Calcio - Competizioni per Nazionali
di Adalberrto Bortolotti
Sin dalla fondazione della FIFA (Fédération internationale de football association), che ebbe luogo il 21 maggio 1904 a Parigi, l'idea di un Campionato di calcio aperto alle rappresentative nazionali di tutti i paesi del mondo costituì l'utopia di un illuminato gruppo di pionieri. La Francia, che già aveva avuto il merito di riesumare, a fine Ottocento, l'ideale olimpico, grazie a Pierre de Coubertin, fece ancora da traino. Francese era il primo presidente della Federazione internazionale, Robert Guérin, un giornalista dalla fervida fantasia. Suo fu un primo progetto di Campionato di calcio che parve prendere corpo l'anno seguente, quando successive adesioni accrebbero l'esiguo numero dei paesi fondatori. Con la collaborazione del suo segretario generale, l'olandese Carl A. Wilhelm Hirschmann, Guérin arrivò a stabilire un meccanismo di quattro gruppi eliminatori (Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda nel primo; Spagna, Francia, Belgio e Olanda nel secondo; Svizzera, Italia, Austria e Ungheria nel terzo; Germania, Danimarca e Svezia nel quarto), configurando in tal modo l'embrione di un Campionato europeo. Le squadre vincitrici dei quattro gruppi si sarebbero dovute affrontare in un torneo finale in Svizzera. Tuttavia, il 31 agosto 1905, quando si chiusero i termini delle iscrizioni al Campionato, nessun paese, neppure la Svizzera delegata a ospitare la fantomatica fase conclusiva, aveva formalizzato la propria adesione. Se ne dedusse che i tempi non erano ancora maturi.
La tappa successiva fu di ufficializzare la presenza del calcio nei Giochi Olimpici e la cosa funzionò sino a quando non si determinò la frattura insanabile fra professionismo e dilettantismo, alle cui severe regole erano allora ancorati tutti i partecipanti alle Olimpiadi. Ne pagò le conseguenze l'Inghilterra, che avendo adottato, in anticipo su tutti gli altri, il professionismo nel calcio, fu costretta a inviare al torneo olimpico rappresentative di secondo piano, regolarmente maltrattate dai professionisti 'mascherati' delle altre nazioni.
Nel 1921 salì alla presidenza della FIFA un altro francese, Jules Rimet, che diede l'impulso decisivo all'idea di un Campionato di calcio autonomo pur scontrandosi a lungo con il Comitato olimpico internazionale, restio a privarsi della disciplina che gli garantiva il maggior seguito e i più ricchi incassi. Il 10 dicembre 1926, nella riunione dell'esecutivo a Parigi, la FIFA nominò una commissione per studiare la formula di un Campionato di calcio aperto a tutte le federazioni iscritte. Ne fecero parte lo svizzero Bonnet, l'austriaco Meisl, l'italiano Ferretti, il tedesco Linnemann, l'ungherese Fischer e il braccio destro di Rimet, Henry Delaunay, francese. Il 18 maggio 1929, durante il congresso di Barcellona, furono approvate le proposte della commissione articolate in quattro punti: 1) la FIFA avrebbe organizzato ogni quattro anni un Campionato Mondiale di calcio a partire dal 1930; 2) tutte le Federazioni associate, senza distinzione fra professionisti o amatori, avrebbero potuto iscriversi al Campionato (ciò avrebbe risolto il conflitto con i Giochi Olimpici che avrebbero continuato a ospitare nel proprio ambito un torneo di calcio riservato esclusivamente a formazioni dilettantistiche); 3) nel caso di iscrizioni superiori a 30, si sarebbero disputati incontri eliminatori; 4) tutte le spese sarebbero state a carico del paese organizzatore.
In un clima di grande entusiasmo, la FIFA scelse la sede del primo Campionato del Mondo tra i sei paesi pretendenti, di cui cinque europei (Svezia, Spagna, Ungheria, Italia, Olanda) e uno sudamericano (l'Uruguay, in possesso dei migliori titoli sportivi come campione olimpico nel 1924 e nel 1928). L'Olanda, la Svezia e l'Ungheria ritirarono la loro candidatura in favore dell'Italia, che a sua volta accondiscese a lasciare via libera all'Uruguay in cambio della priorità per i successivi Mondiali del 1934. Restava solo la Spagna, ma Ricardo Cabot, segretario generale della Federazione iberica, sciolse ogni dubbio prendendo la parola in un silenzio carico di tensione: "Il calcio spagnolo è disposto a lottare con i fratelli del Sud America soltanto su un campo di gioco, mai in un congresso della FIFA, oltretutto tenuto in una città spagnola". Erano tempi di grande cavalleria. Fu scelto anche il nome della manifestazione: 'Coppa del Mondo', successivamente rinominata 'Coppa Rimet' in omaggio al suo artefice.
Con il varo del Campionato Mondiale di calcio 'open', Jules Rimet aveva coronato un sogno e avviato un'operazione destinata progressivamente a trasformarsi in un business senza confini, capace di coinvolgere interessi non solo sportivi, ma anche sociali, politici, economici, turistici, sino a diventare la manifestazione più seguita in assoluto. Gli inizi, però, non furono così esaltanti. In Uruguay l'entusiasmo per la prestigiosa investitura valse almeno a distogliere l'attenzione dalla crisi economica sempre più profonda che da tempo aveva messo in grave difficoltà un paese a lungo etichettato come la Svizzera del Sud America. Montevideo, la capitale, aveva all'epoca 600.000 abitanti, quasi un terzo dell'intera popolazione. I due stadi della capitale, il Pochitos e il Parque Central, sede dei due club più prestigiosi, Peñarol e Nacional, non erano adeguati ad accogliere tutti gli appassionati attratti dal fascino della Celeste, la Nazionale uruguayana. Fu così deciso di costruire un nuovo monumentale impianto, lo stadio Centenario, così battezzato perché proprio nel 1930 ricorreva il centenario della prima Costituzione uruguayana.
L'architetto Juan Scasso progettò uno stadio capace di accogliere 100.000 spettatori. Squadre di operai si misero al lavoro giorno e notte, alla luce dei riflettori e dei fari delle auto. Gli argentini, dall'altra parte del Rio della Plata, ci scherzavano su: "Uno stadio così grande per un paese così piccolo... ". Fu anche rappresentata una pièce teatrale dal titolo Che ci faranno in quello stadio?. Fiera e profetica arrivò la risposta uruguayana: "Vi faremo quello che abbiamo sempre fatto, vi batteremo gli argentini". Il Centenario, ancora fresco di cemento, fu terminato in cinque mesi, giusto per l'avvio del Mondiale.
Nel frattempo, in Europa nessuno voleva affrontare una trasferta così dispendiosa. Per evitare il fallimento, Rimet cominciò un suo tour personale al termine del quale riuscì a strappare quattro adesioni: Francia, Iugoslavia, Belgio, Romania. Si dice che la partecipazione romena fu carpita al re Carol grazie alle arti di seduzione di una nobildonna del tempo celebre per la sua bellezza, Magda Lupescu. Le nazionali europee (tranne la Iugoslavia, che aveva scelto un mezzo meno costoso) si imbarcarono sul Conte Verde, lussuoso transatlantico italiano, che partì da Genova ed entrò nella baia di Montevideo, accolto da una folla inneggiante, il 5 luglio 1930 dopo uno scalo a Rio de Janeiro, dove prese a bordo la squadra brasiliana. Era a bordo anche Rimet, che portava con sé la statuetta (1800 g d'oro massiccio, 30 cm d'altezza) raffigurante una vittoria alata che reggeva una coppa, opera dell'orafo Abel Lafleur. Era il trofeo destinato al vincitore del primo Campionato del Mondo nella storia del calcio.
Tredici risultarono alla fine le squadre partecipanti. L'Italia si era chiamata fuori, temendo le ritorsioni per il saccheggio dei talenti sudamericani perpetrato dai suoi club più potenti. L'Europa, che aveva in lizza solo squadre di secondo piano, non offrì neanche una testa di serie, rappresentate solo dall'Argentina, dal Brasile, dagli Stati Uniti e dall'Uruguay. Tra queste, fu il Brasile a mancare all'appello delle semifinali. La rinuncia dei giocatori paulisti aveva privato la squadra del più forte e prolifico attaccante dell'epoca, Arthur Friedenreich detto il 'Tigre', un mulatto che con i suoi 1329 gol ufficiali, realizzati in 26 anni di carriera, precedendo anche Pelé è da considerare il più grande cannoniere di ogni tempo. Il Brasile fu così eliminato dall'abile Iugoslavia. La Francia, che aveva segnato con Lucien Laurent, al 19′ della partita inaugurale contro il Messico, il primo gol nella storia dei Mondiali, dovette cedere all'Argentina. Nelle semifinali, con l'identico punteggio di 6-1, l'Argentina travolse gli Stati Uniti, mentre l'Uruguay ebbe la meglio sulla Iugoslavia, già paga della bella figura.
La finalissima fra Argentina e Uruguay, da tutti attesa e pronosticata, andò in scena al maestoso Centenario il 30 luglio 1930. L'arbitro, il belga Jan Langenus, designato tre ore prima dell'inizio del match, pretese che fosse stipulata una polizza sulla vita a favore della famiglia e che, subito dopo il fischio finale, una scorta armata lo accompagnasse a bordo del Duilio, in partenza per l'Europa. Si giocò il primo tempo con il pallone degli argentini, la ripresa con quello uruguayano. Luisito Monti, il terribile centromediano argentino, chiamato doble ancho, "doppia anta", per il suo fisico possente, chiese di non giocare perché aveva ricevuto minacce e si sentiva i nervi a pezzi. La sua richiesta non venne accolta. Anche il centravanti uruguayano Peregrino Artusi negli spogliatoi avvicinò il suo capitano, José Nasazzi, dicendogli che non se la sentiva di affrontare l'incontro. Nasazzi, el caudillo, lo guardò con disprezzo e, senza neppure interpellare il tecnico Alberto Suppicci, fece cenno a Héctor Castro, monco della mano destra, di prendere il posto del codardo. La partita fu splendida. L'Argentina chiuse il primo tempo in vantaggio per 2-1, grazie a Guillermo Stabile, el filtrador, tiratore scelto del torneo. L'Uruguay rimontò e vinse 4-2 con l'ultimo gol di Castro, el mancho, chiamato da allora 'l'uomo del destino'. Nell'euforia della festa, l'arbitro non ebbe difficoltà a raggiungere il piroscafo. Gli argentini parlarono di complotto, ma l'Uruguay aveva vinto perché, a parità, o quasi, di talento tecnico, il suo calcio era stato più concreto e razionale, ma anche guidato da un superiore senso tattico.
In Italia, nei primi anni Trenta, il calcio viveva una sorta di età dell'oro, favorito dal regime fascista che vi identificava una formidabile fabbrica di consenso. Per modernità e capillarità di strutture, l'Italia era seconda, forse, alla sola Inghilterra. Stadi nuovi e imponenti erano appena sorti, o andavano completandosi, coniugando la grandiosità richiesta dall'epoca con il profondo rispetto dei canoni estetici: basti pensare agli impianti di Firenze, Bologna, Torino, o allo stesso Flaminio di Roma, che allora si chiamava stadio del PNF (Partito nazionale fascista). Non stupì, quindi, che al congresso di Stoccolma del 1932 l'Italia venisse prescelta, con votazione quasi unanime, per ospitare la seconda edizione del Campionato del Mondo, la prima in Europa.
Com'era prevedibile, la sede europea fece impennare il numero delle iscrizioni, che furono inizialmente 32 e poi si ridussero a 29 per il forfait di Cile, Perù e Turchia. Fu uno strepitoso successo tecnico e organizzativo, ma anche la rivincita europea, dopo l'en plein sudamericano del 1930. Del resto, il vecchio continente trovò scarsa resistenza. L'Uruguay, campione in carica, disertò per ritorsione verso l'Italia, assente quattro anni prima. L'Argentina mandò una squadra di dilettanti nel timore, fondato, che i suoi campioni non sarebbero tornati indietro, ingaggiati dai club italiani a caccia di attrazioni esotiche. Il Brasile, invischiato nelle consuete diatribe interne, inserì un paio di fuoriclasse, Leonidas e Waldemar de Brito, in una nazionale di piccolo cabotaggio.
Erano invece presenti in blocco, e nel ruolo di favorite, le stelle del calcio danubiano, Austria e Cecoslovacchia in particolare, mentre restava fuori l'Inghilterra in perenne e sdegnoso contrasto con la Federazione internazionale. L'Italia rappresentava, con la Spagna del mitico Ricardo Zamora, il fascino del calcio latino. Dal 1929 Vittorio Pozzo era tornato alla guida tecnica degli azzurri, dopo l'interregno di Augusto Rangone, illuminato dal bronzo olimpico vinto ad Amsterdam nel 1928. Rigido, autoritario, con una visione altamente patriottica dell'impegno agonistico, Pozzo era l'uomo giusto per i tempi, ma era anche un tecnico di prim'ordine, innamorato del calcio legato ai più grandi personaggi del tempo, da Hugo Meisl, il profeta del Wunderteam austriaco, a Herbert Chapman, l'inventore del 'sistema' inglese. Pozzo allestì con cura una squadra attenta più agli equilibri collettivi che ai valori individuali (escluse dalla nazionale Fulvio Bernardini perché "troppo bravo"), tatticamente sofisticata, in grado di arricchire il tradizionale 'metodo' danubiano con l'arma, prettamente italica, del contropiede. L'Italia, anche a causa di sorteggi sfavorevoli, trovò sul proprio cammino ostacoli durissimi, superati tutti, forse con qualche aiuto, ma certo con grande merito. Chi parlò di vittoria di regime, e furono in tanti fuori dai confini, fu smentito dal bis che quattro anni dopo l'Italia di Pozzo concesse, giocando all'estero e in un ambiente carico di ostilità.
Gli azzurri cominciarono travolgendo gli Stati Uniti negli ottavi con il risultato di 7-1, ma nei quarti incontrarono la Spagna e fu battaglia feroce, con un risultato finale di pareggio anche dopo i supplementari. Alla ripetizione del match, il giorno seguente, non c'era Zamora a difendere la porta spagnola e molte furono le malignità su quel decisivo forfait. Giuseppe Meazza, che in carriera mai riuscì a battere Zamora, si ripagò con il suo sostituto: il risultato di 1-0 rimase sino alla fine e alla Spagna fu annullato il gol del pareggio.
In semifinale l'Italia incontrò la terribile Austria, uscita vincitrice a sua volta da un derby piuttosto acceso con l'Ungheria. Ancora 1-0 per gli azzurri, firmato da Enrico Guaita, uno dei tre oriundi, con l'ala sinistra Mumo Orsi e il centromediano Luisito Monti, lo stesso che aveva difeso i colori argentini nel precedente Mondiale. In finale era approdata più agevolmente la Cecoslovacchia, con un perentorio 3-0 ai tedeschi, che giocavano il 'sistema', unica eccezione in un fronte compatto di 'metodisti'.
La finale andò in scena a Roma il 10 giugno 1934. Già la voce metallica di Nicolò Carosio scandiva via radio le emozioni del pallone. I cecoslovacchi controllarono magistralmente la partita per l'intero primo tempo, grazie al fraseggio insistito e alla manovra ricamata dal loro centrocampo. Il portiere Frantisek Planicka restava irraggiungibile per i nostri attaccanti: il centravanti bolognese Angelo Schiavio, l'interno di punta Meazza dell'Inter, l'argentino Guaita della Roma. Quando, a venti minuti dalla fine, Antonin Puc, con un tiro a effetto, trovò il gol quasi dalla linea di fondo, all'Italia tutto parve perduto. Un palo di Frantisek Svoboda negò il raddoppio alla Cecoslovacchia. Solo una prodezza in extremis del minuscolo Raimundo Orsi valse la proroga dei tempi supplementari. Pozzo ordinò a Schiavio e a Guaita di scambiarsi i ruoli. A Schiavio essere dirottato all'ala parve un affronto. Obbedì, ma l'istinto lo portò al centro, dopo sette minuti di overtime, per incrociare un lancio di Meazza e batterlo a rete, fuori della portata di Planicka. Così maturò il trionfo. Dopo quel gol storico e decisivo, Schiavio lasciò la nazionale. Aveva 29 anni, una lunga carriera davanti; ma si chiese: "Dopo questo, cosa potrei fare di più?".
La vittoria italiana nel Mondiale giocato in casa del 1934 aveva scatenato un'autentica caccia alle streghe, nella quale la stampa francese si era segnalata in prima fila. Proprio in Francia, l'Italia di Pozzo dovette difendere il suo titolo nella terza edizione iridata. Grazie alla decisiva influenza di Jules Rimet, la Francia aveva ottenuto l'organizzazione del 1938, in spregio alla regola dell'alternanza fra Europa e Sud America. Offesa, l'Argentina aveva subito annunciato il suo forfait e poiché l'Uruguay insisteva nel rifiuto di varcare l'oceano, la presenza americana si ridusse a Brasile e Cuba. In compenso, grazie alle Indie Olandesi, si registrò la prima presenza di una nazionale asiatica. Il Campionato del Mondo andava allargando i suoi confini, ma la manifestazione risentiva del pesante clima politico dell'Europa, minacciata dai venti di guerra. La Spagna, generosa e sfortunata protagonista del Mondiale del 1934, era impossibilitata a partecipare alla manifestazione dalla guerra civile. L'Austria in seguito all'Anschluss nazista era stata inglobata, anche calcisticamente, nella Germania: in teoria ne sarebbe dovuta scaturire una squadra imbattibile, ma l'operazione fallì miseramente come tutte le unioni cementate non con il libero consenso, ma con la forza e il sopruso. Tuttavia, assenze così importanti (Argentina, Uruguay, Austria, Spagna) non compromisero il livello tecnico della manifestazione, che si giovò del miglior Brasile visto sino ad allora. Leonidas, fuggevolmente ammirato a Roma quattro anni prima, era diventato il più forte centravanti del mondo: lo chiamavano il 'diamante nero', perché in campo sembrava sprigionare autentiche magie, muovendosi finalmente in una squadra altamente competitiva. Il difensore Domingos da Guia, Tim, Brandão, Zezé Procopio, Romeu (un oriundo italiano, il cui nome era Romeo Pellicciari) erano altrettanti campioni. Sicuro di vincere, quel Brasile fu tradito solo dalla presunzione, dopo aver regalato ai francesi spettacoli di altissimo livello.
