa Libertadores. La finale si giocava su due gare, andata e ritorno, sui campi delle due squadre finaliste. Dopo l'edizione del 1997, vinta dal River Plate, la Coppa è stata soppressa nel quadro della riorganizzazione dei tornei sudamericani per club, e anch'essa sostituita dalla Coppa Mercosur.
La Coppa Conmebol è stata istituita nel 1992 sul modello della Coppa UEFA europea. L'unica differenza era che le squadre che partecipavano alla Coppa Libertadores potevano iscriversi anche alla Coppa Conmebol, schierando nei primi turni del torneo le riserve o i calciatori più giovani in luogo dei giocatori titolari, mentre, in Europa, uno stesso club non può partecipare contemporaneamente alla UEFA e alla Champions League. La disputa del torneo si è interrotta nel 2000, dopo che la partecipazione alla Coppa Libertadores è stata estesa a 32 squadre.
Fin dalla prima edizione, la Coppa Conmebol è stata monopolio delle squadre dei due paesi calcisticamente più forti del Sudamerica, il Brasile e l'Argentina. Il primo torneo ha visto prevalere la squadra brasiliana dell'Atlético Mineiro. La Coppa è poi rimasta in Brasile per altri due anni grazie al Botafogo e al San Paolo. Dopo un biennio di prevalenza argentina (Rosario Central e Lanús), nel 1997 ha di nuovo vinto la competizione un club brasiliano, l'Atlético Mineiro, l'unico ad aver conquistato il trofeo per due volte. Nel 1998 si è imposto il Santos. Nel 1999 si è registrata infine la vittoria del club argentino Talleres di Cordoba.
La Coppa Mercosur e la Coppa Merconorte sono state ideate e organizzate dalla Confederazione sudamericana (Conmebol) nell'ambito della globale ristrutturazione delle Coppe riservate alle squadre di club. Il Comitato esecutivo della Conmebol ne ha deciso il varo il 22 agosto 1997 a Lima. La Coppa Mercosur prevede la partecipazione di 20 squadre appartenenti all'area meridionale del Sudamerica: sette brasiliane, sei argentine, tre cilene, due uruguayane e due paraguayane. Alla Coppa Merconorte, partecipano club dei cinque paesi più settentrionali del Sud America e dei due paesi guida della CONCACAF (la Confederazione che riunisce le federazioni calcistiche del Nord e del Centro America) con l'obiettivo di stringere ulteriormente i rapporti fra la CONCACAF e la Conmebol, sulla falsariga degli 'scambi' già attuati nell'organizzazione della Coppa America e della Gold Cup e dell'ammissione, dal 1998, dei club messicani alla Coppa Libertadores. In tal modo si sono allargate le opportunità di svolgere una remunerativa attività internazionale per i club non di vertice.
La prima Coppa Mercosur si è disputata tra il 29 luglio e il 29 dicembre 1998 e ha visto il successo dei brasiliani del Palmeiras di Luiz Felipe Scolari, che hanno battuto, nella partita di spareggio, i connazionali del Cruzeiro di Belo Horizonte per 1-0 con un gol di Francisco Xavier Arce. Anche nei due anni successivi hanno prevalso le squadre brasiliane: il Flamengo ha battuto il Palmeiras nel 1999 mentre il Vasco da Gama si è imposto nel 2000 ancora sul Palmeiras (che è sempre arrivato in finale, nelle tre edizioni disputate fino al 2000). Primo successo argentino, infine, nel 2001 con il San Lorenzo de Almagro.
Alla prima edizione della Coppa Merconorte si erano iscritte tre squadre della Colombia, tre del Perù, tre dell'Ecuador, tre del Messico, due degli Stati Uniti, una boliviana e una del Venezuela. A causa dell'improvviso ritiro delle squadre messicane, e dopo aver rischiato addirittura di non essere più disputata, la Merconorte ha infine preso il via in forma ridotta (solo 12 squadre di cinque paesi, tutti sudamericani) il 15 settembre 1998. La competizione si è conclusa a dicembre con una finale tutta colombiana giocata tra l'Atlético Nacional di Medellín e il Deportivo Calí, registrando una doppia vittoria dell'Atlético per 3-1 e 1-0. Anche nella sua seconda edizione, il torneo ha confermato la supremazia colombiana con il successo della squadra dell'América Calí sul club Independiente Santa Fe di Bogotá. La terza edizione, quella del 2000, ha visto finalmente prendere corpo il progetto interamericano, con 16 squadre ai nastri e la partecipazione di quattro formazioni messicane (Gualajara, Necaxa, Toluca e Pachuca) e una della Costa Rica (Alajuelense). Ha vinto ancora una volta il Nacional Medellín, al suo secondo successo, ai danni di un'altra formazione colombiana, i Millonarios di Bogotá. Nel 2001 hanno preso parte per la prima volta al torneo due formazioni degli Stati Uniti, i Metrostars e i Los Angeles Galaxy, ma il successo è andato ai Millonarios di Bogotá.
Il futuro delle due Coppe è comunque molto incerto. La CSF sta studiando la possibilità di fonderle in un solo torneo, possibilmente con la partecipazione di squadre della CONCACAF (Coppa Pan-Américana).
La Coppa Interamericana, la cui denominazione completa è Campionato Americano per Club, si dovrebbe disputare annualmente fra la squadra vincente della Coppa dei Campioni della CONCACAF e la detentrice della Coppa Libertadores per laureare la squadra campione d'America. Pur suscitando un discreto interesse, il torneo ha incontrato notevoli ostacoli, che ne hanno impedito lo svolgimento per tredici edizioni in trentatrè anni. La principale difficoltà è stata quella di armonizzare i calendari delle competizioni e dei campionati di calcio del Sud America con quelli dell'America centrale e settentrionale e di individuare date compatibili per entrambe le squadre qualificate. La regina della manifestazione è l'Independiente, squadra argentina che si è aggiudicata tre volte il trofeo.
Dal 1999 al 2001 la Coppa Interamericana non è stata più disputata: si sta vagliando la possibilità di farla rientrare nell'ambito della Coppa Pan-Américana, sostitutiva della Mercosur e della Merconorte e aperta a squadre di tutto il continente.