Il calcio azzurro viveva il suo momento migliore. Dopo il titolo mondiale a Roma, l'Italia aveva conquistato anche la Coppa Internazionale (una sorta di Campionato europeo) nel 1935 e l'oro olimpico nel 1936, a Berlino, con una squadra di studenti. Dalla squadra olimpica, Pozzo promosse alla nazionale maggiore i terzini Alfredo Foni e Pietro Rava, e il mediano Ugo Locatelli. Luisito Monti, andato nel frattempo in pensione, fu sostituito da un altro oriundo, l'uruguayano Michele Andreolo, meno potente ma più tecnico. In attacco, ferma la coppia di mezzeali Giovanni Ferrari e Meazza, il centravanti era Silvio Piola, le ali Pietro Pasinati e Pietro Ferraris (II), poi sostituiti dal bolognese Amedeo Biavati (l'inventore del 'passo doppio') e da Gino Colaussi.
Gli azzurri debuttarono a Marsiglia, in un ambiente ostile. Migliaia di fuoriusciti (la Francia accoglieva generosamente i perseguitati dal fascismo) esplosero in un coro assordante di fischi quando i giocatori di Pozzo scesero in campo rivolgendosi al pubblico con il saluto romano. Il match con la Norvegia si rivelò in salita e solo nei supplementari Piola lo indirizzò a favore dell'Italia. Nei quarti, l'impegno a Parigi contro la Francia padrona di casa minacciava un'altra tempesta. Si ripeterono i fischi, ma si ripeté pure Piola, con due gol, entrambi su millimetrici lanci di Biavati, dopo che il primo tempo si era chiuso 1-1. Convinto di aver finalmente trovato la formazione ideale, Pozzo si accinse alla prova più dura: la semifinale, ancora a Marsiglia, contro la stella del torneo, quel Brasile che segnava gol a grappoli e incantava con il suo calcio danzato.
Uscito vincitore da una durissima battaglia con la Cecoslovacchia, la finalista di Roma, che aveva richiesto la ripetizione del match, il Brasile si sentiva il titolo in tasca. Già prenotato l'aereo per la finalissima di Parigi, il tecnico Ademir Pimenta decise di concedere un turno di riposo al suo gioiello Leonidas, perché fosse fresco e riposato per la finale. I 40.000 spettatori di Marsiglia erano tutti per gli 'artisti' sudamericani; gli azzurri potevano contare solo sul tifo di un migliaio di fedelissimi arrivati dall'Italia. Domingos da Guia fu incollato a Piola con l'incarico di annullare il temuto goleador italiano. Pozzo si limitò ad arretrare i suoi mediani, a maggior protezione della difesa. Andreolo doveva lanciare lungo per Biavati (uno schema che i due adottavano nel Bologna), dei cui cross approfittava Piola. L'Italia giocò di puro contenimento nel primo tempo, per sfruttare a distanza la sua maggior freschezza atletica. Puntualmente il Brasile mostrò segni di stanchezza dopo l'intervallo. Un 'missile' di Colaussi lanciato da 20 metri risultò imparabile per il portiere Fritz Walter. Quattro minuti dopo, Domingos da Guia atterrò Piola, lanciato a rete. Il rigore fu battuto da Meazza con glaciale freddezza. Il Brasile era al tappeto. Non c'era Leonidas a guidarne la riscossa. Trovò il gol della bandiera solo a giochi fatti, con Romeu. Quella fu la vera finale: 2-1 per l'Italia. A Parigi, contro l'elegante ma più fragile Ungheria, l'Italia vinse senza patemi con un largo 4-2 (doppiette di Piola e Colaussi), che indusse all'applauso anche i recalcitranti francesi. Questa volta nessuna ombra si allungava sul successo azzurro. Cinque italiani, Rava, Andreolo, Biavati, Meazza e Colaussi, figurarono nella formazione ideale votata dai giornalisti di tutti i paesi presenti al torneo.
Il Mondiale del 1950 fu memorabile perché si svolse, dopo le sanguinose follie della guerra, in un clima di normalità e di ritorno alla ragione, ma nella storia del calcio resterà scolpito soprattutto per la sua incredibile conclusione, insieme grottesca e tragica. La Coppa del Mondo nel frattempo era stata ribattezzata Coppa Rimet e si era stabilito che il trofeo sarebbe stato assegnato alla squadra che avesse vinto i Mondiali per tre volte. L'Italia, dopo la doppia vittoria delle edizioni di Roma 1934 e Parigi 1938, era la prima candidata ad aggiudicarsi il titolo in via definitiva.
Nel congresso tenuto dalla FIFA nel 1946, il Brasile aveva ottenuto senza difficoltà l'organizzazione del primo Mondiale postbellico. Due consecutive edizioni europee rendevano obbligatoria la scelta sudamericana e l'Argentina, che poteva essere un'alternativa seria, si fece da parte, prostrata dal lungo sciopero dei calciatori che aveva determinato l'esodo dei migliori talenti nel faraonico calcio colombiano di quegli anni. Già ricco di impianti sportivi, il Brasile volle celebrare l'avvenimento costruendo a Rio de Janeiro il più grande stadio del mondo, il Maracaná. Era il tempio del football, destinato a celebrare l'immancabile trionfo della nazionale di casa. Un solo slogan si propagava da un angolo all'altro del paese: O Brasil ha de ganhar, "il Brasile deve vincere". Dietro l'entusiasmo, lievitavano però le spese sino ad agitare lo spettro del fallimento. Per aumentare gli incassi (più partite, più soldi) fu così scelta una nuova formula, non più a eliminazione diretta, ma a gironi. Tuttavia, delle 16 finaliste (Brasile e Italia ammesse di diritto, le altre uscite dalle qualificazioni), tre (Scozia, Turchia e India) diedero forfait e così i gironi furono 'zoppi': due a quattro squadre, uno a tre, e un altro addirittura a due. Le quattro vincitrici avrebbero dato vita a un ulteriore girone finale. Capitato nel gruppo a due con la Bolivia, l'Uruguay si trovò nel gruppo delle quattro finaliste senza colpo ferire. I brasiliani non si resero conto di aver lanciato un boomerang, che li avrebbe tramortiti.
La grande novità era il debutto, in un Campionato del Mondo, dei maestri inglesi, che sino ad allora avevano sdegnosamente rifiutato di partecipare. L'Inghilterra, per ospitare le Olimpiadi del 1948, era rientrata nell'alveo internazionale, portandosi al seguito le altre federazioni britanniche. Era un momento felice per il calcio inglese, ricco di campioni quali Stanley Matthews, Alf Ramsey, William (Billy) Wright, Tom Finney, Stanley Mortensen. Nella marcia di avvicinamento al Brasile, la nazionale inglese aveva battuto 10-0 il Portogallo a Lisbona, 4-0 l'Italia di Pozzo a Torino (nel 1948), 3-1 la Francia a Parigi, 5-2 il Belgio a Bruxelles. Nei pronostici era considerata il naturale antagonista dei padroni di casa. L'Italia godeva di qualche considerazione soprattutto per essere stata due volte campione in carica più che per il suo effettivo valore. Era temuto l'Uruguay, che rientrava in lizza dopo i forfait in Europa ed era guidato in campo da un genio del pallone, 'Pepe' Schiaffino.
L'Inghilterra suscitò subito un enorme clamore, facendosi battere 1-0 dai dilettanti statunitensi. La notizia appariva incredibile, al punto che a Londra il primo dispaccio di agenzia, "England-USA 0-1" fu ritenuto un errore di stampa e corretto in 10-1. Subito dopo, tuttavia, arrivarono le dolorose conferme. L'autore di quello storico gol statunitense era in realtà un haitiano, Joseph Gaetyens, che sarebbe tornato alla ribalta della cronaca molti anni dopo in circostanze tragiche: a Haiti fu accusato di attività sovversive dal regime di Doc Duvalier e giustiziato dai ton-ton macoutes, i miliziani del dittatore.
Non più affidata a Pozzo (allontanato dopo l'infelice esito del torneo olimpico a Londra), anche l'Italia fece una rapida fine. Ancora sotto shock per la tragedia di Superga, che nel 1949 aveva annientato il grande Torino, i calciatori italiani non vollero affrontare il viaggio aereo e raggiunsero il Brasile per nave. Stanchi e male allenati, furono battuti dalla Svezia e a nulla valse la vittoria sul Paraguay. Svezia e Uruguay si qualificarono per il girone finale, con la Spagna che ridimensionò le illusioni degli Stati Uniti e ovviamente il Brasile, il cui attacco 'atomico' si era esaltato in una serie di goleade. La prima linea Friaça-Zizinho-Ademir-Jair-Chico stroncò la Spagna (6-1) e la Svezia (7-1), mentre l'Uruguay superò di misura la Svezia (3-2), e pareggiò con la Spagna (2-2). Alla sfida finale, il Brasile arrivò con un punto in più. Gli sarebbe bastato pareggiare, per conquistare il titolo, ma ovviamente giocò cercando di stravincere. Passato in vantaggio con Friaça, continuò ad aggredire, offrendo voragini al contropiede. Schiaffino segnò il pari; Ghiggia, a dieci minuti dalla fine, colse di sorpresa il portiere Barbosa e regalò all'Uruguay il secondo Mondiale, dopo quello inaugurale del 1930. Al fischio finale, tifosi disperati si lanciarono dall'alto del Maracaná, con un sanguinoso bilancio di morti e feriti. Suicidi in massa seguirono in tutto il Brasile. Il commissario tecnico Flavio Costa e il portiere Macyr Barbosa, minacciati di morte, dovettero lasciare il paese con le loro famiglie. Nunca mais, "mai più", titolavano le gazzette brasiliane.
Nell'intervallo che separò la Coppa Rimet del 1950 dalla successiva edizione in Svizzera (il solo paese europeo uscito indenne dalle rovine della guerra e l'unico in grado di offrire le garanzie economiche richieste, dato che le finanze dei vincitori erano state prosciugate non meno di quelle dei vinti), era accaduto qualcosa che avrebbe lasciato il segno nella storia del calcio. Il 25 novembre 1953, nello stadio imperiale di Wembley, davanti a 100.000 inglesi ammutoliti, era caduto in frantumi l'home record, il primato d'imbattibilità della nazionale inglese, che, dalla nascita del calcio moderno, non era mai stata sconfitta, sul proprio terreno, da un avversario continentale. Artefice della straordinaria impresa, corredata da un punteggio inequivocabile (6-3), era stata l'Ungheria, assemblata da Gustav Sebes sin dal primo dopoguerra e giunta a piena maturazione agli albori degli anni Cinquanta. La squadra entrò nella leggenda anche per una sensazionale serie positiva: rimase infatti imbattuta per oltre quattro anni, dal 14 maggio 1950 al 4 luglio 1954, nel corso dei quali giocò 31 partite, vincendone 28, pareggiandone 3, segnando 142 gol e subendone 32, pur avendo incontrato, spesso in trasferta, le più forti nazionali del mondo. Nel periodo magico rientrava l'oro olimpico conquistato a Helsinki nel 1952. La Grande Ungheria, che molti critici ritengono tuttora la più forte e completa formazione mai apparsa su un campo di calcio, fu chiamata in patria l'Aranycsapat, la "squadra d'oro". La data della sua prima sconfitta coincise proprio con la finalissima della Coppa Rimet, perduta contro la Germania Occidentale a Berna.
Quattro, almeno, sono i motivi per i quali il torneo del 1954 è degno di essere ricordato: 1) il suo eccezionale livello tecnico, forse insuperato, tradottosi in una stupefacente media-gol di 5,38 per partita e illuminato dalla presenza di fuoriclasse epocali: gli ungheresi Ferenc Puskas, Nandor Hidegkuti, Joszef Boszyk, Sandor Kocsis, i brasiliani Didí, Julinho, Dialma e Nilton Santos, gli uruguayani Juan Alberto Schiaffino e José Santamaria, lo jugoslavo Vladimir Beara, il francese Raymond Kopa, l'austriaco Ernst Ocwirk, l'inglese Stanley Matthews, l'italiano Giampiero Boniperti, i tedeschi Helmut Rahn e Fritz Walter; 2) la sua formula a gironi 'aperti' (ogni squadra incontrava solo due delle tre compagne di gruppo), che rappresentò un capolavoro di miopia tecnica e antisportività, vera istigazione alla combine; 3) la presenza, per la prima volta in un mondiale di calcio, della televisione, che segnò il definitivo decollo della manifestazione e la sua diffusione universale, facendone conoscere a tutti le coinvolgenti emozioni; 4) la clamorosa sorpresa determinatasi nella finalissima e verosimilmente dovuta anche ‒ ma questo lo si sospettò soltanto dopo ‒ al sofisticato uso della chimica, come additivo alle risorse tecniche e atletiche. Se il mancato successo del Brasile, nel 1950, aveva mortificato tutto un popolo, la sconfitta della Grande Ungheria a Berna fu una colossale ingiustizia sportiva e un affronto al calcio.
Trentacinque adesioni rappresentarono un successo, anche se l'Argentina confermò il suo forfait e l'URSS non ritenne ancora giunto il momento di presentarsi sulla massima ribalta. Erano invece ricomparse Germania e Austria. Dal 1948 era caduto l'assurdo veto della FIFA che imponeva ai paesi membri di evitare i contatti calcistici con gli sconfitti della guerra, ma solo alla fine degli anni Cinquanta la Germania era riuscita a mandare in campo la propria nazionale, a Stoccarda, contro la neutrale Svizzera. Nessuno poteva pensare che, in meno di quattro anni, il calcio tedesco sarebbe riemerso così prepotentemente da conquistare addirittura il titolo mondiale.
La formula dei gironi aperti fece una sola vittima illustre, l'Italia. Guidati da Lajos Czeizler, gli azzurri si fecero prima battere di misura dagli svizzeri padroni di casa, poi travolsero il quotato Belgio, infine (nella bella) cedettero ancora agli elvetici, ma in maniera nettissima. Le sole formazioni in grado di tenere testa all'Ungheria apparivano Brasile e Uruguay, reduci dalla finalissima di quattro anni prima e forse ancora più forti di allora. L'Ungheria dovette affrontarle entrambe, nei quarti e in semifinale, venendone a capo, con l'identico punteggio di 4-2, al termine di partite bellissime, ma estremamente dispendiose. L'abile Germania Ovest di Sepp Herberger era andata avanti con maggiore agio, prevalendo sulla Iugoslavia nei quarti e sull'Austria in semifinale. Nonostante ciò, la finale appariva una formalità. Nei gironi preliminari, Ungheria e Germania Ovest si erano già affrontate, ed era stato un massacro: 8-3. Gli ungheresi si sentivano la vittoria in tasca, sottovalutando il fatto che in quell'occasione i tedeschi avevano fatto spazio ai rincalzi. Puskas, infortunato, pretese di giocare ugualmente: era il capitano, voleva essere lui ad alzare al cielo la Coppa. Si giocò sotto una pioggia battente e dopo otto minuti l'Ungheria conduceva già per 2-0. Ma aveva anche finito l'energia, mentre la Germania Ovest correva sempre più forte. Raggiunto il pareggio all'intervallo, i tedeschi aspettarono sino a sei minuti dalla fine per sferrare, con il potentissimo Rahn, il colpo finale. Puskas si era trascinato per tutta la ripresa come un fantasma. L'orgoglio lo sospinse a un'ultima reazione. Segnò il 3-3, annullato per fuorigioco.
Quando, qualche tempo dopo, quasi tutti i giocatori di quella Germania furono colpiti dall'itterizia, si rafforzò il sospetto che l'energia superiore che li aveva trascinati nell'impresa fosse dovuta all'uso di farmaci. La Grande Ungheria rimase una regina senza corona, uno dei tanti paradossi del calcio.
Per far uscire il Brasile dal limbo delle occasioni perdute, ci vollero un corpulento oriundo napoletano, Vicente Feola, detto o gordo, "il grassone", e un giovane di colore non ancora diciottenne, Edson Arantes do Nascimento, detto Pelé. Feola, rischiando in proprio, riuscì a dare un'organizzazione tattica e un razionale modulo di gioco a quei fenomeni inguaribilmente anarchici, che ritenevano la vittoria un tributo doveroso alla loro superiore arte calcistica, ma che non avevano mai vinto nulla. Il Brasile del 1958 apparve, per la prima volta, una squadra, legata a precisi equilibri, in funzione dei quali, per es., un'ala sinistra intelligente e altruista come Mario Zagalo veniva preferita, nonostante la rabbiosa irritazione della critica e dell'opinione pubblica, al grande Pepe, dotato di un sinistro molto potente. Il modulo tattico, quattro difensori in linea, due centrocampisti di riferimento, quattro attaccanti, di cui due esterni e due centrali, etichettato come 4-2-4, apparve l'approdo più spettacolare dell'evoluzione del calcio.
Quanto a Pelé, il suo ingresso in campo, dagli ottavi di finale in poi, conferì al Brasile una superiorità di tali proporzioni da non ammettere contraddittorio. Giocatore lunare, troppo distante dagli altri per ammettere paragoni, il giovane Pelé entrò subito nella leggenda per non uscirne più.
Il Mondiale del 1958, sesto della storia, si giocò in Svezia, designata (infrangendo per la seconda volta il criterio dell'alternanza fra Europa e Sud America) nel congresso della FIFA del 1954. Nel 1956 morì a Perugia il demiurgo dei Campionati del Mondo, Jules Rimet. Ai vertici della FIFA salì l'inglese Arthur Drewery, presto sostituito dal connazionale Stanley Rous. Il primo vantaggio che ne derivò alle quattro confederazioni britanniche fu quello di non figurare nello stesso girone di qualificazione e quindi di potersi affacciare in forze alla fase finale. Di questo dettaglio, in apparenza marginale, finì per fare le spese l'Italia, nel momento più buio della propria storia calcistica. Gli azzurri mancarono per la prima volta la fase conclusiva di un Mondiale, eliminati dall'Irlanda del Nord. Anche l'Uruguay, battuto dal modesto Paraguay, non superò i gironi eliminatori, sicché le uniche due nazionali detentrici di due titoli, e dunque in grado, teoricamente, di aggiudicarsi la Coppa Rimet, furono entrambe costrette ad abbandonare la scena, per mano di due 'paria' del calcio.
L'edizione del 1958 registrò l'importante ritorno dell'Argentina assente da venti anni nella rassegna iridata, nonché la prima partecipazione dell'URSS. I sovietici infatti sino ad allora si erano limitati alla ribalta olimpica che offriva comodi e decisivi vantaggi al loro dilettantismo di Stato. Nel frattempo, si era notevolmente allargata la base al punto che ben 53 nazioni sottoscrissero la propria partecipazione, rendendo così per la prima volta realmente competitiva la fase di qualificazione, sino allora poco più che accademica. In Europa, oltre all'Italia, caddero la Spagna, il Belgio, l'Olanda, la Svizzera; in Sud America la vittima più illustre fu l'Uruguay. Ma il vero caso scoppiò a proposito dell'unico posto a disposizione di Asia o Africa. La presenza di Israele, che non intratteneva rapporti diplomatici con la maggioranza dei paesi di quei continenti, provocò una serie di forfait: prima la Turchia, poi l'Egitto e il Sudan. Israele si ritrovò così promosso, senza aver giocato un solo minuto. A quel punto la FIFA, per bloccare gli israeliani, scovò una negletta norma regolamentare secondo la quale "nessuna squadra (a eccezione di quelle qualificate di diritto) avrebbe potuto giocare la fase finale, se non avesse disputato almeno una partita di qualificazione". Fu quindi presa la decisione di opporre Israele a una delle seconde classificate nei gironi europei. Il sorteggio favorì il Galles, che si impose nel doppio confronto ed eliminò uno scomodo cliente dal ranking conclusivo.
Il Brasile costituì indubbiamente l'evento di quel Mondiale, grazie a fuoriclasse come l'oriundo italiano José Altafini, detto 'Mazzola' (in onore del grande Valentino) che, avendo firmato per il Milan prima della fase finale, fu boicottato e sostituito nel ruolo di centravanti da Vavá. Vi furono anche altre protagoniste di rilievo quali la Svezia, padrona di casa, che per l'occasione aveva fatto largo ricorso ai suoi professionisti impegnati all'esterno, la Francia di Kopa e del terribile goleador Just Fontaine, e la Germania Ovest, che onorò il titolo di quattro anni prima completando il quartetto delle semifinaliste.
Brasile e Francia diedero vita a una spettacolare battaglia a suon di gol, che vide i sudamericani imporsi per 5-2, con una tripletta di Pelé, mentre la Svezia venne a capo dei tedeschi grazie alle reti di tre campioni che militavano nel Campionato italiano: Gunnar Gren, Kurt Hamrin e Lennart ('Nacka') Skoglund. La finalissima fu senza storia. Al 3′ la Svezia andò in gol con un tiro rasoterra di Nils Liedholm, ma il Brasile presto pareggiò e al 32′ si portò in vantaggio, vincendo infine per 5-2. Pelé firmò altri due gol, di mirabile fattura. Re Gustavo scese dalla tribuna d'onore per complimentarsi personalmente con quel giovane fenomeno. La foto di Pelé piangente di gioia, consolato dal grande Didí fece il giro del mondo annunciando che era nata una stella.
Rispetto alle precedenti spettacolari edizioni, il Campionato del Mondo del 1962 in Cile segnò una brusca inversione di tendenza. Vi ebbero un ruolo determinante la violenza e la brutalità in campo e si fecero pesantemente sentire i condizionamenti esterni. Il livello tecnico fu il più basso sino allora toccato in un torneo mondiale. Un Brasile logoro e appannato, privo del suo atleta più valido, arrugginito nei suoi uomini cardine, con una nuova impostazione tattica, tale da consentire l'impiego di veterani in declino atletico, riuscì tuttavia a replicare il trionfo di quattro anni prima per la totale assenza di avversari realmente competitivi. Il terzo posto del Cile, fattosi avanti fra soprusi e prevaricazioni, ben al di là del suo intrinseco valore tecnico, simboleggiò la caduta di tono e di stile della Coppa Rimet dopo l'esemplare edizione svedese del 1958, che era stata un autentico inno alla sportività.
La designazione del Cile quale paese ospitante al congresso della FIFA tenuto a Lisbona nel 1956, aveva colto tutti di sorpresa, malgrado fosse scontata la sede sudamericana dopo due consecutivi Campionati in Europa. Il Cile non godeva di una florida economia ed era esposto a forti tensioni politiche con il partito conservatore ancora al potere, ma minacciato da un lato dai riformisti di Eduardo Frei e dall'altro dalle prime organizzazioni della sinistra proletaria. Proprio per controllare una situazione interna così esplosiva, il governo aveva investito senza risparmio in un avvenimento che potesse concentrare, per quasi un mese, gli occhi del mondo sul Cile e nel contempo suscitare un'ondata di nazionalismo capace di superare le divisioni interne. La vigilia fu tormentata. Nel 1960 un violento terremoto provocò tali danni in tutto il paese che la FIFA prese seriamente in esame l'ipotesi di una candidatura alternativa e solo le garanzie offerte da Carlos Dittborn Pinto, un dirigente di origine tedesca responsabile dell'organizzazione, valsero al Cile la conferma. Dittborn, con lo slogan "proprio perché non abbiamo più niente, riusciremo a rifare tutto", persuase i burocrati calcistici e si impegnò a tal punto in una corsa contro il tempo da subirne uno stress micidiale che, a un mese esatto dall'inizio del torneo, gli provocò un infarto. Aveva appena 38 anni e tutto il Cile pianse la sua scomparsa. Nonostante l'entusiasmo di Dittborn e l'impegno profuso nell'impresa, le gravi carenze di alcune strutture non furono colmabili. Alcune sedi, come Rancagua, centro minerario di 50.000 abitanti, e Arica, in una zona desertica ai confini del Perù, lontana 2000 km dalla capitale, risultarono inadeguate.
Le 57 iscrizioni costituirono il nuovo record. Nelle qualificazioni si persero due protagoniste del 1958: la Svezia, che si era classificata seconda, e la Francia, arrivata terza. L'Italia accolse con favore il sorteggio che l'aveva inserita in un girone con Germania Ovest, Cile e Svizzera: avrebbero passato il turno le prime due classificate e solo i tedeschi apparivano temibili. Affidata alla guida tecnica di Paolo Mazza, il presidente della Spal, l'Italia cominciò contro la Germania Ovest e si adeguò volentieri al pareggio. L'impresa maggiore sembrava compiuta.
Il Cile però aveva puntato troppo su quel Mondiale, per lasciarlo al primo turno. Il pubblico affollava gli stadi soltanto quando giocava la squadra di casa. La FIFA dovette tenerne conto al momento di designare gli arbitri. Fu un arbitro inglese, Ken Aston, a decidere le sorti di Cile-Italia e gli inglesi, dalla morte di Rimet, detenevano saldamente il potere calcistico internazionale. Ma l'Italia scontò ancor più gravemente quello che può definirsi un 'autogol': due giornalisti italiani, nelle loro corrispondenze dal Cile, avevano messo in rilievo le misere condizioni di sottosviluppo in cui si trovava il paese, la corruzione e la prostituzione dilaganti, il contrasto fra la ricchezza esagerata di pochi e la povertà inaccettabile di molti. Quelle inchieste innescarono reazioni furibonde contro l'Italia che attirò su di sé antipatie e risentimenti. Aston, che aveva già diretto nella partita inaugurale il Cile, vittorioso contro la Svizzera, fu designato, dunque, anche per Cile-Italia. Quando Lionel Sanchez causò un grave infortunio all'oriundo argentino Humberto Maschio con un diretto al volto, l'arbitro non prese provvedimenti, ma espulse Mario David e Giorgio Ferrini che avevano tentato di reagire. Ridotta in nove uomini, l'Italia resistette all'attacco cileno sino a un quarto d'ora dalla fine, poi cedette e subì due gol. Riprese la via di casa (dopo l'inutile successo sulla Svizzera, con doppietta dell'esordiente Giacomo Bulgarelli), mentre il Cile proseguiva la sua marcia tra le generali manifestazioni di gioia.
Il Brasile aveva cominciato battendo a fatica il Messico, con gol di Zagalo e Pelé, ma poi aveva pareggiato 0-0 con la forte Cecoslovacchia; in quella partita aveva perduto Pelé, vittima di un serio infortunio che lo escluse dal prosieguo del Mondiale. Contro la Spagna, guidata da Helenio Herrera, i brasiliani furono a un passo dal tracollo e vennero salvati dall'arbitro Sergio Bustamante, cileno. Da quel momento, la marcia dei campioni del mondo, che al posto di Pelé avevano inserito il giovane Amarildo, diventò più semplice. Contro l'Inghilterra, nei quarti, il gioco del fuoriclasse Manuel Garrincha bastò per vincere i maestri, ma poi la semifinale con il Cile (che nei quarti aveva eliminato l'URSS, colpendo Lev Jascin, il famoso portiere sovietico, con un forte calcio in testa) risultò una vera battaglia, con espulsioni di Jada e Garrincha, centrato, quest'ultimo, uscendo dal campo, da una sassata al capo che necessitò di quattro punti di sutura. Il Brasile si impose 4-2, grazie alla fermezza dell'arbitro peruviano Arturo Yamasaki, di origini giapponesi. In una finalissima povera di pubblico contro la solida Cecoslovacchia, il Brasile sfruttò la giornata negativa del portiere ceco, Viliam Schroif, di solito il migliore della squadra, e vinse 3-1. Alla finale partecipò anche Garrincha che, squalificato in seguito all'espulsione nella partita precedente, fu riammesso, in un clima di autentico giallo internazionale, grazie all'intervento del governo brasiliano; l'ennesima irregolarità di un Mondiale tutto da dimenticare.
La scelta dell'Inghilterra come sede dell'ottava Coppa Rimet costituì una delle rare decisioni spontanee e unanimi nella storia della FIFA, così spesso dominata dai compromessi. La decisione era stata ufficializzata nel congresso del 1962, a Santiago, alla vigilia dei Mondiali cileni. L'anno successivo, 1963, la mitica FA, la Football Association inglese, avrebbe compiuto i suoi cento anni di vita e di attività. La scelta voleva dunque essere un ritorno alle origini, un doveroso omaggio alle radici del calcio moderno, al paese dove era nato un movimento poi diffusosi a macchia d'olio e ormai avviato a dimensioni universali.
Le numerose sconfitte subite avevano convinto gli inglesi che il loro prestigio calcistico andava consolidato con qualche risultato concreto. Il Mondiale di casa era l'occasione del riscatto. Così al ritorno dal Cile, dove in verità la nazionale inglese non si era comportata peggio di altre volte, il commissario tecnico Walter Winterbottom, sopravvissuto a tutte le disfatte, fu costretto ad abbandonare il suo incarico. Al suo posto fu chiamato un ex giocatore dai modi bruschi e dal carattere indocile, Alf Ramsey, che era stato il terzino destro nella memorabile débacle con gli USA al Mondiale del 1950 in Brasile. Ramsey non conosceva la diplomazia né le buone maniere, ma aveva le idee chiare. Dopo l'investitura, convocò una conferenza stampa e dichiarò: "L'Inghilterra vincerà la prossima Coppa del Mondo e io ho tre anni e mezzo per portare a termine l'opera. Per cui, d'ora in avanti, lasciatemi lavorare senza farmi perdere del tempo". L'Inghilterra scoprì così la tattica, prima tanto disprezzata, ripudiando il 'sistema' puro, il WM, che proprio gli inglesi avevano inventato e imposto al mondo. Ramsey adottò il modulo 4-4-2, inviso alla critica e all'opinione pubblica, in quanto prevedeva l'abolizione delle ali, un vanto del calcio britannico: due 'torri' centrali in attacco, un centrocampo folto, marcature asfissianti e spesso intimidatorie, in linea con il calcio fisico che stava ovunque prendendo il sopravvento. Con il tempo e con i risultati, Ramsey riuscì a fare accettare quell'innovazione. Il titolo mondiale, conquistato in linea con le promesse, gli valse la gloria e il titolo di baronetto, magari non proprio congeniale all'aplomb del personaggio.
Anche l'Italia aveva affrontato la sua trasformazione. La nazionale era stata consegnata a Edmondo Fabbri, un tecnico capace, pur se talvolta ombroso. Con Fabbri era nato il 'clan Italia', un modo per sottrarre la nazionale all'influenza condizionante dei club. I risultati erano stati eccellenti e la spedizione in Inghilterra era accompagnata da grandi speranze. Il favorito d'obbligo restava però il Brasile, reduce da due titoli consecutivi. Ma era un Brasile logoro, i vecchi atleti erano stanchi e i giovani talenti non erano ancora pronti per prenderne il posto. Inoltre il nuovo tipo di calcio, che privilegiava la forza alla tecnica, non si confaceva ad atleti così estrosi.
Nel mondo del calcio emergevano forze nuove, ma la FIFA era restia ad accoglierle. Ancora una volta un solo posto, fra le 16 finaliste, era destinato ad Africa, Asia e Oceania insieme. L'Africa si ribellò ritirandosi in blocco. L'Asia, anziché accodarsi, fu ben lieta di restare padrona del campo e in Inghilterra arrivò la Corea del Nord, che riuscì a battere l'Australia, rappresentante oceanica, con un eloquente 9-2. Nessuno, in Italia, immaginò che quella matricola dell'Estremo Oriente avrebbe incrociato in modo così determinante la rotta della nazionale azzurra.
Sul piano delle partecipazioni, si preparava un'edizione storica. Argentina e Uruguay tornavano sulla scena, sicché tutti i paesi che avevano già conquistato una Coppa del Mondo erano presenti. Uruguay, Brasile e Italia, che avevano vinto il titolo già due volte, concorrevano alla conquista definitiva della Coppa Rimet. L'11 luglio 1966 lo stadio imperiale di Wembley tenne a battesimo l'ottavo Campionato del Mondo con un autentico galà: Inghilterra-Uruguay, gli inventori del calcio contro i primi campioni del mondo. Fu una partita molto tattica e poco spettacolare, chiusa da uno 0-0 che tutti parvero gradire. Il calcolo si rivelò esatto, inglesi e uruguayani si qualificarono a spese di Francia e Messico. Nelle tre partite del girone, l'Inghilterra di Ramsey non subì neppure un gol.
Fu un Mondiale di grandi personaggi: l'inglese Bobby Charlton, i tedeschi Helmut Haller e Franz Beckenbauer, il portoghese Eusebio, il sovietico Lev Jashin. Su tutti avrebbe dovuto primeggiare Pelé, che però ebbe appena il tempo di segnare un gol, contro la Bulgaria, e subito dopo venne aggredito dal suo marcatore, Dobromir Zechev, che con un calcio gli causò un serio problema al ginocchio. Senza Pelé, il Brasile venne battuto dall'Ungheria e poi eliminato dal Portogallo. La prima favorita tornava subito a casa.
L'Italia non fece una figura migliore. Esordì battendo il Cile, una rivincita a quattro anni di distanza, e poi perse di misura con l'URSS. Avrebbe comunque passato il turno se solo avesse pareggiato con la sconosciuta Corea, ma quella sembrò quasi una partita stregata: Bulgarelli, mandato in campo malgrado un infortunio non riassorbito, fu presto costretto a uscire lasciando l'Italia in dieci, la Corea andò in gol con Pak Doo Ik, e gli azzurri non riuscirono a rimontare. Più che un'eliminazione, fu una vergogna nazionale. Il termine 'Corea' assunse da allora in poi il significato di una mortificante disfatta. Al ritorno in Italia, la comitiva, che pure aveva cambiato programma per sottrarsi alle contestazioni, dovette subire all'aeroporto di Genova un umiliante lancio di pomodori. Con questo grave insuccesso si concluse la gestione del commissario tecnico Fabbri.
Nei quarti di finale, l'Inghilterra riuscì a battere l'Argentina in una partita molto violenta, mentre la Germania Ovest travolse l'Uruguay: il Sud America tornava a casa e l'Europa era padrona del campo. La Corea fu spazzata via dal Portogallo, con i gol di Eusebio, 'tiratore scelto' del torneo. In semifinale, l'Inghilterra trovò notevole resistenza nel Portogallo, anche se l'accanita marcatura di Nobby Stiles eliminò dalla partita Eusebio. Bobby Charlton segnò due gol, Eusebio dovette limitarsi a realizzare su rigore: fu il primo gol subito da Gordon Banks, il portiere inglese, dopo 542 minuti di imbattibilità. La Germania Ovest, in un pesante scontro fisico, si impose sull'URSS.
Il 30 luglio 1966 la regina Elisabetta si presentò nel palco reale di Wembley, per assistere al trionfo annunciato della nazionale di casa. Ma non fu facile: un gol del tedesco Wolfgang Weber all'ultimo minuto di gioco gelò l'esultanza degli inglesi, siglando il 2-2 che costrinse le squadre ai tempi supplementari. Su servizio di Alan Ball, l'attaccante inglese Geoff Hurst tirò violentemente a rete, il pallone picchiò sotto la traversa, rimbalzò sul terreno (probabilmente senza aver superato la linea) e tornò in campo. L'arbitro Gottfried Dienst consultò il guardalinee, Tofik Bakhramov. Dopo un breve conciliabolo, il gol fu concesso. Sullo slancio, gli inglesi segnarono ancora, ma la loro vittoria rimase legata a quel 'gol fantasma'. Fu in ogni caso una splendida finale, che riscattò in parte un Mondiale non sempre all'altezza delle attese, inquinato da troppi episodi sospetti e dominato da un calcio atletico che a volte era sfociato nel gioco violento.
Città del Messico non era ancora la metropoli più inquinata del mondo, quando, il 31 maggio 1970, decollò il primo Mondiale in altura. Il fascino degli altipiani, l'allegria e le contraddizioni di un paese sempre in bilico fra l'oleografia e i fermenti sociali, la musica assordante dei mariachis: difficile pensare a un Campionato del Mondo più pazzo e più bello.
Nel congresso di Tokyo del 1964 era stato deciso finalmente di ripristinare il principio dell'equità distributiva. L'Europa, sino a quel momento, aveva interpretato pro domo sua il criterio dell'alternanza continentale con l'America, con il beneplacito della FIFA. Il Messico prevalse sull'Argentina per una considerazione di ordine pratico: nel 1968 Città del Messico avrebbe ospitato i Giochi Olimpici e lo sforzo organizzativo effettuato per quella competizione con la creazione di nuovi impianti e strutture poteva essere sfruttato anche per la rassegna universale del pallone. Il criterio di abbinare Olimpiadi e Mondiali sarebbe stato ripetuto con Monaco e la Germania Ovest, all'edizione successiva.