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Coppa Intercontinentale
di Salvatore Lo Presti
Nel 1957, tre anni dopo la disputa della prima edizione della Coppa dei Campioni e pochi mesi dopo il varo della Copa Libertadores da parte del congresso della Confederazione calcistica sudamericana (CSF), il segretario generale dell'UEFA, il francese Henry Delaunay, sull'onda dell'entusiasmo suscitato dal successo delle prime edizioni del torneo europeo, propose al collega sudamericano, il brasiliano José Ramos de Freitas, di istituire e organizzare un doppio confronto annuale fra la squadra vincente del torneo riservato alle squadre campioni d'Europa e la vincente della Coppa Libertadores, in una competizione che si sarebbe potuta considerare a tutti gli effetti un Campionato del Mondo per club.
In passato, fra il 1952 e il 1957, era stato disputato quattro volte in Venezuela, a Caracas, un torneo denominato Piccola Coppa del Mondo, con la partecipazione di squadre provenienti da paesi sudamericani ed europei (vi aveva preso parte un paio di volte la Roma), ma senza cadenze regolari né, tantomeno, il crisma dell'ufficialità. Fallito rapidamente il tentativo di far partire una Coppa UEFA/CONCACAF a causa dello scarso interesse suscitato in Europa, ci si rese conto invece che una competizione che opponesse le squadre campioni dell'Europa a quelle più prestigiose del Sud America avrebbe potuto incontrare un grande successo. Il 15 febbraio 1960, sotto la presidenza dell'uruguayano Fermin Sorhueta, la CSF decise di organizzare regolarmente la sfida. La formula iniziale prevedeva due partite (andata e ritorno, una sul campo della squadra campione d'Europa, l'altra sul terreno della detentrice della Coppa Libertadores, con il computo dei soli punti, senza tener conto della differenza reti), con eventuale bella sul campo della squadra che aveva ospitato la gara di ritorno. Lo scopo era chiaramente quello di evitare i disagi, ma soprattutto le spese, di una terza trasvolata dell'Atlantico.
Poco più di quattro mesi dopo, precisamente il 3 luglio 1960, a Montevideo, con arbitraggio dell'argentino José Luis Praddaude e davanti a quasi 72.000 spettatori, Peñarol e Real Madrid diedero inizio alla storia della manifestazione. Il pareggio a reti inviolate strappato a Montevideo consentì al Real Madrid di completare il suo straordinario quinquennio di predominio in Europa con la conquista della prima edizione del trofeo intercontinentale. Il 4 settembre 1960, nella partita di ritorno a Madrid, davanti a oltre 100.000 spettatori entusiasti, il 'colonnello' Ferenc Puskas, autore di una tripletta nei primi 10 minuti di gioco, e i suoi compagni travolsero la squadra di Roberto Scarone con un inequivocabile 5-1.
Fatto tesoro della lezione e favoriti dalla possibilità di giocare la prima partita in trasferta, gli uruguayani del Peñarol di Montevideo si rifecero l'anno dopo, in circostanze simili, contro il Benfica di José Augusto e Mario Coluña. Sconfitti di misura (0-1, con gol di Coluña) nella gara di andata a Lisbona, dominarono nel ritorno a Montevideo, superando per 5-0 la squadra di Bela Guttmann, priva del suo bomber Eusebio, e conquistando largamente il diritto alla bella (non era presa in considerazione la differenza-gol). Ma neanche il recupero da parte del Benfica del giovanissimo fuoriclasse del Mozambico poté impedire al Peñarol di conquistare il trofeo: Eusebio pareggiò il rigore iniziale di Sacía, che però, prima del riposo, firmò anche il gol-partita; la squadra degli emigranti piemontesi fu così la prima sudamericana a conquistare il trofeo.
Per altre due stagioni la Coppa rimase nel nuovo continente. Al successo del Peñarol, infatti, fece seguito una doppietta del Santos con il giovanissimo Pelé, che superò nel 1962 il Benfica e nel 1963 il Milan di Nereo Rocco e Gianni Rivera, prima squadra italiana a essersi aggiudicata la Coppa dei Campioni. La doppia gara del 1962 fra il Santos di Pelé e il Benfica di Eusebio merita una menzione particolare sia perché costituì anche una sfida fra due dei più grandi campioni di tutti i tempi, sia perché le due partite vanno considerate tra le più spettacolari mai viste. All'andata, davanti ai 100.000 tifosi del Maracaná di Rio de Janeiro, al vantaggio iniziale del Benfica, firmato da Santana, il Santos replicò con una doppietta realizzata nel giro di 10 minuti da Pelé (al rientro dopo l'infortunio che gli aveva impedito di disputare la fase conclusiva del Mondiale in Cile); poi, la rete di Coutinho metteva al sicuro il successo e ininfluente si rivelava il raddoppio portoghese, ancora di Santana. Nella gara di ritorno a Lisbona, allo stadio de La Luz, gremito da 70.000 tifosi, il Santos, guidato dal tecnico Lula e trascinato da un Pelé in autentico stato di grazia, fornì un'altra convincente dimostrazione di forza. Pelé, che avrebbe compiuto 22 anni pochi giorni dopo, con una doppietta nei primi 25 minuti di gioco chiuse praticamente la partita. Nella ripresa i brasiliani dilagarono con una rete del solito Coutinho, con la terza personale di Pelé e con il sigillo finale di Pepe; solo negli ultimi dieci minuti i portoghesi riuscirono a rendere meno mortificante la sconfitta con i gol di Eusebio e di Santana.