L'Africa, con la protesta e il boicottaggio del Mondiale inglese del 1966, aveva ottenuto un primo risultato: al congresso di Casablanca del 1968, il Comitato organizzatore della Coppa del Mondo stabilì che, fra le 16 finaliste di Messico 1970, l'Asia e l'Africa avrebbero avuto un posto ciascuna; avrebbero avuto un posto l'America centro-settentrionale (oltre al Messico, qualificato di diritto), tre il Sud America, otto l'Europa; l'Inghilterra naturalmente avrebbe partecipato come campione in carica. Settanta iscrizioni premiarono questa attesa apertura. Fu anche introdotta una norma di fondamentale importanza: la possibilità di effettuare nell'arco della partita due sostituzioni, senza distinzione di ruolo. Su queste premesse cominciò un Mondiale che fragorosamente rovesciò l'ultimo verdetto. Brasile e Italia, le due maggiori deluse del 1966, che in Inghilterra non avevano neppure superato il primo turno, si ritrovarono a giocare la finalissima.
L'Italia, dopo l'insuccesso con la Corea, era stata affidata a Ferruccio Valcareggi, che raccolse subito risultati eccellenti, a cominciare dal titolo europeo del 1968, la prima conquista azzurra nel dopoguerra. La squadra giocava un calcio essenziale, basato su un ferrea difesa e su un micidiale contropiede. Il 'genio' di Gianni Rivera e 'il senso del gol' di Gigi Riva erano le sue armi più efficaci. Superò agevolmente le qualificazioni, che erano state fatali per molte nazionali europee di primo piano: il Portogallo, terzo nel 1966, la Spagna, la Iugoslavia, l'Ungheria, l'Olanda (che pure era già fortissima a livello di club), la Francia. Dal Sud America arrivarono ancora una volta Brasile e Uruguay, ma non l'Argentina, eliminata dall'emergente Perù, che aveva come tecnico il brasiliano Didí, campione nel 1958 e nel 1962. Un suo ex compagno di squadra e di trionfi, Mario Zagalo, guidava invece la nazionale brasiliana, nelle cui file il trentenne Pelé inseguiva il suo terzo titolo personale e l'apoteosi di una carriera unica.
Il Marocco rappresentava l'Africa, mentre le squadre asiatiche e oceaniche erano state battute da Israele, inserito a forza nel loro gruppo. El Salvador e Honduras, in lizza per il calcio centroamericano, ruppero i rapporti e si dichiararono guerra: scoppiò un vero conflitto militare, con numerose vittime. El Salvador ottenne infine l'accesso alla fase finale dove, per la verità, la sua prestazione non parve giustificare l'accanimento dimostrato per partecipare: perse tutte e tre le partite, subendo nove gol senza segnarne nessuno.
Lo stadio Azteca era all'epoca il più bello del mondo. Centomila spettatori lo affollarono in festa, quando il Messico aprì il Mondiale nella partita con l'URSS che si concluse 0-0. Tutta la fase preliminare servì a liberare il torneo dalle squadre meno valide. Ai quarti di finale non c'erano più comprimari. L'Italia, che aveva cominciato senza grandi clamori (un solo gol nelle tre partite del girone), dovette affrontare la padrona di casa, come era già accaduto in Cile nel 1962. Questa volta però le cose si svolsero diversamente: l'Italia aveva una squadra molto più temprata, refrattaria alle provocazioni e all'ambiente, e piegò nettamente il Messico alla distanza. Fondamentale fu il ritorno di Rivera, che inizialmente era stato allontanato dalla squadra per aver pubblicamente contestato il capodelegazione Walter Mandelli. Rivera e Mazzola, i due simboli di Milan e Inter, erano in lizza per lo stesso ruolo. Valcareggi, saggiamente, decise di risolvere la questione inventando la 'staffetta': un tempo a testa, Mazzola all'inizio, quando c'era da combattere, Rivera dopo, a dare il colpo di grazia agli avversari provati dall'altezza. A 2000 m, infatti, il calcio atletico diventava relativo, imponendo ritmi bassi, congeniali ai giocatori tecnici. Per questo il Brasile dettava legge. Il 'quarto' più spettacolare fu quello che oppose Inghilterra e Germania Ovest, la rivincita della finalissima di quattro anni prima: l'Inghilterra, in vantaggio di due gol, decise di far riposare il suo 'asso' Bobby Charlton, perché fosse in perfetta forma per la semifinale. La Germania Ovest rimontò e vinse per 3-2 nei tempi supplementari. Cadde così una squadra inglese che era forse più forte di quella che aveva vinto il titolo sui prati di casa. Nella Germania Ovest furoreggiava un attaccante implacabile, un bomber sempre in grado di segnare, Gerd Müller.
Le semifinali rappresentarono un raffinato galà: ancora una rivincita, questa volta fra Brasile e Uruguay, le finaliste di Brasile 1950. Gli uruguayani, in vantaggio per 1-0, furono vicini a ripetere la beffa di allora, ma il Brasile rimontò e vinse 3-1. Dall'altra parte, in un Azteca assolato, l'Italia giocò contro la Germania Ovest e il punteggio rimase fermo sull'1-0 per gli azzurri sino ai minuti finali della partita. Al terzo minuto di recupero i tedeschi pareggiarono e si dovette ricorrere ai tempi supplementari. Müller portò in vantaggio i tedeschi e Burgnich rispose; Riva trascinò di nuovo avanti l'Italia e ancora una volta Müller rimediò. Sul 3-3, un magistrale tocco al volo di Rivera chiuse la partita, entrata nella leggenda del calcio.
La finale vide l'Italia resistere al Brasile per un tempo e poi crollare sotto i colpi dei grandi rivali e sotto la stanchezza per quella semifinale lunghissima. Valcareggi non attuò la staffetta e Rivera entrò in campo soltanto a sei minuti dalla fine: in sostanza il maggiore protagonista di Italia-Germania Ovest rimase fermo ai box. In Italia divampò la rabbia e l'indignazione, sicché i reduci da quella grande impresa al loro ritorno in patria furono contestati e insultati, a eccezione di Rivera, che venne accolto trionfalmente.
Pelé, intanto, aveva vinto il suo terzo Mondiale, a dodici anni di distanza dal primo. Con il terzo titolo, il Brasile si aggiudicò in via definitiva la Coppa Rimet. Fu un verdetto onestissimo perché quella era una grande squadra, a trazione anteriore, con una prima linea formata da cinque giocatori che nei rispettivi club portavano tutti il numero dieci. L'altura aveva favorito il calcio danzato dei brasiliani, ma rispetto agli ultimi due Mondiali il livello tecnico di Messico 1970 si era decisamente elevato. Anche la media-gol, quasi tre a partita, era stata la migliore dopo quella del 1954.
Da tempo il calcio aveva deciso di celebrare il suo decimo appuntamento mondiale in Germania Occidentale e la ricorrenza andò a coincidere con il periodo di massimo fulgore del football tedesco. Seconda alla Coppa Rimet del 1966, terza classificata quattro anni dopo in Messico, ai Campionati Europei del 1972 la Germania Ovest aveva prevalso sugli avversari con grande facilità, imponendo una squadra quasi perfetta, che ruotava attorno ai fuoriclasse Beckenbauer e Müller. Nello stesso anno Monaco aveva ospitato le Olimpiadi, tragicamente finite nel sangue per l'assalto al villaggio israeliano del commando palestinese Settembre Nero. Quell'ombra pesò molto sullo svolgimento del Mondiale, stretto in una gabbia di rigorose misure di sicurezza e quindi privato di quell'atmosfera di fiesta popolare che in Messico, nell'edizione precedente, aveva toccato i suoi momenti più genuini e inebrianti.
Il Brasile si era portato definitivamente a casa la Coppa Rimet, dopo aver centrato tre vittorie nel breve arco di quattro Mondiali, dal 1958 al 1970. Il concorso lanciato dalla FIFA per creare il nuovo trofeo da mettere in palio vide prevalere, fra 53 bozzetti, l'opera dello scultore italiano Silvio Gazzaniga, due atleti con le mani levate in alto a sostenere il globo. Il trofeo, 36 cm di altezza, era stato scolpito con 5 kg d'oro massiccio su una base di 13 cm di larghezza. Il nuovo nome era Coppa FIFA e, a differenza della precedente, nessuna nazione avrebbe potuto aggiudicarsela a titolo definitivo. Al campione in carica sarebbe stata assegnata una piccola copia, mentre l'originale sarebbe rimasto di proprietà della Federazione internazionale.
Novantasette paesi, dai cinque continenti, si erano iscritti alle qualificazioni. La fase finale subì un ulteriore cambiamento di formula. Dopo i soliti quattro gironi, deputati a ridurre da sedici a otto le finaliste, non ci sarebbe stata l'eliminazione diretta, ma altri due raggruppamenti, di quattro squadre ciascuno. Le prime due classificate si sarebbero incontrate nella finalissima, le due seconde nella 'finalina' per il terzo posto. In tal modo, le partite salivano da 32 a 38, per la gioia degli organizzatori.
Gli anni Settanta avevano portato notevoli rivolgimenti sotto il profilo tecnico. Il Brasile aveva chiuso il suo ciclo glorioso; l'Inghilterra era rientrata nei ranghi; la stessa Italia di Messico 1970 avvertiva i sintomi dell'usura, anche se nel 1973 aveva battuto, per la prima volta nella sua storia calcistica, l'Inghilterra sul campo di Wembley, e il suo portiere Zoff aveva accumulato un impressionante record di imbattibilità, quasi due anni senza subire un solo gol. Si profilavano nuove realtà, come la Polonia, autentica rivelazione del torneo olimpico di Monaco, e soprattutto l'Olanda, il cui calcio si era prima imposto a livello di club, con il dominio dell'Ajax nella Coppa dei Campioni, poi anche con la nazionale. Gli olandesi praticavano un gioco nuovo, affrancato dai ruoli, che prevedeva l'intercambiabilità fra i reparti e non offriva agli avversari valide contromisure. Fu chiamato 'calcio totale' e destò subito grande ammirazione, perché dominato da una mentalità offensiva, senza calcoli, e sostenuto da un ritmo e una velocità sino allora sconosciuti. Il modulo, poi, veniva esaltato da interpreti d'eccezione, primo fra tutti Johan Cruijff, fuoriclasse epocale, che contendeva la ribalta europea al tedesco Franz Beckenbauer. Fra vecchio e nuovo, si collocava la Germania Ovest, che si impose nella finale sull'Olanda, con l'aiuto (seppure non scandaloso, come altre volte era successo) del fattore campo, ma soprattutto grazie alla sua capacità di mediare fra i valori della tradizione e le innovazioni del calcio olandese. Fu una finale densa, come forse nessun'altra, di significati storici. Solo gli osservatori superficiali conclusero che il 7 luglio 1974, nell'avveniristico Olympiastadion di Monaco, il trionfo di Beckenbauer su Cruijff fosse la vittoria del calcio conservatore su quello riformista.
A quel punto, le due finaliste di Città del Messico si erano già fatte da parte: il Brasile con decoro, inchinandosi alla straripante superiorità atletica degli olandesi in semifinale, ma ancora quarto nel ranking conclusivo; l'Italia fra violente polemiche, prima oggetto di manifestazioni di entusiasmo da parte di 60.000 emigrati, poi della contestazione disperata dei tifosi traditi. L'Italia non superò il primo girone, dominato dalla fresca Polonia. A parità di punti con l'Argentina, decise la differenza reti, e l'ago della bilancia fu la partita giocata contro Haiti: gli azzurri vinsero solo per 3-1, gli argentini si imposero per 4-1. L'eliminazione non fu il lato peggiore. Giorgio Chinaglia contestò pubblicamente il commissario tecnico Valcareggi e la Polonia denunciò un tentativo di corruzione (mai provato) per l'ultimo match, in cui un pareggio avrebbe consentito all'Italia di andare avanti, pur preservando il primo posto dei polacchi. Quel campionato decretò la fine della lunga (e tutto sommato felice) direzione tecnica di Valcareggi, nonché il tramonto di campioni quali Rivera, Mazzola e Riva che avevano scritto pagine importanti nella storia del calcio italiano.
L'Olanda aveva stupito sin dall'avvio: 2-0 all'Uruguay, 4-1 alla Bulgaria, un portiere che usciva dall'area per prendere parte al gioco, cose mai viste. In quella squadra, chiamata per il colore delle maglie e per l'automatismo della sua manovra 'l'arancia meccanica', sembrava impossibile trovare un punto debole. Anche nel secondo girone Cruijff e i suoi compagni imperversarono senza sosta: 4-0 all'Argentina, 2-0 alla Germania Est, 2-0 al Brasile, per un totale di otto gol realizzati, nessuno subito. Le porte della finalissima si spalancarono e il trionfo sembrava sicuro.
Dall'altra parte la Germania Ovest riuscì a battere senza troppi problemi Svezia e Iugoslavia, poi giocò contro la Polonia per il primo posto e per la finale. Una partita memorabile sotto il diluvio, giocata a ritmi serrati. La Polonia, sino a quel momento, aveva collezionato cinque vittorie su cinque. La Germania Ovest aveva ceduto, nel girone preliminare, alla Germania Est nel primo, storico confronto ufficiale fra le due parti del paese: peraltro, a quel punto, la qualificazione era già assicurata. La Polonia dominò il primo tempo senza segnare, poi i tedeschi presero vigore e il portiere polacco Jan Tomaszewski giganteggiò parando anche un rigore. Fu il cannoniere Gerd Müller, sino a quel momento rimasto in ombra, a batterlo con uno dei suoi proverbiali riflessi sottorete. Alla fortissima Polonia andarono tutti gli elogi, ai quali aggiunse in concreto il terzo posto conquistato sul Brasile.
Gli olandesi iniziarono dunque la finale con i pronostici a loro favore. Al fischio d'inizio tennero la palla per un minuto, senza farla toccare ai tedeschi. Al termine di quella manovra insistita, Cruijff si lanciò verso la porta e in piena area fu abbattuto dal suo marcatore, Berti Vogts. L'arbitro inglese John Taylor concesse il rigore e l'Olanda passò in vantaggio. Fu la sua fine. L'illusione di una vittoria più facile del previsto la paralizzò. La Germania Ovest riordinò pazientemente le file, pareggiò a sua volta con un rigore, passò in vantaggio prima dell'intervallo con il guizzo beffardo del solito Müller. Nella ripresa, l'Olanda uscì dal torpore, attaccò a tutto spiano, ma era troppo tardi. Il calcio totale era stato sconfitto un po' dall'intelligenza avversaria e molto dalla propria presunzione. Disse Cruijff, anni dopo: "Quel titolo non lo vinse la Germania, lo perdemmo noi". Fu per gli olandesi una magra consolazione essersi imposti all'attenzione del mondo calcistico come il modello da imitare.
Più volte l'Argentina si era candidata a ospitare il Campionato del Mondo, ma si era vista sempre penalizzare a causa o delle precarie condizioni economiche o dell'instabilità politica. Avanzata sin dal 1966, la sua richiesta di organizzare l'undicesima edizione, in programma nel 1978, aveva ricevuto una prima conferma nel congresso FIFA del 1970 a Città del Messico, per essere avallata in via definitiva all'assise di Monaco 1974, in coincidenza dei Mondiali tedeschi. Nel 1973, il ritorno al potere di Juan Domingo Perón aveva portato un'apparente tregua sociale e politica nel paese, sicché i massimi dirigenti calcistici si erano convinti che fosse finalmente arrivata l'occasione favorevole. Da quel momento, però, gli avvenimenti erano precipitati. Nel luglio del 1974 era morto Perón, e subito dopo, in un contesto di violenza e disordini dilaganti, un colpo di Stato aveva portato al potere il generale Jorge Rafael Videla. Mancavano appena due anni all'appuntamento con la Coppa del Mondo e l'Argentina non si era ancora attivata sul piano organizzativo e delle strutture. Tuttavia il nuovo regime non volle perdere la possibilità di utilizzare l'evento per finalità propagandistiche offrendo al mondo un'immagine sapientemente edulcorata, da contrapporre a quella che gli organi d'informazione internazionali diffondevano sui suoi crimini e le sue crudeltà.
Il Campionato del Mondo divenne così, ancora una volta, lo strumento di un'operazione politica. Sul piano dello sforzo organizzativo, la Giunta militare fece veri miracoli. L'EAM (Ente autarquico mundial) fondato appena nel dicembre del 1976, portò a termine, a prezzo di un salasso economico in seguito duramente scontato, tutti i lavori previsti e seppe abilmente far leva sul forte nazionalismo e sull'amore per il calcio degli argentini, per coinvolgerli in un frenetico attivismo. Lo slogan "venticinco millones de argentinos jugaremos el mundial" scandì un mese di esaltazione collettiva e di successi che, forse, consentì a Videla di prolungare (anche se non di molto) la sua dittatura. L'esito dell'operazione non poteva che essere la vittoria della squadra di casa, destinata a trasformarsi in una fabbrica di consenso. Sicché, dopo le edizioni del 1970 e del 1974 che erano risultate sufficientemente trasparenti, quella del 1978 tornò a gettare più di un'ombra sulla correttezza del verdetto sportivo.
L'episodio rimasto nella cronaca con la pittoresca definizione di mamelada peruana (ovvero la benevola concessione, da parte del Perù all'Argentina, di una vittoria tanto larga da superare il Brasile nella differenza reti) fu la vistosa punta dell'iceberg. Ciò non sarebbe stato sufficiente, però, se l'Argentina non avesse messo in campo una squadra di buon livello, forte di una preparazione mai così accurata e puntigliosa sotto la guida del commissario tecnico Luís Cesar Menotti che, dietro la promessa del trionfo finale, aveva ottenuto carta bianca. Peraltro, tutte le volte che si rese necessario un aiuto, a cominciare dai primi duri passi con Ungheria e Francia, l'aiuto puntualmente arrivò.
Ancora una volta finì seconda l'Olanda, sconfitta in finale, come quattro anni prima, dalla nazionale di casa: un'Olanda offuscata nei valori individuali, che non aveva più Cruijff e giocava un calcio assai meno spettacolare, ma sempre formidabile sotto il profilo atletico. Terzo fu il Brasile, unica squadra ad aver terminato il torneo senza sconfitte, un Brasile a sua volta snaturato, più 'europeo', tattico e concreto, che non incantava, ma che era difficile battere (infatti non ci riuscì nessuno, sul campo).
La rivelazione, in chiave tecnica, del Mundial argentino fu però l'Italia, penalizzata da un quarto posto che alla vigilia sarebbe stato sottoscritto con entusiasmo, ma che alla prova dei fatti risultò chiaramente inadeguato ai meriti. Dopo l'insuccesso di Stoccarda e la precoce eliminazione del 1974, l'Italia aveva decisamente cambiato rotta. Chiuso il lungo e glorioso ciclo del commissario tecnico Valcareggi, la nazionale era stata affidata all'anziano Fulvio Bernardini, che completò, fra le polemiche e le sconfitte, un eccellente lavoro di transizione, consegnando al suo successore Enzo Bearzot un nucleo di giovani sui quali costruire il futuro. Bearzot vi aggiunse un'impronta personale, ricreando uno spirito di gruppo che agli azzurri mancava dai lontani tempi di Vittorio Pozzo. La mossa decisiva del tecnico fu quella di inserire nella formazione titolare, all'ultimo momento, due talenti esordienti, il terzino Antonio Cabrini e il centravanti Paolo Rossi. Quest'ultimo, con il suo eccezionale senso del gol, conquistò gli argentini e si guadagnò un nomignolo, Pablito, che lo accompagnò per tutta la carriera. Quell'Italia fu una sorpresa per la critica estera, perché giocava un calcio coraggioso, d'attacco, avendo superato lo schema tradizionale, che privilegiava il gioco attendista e di rimessa. Il modulo tattico di Bearzot fu definito 'zona mista', perché parzialmente apriva alla zona d'ispirazione olandese, pur mantenendo alcune marcature individuali in fase difensiva: una contaminazione particolarmente efficace che avrebbe trovato quattro anni dopo, in Spagna, le soddisfazioni concrete mancate in Argentina.
L'Italia finì in un girone di ferro, con Francia, Ungheria e Argentina. Le batté tutte e tre, anche i favoritissimi padroni di casa, grazie a un fulmineo contropiede di Roberto Bettega, e forse quello fu un errore tattico, dal momento che il passaggio al turno successivo era comunque già assicurato. Con il primato del girone, l'Italia entrò nel gruppo metropolitano di Buenos Aires, con Olanda, Germania Ovest e Austria, mentre gli argentini dovettero trasferirsi a Rosario, per affrontare il temutissimo Brasile, il Perù e la Polonia. Dopo il pareggio con la Germania Ovest e la vittoria sull'Austria, l'Italia scese in campo contro gli olandesi per conquistarsi il diritto a disputare la finalissima. Andò in vantaggio, ma l'arbitro mostrò grande tolleranza nei confronti degli olandesi che giocarono una partita molto violenta. L'Olanda approfittò di una fatale incertezza del portiere Zoff su un tiro dalla grande distanza di Arie Haan e concluse la partita in vantaggio per 2-1. All'Italia non restò che la finale di consolazione per il terzo posto.
Nell'altro raggruppamento, Argentina e Brasile pareggiarono 0-0 un match nervoso, dominato dal reciproco timore, mentre non ebbero problemi con le altre due avversarie. Il Brasile chiuse prima i suoi impegni con una differenza reti di +5, frutto del 3-0 al Perù e del 3-1 alla Polonia. L'Argentina aveva superato i polacchi per 2-0. Per accedere alla finalissima, doveva infliggere ai peruviani quattro gol di scarto. Il primo tempo terminò 2-0, ma nella ripresa il Perù, nella cui porta giocava Ramón Quiroga, argentino di nascita e sottoposto alla vigilia a forti pressioni, abbassò vistosamente la guardia e chiuse con un inglorioso 0-6. Inutilmente il Brasile lanciò l'accusa di combine. L'Argentina si apprestò a incontrare l'Olanda in un clima di grande entusiasmo popolare. Arbitro l'italiano Sergio Gonella, la partita riservò grandi emozioni. A 1 minuto dal termine, sul punteggio di 1-1, un tiro della punta olandese Robert Rensenbrink, a portiere battuto, colpì il palo; dieci centimetri più in là e sarebbe stata scritta un'altra storia. Nei tempi supplementari, peraltro, l'Argentina impose la propria tecnica e andò a rete altre due volte. Era una squadra potente, stretta in difesa attorno al leader Daniel Alberto Passarella, lucida a centrocampo con il regista Osvaldo Ardiles, fantasiosa in attacco con l'ala Daniel Bertoni e il goleador Mario Kempes. I favoritismi erano stati ripetuti e importanti, ma il vincitore non era tecnicamente indegno. Il Brasile batté l'Italia, ancora tradita dal suo campione simbolo, Zoff, sui tiri da lontano, e si aggiudicò il terzo posto. Erano state le due squadre migliori del Mundial e la consapevolezza di ciò fu per entrambe causa di profonda frustrazione.
Arrivare al terzo titolo mondiale fu, per l'Italia, una lunga corsa sull'abisso. Il ricordo del quarto posto d'Argentina, con le sue lusinghiere prospettive, si era dileguato in fretta. Sul florido calcio italiano, in vigorosa espansione, si era abbattuta una tempesta di vaste proporzioni, capace di minare alla radice l'intero fenomeno e metterne in forse il piedistallo più solido, la credibilità: lo scandalo del calcio-scommesse, le partite truccate, le manette negli stadi e, di conseguenza, il fallimento negli Europei del 1980, che erano stati programmati in casa proprio nella speranza di una grande vittoria. Quarto posto anche lì, ma assai diverso da quello esaltante di Buenos Aires.
Per ricostruire restavano due anni. I mutevoli umori delle folle calcistiche furono positivamente influenzati dalla riapertura agli stranieri: un aiuto a dimenticare. La nazionale si riciclò pazientemente e inseguì la qualificazione in un clima di diffidenza e prevenzione. I censori di Bearzot rialzarono la testa. L'1-3 in Danimarca e l'1-0 sul Lussemburgo scatenarono attacchi sempre più furibondi contro il commissario tecnico. Fallito il ricupero di Bettega, gravemente infortunato in Coppa dei Campioni, Bearzot, anche contro i suggerimenti che gli provenivano dall'alto, riprese in forza Paolo Rossi, la cui squalifica per il coinvolgimento nello scandalo-scommesse terminava proprio due mesi prima dell'appuntamento mondiale. Fu quel gioco d'azzardo, condannato dai perbenisti e irriso dagli stessi tecnici, a modificare la scacchiera, assicurando all'Italia una squadra vincente, germinata come per miracolo fra i livori e le polemiche. Fu la grande vittoria di un uomo solo. Pozzo aveva conquistato due Mondiali, calandosi perfettamente nell'apparato organizzativo e sfruttandone abilmente il potenziale. Bearzot arrivò invece a combattere quell'apparato, isolandosi con i suoi giocatori in un clima di conflittualità contro gli stessi vertici federali. Ma fu proprio la sindrome di 'soli contro tutti' a far scattare nella squadra azzurra le giuste motivazioni per l'impresa.
I Mondiali di Spagna 1982 furono i primi a dimensione autenticamente universale. Africa e Asia, ormai consapevoli che i loro voti contavano come quelli degli altri, posero in termini ultimativi la richiesta di una partecipazione più larga alla fase finale. La soluzione unica e obbligata, per non toccare i privilegi tecnici delle scuole tradizionali, consisteva nell'ampliamento del numero delle finaliste. Da 16, le nazioni ammesse al Mondiale divennero così 24. Il compito di inaugurare il nuovo corso toccò alla Spagna, che si trovava nella situazione favorevole di essere già adeguatamente provvista di impianti e strutture in grado di reggere l'urto. Ancorata per lungo tempo a un'organizzazione regionalistica del calcio, la Spagna si era frantumata in tante isole perfettamente funzionanti. Il suo Mundial fu un esempio di efficienza.
Rotti gli argini, l'Africa ottenne due posti, l'Asia e l'Oceania insieme due, l'America centro-settentrionale due, contro i quattordici europei e i quattro sudamericani. Il maggior numero di posti disponibili attenuò molto la suspense delle qualificazioni. In Europa la sola esclusione di rilievo fu quella dell'Olanda, seconda alle due ultime edizioni, ma in piena crisi di ricambio generazionale. In Sud America restò fuori l'Uruguay due volte campione, a vantaggio del Perù, che da tempo gli era superiore. Trionfale risultò la qualificazione del Brasile, con quattro vittorie su altrettanti incontri, undici gol segnati e due subìti. Si annunciava come il rivale d'obbligo dell'Argentina, che alla squadra campione di quattro anni prima aveva aggiunto un giovane ed esplosivo fuoriclasse, Diego Armando Maradona. Esotiche novità arrivarono dagli altri continenti: Camerun e Algeria, Kuwait e Nuova Zelanda, mentre El Salvador e Honduras, che si erano letteralmente dichiarati guerra per partecipare ai Mondiali di Messico 1970, questa volta affrontarono in un clima solidale l'avventura.
Dato il maggior numero di partecipanti, cambiò ovviamente la formula. Sei gironi preliminari di quattro squadre ciascuno, le dodici superstiti suddivise in quattro gruppi a tre, le cui vincenti avrebbero dato vita a semifinali e finali. In tutto, era previsto un mese di competizioni.
L'Italia fu collocata nel periferico girone di Vigo, insieme con la Polonia di Zbigniew Boniek (già ingaggiato dalla Juventus per la stagione successiva), il Perù e il Camerun. Il passaggio del turno appariva una formalità. Fu invece il punto a più alto rischio dell'intero Campionato, in seguito trionfale. Gli incerti esiti iniziali degli azzurri riaccesero la polemica. Rossi era un pallido fantasma, che inseguiva in campo la passata grandezza. I riflessi appannati gli vanificavano la sola arma efficace, l'opportunismo sotto rete. A salvare la situazione furono la robustezza della difesa, la grinta di Marco Tardelli, le invenzioni di Bruno Conti che giocò in modo strepitoso. Dopo lo 0-0 con la Polonia, l'1-1 con il Perù, l'1-1 con il Camerun, l'Italia chiuse al secondo posto del girone, dietro la Polonia e affiancata al Camerun. A parità di punti e di differenza reti, gli azzurri ottennero una stentata qualificazione solo per aver segnato un gol in più dei diretti concorrenti. Il Camerun concluse il suo Mondiale senza aver perduto neppure una partita, ma questo non impedì una violenta sollevazione contro il tecnico francese Jean Vincent, che aveva diretto (con grande maestria tattica) la squadra africana. Due anni dopo, un discutibile 'Mundialgate' cercò di sollevare intorno all'incontro Italia-Camerun il sospetto della corruzione, una sopravvalutazione che quel modesto match sicuramente non meritava.
Le critiche ricevute dopo il deludente avvio indussero il clan italiano a inaugurare una singolare forma di protesta: il silenzio stampa, che avrebbe avuto in seguito tanti maldestri imitatori. Solo il capitano, Dino Zoff, era autorizzato a fornire ai cronisti le informazioni indispensabili. Questa iniziativa riscosse un grande successo di curiosità presso la stampa straniera, sicché l'Italia si trovò sulle prime pagine delle cronache internazionali, ben al di là dei meriti agonistici sino a quel momento raccolti.
Anche l'altra futura finalista, la Germania Ovest, incontrò impreviste difficoltà nel girone. A salvarla provvidero gli austriaci che, già sicuri del passaggio del turno, nell'ultima partita si fecero compiacentemente battere dai tedeschi, riaprendo loro le porte della qualificazione. A farne le spese fu l'Algeria, eliminata malgrado si fosse segnalata come la vera rivelazione di questo torneo. Le due rappresentanti africane tornarono così subito a casa, non senza giustificate recriminazioni. Due sole squadre chiusero il girone preliminare a pieno punteggio, l'Inghilterra e il Brasile. La Spagna, padrona di casa, si impose fruendo del tradizionale fattore campo.
I quattro gironi successivi, accorpati a seconda dei piazzamenti, videro l'Italia assegnata a un raggruppamento proibitivo, con l'Argentina campione in carica e il Brasile superfavorito. Andò meglio alla Francia, finita con Austria e Irlanda del Nord, mentre l'Inghilterra si trovò abbinata a Germania Ovest e Spagna. Polonia, URSS e Belgio formarono l'ultima terna.
Per l'Italia vi erano già pronostici di sconfitta. A Barcellona, nel piccolo stadio Sarriá battuto da un sole implacabile, gli azzurri affrontarono l'Argentina. Bearzot ordinò al terzino Claudio Gentile di montare una guardia serrata a Maradona, sino a portarlo fuori dal gioco. Gentile obbedì all'indicazione, favorito anche dalla benevolenza dell'arbitro rumeno Nicolae Rainea. Senza le prodezze del suo campione, l'Argentina si indebolì e perse fiducia. Nella ripresa, l'Italia attaccò, segnando con Tardelli e Cabrini, e consentì solo il punto della bandiera a Daniel Passarella. Rossi era ancora in crisi, ma gli azzurri erano nella condizione di aspettarlo.
Il Brasile spazzò via definitivamente l'Argentina. Maradona si fece espellere. Italia-Brasile diventava così un'eliminazione diretta, ma al Brasile, dotato di miglior differenza reti, sarebbe bastato un pareggio. Ma il Brasile voleva stravincere. A Gentile era stata affidata un'altra missione molto impegnativa: annullare il gioco di Zico. Anche quel compito fu portato a termine. Quel giorno Bearzot scelse nuovamente Paolo Rossi, proprio mentre la critica invocava la sua esclusione dalla squadra. Il primo gol fu di Rossi, poi pareggio di Sócrates, ancora Rossi, pareggio di Paolo Roberto Falcão, terzo gol di Rossi e a quel punto il Brasile si arrese. L'Italia aveva ritrovato il Pablito d'Argentina. Aveva anche battuto, in successione, le due squadre più forti del torneo.
Il resto fu un trionfo. Dagli altri gironi erano uscite Polonia, Francia e Germania Ovest: soltanto Europa, nella volata finale, da cui era esclusa solo la Spagna, sconfitta dai tedeschi in una partita ben arbitrata dall'italiano Paolo Casarin, restio a ogni condizionamento. Italia e Polonia si ritrovarono di fronte. A entrambe aveva giovato la fase iniziale giocata negli stadi freschi dell'Atlantico. Boniek, squalificato, non partecipò alla partita. Ma ciò era irrilevante, ormai Rossi aveva lanciato lo sprint. Altri due suoi gol, e fu conquistata la finale contro la Germania Ovest, che, pur dominata a centrocampo dalla Francia, aveva prevalso 5-4 ai calci di rigore, dopo i supplementari terminati 3-3, per l'incapacità dei francesi di gestire un vantaggio di due gol. Il fatto che a disputarsi il titolo fossero arrivate le due squadre più deludenti nella fase iniziale aveva un preciso significato. In un Mondiale così lungo e faticoso era importante saper dosare gli sforzi: era impossibile e controproducente tenere ritmi serrati dall'inizio alla fine. Il Brasile e l'Inghilterra avevano pagato a caro prezzo l'avvio sprint.
A Madrid, con il capo dello Stato Sandro Pertini a fare il tifo in tribuna, fra il re Juan Carlos e il Cancelliere tedesco, l'Italia si permise persino il lusso di sprecare un rigore, con Cabrini, prima di battere la Germania Ovest con facilità persino irridente. Bearzot aveva disposto marcature serrate, fra cui quella del giovane Giuseppe Bergomi su Karl Heinz Rummenigge. Fu ancora Rossi a segnare per primo con il suo sesto gol in tre partite. Tardelli e Alessandro Altobelli, che aveva preso il posto di Francesco Graziani, furono gli autori delle altre due reti italiane. Alla Germania Ovest rimase la consolazione di un gol di Paul Breitner, a mitigare la disfatta.
Quella del 1986 fu la prima replica della Coppa del Mondo in una sede già visitata. La Colombia aveva ottenuto da parte della FIFA (ancorata all'alternanza continentale, ma in difficoltà sul fronte americano) una designazione molto ottimistica. Le aspettative colombiane furono presto sopraffatte dai cronici problemi interni. Il Messico colse allora l'occasione per proporre una soluzione alternativa 'pronta per l'uso'. Gli impianti del 1970 erano ancora funzionanti, con qualche ritocco e una spesa contenuta, il Mundial avrebbe trovato sugli altipiani un sito adeguato. Il ricordo del 'magico' Mondiale del 1970 conquistò le menti e i cuori. Guillermo Canedo, il potente vicepresidente messicano della FIFA, garantì personalmente.
Già in ristrettezza di tempi, il Messico ebbe la sfortuna di subire un rovinoso terremoto, otto mesi prima del grande appuntamento. Molti palazzi di Città del Messico crollarono come castelli di carta, inghiottendo e seppellendo migliaia di vittime. Scuole e ospedali in polvere, vecchie ville patrizie indenni senza una crepa. Ma la sera stessa, mentre nel mondo giungevano le immagini del disastro, Canedo proclamò: "Il Mundial si farà, nei tempi e luoghi stabiliti". Così fu, anche se a un prezzo molto alto. Il giorno dell'inaugurazione, una folla muta inalberava cartelli di protesta: "Il Mundial ha la sua casa, quando riavremo la nostra?" Tuttavia il Campionato servì anche a tacitare il malcontento.
I primi successi del Messico, portato a livelli competitivi inediti da un abile tecnico iugoslavo, Bora Milutinovic, cittadino del mondo e messicano d'adozione, esaltarono un popolo che dimenticava problemi e miserie, scendeva in piazza a far festa e si sentiva padrone del mondo grazie a un pallone. Il sogno del Messico si infranse però a Monterey, contro l'impietosa Germania Occidentale. Fu una sconfitta gloriosa, in linea con le tradizioni del paese. Il Mundial, come colore e allegria, finì quella sera stessa, e dopo ci fu spazio solo per il grande Maradona, capace di portare al titolo un'Argentina che, senza di lui, a stento sarebbe arrivata in semifinale. Così il Messico, che nel 1970 si era inchinato a Pelé e alla sua leggenda, sedici anni dopo celebrò il nuovo grande campione del calcio.