Nel 1963, all'andata a San Siro, il Milan superò nettamente i brasiliani per 4-2, con gol di Trapattoni, Amarildo (2) e Mora; la doppietta di Pelé servì solo ad attenuare il peso della sconfitta. Rivera e i compagni pensavano di avere ormai il trofeo in tasca, ma furono pesantemente smentiti nella gara di ritorno: in condizioni ambientali caldissime (che facevano da contraltare alla pur pesante assenza di Pelé), dopo che Mora aveva pareggiato il gol iniziale di Almir, Pepe e lo stesso Almir riportarono in vantaggio i brasiliani; un gol di Altafini servì solo ad accorciare temporaneamente le distanze, che Pepe ristabilì due minuti dopo (4-2, al 66′). Si rese necessaria la bella che, secondo il regolamento, fu disputata al Morumbi di San Paolo, davanti a oltre 120.000 spettatori. Un rigore di Dalmo, al 31′ del primo tempo, decise una partita caratterizzata più dal gioco duro che dallo spettacolo, al punto che Cesare Maldini e il brasiliano Ismael conclusero anzitempo la loro partita, espulsi. La doppietta di San Siro aveva comunque consentito a Pelé, assente nelle due gare in Brasile, di portare a sette le sue marcature nella manifestazione, cui non prese più parte: un bottino personale mai eguagliato da altri. Quella del 1963 fu l'ultima partecipazione del Santos all'Intercontinentale. Prima di rivedere un'altra squadra brasiliana nel torneo, sarebbero passati tredici anni.
L'anno successivo il Milan fu vendicato dall'altro club milanese, l'Inter. Vinta la sua prima Coppa dei Campioni, la squadra di Helenio Herrera si trovò contro l'Independiente di Avellaneda, che puntava soprattutto su agonismo e forza fisica. Gli argentini vinsero di misura la partita d'andata con un gol di Mario Rodriguez, l'Inter replicò nel ritorno con Mazzola e Corso. Nella bella, disputata a Madrid, dopo aspra battaglia un gol di Corso nei supplementari chiuse il conto e portò per la prima volta la Coppa in Italia, premiando le migliori qualità tattiche degli interisti. La squadra di Helenio Herrera fece il bis nel 1965, battendo ancora l'Independiente, annichilito nella gara di andata con un secco 3-0 (Peiró e due volte Mazzola); il ritorno in Sud America si chiuse sullo 0-0.
La reazione sudamericana non si fece attendere. L'offensiva partì dagli uruguayani del Peñarol che nel 1966, l'anno in cui festeggiavano il 75° anniversario della fondazione, incontrarono il prestigioso avversario di sei anni prima, il Real Madrid, ormai alla fine del suo lunghissimo ciclo e indebolito dal ricambio generazionale in corso. Dopo aver vinto la partita in casa con una doppietta di Alberto Spencer, il Peñarol riuscì a ripetersi a Madrid con l'identico punteggio (gol di Rocha e ancora di Spencer).
Il trofeo rimase altri due anni in Sudamerica. Nel 1967 toccò per la prima volta, ma non senza fatica, a una squadra argentina, il Racing di Avellaneda. Sconfitti di misura dal Celtic a Glasgow, gli argentini si rifecero al ritorno, dopo aver temuto il peggio: infatti segnò per primo il Celtic con Gemmel, ma per i sudamericani rimediò Raffo con una doppietta. Nella bella, costellata da incidenti, falli ed espulsioni, fu Cardenas a segnare il gol del successo. Al rientro in Scozia, la dirigenza del Celtic inflisse pesanti sanzioni ai suoi giocatori che si erano resi protagonisti degli episodi fallosi più gravi.
Nel 1968 la Coppa passò agli Estudiantes de la Plata che si confrontarono con successo con un'altra squadra britannica, il Manchester United di Matt Busby e di Bobby Charlton, vincitori della Coppa dei Campioni a dieci anni dalla tragedia di Monaco. Fu identico, però, il clima di violenza. Il nazionale inglese Nobby Stiles riportò una ferita a un sopracciglio e fu espulso per proteste nei confronti di un guardalinee. Seri infortuni toccarono anche ad altri giocatori, fra cui il correttissimo Bobby Charlton. Gli Estudiantes vinsero di misura la gara di andata, con un gol di Conigliaro, e riuscirono a pareggiare (1-1, con vantaggio di Verón ‒ padre del campione acquistato nel 2001 proprio dal Manchester ‒ e pareggio di Morgan) a Glasgow, in un pesante clima di ritorsioni di cui Medina e George Best fecero le spese, venendo espulsi.
Nel 1969 fu introdotto, per evitare la terza partita, il computo della differenza reti. Se ne avvalse il Milan che batté 3-0 a San Siro l'Estudiantes (con due gol di Angelo Sormani e uno di Néstor Combin). L'atmosfera in cui si giocò la gara di ritorno fu quasi di guerriglia. Il franco-argentino Combin, accusato di renitenza alla leva (obbligo che aveva assolto in Francia), fu addirittura arrestato e picchiato dalla polizia al suo arrivo a Buenos Aires. Durante la partita, il portiere Poletti e i difensori Manera e Aguirre Suarez (unico espulso) si resero colpevoli di falli così gravi da indurre il presidente argentino, il generale Juan Carlos Ongania, a intervenire in prima persona per deplorare la "condotta vergognosa" di alcuni giocatori, che aveva "danneggiato il prestigio argentino nel mondo". In seguito all'intervento presidenziale, Poletti fu immediatamente arrestato, mentre Manera e Aguirre Suarez furono denunciati a piede libero. Processati per direttissima, furono condannati a 30 giorni di prigione che scontarono regolarmente. Poletti inoltre fu radiato dalle autorità calcistiche, Aguirre Suarez squalificato per 30 giornate di Campionato, Manera per 20; per tutti e due scattarono anche cinque anni di esclusione da qualsiasi attività internazionale. Il Milan comunque, passato in vantaggio con Rivera, riuscì a contenere la sconfitta nei minimi termini (1-2, con gol di Conigliaro e Aguirre Suarez) e poté riportare in Italia la Coppa. Intorno alla competizione, però, si era creato ormai un brutto clima di intimidazione, violenza e sospetti, che portò a numerose rinunce da parte dei club europei, tanto da metterne in dubbio la prosecuzione.
Nel 1970 il Feyenoord di Ernst Happel mise il primo sigillo del calcio olandese nella competizione intercontinentale. Imposto il pareggio (2-2) in Argentina agli Estudiantes (condizionati dalle pesantissime sanzioni seguite alla gara con il Milan), il Feyenoord si assicurò la Coppa battendo Carlos Bilardo e i suoi compagni a Rotterdam, con un gol di Van Daele, appena subentrato a Moulijn.