Il secondo Campionato del Mondo allargato a 24 finaliste aveva ritoccato la formula. Dopo i rituali sei gironi preliminari a quattro squadre, non si passò ai 'gironcini' a tre, che in precedenza si erano rivelati fonte di possibile combine, ma si tornò all'eliminazione diretta, più crudele ma inconfutabile. Per non ridurre il numero delle partite, si snaturò la fase di apertura: non soltanto le prime due squadre di ogni girone avrebbero superato il turno, ma anche le migliori quattro fra le sei terze classificate. Alla resa dei conti, si sarebbero giocate ben 36 partite solo per eliminare otto squadre. Le restanti 16 avrebbero dato vita al vero Mondiale, come lo si giocava nelle prime edizioni.
L'Italia, campione in carica, fruì di un buon sorteggio, finendo con Argentina, Bulgaria e Corea del Sud. Bearzot aveva concluso le sue laboriose operazioni di riassetto della squadra, ripresentando un nutrito gruppo di reduci di Spagna, integrati da parziali novità e da qualche intuizione in extremis. Con Fernando De Napoli e Gianluca Vialli, il commissario tecnico ritenne di poter ripetere lo stratagemma riuscitogli otto anni prima con Cabrini e Rossi. Ma poi non credette sino in fondo a questo schema, e Vialli fu usato solo per qualche scampolo di partita, in alternativa a Conti. Tardelli e Rossi risultarono in gita-premio: i due protagonisti del 1982 non giocarono neppure un minuto, così come rimase fermo Aldo Serena, l'imponente centravanti partito dall'Italia come titolare, ma poi soppiantato in loco dall'agile Giuseppe Galderisi, ritenuto più adatto agli sforzi in altura.
L'Italia disputò contro la Bulgaria la partita inaugurale del Campionato in uno Stadio Azteca ancora ampliato (l'abbassamento di 10 m del terreno di gioco aveva consentito di ricavare un altro anello di gradinate). Gli azzurri, in vantaggio con un Altobelli in grandi condizioni, che i telecronisti messicani definivano monumental, si fecero raggiungere in chiusura dalla sola conclusione a rete dei bulgari. Pareggiarono anche con l'Argentina, in una gara di evidente non belligeranza, e infine piegarono la vivace Corea del Sud. Con quattro gol nelle prime tre partite, Altobelli si assicurò un ruolo di protagonista.
Non ci furono sorprese. Il Messico vinse addirittura il suo girone, il Brasile fece come al solito molte vittime, vincendo tutte e tre le partite, sotto la guida di Telê Santana, lo sconfitto di Spagna. Le grandi rivelazioni furono l'URSS e la Danimarca, il solo eliminato di riguardo il Portogallo. Come già in Spagna, le protagoniste della fase iniziale furono le prime a cadere. L'URSS affrontò in una partita traumatica il Belgio, che si impose per 4-3, con il determinante contributo dell'arbitro Erik Fredriksson. La Danimarca incontrò con ingenuità tattica la Spagna, finendo sconfitta da quattro gol di Butragueño, specialista del contropiede. Quasi lo emulò il centravanti inglese Gary Lineker, autore di una tripletta che annientò la Polonia. Ma il gol più spettacolare lo mise a segno il messicano Manuel Negrete, con una sforbiciata che proiettò la squadra di casa nei quarti di finale, scatenando l'entusiasmo popolare.
L'Italia affrontò la Francia (campioni del mondo contro campioni d'Europa) in uno stadio periferico di Città del Messico. Bearzot visse una vigilia tormentata. Il suo credo calcistico prevedeva un gioco d'iniziativa, ma la squadra non rispondeva alle sue attese. Decise così di inserire un difensore in più, Giuseppe Baresi, con il compito di fermare l'ispiratore e il leader dei francesi, Michel Platini. Fu un boomerang. Platini, malgrado non fosse in gran forma, andò in gol dopo un quarto d'ora. La Francia raddoppiò con facilità sui giocatori azzurri a quel punto smarriti, e l'Italia andò a casa, quando ancora i giochi veri dovevano cominciare. Si chiuse lì la carriera di commissario tecnico di Bearzot, l'uomo che aveva dato all'Italia il terzo titolo mondiale.
Il quarto di finale più atteso mise di fronte Brasile e Francia. Il Brasile giocò meglio, colpì traverse e pali, ma vinse la Francia ai calci di rigore; fallirono la trasformazione dagli 11 metri tre eccellenti giocatori quali Zico, Platini, Sócrates. Il Messico di Milutinovic creò immensi problemi alla Germania Ovest del debuttante commissario tecnico Beckenbauer, il kaiser. L'incontro finì 0-0 dopo 120 minuti. Ai rigori, il Messico cedette al 'terrore' di vincere. Mise a segno un solo tiro, contro i quattro degli impassibili tedeschi. Il Belgio batté anche la Spagna, e anche questa partita fu decisa dai calci di rigore.
Grandi tensioni avvolgevano Argentina-Inghilterra, per le ferite non ancora rimarginate della guerra delle Falkland. Maradona fu il protagonista assoluto della partita. Segnò un gol, svettando oltre il portiere Peter Shilton, e colpendo nettamente il pallone con la mano. Il tunisino Ali Bennaceur, che arbitrava, non se ne accorse e respinse le vibrate proteste degli inglesi. Sullo slancio, Maradona replicò con un gol di straordinaria fattura, uno slalom fra sei giocatori inglesi, che Diego concluse entrando in porta con il pallone al piede. Invano Lineker, tiratore scelto del Mundial, cercò di riaprire la gara. Maradona disse che era stata "la mano di Dio", gli inglesi furono accolti in patria con l'aureola di vincitori morali.
Maradona replicò, con due gol contro il Belgio, ormai pago del lungo (e inatteso) cammino percorso. L'Argentina, guidata da un ottimo tecnico, Carlos Bilardo, non era una squadra eccezionale, ma il suo fuoriclasse la trasfigurava. In finale si trovò di fronte la solida Germania Ovest, che Beckenbauer aveva pilotato a fari spenti, nella fase iniziale, perché fosse in piena condizione agli appuntamenti decisivi. In semifinale, i tedeschi avevano ancora una volta battuto la Francia, come quattro anni prima. E come allora i francesi avevano giocato il calcio più brillante, ma erano stati schiacciati dalla superiorità fisica degli avversari.
Contro l'Argentina, Beckenbauer chiese al più bravo dei suoi, Lothar Matthäus, di sacrificarsi nel controllo di Maradona; il giocatore accettò senza entusiasmo (era il perno della squadra), ma con disciplina esemplare. Maradona, nell'impossibilità di agire da solista, si pose al servizio della squadra, che trovò in Jorge Valdano il suo uomo-guida. Nel cambio, alla fine, ci guadagnò l'Argentina. Quando Beckenbauer se ne accorse, la Germania Ovest era sotto di 2-0. Riuscì a rimontare, grazie a due prodezze di Rummenigge e Rudi Völler, con uno sforzo di cui Bilardo presentò subito il conto. Si profilavano ormai i tempi supplementari, e Maradona uscì dal suo forzato grigiore per un lampo, uno solo, però decisivo. Fece un lancio smarcante per Jorge Burruchaga, il quale guizzò oltre le linee tedesche e vanificò l'uscita disperata di Harald Schumacher. Era il secondo titolo mondiale dell'Argentina, ma rimase per tutti il Mondiale di Maradona.
Sulla strada aperta dal Messico, si inserì subito l'Italia che ottenne anch'essa di organizzare per la seconda volta il Mondiale, dopo la vittoriosa e lontana esperienza del 1934. Fu Franco Carraro, commissario straordinario della Federcalcio, a dover risolvere la scomoda eredità di Bearzot alla guida della nazionale: automatica o quasi fu la designazione di Azeglio Vicini, che aveva ottenuto eccellenti risultati con l'under 21. Il nuovo commissario tecnico procedette subito a un ringiovanimento, promuovendo Walter Zenga, Paolo Maldini, Gianluca Vialli, Giuseppe Giannini, Riccardo Ferri, Roberto Donadoni, Roberto Mancini nella nazionale maggiore. Frattanto, alla presidenza federale era salito Antonio Matarrese, che assicurò al nuovo tecnico il pieno appoggio, in vista di un obiettivo imprescindibile: il quarto titolo mondiale, da conquistare nella cornice romana.
Al comando della complessa macchina organizzativa fu chiamato Luca di Montezemolo, la cui mentalità imprenditoriale si scontrò con i cronici ritardi e le anacronistiche pastoie della burocrazia. I lavori di ammodernamento e di restauro degli impianti non furono tutti impeccabili nei tempi e nelle modalità, tuttavia dal punto di vista della gestione dell'evento sportivo e del settore della comunicazione questo fu forse il miglior Campionato del Mondo di tutti i tempi.
Con un ottimo comportamento agli Europei del 1988 (terzo posto, dietro Olanda e URSS), l'Italia di Vicini si conquistò una solida reputazione di favorita. Era una squadra brillante, ricca di talenti, con molte alternative. Dietro gli attaccanti titolari premevano Totò Schillaci e Roberto Baggio, i favoriti dei tifosi. La concorrenza non appariva formidabile. L'Argentina campione in carica esigeva rispetto, anche se Maradona non era più nella condizione fisica di quattro anni prima. Poi la solita Germania Ovest, ancora affidata a Beckenbauer, il Brasile campione del Sud America e l'Olanda campione d'Europa.
La formula fu la stessa adottata in Messico. L'Italia superò in bello stile il girone preliminare. Sin dalla partita d'esordio contro l'Austria, Schillaci si rivelò decisivo. Subentrato a Carnevale a metà del secondo tempo, mise a segno il gol della vittoria. Altri due successi contro Stati Uniti e Cecoslovacchia proiettarono gli azzurri negli ottavi di finale a punteggio pieno.
Nessuna squadra aveva destato impressione migliore. Il Brasile per la prima volta adottava il ruolo del battitore libero, in una difesa a cinque uomini, secondo il nuovo corso del tecnico Sebastião Lazaroni, attratto dai modelli europei e contestato in patria. Anche l'Inghilterra di Bobby Robson giocava un calcio assai più prudente del solito. L'Argentina, sconfitta dal Camerun nella gara inaugurale, fu salvata dall'arbitro Erik Fredriksson quando, contro l'URSS, era a un passo dall'eliminazione: Maradona esibì un altro decisivo colpo di mano, questa volta per salvare un gol certo sulla linea della propria porta. Singolare che in due edizioni consecutive, lo stesso arbitro fosse stato fatale all'URSS. Il problema degli arbitraggi discutibili stava peraltro contagiando l'intero torneo: frastornati dalle nuove norme della FIFA, diramate proprio a ridosso del Mondiale per salvaguardare gli attaccanti e favorire il gioco offensivo, i direttori di gara oscillavano fra una severità eccessiva e una tolleranza inammissibile.
Fra le 16 promosse figurarono cinque nazionali mai salite così in alto in un Campionato del Mondo: Camerun, Eire, Colombia, Romania e Costarica, guidata da Bora Milutinovic, il tecnico che quattro anni prima era stato il 'profeta' del Messico.
Negli ottavi, un'Argentina dimessa riuscì a battere il Brasile. La partita fu dominata dai brasiliani, che non riuscirono però a concretizzare la loro superiorità per la sfortuna (tre pali) e l'incapacità degli attaccanti. Maradona, stremato dalla fatica, trovò il guizzo decisivo a pochi minuti dalla fine, offrendo a Claudio Paul Caniggia il pallone di una storica vittoria. Il Camerun, con una doppietta del suo centravanti Roger Milla, eliminò la Colombia, in uno scontro di matricole, mentre la Costarica terminò la sua corsa di fronte alla solida Cecoslovacchia. L'Olanda, qualificatasi quasi per caso, con molti suoi campioni fuori forma (irriconoscibile Marco Van Basten) fu battuta dalla Germania Ovest più chiaramente di quanto indicasse il punteggio di 2-1, che chiuse la sfida di Milano. Solo ai supplementari, Iugoslavia e Inghilterra vennero a capo di Spagna e Belgio. Il gol della vittoria per gli inglesi fu segnato da David Platt al 119′. All'Italia era toccato l'ostico Uruguay, che si rifugiò in una tattica di ostruzionismo, punita alla distanza dai gol di Schillaci e di Serena. Anche Baggio aveva trovato posto in prima squadra. La nazionale di Vicini, sino a quel punto, non aveva ancora subito un gol, segnandone sei.
Nei quarti continuò la buona sorte dell'Argentina, che piegò a Firenze la Iugoslavia ai calci di rigore, dopo 120 minuti chiusi sullo 0-0. Pur ridotti in dieci uomini da un'ingiusta espulsione, gli slavi avevano dominato, ma i campioni in carica riuscirono a imporsi dal dischetto, malgrado Maradona avesse fallito la trasformazione. Un gol di Schillaci consentì a un'Italia appannata di domare la resistenza dell'Eire, guidata con grande realismo tattico da Jackie Charlton. A Vicini toccava in semifinale un'Argentina arrivata sin lì più per caso che per merito.
Nell'altra parte del tabellone finivano, ancora una volta, due storiche rivali dei Campionati del Mondo, Germania Ovest e Inghilterra. Ne l'una né l'altra erano state convincenti: i tedeschi avevano avuto ragione dei cechi con un rigore di Matthäus; gli inglesi avevano addirittura sofferto contro il Camerun, vera rivelazione del torneo, raggiunto da un rigore di Lineker a 7 minuti dalla fine, e battuto, nei tempi supplementari, da un altro rigore di Lineker. L'arbitro messicano Edgardo Codesal era stato in pratica il 'giustiziere' degli africani, protagonisti coraggiosi di un movimento in impetuosa crescita.
A Napoli, il duello fra la nazionale di casa e il diletto Maradona poneva al pubblico delicati problemi: tifo diviso, anche se il patriottismo sembrava prevalere sugli spalti. Vicini lasciava fuori Baggio, protagonista nelle ultime vittorie e perfetto partner di Schillaci, per reinserire Vialli, che dopo un lieve infortunio (e un accenno di polemica) intendeva fermamente riprendersi il posto di titolare. Tutto sembrava andare ugualmente per il meglio, perché Schillaci apriva le marcature, dopo poco più di un quarto d'ora, partendo da una sospetta posizione di fuorigioco, che peraltro la terna arbitrale diretta dal francese Michel Vautrot non segnalava. Forse per rimediare, Vautrot favoriva di lì in avanti gli argentini, in particolare omettendo di espellere Ricardo Giusti, dopo aver già messo mano al cartellino. Il pareggio di Caniggia, primo gol incassato dall'Italia in tutto il Campionato, pesava sulla coscienza di Zenga e mandava in tilt l'Italia e il suo pilota. Usciva Vialli, ma al suo posto entrava Serena e non Baggio. Quest'ultimo prendeva poi il posto di Giannini. Nei supplementari era finalmente espulso Giusti, ma ormai era tardi. Ai rigori, gli errori di Donadoni e Serena davano modo a Maradona di firmare dal dischetto l'ingresso in finale di un'Argentina inadeguata, che aveva penosamente arrancato per tutto il corso del torneo.
Per l'Italia era un fallimento, anche se i numeri dicevano il contrario. Superando l'Inghilterra nella 'finalina' per il terzo posto (gol di Baggio, pareggio di Platt, suggello finale di Schillaci, che diventava così tiratore scelto del Mondiale con sei centri, esattamente come Rossi in Spagna) gli azzurri chiudevano con un bilancio di sei vittorie e un pareggio. Avevano cioè conquistato, in una teorica classifica, 13 punti sui 14 disponibili. Quel solo pareggio era però costato un titolo che appariva largamente alla portata. Matarrese non perdonò Vicini, formalmente confermato, ma in seguito sostituito alla prima occasione con Arrigo Sacchi.
In finale erano dunque arrivate le stesse squadre che si erano contese il titolo allo stadio Azteca quattro anni prima: un'Argentina stremata e una Germania Ovest quadrata, ma senza genio. Nella semifinale di Torino i tedeschi avevano piegato gli inglesi con i calci di rigore, dopo che anche i supplementari si erano chiusi sull'1-1. Beckenbauer e Bilardo ancora di fronte: stesso copione, ma diverso l'epilogo. In una finale di rara bruttezza, l'Argentina pagò in un colpo solo la fortuna che l'aveva accompagnata sino a quel momento. L'ostilità del pubblico romano, che fischiò l'esecuzione dell'inno nazionale argentino, strappò a Maradona lacrime di rabbia e insulti. Lo stadio Olimpico inneggiava a Völler, l'attaccante tedesco che giocava nella Roma. L'arbitro designato fu il messicano Codesal, che pure aveva commesso ripetuti errori nel corso del torneo, segnalandosi per una serie di rigori di dubbia validità. Le due squadre, senza offrire emozioni e senza tirare quasi mai in porta, stavano andando ai tempi supplementari, quando Codesal punì con il calcio di rigore un fallo argentino a qualcuno apparso dubbio. Il terzino Andreas Brehme trasformò freddamente e Beckenbauer poté alzare una Coppa che dava alla Germania Ovest il terzo titolo mondiale, ma poco aggiungeva alla sua gloria. D'altra parte i tedeschi venivano da due finali perdute, con l'Italia nel 1982 e con l'Argentina nel 1986, e quindi lo scettro ne premiava la continuità agli altissimi livelli.
Dopo aver concentrato nell'arco di dodici anni, dal 1958 al 1970, i suoi tre titoli mondiali, tutti legati alla carismatica figura di Pelé, il Brasile era andato declinando. Dapprima gradualmente (quarto nel 1974 in Germania, terzo nel 1978 in Argentina), poi con un crollo più vistoso: nel 1982 in Spagna, nel 1986 in Messico e nel 1990 in Italia non si era più affacciato alla fase decisiva, pur allineando in tutte e tre le occasioni formazioni altamente competitive sotto il profilo tecnico. Nella nazionale erano riemersi i vecchi vizi, la presunzione, lo scarso senso pratico, né era valso a guarirli il passaggio da uno stratega del gioco offensivo e al limite spericolato, come Telê Santana, a un tecnico prudente e quasi 'catenacciaro' quale Sebastião Lazaroni, il teorico della difesa a cinque uomini. Il Brasile tornò a essere campione del mondo, e si vestì per la quarta volta con i colori dell'iride, nel torneo del 1994, quando ‒ capriccio della sorte ‒ presentò, nell'inedita cornice americana, una nazionale decisamente di minore qualità, e meno ricca di campioni, rispetto a quelle che avevano fallito i più recenti assalti.
Sin dal 4 luglio 1988 la FIFA aveva ratificato l'assegnazione del Mondiale del 1994 agli Stati Uniti che ancora non l'avevano mai ospitato. La conquista di un pianeta rimasto ancora per lo più inesplorato sembrava davvero il modo migliore per celebrare il novantesimo anniversario della Confederazione mondiale, che aveva appunto visto la luce nel maggio del 1904. Gli Stati Uniti non potevano essere considerati un paese calcistico, anzi il soccer risultava piuttosto estraneo alla loro cultura sportiva, pur se molto praticato in ambito giovanile e scolastico. Ma per uno spettacolo che si proclamava (dati alla mano) il più grande del mondo, il proscenio americano era una meta obbligata. In pratica, era il 'matrimonio' più fastoso della storia moderna fra sport e affari, in attesa di aprire, nell'ormai prossimo terzo millennio, ai mercati emergenti dell'Estremo Oriente e dell'Africa.
L'evento si accompagnò all'introduzione di nuove regole, ben tarate sulla mentalità americana, che non concepisce il pareggio, esige un vincitore e chiede emozioni forti. La novità più importante riguardò i tre punti assegnati alla vittoria, contro il solo punto riservato al pareggio: con questo sistema, già adottato in molti tornei nazionali, si intendevano eliminare le 'alchimie' dei gironi preliminari, dove spesso il calcolo prendeva aggio sull'agonismo. Purtroppo, l'altra faccia della medaglia fu che la spettacolarità, e soprattutto l'aspetto televisivo, schiacciò le vere esigenze sportive. Poiché l'audience contava più della salute dell'atleta e del livello tecnico delle partite, si giocò spesso sotto l'impietoso sole di mezzogiorno, un vero attentato alla regolarità del gioco.
Le qualificazioni richiesero dolorosi sacrifici: fra le 24 finaliste mancavano nazionali storiche, come quelle di Uruguay, Inghilterra, Francia, nonché la Danimarca campione d'Europa in carica. In compenso, numerose erano le individualità di spicco: da Roberto Baggio, Pallone d'oro 1993, al suo omologo sudamericano, il colombiano Carlos Valderrama, per arrivare ai due più forti centravanti del momento, il brasiliano Faria Romário e l'argentino Gabriel Batistuta. Nell'Argentina, però, l'autentica attrazione era costituita dal ritorno di Maradona. Caduto nel vortice della droga, aveva conosciuto anche la vergogna del carcere, prima di essere avviato a un programma di riabilitazione. Al calcio era sicuramente mancato un personaggio del suo fascino: quella che sembrava la miracolosa rinascita di un campione si trasformò però in un'altra, dolorosa caduta.
Due squadre erano attese con particolare interesse, per il calcio nuovo predicato dai loro tecnici: l'Italia di Arrigo Sacchi e la Colombia di Francisco Maturana. Le ultime edizioni avevano visto un livello di gioco un po' più basso, sotto il profilo tattico. Sia l'Argentina di Bilardo sia la Germania di Beckenbauer adottavano il libero fisso e una folta copertura difensiva. Italia e Colombia giocavano la zona pura, senza alcun adattamento, e promettevano lo spettacolo prima del risultato. L'Italia debuttò contro l'Eire e fu una delusione cocente. Gli irlandesi, arroccati secondo lo stile di Jackie Charlton, si imposero per 1-0. Sugli azzurri si scatenarono polemiche furiose. Nel successivo match, contro la Norvegia, l'Italia rimase presto in dieci uomini, per l'espulsione del portiere Gianluca Pagliuca. Per riequilibrare tatticamente la squadra, Sacchi tolse dal campo il campione più rappresentativo e più amato, Baggio, e gli azzurri, benché inferiori numericamente, riuscirono a vincere grazie a una strepitosa partita di Beppe Signori e a tornare in corsa. Ma gli stenti non erano finiti: il pareggio contro il modesto Messico fece terminare le quattro squadre del girone alla pari. Il computo delle reti assegnò al Messico il primo posto, all'Eire il secondo. L'Italia, terza, venne 'ripescata': 16 squadre dovevano passare al turno successivo, e l'Italia fu appunto la sedicesima. Per il rotto della cuffia, l'avventura continuava.
La Colombia, eliminata al primo turno per le sconfitte subite contro Romania e Stati Uniti (questi ultimi guidati da Bora Milutinovic), deluse così profondamente le attese dei tifosi che al suo ritorno a casa vi furono reazioni di violenza criminale con conseguenze drammatiche: il difensore Andres Escobar, che aveva provocato uno sfortunato autogol contro gli USA, venne trucidato a colpi di mitraglietta mentre usciva da un ristorante. Sul Mondiale americano, sia pure in via indiretta, pesa ancora quella macchia.
L'Argentina cominciò in modo trionfale, travolgendo la Grecia con tre gol di Batistuta e uno stupendo 'assolo' di Maradona che pareva miracolosamente risorto. Battuta anche la Nigeria, e prima dell'accademico match con la Bulgaria, l'Argentina venne gelata dalla notizia che Maradona era stato trovato positivo al controllo antidoping. Per evitare punizioni alla squadra, la Federazione argentina sospese il giocatore e lo ritirò dalla competizione. Restò il sospetto che il fuoriclasse, di cui tutti conoscevano la situazione, fosse stato usato senza troppi scrupoli per aumentare il richiamo del torneo e poi abbandonato a se stesso una volta raggiunto lo scopo.
Nella fase a eliminazione diretta, l'Italia raggiunse improvvisamente una forma perfetta. O meglio, fu Baggio a trovare una condizione strepitosa e a trascinare la squadra. Negli ottavi, contro una Nigeria che aveva condotto in vantaggio tutta la partita, Baggio inventò il gol del pareggio e nei tempi supplementari trasformò il rigore decisivo. Nei quarti ancora una sua prodezza a 3 minuti dalla fine spezzò l'equilibrio con la Spagna. In semifinale, fu una sua fulminea doppietta a battere la Bulgaria, che si era fatta strada sin lì con grande lucidità tattica e con i guizzi del lunatico fuoriclasse Hristo Stoichkov. In quel primo tempo contro i bulgari, Baggio aveva toccato il punto più alto della sua parabola. A 20 minuti dalla fine, però, era stato costretto a lasciare il campo, vittima di un serio infortunio che ne metteva a rischio il ricupero per la finale, la quinta raggiunta dall'Italia nella storia dei Mondiali.
Alla finale era arrivato anche il Brasile, che dopo aver vinto in modo autorevole il girone preliminare, aveva incontrato notevoli difficoltà negli ottavi contro i padroni di casa. Gli USA, tatticamente ben disposti da Milutinovic, erano riusciti a chiudere tutti gli spazi. Solo nei minuti finali, un gol di José Bebeto consentì al Brasile di saltare l'ostacolo. Ancora più arduo si rivelò il quarto di finale contro l'Olanda: 2-0 per il Brasile, con i puntualissimi attaccanti Bebeto e Romário, impetuosa rimonta olandese sino al 2-2. Fu un calcio di punizione da 30 metri del terzino Claudio Branco a chiudere il conto. Branco aveva trovato posto in squadra per la squalifica del titolare Leonardo. Era un Brasile anziano negli uomini chiave, non sempre brillante, però ben organizzato, con due leader a centrocampo, Carlos Dunga e Mauro Silva, e due uomini velocissimi in attacco, Romário e Bebeto. Gli altri giocatori non erano fenomenali. In semifinale, il Brasile incrociò la Svezia, la squadra rivelazione, che nel turno precedente aveva vinto ai rigori sulla Romania dopo un'emozionante altalena di vantaggi (la Romania aveva in precedenza battuto l'Argentina, traumatizzata dal caso Maradona). Romário, all'80′, chiuse il conto, dopo non poche ambasce.
Brasile-Italia riproponeva la finale di Messico 1970, ma gli azzurri vi si accostavano con maggiori chances di vittoria. Dimenticato ormai lo stentato avvio (che si era verificato, d'altra parte, anche nel vittorioso Mundial spagnolo del 1982), l'Italia di Sacchi pareva matura per la grande conquista. Nell'occasione, il commissario tecnico azzurro recuperò Franco Baresi, il 'regista' della difesa, operato di menisco appena venti giorni prima, e schierò anche Baggio, dopo molte esitazioni. Beppe Signori sarebbe stato un sostituto più che degno, ma non sembrava giusto negare la gioia della finale al campione che più di ogni altro si era prodigato per conquistarla. Entrambe le squadre si schierarono con quattro difensori in linea, quattro centrocampisti e due attaccanti. Al Rose Bowl di Pasadena, davanti a 93.000 spettatori, la partita iniziò a mezzogiorno e mezzo, in condizioni climatiche micidiali: 36° di temperatura, tasso di umidità al 70%. Il caldo, il timore reciproco, il modulo tattico speculare, la stanchezza accumulata nel corso del torneo, furono tutti fattori che contribuirono a rendere la partita povera di emozioni. Il Brasile attaccò di più, l'Italia (con Baggio inesistente) si limitò ad assistere. L'unico brivido fu un palo colpito da Mauro Silva con un forte tiro da lontano. I tempi supplementari furono un inutile martirio per atleti ormai allo stremo delle forze. Sbagliò una facile occasione Romário, ebbe una palla propizia Baggio, ma la calciò fiaccamente fra le braccia di Claudio Taffarel. La decisione fu affidata ai calci di rigore. Baresi inaugurò la serie, tirando oltre la traversa. Sbagliò anche Daniele Massaro. L'ultimo errore fu di Baggio, che concluse il suo strepitoso Mondiale nella maniera peggiore. Seppure non entusiasmante, la vittoria del Brasile risultò legittima, alla luce della finale. All'Italia rimase il consueto strascico di rimpianti e di polemiche.
Sulla strada aperta da Messico e Italia, anche la Francia ottenne la sua seconda organizzazione mondiale, a sessant'anni di distanza da quella del 1938. L'ultima edizione del secolo chiudeva ufficialmente il criterio dell'alternanza fra Europa e America: nel 2002 il Mondiale sarebbe entrato in un nuovo continente, l'Asia, con la partnership fra Giappone e Sud Corea. Non si attese però il 2000 per inaugurare l'allargamento delle squadre finaliste, da 24 a 32, secondo un processo di 'gigantismo' inarrestabile. Aumentò anche il numero delle nazioni detentrici del titolo: il successo della squadra di casa, evento che non si verificava da vent'anni (Argentina 1978), consentì alla Francia di unirsi a Brasile, Italia, Germania, Argentina, Uruguay, Inghilterra.
Quella della Francia fu una vittoria multietnica: soltanto otto dei ventidue componenti la rosa della nazionale erano francesi puri. Nelle vene degli altri scorreva sangue algerino, armeno, basco, portoghese e dei territori d'oltremare. Eppure, proprio l'esemplare spirito di squadra, l'armonia del collettivo, furono le armi decisive di una nazionale che arrivò al traguardo tra molte difficoltà, ma con il merito di aver sempre privilegiato la strada maestra del gioco sulle alchimie tattiche e i calcoli opportunistici.
Tecnicamente non fu un torneo esaltante, anche se caratterizzato da grandi individualità, non tutte pari alle aspettative: da Ronaldo, l'astro emergente, a Matthäus al suo quinto Mondiale in campo, da David Beckam a Raúl, da Alessandro Del Piero a Batistuta, da Juan Sebastian Verón a Rivaldo, da Zinedine Zidane a Zvonimir Boban, da Marcelo Salas a Davor Suker, da Dejan Savicevic a Baggio, da Gheorghe Hagi a José Luís Chilavert, il portiere goleador del Paraguay.
Erano occorsi due anni, 649 partite e 1922 gol per ridurre a 30 (le altre due partecipanti erano qualificate di diritto, Brasile come campione in carica, Francia quale paese organizzatore) le 172 nazioni iscritte al Mondiale di fine secolo. Debuttanti assolute alla fase finale risultarono le nazionali di Giamaica, Sudafrica, Croazia e Giappone.
Gli otto gironi preliminari, ciascuno composto da quattro squadre, selezionarono le sedici superstiti senza i complicati ripescaggi delle ultime edizioni. La vittima eccellente di questa fase iniziale fu la Spagna, molto accreditata alla vigilia, incapace di rimediare alla sconfitta inaugurale a opera della Nigeria, sulla cui panchina sedeva Milutinovic. Licenziato dal Messico nel corso delle qualificazioni, il tecnico serbo era stato ingaggiato al volo dall'emergente squadra africana. Tornò subito a casa, ma ugualmente felice, l'Iran che in una partita dai forti significati politici (e temutissima dai servizi di sicurezza) era riuscito a sconfiggere gli Stati Uniti: peraltro, gli atleti in campo e i rispettivi sostenitori sugli spalti avevano presto fraternizzato, scrivendo una bellissima pagina di sport. Ben diverso lo spettacolo offerto dagli hooligans inglesi e dagli ultras neonazisti tedeschi, protagonisti di cruente violenze in varie città, con aggressioni alle forze dell'ordine.
L'Italia, passata dal calcio futuribile di Sacchi a quello molto più prosaico di Cesare Maldini, presentò una squadra dalla difesa quasi impenetrabile, ma poco propensa ad assumere l'iniziativa del gioco. Del Piero, che doveva essere l'uomo guida, non aveva perfettamente recuperato dopo un lungo infortunio. Sollecitato dal pubblico e dalla critica, Maldini era stato indotto a convocare Roberto Baggio, al suo terzo Mondiale, riservandogli però un ruolo di rincalzo. Eppure proprio Baggio fu decisivo nella prima partita, contro il Cile, pareggiata su rigore a cinque minuti dalla fine. La grande forma del centravanti Christian Vieri, che segnò in tutte le partite del girone per complessivi quattro gol, e la modestia degli avversari consentirono comunque agli azzurri di conquistare il primo posto del raggruppamento con largo margine di vantaggio sullo stesso Cile.
Francia e Argentina, tre vittorie su tre, furono le protagoniste più brillanti di questa prima fase, mentre il Brasile dovette assorbire, senza conseguenze immediate, una brusca e inattesa sconfitta a opera della Norvegia. L'Italia incontrò proprio la Norvegia negli ottavi di finale. Maldini aveva rilanciato Del Piero, sacrificando Baggio. Il gol di Vieri, puntuale e sollecito, fu difeso con successo sino in fondo. Ma il gioco degli azzurri destava ampie perplessità, inadeguato com'era al potenziale tecnico della squadra. Del Piero sbagliò almeno tre facili occasioni da gol, un gruppo di spettatori italiani contestò Maldini, imputandogli il mancato impiego di Baggio, rimasto in panchina per tutti i novanta minuti.
Incredibilmente sofferto fu l'impegno della Francia contro il Paraguay. Novanta minuti sullo 0-0 e tempi supplementari all'insegna dell'ultima novità, il 'golden gol', ovvero 'chi segna per primo vince'. Toccò a Laurent Blanc, il libero francese, di inaugurare l'inedita formula e realizzare la rete risolutrice, quando già si annunciava la soluzione ai calci di rigore. Ai rigori si impose invece l'Argentina sull'Inghilterra, in un match alterno e spettacolare, compromesso per gli inglesi dall'espulsione di David Beckam, dopo che Mark Owen, il diciottenne attaccante del Liverpool, si era conquistato la ribalta segnando un memorabile gol in velocità.
Con un gol di Suker, il 'braccio' della Croazia (la 'mente' era Boban), i croati eliminarono la Romania, mentre i loro rivali iugoslavi, più accreditati, venivano rispediti a casa dall'Olanda. Il Brasile, con un Ronaldo in grande forma, prevaleva sul Cile, mentre la Germania rimontava solo nel finale sul Messico. Di grande curiosità era oggetto la Nigeria, dal gioco indisciplinato ma a tratti travolgente. L'assenza del portiere titolare fu però fatale agli africani contro la quadrata Danimarca, che impartì loro una severa lezione. Alla resa dei conti, erano rimaste in lizza solo le scuole tradizionali: due nazionali sudamericane, Brasile e Argentina, contro sei europee.
L'Italia affrontò nei quarti i padroni di casa, proprio come nei Mondiali francesi di sessant'anni prima. L'esito fu diverso. Maldini ripropose Del Piero, stanco e non in forma, e armò una partita di puro contenimento. La Francia, che aveva un'eccellente difesa, grandi centrocampisti, ma non straordinari attaccanti, tenne l'iniziativa del gioco, ma non riuscì a 'sfondare'. A un quarto d'ora dalla fine Baggio rilevò Del Piero. E fu proprio Baggio, nei tempi supplementari, a sfiorare il gol della qualificazione facendo acuire i rimpianti per il suo impiego 'a piccole dosi'. Non essendoci stato il 'golden gol' la partita fu risolta ai calci di rigore. I francesi commisero un solo errore (Bixente Lizarazu), gli italiani due (Demetrio Albertini e quello decisivo di Luigi Di Biagio). Così l'Italia tornava a casa. Sfortuna, certo, ma anche cattiva gestione tattica, con un eccesso di 'difensivismo' che era costato, oltre all'eliminazione, numerose critiche.
Il Brasile, con una doppietta di Rivaldo, venne avventurosamente a capo della Danimarca, mentre la Germania espiava tutta la sua precedente fortuna contro la Croazia, che la spazzava via per 3-0. La partita migliore fu quella che vide l'Olanda, forse depositaria del gioco più piacevole, piegare l'Argentina con una rete di Dennis Bergkamp al 90′. A parte la disfatta dei tedeschi, le altre tre gare avevano visto un equilibrio diffuso e si sarebbero potute concludere con l'esito opposto. Fu questa, in fondo, la caratteristica di un Mondiale dai valori ravvicinati.
La Croazia, una vera rivelazione, creò non poche difficoltà anche alla Francia, in semifinale. Passata in vantaggio con Suker, fu rimontata da una irrituale doppietta di Thuram, difensore di classe eccelsa, però tutt'altro che facile al gol. Del resto, gli attaccanti francesi si liberavano raramente al tiro e svolgevano piuttosto una funzione gregaria, aprendo spazi per gli inserimenti di terzini e mediani. Nell'altra semifinale, il Brasile visse a lungo di rendita sul gol di Ronaldo, per poi essere raggiunto agli sgoccioli della gara dal guizzo dell'olandese Patrick Kluivert. Si arrivò ai rigori, e i brasiliani furono infallibili.