L'anno dopo l'Ajax rinunciò ad affrontare il Nacional Montevideo e il suo posto fu preso dal Panathinaikos, l'altra finalista di Coppa dei Campioni, costretto al pareggio al Pireo (1-1) e sconfitto in Uruguay da una doppietta di Artime (2-1).
La Coppa tornò in Sud America per un solo anno, perché l'Ajax, nella stagione successiva, con l'avvento di Stefan Kovacs al posto di Rinus Michels, rivide la propria posizione e accettò di affrontare l'Independiente. Dopo Pelé ed Eusebio, anche Johan Cruijff si cimentava nella manifestazione: fu lui a siglare il gol con cui l'Ajax passò in vantaggio a Buenos Aires, prima di essere raggiunto da Sà a pochi minuti dalla fine. Nella gara di ritorno, Cruijff fu l'ispiratore del largo successo (3-0), firmato da Neeskens e dalla doppietta di Rep.
La conquista del trofeo placò le ambizioni dell'Ajax, che rinunciò a ripetere l'esperienza nel 1973, dopo aver battuto la Juventus nella finale di Coppa dei Campioni a Belgrado. La squadra torinese si dichiarò disposta a sostituirla a condizione che si giocasse una sola partita, a Torino o comunque in Europa. Dopo una lunga trattativa, l'Independiente, guidato dall'ex interista Humberto Maschio, accettò di giocare in Italia, a Roma. All'Olimpico la Juventus di Vycpalek, dopo aver fallito un rigore con Cuccureddu, si fece battere nel finale da un gol di Bochini.
La serie di rinunce non si era ancora conclusa e la competizione continuava a perdere credibilità. Anche il Bayern, dopo aver vinto nel 1974 la sua prima Coppa dei Campioni, lasciò il suo posto all'Atlético Madrid, che s'impose all'Independiente perdendo di misura a Buenos Aires (0-1) e rifacendosi a Madrid (2-0, con gol di Irureta e Ayala). Le due partite, dopo mille difficoltà, si giocarono in grave ritardo fra marzo e aprile 1975 (anche se nell'albo d'oro il nome dell'Atlético Madrid rimane associato all'anno 1974); così, dopo il secondo successo del Bayern, l'impossibilità per i tedeschi di trovare delle date libere e l'indifferenza dell'altra finalista europea, il Leeds, portarono alla mancata disputa della manifestazione. Di qui il 'buco' nell'albo d'oro relativamente al 1975.
Dietro le pressioni dei dirigenti dell'UEFA e della CSF, l'anno dopo, finalmente, il Bayern acconsentì a giocare contro i brasiliani del Cruzeiro e conquistò la Coppa vincendo a Monaco (2-0) e tornando imbattuto da Belo Horizonte.
Le difficoltà della Coppa Intercontinentale però si intensificarono. Reperire date libere in calendari sempre più fitti e coordinare le necessità europee con quelle della stagione sudamericana risultava sempre più complicato. Così si arrivò alla doppia rinuncia del Liverpool nelle edizioni del 1977, vinta nettamente dal Boca Junior di Juan Carlos Lorenzo sul Borussia Mönchengladbach (anche in questo caso le gare slittarono ai primi mesi dell'anno successivo), e del 1978 (anch'essa, dopo quella del 1975, non disputata). Nel 1979 infine l'Olimpia Asunción di Luis Cubilla prevalse senza grandi problemi sugli svedesi del Malmö, subentrati ai vincitori della Coppa dei Campioni, gli inglesi del Nottingham Forest.
La soluzione fu trovata quando i dirigenti della CSF e quelli del Nacional Montevideo riuscirono a sfruttare l'interesse dei giapponesi per un ruolo di visibilità nel calcio e la disponibilità di un'impresa di comunicazione, la West Nally. Dopo lunghi preparativi, e dopo aver tentato inutilmente la carta degli USA (Los Angeles), la strada per rilanciare la Coppa Europa-Sud America fu tracciata la sera del 28 novembre 1980 a Roma, nel corso di una lunga riunione fra il segretario dell'UEFA Hans Bangarter, il presidente della CSF Teofilo Salinas, i dirigenti del Nacional Montevideo Dante Locco e José Sasson, il rappresentante del Nottingham Forest Geoffrey McPherson e i responsabili della West Nally, Michel Storey e Patrick Nally. Fu stabilito che da quell'anno la competizione, che avrebbe assunto il nome di Coppa Toyota, sarebbe stata disputata in gara unica a Tokyo, con la casa automobilistica come sponsor. Eccezionalmente, per ovvie esigenze di tempo, l'incontro tra le due squadre che avevano conquistato il titolo continentale nel 1980, si sarebbe disputato in ritardo, l'11 febbraio dell'anno dopo. Successivamente, a partire proprio dall'edizione del 1981, il trofeo si sarebbe giocato sempre ai primi di dicembre. La soluzione ottenne un successo insperato, consentendo alla Toyota un notevole ritorno di immagine (al punto da convincerla, qualche anno dopo, a sponsorizzare anche la Coppa Libertadores). La prima edizione disputata a Tokyo (datata nell'albo d'oro 1980) fu appannaggio del Nacional Montevideo, che sconfisse il Nottingham Forest con un gol di Waldemar Victorino.
Nel 1981 ‒ diciotto anni dopo l'ultimo successo del Santos di Pelé ‒ una squadra brasiliana riuscì nuovamente a conquistare il trofeo: toccò al Flamengo di Zico (eletto miglior giocatore della partita), che s'impose nettamente al Liverpool (3-0) con una doppietta di Nuñez e un gol di Adilio.
Il calcio sudamericano visse, a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta, il più lungo periodo di supremazia. Dopo il successo del Bayern nel 1976, per sette edizioni consecutive le formazioni europee tornarono a casa battute, senza riuscire a mettere le mani sul trofeo che riconquistava di anno in anno il proprio prestigio. Al Flamengo si aggiunsero nell'albo d'oro il Peñarol, al suo terzo successo (1982), un'altra formazione brasiliana, il Grêmio che, battendo l'Amburgo nel 1983, si assicurò per la prima volta la Coppa, quindi ancora gli argentini dell'Independiente, che nel 1984 liquidarono il Liverpool, riconquistando il trofeo a distanza di undici anni.
Fu la Juventus di Trapattoni, Platini e Laudrup a interrompere la serie di vittorie sudamericane nel 1985, battendo l'Argentinos Juniors al termine di una partita spettacolare e avvincente, prodiga di emozioni e decisa ai rigori. Platini pareggiò il vantaggio di Erero, Laudrup lo imitò, con un bellissimo gol da posizione incredibile, dopo il secondo vantaggio argentino siglato da Castro. Annullata in maniera discutibile la terza rete di Platini, per gioco pericoloso, i rigori premiarono la Juventus, grazie anche alle prodezze con cui il portiere Tacconi neutralizzò i tiri di Sergio Batista e Pavoni.
La vittoria dei bianconeri aprì un periodo di alternanza fra successi europei e sudamericani. Il River Plate ebbe la meglio sulla Steaua Bucarest nell'edizione 1986; il Porto si rifece l'anno dopo ai danni del Peñarol, grazie a un gol di Madjer nei supplementari; il Nacional Montevideo, infine, superò il PSV Eindhoven di Romario e Kieft, alla prima esperienza nell'Intercontinentale, nel 1988.
Ma già si profilava all'orizzonte la stella del Milan di Arrigo Sacchi, che nelle due edizioni seguenti collezionò altrettante vittorie: due successi consecutivi che, insieme con quelli ottenuti in Europa, contribuirono ad accrescere la fama del tecnico di Fusignano e il prestigio del calcio italiano, favorendone il cambiamento di mentalità e abitudini. Nel 1989 il Milan, contro i colombiani dell'Atlético Medellín, diede vita a una gara spettacolare per intensità, interpretazione tattica, varietà di schemi, continuità di iniziative e rovesciamenti di fronte (non a caso questa finale viene inclusa da molti tecnici d'avanguardia fra 'le partite del secolo'). Quando, al termine dei supplementari si profilavano i rigori, la squadra italiana sbloccò il risultato con uno splendido calcio di punizione dal limite dell'area di rigore di Alberigo Evani.
Senza storia invece il successo milanista del 1990 contro i paraguayani dell'Olimpia Asunción. La doppietta di Frank Rijkaard e il suggello finale di Giovanni Stroppa fissarono l'agevole 3-0. Vincendo per la terza volta la Coppa Intercontinentale il Milan affiancava nel numero di vittorie le due 'regine' uruguayane, Peñarol e Nacional Montevideo.
Il 1991 segnò l'unico successo di una squadra dell'Est europeo, quella Stella Rossa di Belgrado che aveva nelle sue file campioni come Vladimir Jugovic e Dejan Savicevic: grande spettacolo e secco 3-0 al Colo Colo (con doppietta di Jugovic e un gol di Darko Pancev).
Al triennio europeo fece puntualmente seguito un tris sudamericano: lo aprirono i brasiliani del San Paolo, vincitori nel 1992 sul Barcelona (2-1), grazie alle prodezze di Raí, il fratello di Socrates, e nel 1993 sul Milan di Capello (ammesso in seguito a una squalifica, per illecito sportivo, dell'Olympique Marsiglia). Protagonista della partita, finita 3-2, fu l'intramontabile Toninho Cerezo, autore del secondo gol (gli altri due furono di Palinha e Luis Muller). Il trittico sudamericano fu completato nel 1994 dal successo degli argentini del Vélez Sarsfield, vittoriosi per 2-0 contro un Milan nervoso e in pieno declino.
Ma la replica dei club europei era pronta grazie all'Ajax guidato da Luis Van Gaal, i cui punti di forza erano rappresentati da Edgar Davids, Gary Litmanen, i gemelli Ronald e Frank De Boer e il giovanissimo Patrick Kluivert. Gli olandesi, nel 1995, ebbero tuttavia bisogno dei rigori per avere ragione degli irriducibili brasiliani del Grêmio (decisivi gli errori iniziali di Dinho e Arce).
Nel 1996 il testimone fu raccolto dalla Juventus di Marcello Lippi, una squadra che aveva saputo dare spettacolo sui campi di tutta Europa e che conquistò meritatamente il trofeo (il secondo nella sua storia) contro il River Plate, imponendosi per 1-0 con gol di Alessandro Del Piero. Era il settimo successo di una squadra italiana nella manifestazione.
Sulla scia della Juventus altre tre squadre europee si aggiudicarono poi la Coppa Toyota: nel 1997 il Borussia Dortmund, ai danni del Cruzeiro di Belo Horizonte (2-0, con gol di Zorc e Herrlich); nel 1998 il Real Madrid di Guus Hiddink, contro il Vasco da Gama (decisiva la rete di Raul); nel 1999 il Manchester United di Alex Ferguson, battendo la formazione brasiliana del Palmeiras, grazie a una prodezza del suo regista Kean.
La rivincita sudamericana è arrivata solo nel 2000, con il Boca Juniors di Carlos Bianchi, vincitore sul Real Madrid grazie a due gol del poderoso bomber Martin Palermo (2-1). L'Argentina ha raggiunto così l'ottavo successo nella competizione, superando l'Italia e le sue sette vittorie. A riportare il trofeo in Europa nel 2001 ci ha pensato il Bayern Monaco di Ottmar Hitzfeld, vincitore sugli argentini con un gol di Kuffour nei supplementari, a venticinque anni dal suo primo e unico successo.
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di Salvatore Lo Presti
La Confederación Norte-Centroamericana y del Caribe de Fútbol, la CONCACAF, nel 1962 istituì una competizione per club, la Copa de Campeones y Subcampeones, nella quale furono coinvolte le squadre vincitrici e le seconde classificate dei rispettivi Campionati nazionali. Il torneo della CONCACAF ha stentato parecchio a decollare, specie nei primi anni. I continui cambiamenti di formula e di regolamenti e i complicatissimi criteri di selezione delle squadre partecipanti, non a caso definiti 'bizantini', hanno spento gli iniziali entusiasmi dei club. Solo negli ultimi anni, con lo sviluppo del calcio messicano e soprattutto sotto la spinta dei club del ricco Campionato statunitense, la competizione ha ripreso quota e ha assunto una certa regolarità. Il torneo è stato dominato dalle squadre messicane, vincitrici di ben 19 delle 38 edizioni portate a termine. La Cruz Azul di Città del Messico ha vinto cinque volte, quattro l'América, tre l'UNAM. Nelle ultime tre edizioni notevole peso ha esercitato la Norh American Soccer League (NASL), contribuendo ai successi dei DC United (1998) e del Los Angeles Galaxy (2000). Nell'ottobre del 2001 la CONCACAF ha deciso di ristrutturare le sue competizioni per club e di sospendere l'edizione in corso del torneo, includendo le squadre qualificate fino a quel momento in una nuova Coppa dei Campioni 2002. Nei primi mesi del 2003 si disputerà un torneo a otto (denominato Coppa dei Club) per designare le due partecipanti al Mondiale per club dello stesso anno.
La Coppa delle Coppe CONCACAF, istituita agli inizi degli anni Novanta e aperta alle squadre vincitrici delle Coppe nazionali, ha risentito di vistose lacune organizzative e del fatto che molti paesi hanno disputato i loro tornei di Coppa con notevoli irregolarità, tanto che le ultime edizioni non sono arrivate alla conclusione e nel 1998 il torneo è stato definitivamente soppresso. Nel 2001 è stata varata una nuova competizione denominata FC Giants Cup, i cui elastici criteri di partecipazione sono stati lasciati alla discrezionalità delle singole Federazioni, con la raccomandazione di iscrivere le squadre più popolari e capaci di assicurare gli incassi maggiori.
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Coppe Africane
di Salvatore Lo Presti
Il forte impatto che la Coppa dei Campioni d'Europa aveva avuto presso gli appassionati di calcio africani, un paio di esibizioni del Real Madrid ad Accra e al Cairo, insieme con la conquista dell'indipendenza da parte di molte ex colonie e lo sviluppo del trasporto aereo furono determinanti perché prendesse corpo l'idea di creare anche in Africa una competizione internazionale riservata alle squadre campioni. In prima fila, fra i patrocinatori del progetto, il dirigente ghanese Ohene Djan, che nel settembre 1961 formalizzò la proposta, supportandola con l'offerta di un trofeo da parte del presidente ghanese Kwame Nkrumah. Il 16 febbraio 1962 l'assemblea della CAF discusse nei dettagli il progetto della competizione, che il presidente Y. Tessema propose di chiamare 'Campionato dei Club d'Africa per la Coppa del dr. Nkrumah'. Una successiva assemblea straordinaria, il 24 gennaio 1963 al Cairo, deliberò la nascita della nuova competizione, affidando l'organizzazione della sua fase finale (cui avrebbero partecipato quattro squadre, qualificate dopo una serie di eliminatorie secondo criteri geografici) al Ghana.
Alla prima edizione si iscrissero 14 squadre. Alla fase finale, disputata fra il 31 gennaio e il 7 febbraio 1965, giunsero Real Republican (Ghana), Cotton Factory (Etiopia), Stade Malien Bamako (Mali) e Oryx Douala (Camerun), che si aggiudicò a sorpresa il trofeo e il primo titolo continentale, superando in finale lo Stade Malien, con grande disappunto dei ghanesi, che tanta parte avevano avuto nell'ideazione e nell'organizzazione della manifestazione (che avrebbero vinto per la prima volta solo cinque anni dopo, nel 1970, con l'Asante Kotoko).
L'andamento della competizione si può dividere in due fasi nettamente distinte. La prima, che va dagli inizi fino al 1980 e copre una quindicina di edizioni, è stata caratterizzata dallo strapotere delle squadre dell'Africa centro-occidentale: cinque successi dei club camerunesi (tre del Canon Yaoundé, uno ciascuno dell'Oryx e dell'Union di Douala), tre di squadre del Congo Kinshasa-Zaire (Tout Puissant Englebert e Vita Club Kinshasa) e tre dei campioni di Guinea dell'Hafia Conakry. Uniche intromissioni in questo ciclo furono quelle degli egiziani dell'Ismailia nel 1969 e degli algerini del Mouloudia (MC Algeri) nel 1976.
Nella seconda fase, che va dall'inizio degli anni Ottanta a oggi, si registra lo strapotere delle formazioni dell'Africa settentrionale, dei club egiziani, marocchini, algerini e tunisini, con sporadici successi da parte di due squadre ghanesi (Asante Kotoko nel 1983 e Hearts of Oak nel 2000), dei sudafricani dell'Orlando Pirates (1995) e degli ivoriani dell'ASEC Abidjan (1998). In evidenza gli egiziani dello Zamalek, con quattro affermazioni fra il 1984 e il 1996, e il Raja Casablanca, con tre vittorie fra il 1989 e il 1999. Tre successi pure per il club leader del calcio africano, Al Ahly (nome europeizzato in Nacional) del Cairo (1982, 1987 e 2001), che vanta anche quattro Coppe delle Coppe. Le altre protagoniste del torneo sono comunque l'Asante Kotoko di Kumasi (due volte vittorioso, 1970 e 1983), e il Canon Yaoundé (successi nel 1971, 1978 e 1980). Una sola affermazione per l'ASEC Abidjan (che salirà alla ribalta internazionale anche come protagonista di una straordinaria serie di 108 gare consecutive senza sconfitte nel Campionato della Costa d'Avorio, vinto per sei volte di seguito dal 1990 al 1995). Il trofeo del dottor Nkrumah è stato assegnato definitivamente al Hafia Conakry in occasione del suo terzo successo, nel 1977, e rimpiazzato con il Trofeo Ahmed Sékou Touré, finito allo Zamalek nel 1993. Dal 1994 è in palio la Coppa CAF.
Non mancano, specie nella prima fase, a causa soprattutto della scarsa esperienza dei club e della litigiosità di giocatori, tecnici e degli stessi dirigenti, contestazioni e violenze. La finale della terza edizione, quella del 1967 ad Accra, per esempio, fra Asante Kotoko e Tout Puissant Englebert non si sblocca dalla parità (2-2) neanche dopo i tempi supplementari. L'arbitro decide di procedere al sorteggio, ma scoppiano disordini e quindi l'operazione viene rinviata all'indomani. Nel frattempo accorre a Kinshasa il segretario della CAF Mourad Fahmy con il testo del regolamento che impone la ripetizione della partita, fissata per il 27 dicembre a Yaoundé. Il Kotoko per protesta non si presenta e il trofeo viene assegnato all'Englebert. A colpi di reclami, viene deciso di rigiocare la finale il 18 febbraio a Kinshasa, ma il Kotoko, dopo aver invano controproposto come sede Lagos o Yaoundé, resta fermo nel rifiuto e la Coppa viene assegnata definitivamente ai congolesi dell'Englebert.
Per evitare episodi di questo tipo, le parti del regolamento riguardanti i criteri per risolvere i casi di parità vengono continuamente aggiornate: si farà ricorso al sorteggio dopo i tempi supplementari fino al 1970, a una bella dal 1971 al 1974, finché non saranno introdotti il valore doppio dei gol segnati in trasferta e i calci di rigore finali. Nel 1996, dopo la disputa della trentaduesima edizione del trofeo, ne viene decisa una sostanziale trasformazione con la creazione della CAF Champions League, sul modello di quella europea.
L'istituzione della Coppa delle Coppe africana, riservata alle squadre vincenti delle Coppe nazionali, fu approvata al Cairo nel dicembre 1974 per iniziativa del presidente della CAF, Y. Tessema, e del segretario Mourad Fahmy. Il torneo prese il via l'anno successivo. Era previsto che il trofeo fosse definitivamente assegnato alla squadra che l'avesse vinto per tre volte. La prima Coppa, dedicata al secondo presidente della Confederazione africana, il generale Abdel Aziz Mustafa, promotore dello sviluppo del calcio africano dal 1958 al 1968, fu conquistata dall'Al Ahly (Nacional) del Cairo nel 1986, dopo che ebbe raggiunto il suo terzo successo (le tre vittorie sono state consecutive). Il nuovo trofeo, non ancora aggiudicato, è stato dedicato a Nelson Mandela, simbolo della lotta per i diritti delle popolazioni di colore e contro l'apartheid.
La prima edizione (1975), con 15 formazioni iscritte, è stata vinta dai camerunesi del Tonnerre Kalara di Yaoundé, che peraltro non hanno subito alcuna sanzione per aver utilizzato illecitamente e sotto falso nome tre giocatori del Canon Yaoundé (N'Kono, Akoa e Ayssi); non è stato infatti presentato alcun reclamo da parte degli avversari.
Il torneo è stato dominato dalle formazioni egiziane che hanno accumulato otto successi, contro i tre dei club di Nigeria e Tunisia. L'unica squadra che, avendo vinto il torneo per due volte dopo il 1986, ha la possibilità di aggiudicarsi definitivamente la Nelson Mandela Cup è l'Africa Sports di Abidjan (Costa d'Avorio). Il 2001 ha visto il primo successo di un club sudafricano, quello dei Kaizer Chiefs.
Dal 1992 anche l'Africa ha la sua Supercoppa, che mette di fronte le formazioni vincitrici della Coppa dei Campioni e della Coppa delle Coppe. L'albo d'oro, inaugurato dagli ivoriani dell'Africa Sports, presenta il 'gotha' del calcio africano pressoché al completo. La sola formazione che finora ha vinto per due volte il trofeo è quella egiziana dello Zamalek.
La Coppa CAF è la più recente delle competizioni per club africane: è stata varata nel 1991, nell'ambito della politica di sviluppo lanciata dal presidente federale Issa Hayatou, ed è riservata alle formazioni giunte, nel proprio Campionato, al secondo posto (o al terzo, nel caso in cui la seconda sia ammessa alla Champions League o alla Coppa delle Coppe). Partito nel 1992, il torneo mette in palio la Coppa B.M. Abiola, offerta dal mecenate nigeriano di cui porta il nome. La prima edizione è stata vinta dai nigeriani dello Shooting Stars di Ibadan. Dopo gli exploit della Stella Abidjan (Costa d'Avorio) e della Bendel Insurance (Nigeria), dal 1995 al 2001 la manifestazione è stata dominata dalle formazioni nordafricane, con quattro successi tunisini (due dell'Étoile du Sahel, uno di Espérance e uno di Sfaxien), due degli algerini del JS Kabylie e uno dei marocchini dell'AC Marrakech.
Se si considerano le enormi distanze e le difficoltà di comunicazione fra i paesi africani prima che i trasporti aerei fossero diffusi ed efficienti come oggi e, di conseguenza, i problemi organizzativi ed economici di un continente come quello africano, si comprende facilmente come le manifestazioni nate per prime, nella scia della Coppa dei Campioni, siano state quelle riservate alle squadre di due grandi regioni geografiche e non dell'intero continente: la Coppa CECAFA e la Coppa UFOA.
La Coppa CECAFA è riservata ai club secondi classificati nei Campionati dei paesi dell'Africa centro-orientale (Kenya, Tanzania, Uganda, Sudan, Ruanda ecc.). Nata nel 1974 (dieci anni dopo la Coppa dei Campioni e un anno prima della Coppa delle Coppe), è stata dominata dalle squadre kenyote, che se la sono aggiudicata 14 volte, contro le 8 delle formazioni della Tanzania. I club che hanno ottenuto il maggior numero di successi sono i Leopards kenyoti (originariamente denominati 'Abaluhya') e i tanzaniani del Simba, entrambi con cinque successi.
La Coppa UFOA è nata tre anni dopo, nel 1977, e allinea le squadre seconde classificate dei Campionati nazionali dell'Africa occidentale (Nigeria, Costa d'Avorio, Senegal, Ghana ecc.). La scena è stata dominata dalle formazioni nigeriane (otto successi in totale) e da quelle della Costa d'Avorio (sei vittorie). Le squadre che hanno vinto più volte il trofeo (dedicato al Generale Eyadema), sono l'Africa Sports (Costa d'Avorio) e la Bendel Insurance (Nigeria). Con due successi seguono la New Nigerian Bank e l'ASF Police (Senegal).
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Coppe dell'Asia
di Salvatore Lo Presti
La Coppa dei Campioni d'Asia è stata varata nel 1967 e nei suoi primi anni di esistenza è stata dominata dalle formazioni israeliane, segnatamente dal Maccabi di Tel Aviv che l'ha vinta due volte. Dopo un lungo periodo di interruzione (non fu disputata dal 1972 al 1985, a causa dei focolai bellici in alcune zone del continente asiatico), ricominciò quando la situazione politica lo permise, nel 1985-86. In quell'edizione i coreani dei Daewoo Royals vinsero a Gedda sul club di Riad, Al Ahly. Vi fu poi un periodo di sostanziale equilibrio fra i club giapponesi, cinesi e thailandesi, cui seguì, dopo la metà degli anni Novanta, una certa prevalenza da parte della Corea con l'Ilhwa Chunma (1996) e il Pohang Steelers (1997 e 1998).
Nel 2001 la Coppa dei Campioni d'Asia è stata ristrutturata sulla falsariga della Champions League europea. Le prime due edizioni della nuova formula hanno fatto registrare la vittoria dei coreani del Suwon Samsung Bluewings.
La Coppa delle Coppe d'Asia ha avuto inizio nell'anno 1991 con un successo iraniano, quello del Pirouzi, rimasto unico nell'albo d'oro della competizione. Nella breve storia di questa Coppa, riservata alle squadre vincitrici delle Coppe nazionali, hanno dominato le formazioni dell'Arabia Saudita con sei successi. A livello di club, soltanto i giapponesi della Nissan e i sauditi dell'Al Hilal possono vantare due trofei in bacheca.
La Supercoppa d'Asia, che pone di fronte la vincitrice della Coppa dei Campioni e quella della Coppa delle Coppe, è stata istituita solo nel 1995 e ha visto tre successi di squadre dell'Arabia Saudita, contro due affermazioni di club del Giappone. Una sola vittoria è stata registrata per i coreani. L'unica squadra che abbia vinto due volte questa competizione è l'Al Hilal (Arabia Saudita).
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Coppa Dei Campioni Afro-Asiatica
di Salvatore Lo Presti
La competizione mette di fronte la squadra vincitrice della Coppa dei Campioni d'Africa e la formazione che ha primeggiato nell'omologo torneo asiatico. Istituita nel 1986, ha visto il predominio dei club egiziani, che se la sono assicurata tre volte, due delle quali per merito dello Zamalek.
La competizione, creata con chiari intenti promozionali, è per il momento bloccata. L'edizione del 1999 infatti ‒ che avrebbe dovuto mettere di fronte nel giugno del 2000 Asec Abidjan (Costa d'Avorio) e Jubilo Iwata (Giappone) ‒ è stata prima rinviata e infine definitivamente cancellata in seguito alla rottura dei rapporti, decretata il 30 luglio 2000, fra la Confederazione calcistica africana e quella asiatica. Il motivo della crisi è stato il voto favorevole dato alla Germania (e quindi contro il Sud Africa) dalla rappresentanza asiatica in occasione dell'assegnazione della Coppa del Mondo del 2006.
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Coppe dell'Oceania
di Salvatore Lo Presti
Un torneo fra le squadre detentrici dei titoli nazionali in Oceania è stato varato soltanto nel 1999, quando si è presentata la necessità di designare la formazione che avrebbe partecipato al Campionato Mondiale per Club istituito dalla FIFA e disputato in Brasile. In precedenza, nel 1987, si erano tenuti due tornei, uno con la denominazione di Coppa dei Campioni, l'altro con quella di Coppa delle Coppe; ma non è mai stato chiarito se uno dei due ‒ e quale ‒ fosse da considerarsi ufficiale, anche perché in molti paesi si disputa un solo torneo con la formula della Coppa, e non Campionati a cadenze regolari. Nelle due edizioni organizzate dalla OFC, quella del 1999 ha visto il successo del South Melbourne, mentre quella del 2001 ha visto prevalere un'altra squadra australiana, i Wollongong City Wolves.
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Fifa World Clubs Championship
di Salvatore Lo Presti
L'idea di un vero Campionato del mondo per club, pur essendo suggestiva, ha sempre incontrato due ostacoli insormontabili: la difficoltà di trovare date compatibili per formazioni provenienti da cinque continenti con condizioni climatiche e abitudini completamente diverse e l'enorme differenza di livello fra il calcio europeo e sudamericano e quello di Nordamerica, Africa, Asia e Oceania. Anche agli effetti dell'interesse televisivo e quindi del business, una competizione di questo tipo ha sempre suscitato parecchie perplessità.
Nel 1999 la FIFA ha finalmente deciso di varare il World Clubs Championship e ne ha affidato l'organizzazione al Brasile, dove si è svolta, non senza difficoltà, nel gennaio del 2000 la prima edizione. Il Manchester United, per esempio, ha preteso di essere esonerato dalla disputa della FA Cup (Coppa d'Inghilterra) il cui prestigio è sacro per gli inglesi, per non rendere eccessivamente gravoso l'impegno richiesto ai giocatori nell'arco di una stagione troppo carica di partite. La prima edizione del torneo, cui hanno preso parte otto squadre (Corinthians, Real Madrid, Al Nasr, Raja Casablanca, Vasco da Gama, Necaxa, Manchester United e South Melbourne), si è conclusa con il successo dei brasiliani del Corinthians che in finale hanno battuto i connazionali del Vasco da Gama (4-3 ai rigori, 0-0 dopo i tempi supplementari). Terzo classificato è stato il Real Madrid. La seconda edizione, allargata a 12 squadre, assegnata alla Spagna e in calendario dal 30 luglio al 12 agosto 2001, è stata rinviata all'ultimo momento al 2003 per difficoltà organizzative, in parte legate al fallimento della ISL, la società svizzera di marketing che ne deteneva i diritti commerciali e televisivi. La FIFA ha comunque indennizzato le squadre che avrebbero dovuto partecipare al torneo.