La finale tra Francia e Brasile ebbe un prologo un po' misterioso. Ronaldo non doveva giocare. Il suo nome non figurava nella formazione ufficiale diramata tre quarti d'ora prima del fischio d'inizio. Colto da un attacco di convulsioni, conseguenza dell'eccessivo stress, il campione era stato trasportato d'urgenza in ospedale. Dimesso, fu rispedito di corsa allo stadio e mandato in campo. La grande stella non poteva mancare all'ultima recita. Lo voleva il business, lo esigevano gli sponsor. Ronaldo si mosse come un'ombra, in quella finale. Non ci fu mai seriamente partita. Il Brasile era teso e smarrito, cercava invano l'azione individuale dei suoi 'solisti', la sola arma che potesse salvarlo dalla superiore organizzazione dei francesi. Nel giorno della defaillance di Ronaldo, Zidane, l'erede di Platini, era invece in forma smagliante. Una sua doppietta, di testa, tolse ogni incertezza al match. Un altro centrocampista, Emmanuel Petit, chiuse il conto. La Francia fu una vincitrice degna, ma anomala. Fu la prima volta, nella storia di 16 Mondiali, che si impose una squadra priva di un grande attaccante. Fu anche la prima volta che il Mondiale fu 'vinto' da due squadre: la Croazia, salita sul podio a spese dell'Olanda, festeggiò il suo terzo posto come se fosse una vittoria.
Era il primo Mondiale del nuovo secolo, il primo giocato in Asia, spezzando la tradizionale alternanza continentale Europa-America, il primo ospitato in due paesi consorziati nell'organizzazione, Giappone e Corea del Sud, nella scia della formula sperimentata con successo agli Europei 2000. Attorno all'evento, che prevedeva la più alta audience della storia, 40 miliardi di telespettatori per un mese di competizione, con 200 paesi collegati, si sviluppava la speranza di una nuova frontiera del pallone, la celebrazione della sua raggiunta universalità, nella culla della sofisticata tecnologia nippo-coreana. Invece ci si è trovati ricacciati indietro di quarant'anni esatti, ai veleni, alle polemiche, alle combine di Cile '62, il Mondiale a più bassa credibilità, per gli sfacciati favoritismi alla squadra di casa. Nel 2002 le squadre di casa erano due, ma soltanto la Corea ha sfruttato in modo spregiudicato il proprio ruolo privilegiato, grazie all'inerzia, se non proprio alla complice benevolenza, della FIFA. Arbitraggi ai limiti dello scandalo le hanno consentito di eliminare in rapida successione tre referenziate rappresentanti del calcio latino, quali Portogallo, Italia e Spagna. Nel frattempo, la velleitaria pretesa (giustificata da calcoli elettorali) di usare arbitri e assistenti di ogni paese, a prescindere dalla loro preparazione e dalla loro esperienza internazionale, ha dato vita a errori inammissibili in un torneo a così elevato livello. Si è temuto il crollo, anche perché altre protagoniste annunciate, quali la Francia campione in carica e l'Argentina, erano uscite di scena per conto proprio. Poi, la tempesta si è placata. Nella fase decisiva sono stati mandati in campo gli arbitri più affidabili, la Corea si è ritenuta paga di aver raggiunto lo storico traguardo della semifinale e la finale inedita fra le due più titolate potenze calcistiche, Brasile e Germania (curiosamente mai incrociatesi nelle precedenti edizioni), ha steso un velo pietoso sui tanti misfatti tecnici del torneo. Il Brasile, poco considerato alla vigilia, ha vinto il suo quinto titolo, dopo sette successi su altrettanti incontri, incoronando re del gol il ritrovato Ronaldo, che quattro anni prima aveva cominciato proprio dalla finale di Francia '98 il suo lungo calvario di infortuni, facendo temere un precoce addio al calcio. La Germania, più solida che creativa, si è dimostrata una degna rivale e la Turchia, terza a sorpresa, ha rappresentato la vera rivelazione, al pari del Senegal, una debuttante in grado di arrivare sino ai quarti di finale, grazie a un calcio spensierato e spettacolare. All'Italia resta l'amara sensazione di un'ingiustizia subita, ma anche la consapevolezza di avervi aggiunto propri demeriti, nel determinare la prematura uscita di scena.
Superando ogni precedente record, il 98% delle Federazioni calcistiche nazionali affiliate alla FIFA, 199 su 204, si sono iscritte alla Coppa del Mondo 2002. Tre si sono successivamente ritirate, mentre Francia, quale detentrice del titolo, Giappone e Corea del Sud, come paesi organizzatori, sono state ammesse di diritto alla fase finale, riservata a 32 squadre. Le partite di qualificazione hanno così visto impegnate 193 nazionali, per complessive 777 partite, alle quali hanno assistito, negli stadi, 17 milioni di spettatori. Il record di affluenza si è registrato a Teheran dove, il 24 agosto 2001, 120.000 persone hanno presenziato a Iran-Arabia Saudita, valevole per il raggruppamento asiatico. I gol realizzati sono stati, in tutto, 2452, oltre tre a gara. A tenere alta la media ha provveduto, più di ogni altro, il raggruppamento oceanico, che ha fatto registrare una media di oltre sette gol a partita.
Sotto il profilo tecnico, va rilevato che sono approdate alla fase finale tutte le nazionali vincitrici di una o più edizioni precedenti: Brasile, Italia, Germania, Uruguay, Argentina, Inghilterra e Francia. Quattro nazionali hanno conquistato per la prima volta il diritto a disputare la fase finale di un Campionato del Mondo: Slovenia, Ecuador, Senegal e Cina. Quest'ultima ha sicuramente rappresentato la novità più importante, dal momento che il suo ingresso nel calcio d'élite ha aperto nuovi scenari, non soltanto sportivi, ma anche sociali e commerciali, a tutto il movimento. L'impresa della Cina ha riportato alla ribalta il tecnico serbo Bora Milutinovic, che alla guida della nazionale asiatica ha disputato il suo quinto consecutivo Campionato del Mondo, sempre sulla panchina di una squadra diversa, un record difficilmente superabile.
Fra le vittime illustri della fase di qualificazione va citata in primo luogo l'Olanda, seconda in due edizioni consecutive del Mondiale (1974 e 1978) e brillante protagonista dei Campionati Europei 2000. Hanno destato sorpresa anche le eliminazioni della Repubblica Ceca e della Colombia, formazioni molto quotate e che figuravano nella parte alta del ranking della FIFA. L'Uruguay è stata l'ultima squadra a ottenere l'ingresso fra le 32 finaliste: quinta classificata nel girone sudamericano, ha dovuto affrontare uno spareggio supplementare con la vincitrice del gruppo oceanico, cioè l'Australia; sconfitto per 1-0 a Melbourne, l'Uruguay si è imposto per 3-0 nell'incontro di ritorno di Montevideo. L'eliminazione dell'Australia ha impedito al Mondiale 2002 di vantare una partecipazione autenticamente universale: alla fase finale, infatti, sono stati rappresentati quattro continenti su cinque.
Normalmente destinata a scremare il gruppo delle finaliste dalle presenze meno significative, la prima fase è invece risultata sconvolgente, determinando l'immediata eliminazione delle due nazionali che accentravano su di sé il compatto favore dei pronostici. La Francia, campione uscente, priva del suo uomo faro, Zidane, nel match inaugurale è stata sconfitta clamorosamente dalla matricola Senegal, i cui giocatori ‒ ironia della sorte ‒ militano tutti nel Campionato francese. Forse condizionata da quell'avvio fallimentare, la Francia non è riuscita ad andare oltre il pareggio contro l'Uruguay, scontando anche l'inferiorità numerica determinata dall'espulsione di Henry, e ha dovuto così giocarsi le scarse possibilità di sopravvivenza nella terza partita contro la Danimarca. Neppure l'affrettato ricupero di Zidane, in precarie condizioni fisiche, ha salvato i campioni da una nuova, bruciante sconfitta, che li ha costretti a lasciare la scena senza aver vinto una sola gara, né realizzato un solo gol. In un girone che pareva scontato a favore di Francia e Uruguay, erano invece Danimarca e Senegal a ottenere una sorprendente, ma meritatissima promozione. L'altra grande favorita, l'Argentina, inserita nel girone più impegnativo, ha cominciato bene, superando la Nigeria con un gol di Batistuta. Da quel momento, però, la situazione è precipitata. Battuta in un ruvido match dall'Inghilterra, grazie a un calcio di rigore decretato dall'arbitro italiano Collina e realizzato da Beckham, l'Argentina ha ceduto anche alla Svezia, maestra di difesa e contropiede. Svezia e Inghilterra si sono così assicurate il passaggio agli ottavi di finale.
I responsabili tecnici delle due grandi eliminate, Lemerre e Bielsa, sono stati investiti da una tempesta di polemiche. In effetti, notevoli errori nella strategia di gioco e nella scelta degli uomini hanno contribuito a determinare un verdetto assolutamente inatteso e che ha privato il prosieguo del torneo di due protagoniste annunciate. La maledizione del pronostico favorevole ha sfiorato anche l'Italia, terza nelle considerazioni della vigilia. Una doppietta di Vieri ha proiettato gli azzurri oltre l'ostacolo dell'Ecuador nel match d'apertura, lasciando presagire un agevole cammino verso il primato del girone. Ancora Vieri, con un poderoso colpo di testa, portava in vantaggio l'Italia contro la Croazia, dopo che un'errata segnalazione del guardalinee danese Larsen aveva provocato l'annullamento di una rete, perfettamente valida, dello stesso Vieri. A quel punto la difesa italiana, che aveva perduto il suo perno centrale, Nesta, si faceva sorprendere due volte dai croati. Il pareggio, realizzato in extremis, era ancora annullato dall'intervento di Larsen, che ravvisava un inesistente fallo dell'attaccante italiano Inzaghi nell'area croata. La sconfitta accendeva violente contestazioni contro la terna arbitrale, chiaramente non all'altezza del compito, ma anche contro le scelte del commissario tecnico italiano Trapattoni. Con il Messico, che aveva vinto i primi due incontri, l'Italia si giocava il suo destino. Ancora una svista arbitrale cancellava un gol regolare di Inzaghi che avrebbe portato l'Italia in vantaggio. Era invece il Messico a segnare e a quel punto l'Italia perdeva il filo del gioco, rischiando ripetutamente una seconda capitolazione. Un gol di Del Piero, subentrato nel finale a un Totti poco ispirato, ristabiliva la parità. Contemporaneamente la Croazia cedeva inaspettatamente all'Ecuador, consentendo all'Italia di raggiungere il secondo posto del girone, alle spalle del Messico.
Se il percorso delle favorite era risultato così accidentato, in compenso le due nazionali ospitanti, Giappone e Corea, avevano camminato sul velluto. Le due nazionali asiatiche vincevano i rispettivi raggruppamenti, raggiungendo gli ottavi di finale per la prima volta nella loro storia calcistica. Un risultato sorprendente solo in apparenza: lo sfruttamento delle particolari condizioni ambientali, il compatto appoggio del pubblico, arbitraggi compiacenti e gli indiscutibili progressi tecnici, sotto la guida di eccellenti tecnici stranieri (l'olandese Hiddink per la Corea, il francese Troussier per il Giappone) spiegavano l'exploit. Nel girone della Corea, la vittima illustre era il Portogallo, cui non bastavano le 'stelle' Luis Figo e Rui Costa, né i gol del centravanti Pauleta, per superare lo shock dell'iniziale sconfitta da parte degli Stati Uniti, che seguivano così i coreani negli ottavi di finale. Alle spalle del Giappone si piazzava il Belgio, mentre l'eliminazione della Russia provocava a Mosca violenti disordini, con vittime, fra gli spettatori che avevano seguito le partite dai maxischermi montati nella Piazza Rossa.
Due sole squadre terminavano il girone a pieno punteggio: la Spagna, che batteva in successione Slovenia, Paraguay e Sudafrica, e il Brasile, che domava la Turchia solo con l'aiuto di un calcio di rigore inesistente, ma poi travolgeva sotto una valanga di gol Cina e CostaRica. La Cina chiudeva mestamente la sua prima apparizione mondiale con tre sconfitte, nove gol subiti, zero realizzati. Neppure il tecnico Bora Milutinovic aveva potuto fare miracoli, alle prese con giocatori modesti, tecnicamente e tatticamente acerbi. Ancora peggiore risultava il bilancio dell'Arabia Saudita, che perdeva tutte le partite, non segnava neppure un gol e ne incassava ben dodici, otto dei quali a opera della Germania, nella quale si rivelava Miroslav Klose, ex ginnasta, polacco d'origine, cannoniere della prima fase con cinque reti, tutte di testa, festeggiate con acrobatici e spettacolari salti mortali.
In conclusione, agli ottavi di finale approdavano nove squadre europee (Spagna, Germania, Danimarca, Svezia, Inghilterra, Irlanda, Belgio, Italia, Turchia), due sudamericane (Brasile, Paraguay), due dell'America Centrale e Settentrionale (Messico e Stati Uniti), due asiatiche (Giappone e Corea del Sud) e una sola africana, forse la meno attesa, il Senegal, mentre cadevano le più referenziate Nigeria, Camerun, Sudafrica e Tunisia. Ma ovviamente erano le bocciature di Francia, Argentina e Portogallo a costituire la sensazione dei primi 15 giorni del Mondiale.
Gli ottavi di finale parevano orientati a ripristinare le gerarchie tradizionali, dopo gli sconvolgenti verdetti dei gironi preliminari. Le prime due partite vedevano infatti Germania e Inghilterra superare gli ostacoli di Paraguay e Danimarca. I tedeschi, dopo aver non poco faticato, agli sgoccioli del match riuscivano a imporsi con un bellissimo gol di Neuville. Finiva l'avventura per l'italiano Cesare Maldini, che dopo aver guidato gli azzurri nei Mondiali del 1998 in Francia, sedeva sulla panchina del Paraguay. Più rotondo nel punteggio il successo dell'Inghilterra, ai danni di una Danimarca tradita dalle ripetute sviste del portiere. Le sorprese erano però di nuovo dietro l'angolo. L'incredibile Senegal veniva a capo della Svezia, al termine di una splendida ed equilibrata partita, che opponeva le rigorose geometrie del gioco scandinavo alla prorompente fantasia degli africani. I tempi supplementari, dopo l'1-1 al termine dei novanta minuti, registravano prima un palo della Svezia, poi il 'golden-gol' del senegalese Camara. Il Senegal approdava così ai quarti di finale, impresa riuscita solo a un'altra squadra africana (il Camerun, nel 1990). Il Leit-motiv del torneo, però, era costituito dagli errori arbitrali. Ne venivano penalizzati il Messico, cui non era concesso un vistoso calcio di rigore contro gli Stati Uniti, poi impostisi per 2-0, e soprattutto il Belgio che contro il Brasile andava in rete con un perfetto e regolarissimo gol di testa del proprio cannoniere Vilmots, ma si vedeva inspiegabilmente annullare il punto dall'arbitro giamaicano. Così graziato, il Brasile nella ripresa conquistava la vittoria grazie ai puntualissimi gol della sua coppia di fenomeni, Rivaldo e Ronaldo. La Spagna domava l'Irlanda soltanto ai calci di rigore, dopo 120 minuti di gioco chiusi sull'1-1. Restavano le due squadre di casa. Il Giappone affrontava la Turchia sotto la pioggia battente e con il netto favore del pronostico. L'impeccabile arbitraggio dell'italiano Collina non gli concedeva però vantaggi, sicché la solida e concreta Turchia metteva a segno un gol in apertura di gioco e lo difendeva senza eccessivi patemi sino al termine. Ben diverso copione seguiva la partita fra Corea del Sud e Italia. Il giovane e inesperto arbitro ecuadoriano Moreno sin dall'inizio dirigeva a senso unico, concedendo subito ai coreani un calcio di rigore, peraltro sventato dal portiere italiano Buffon. Era poi l'Italia a portarsi in vantaggio, con Vieri che firmava di testa il quarto bersaglio personale. Ammonizioni ed errate segnalazioni di fuorigioco fermavano tuttavia la squadra azzurra alla ricerca del raddoppio. Il pareggio dei coreani a due minuti dalla fine portava ai tempi supplementari, anche perché allo scadere Vieri mancava clamorosamente il gol a due passi dalla porta avversaria. Nei minuti di proroga, Totti finiva a terra in area coreana, ma l'arbitro lo puniva per simulazione, espellendolo dalla partita. In dieci uomini l'Italia andava in gol con Tommasi, ma il punto che sarebbe stato decisivo era annullato per inesistente fuorigioco. Così, dopo 116 minuti, toccava ad Ahn, giocatore in forza al Perugia nel Campionato italiano, mettere a segno il 'golden gol' che escludeva dal Mondiale la terza favorita (dopo Francia e Argentina) e che regalava alla Corea un successo storico. L'impresa riportava alla mente quella dei coreani del nord, che nel 1966 avevano eliminato l'Italia dai Mondiali d'Inghilterra. Le otto squadre superstiti erano così ripartite: quattro europee (Germania, Inghilterra, Spagna, Turchia) una sudamericana, Brasile, una nordamericana, Stati Uniti, una africana, Senegal, una asiatica, Corea. Per tre di esse, Senegal, Corea e Turchia, era il miglior risultato mai raggiunto in un Campionato del Mondo.
Brasile contro Inghilterra era l'incontro di maggior fascino dei quarti di finale. L'Inghilterra, disposta da Eriksson in un modulo di grande prudenza, passava in vantaggio grazie a un contropiede di Owen, il 'Pallone d'oro' del calcio europeo. Il Brasile, superiore nel gioco, raggiungeva il pareggio alla fine del primo tempo con uno spettacolare gol di Rivaldo e passava in vantaggio in apertura di ripresa, con uno strano calcio piazzato di Ronaldinho che sorprendeva l'esperto portiere Seaman. Poco dopo, lo stesso Ronaldinho veniva espulso e l'inferiorità numerica consigliava al Brasile di controllare il gioco, in ciò agevolato dall'Inghilterra che non sapeva proporre una reazione efficace. Con molta fatica, e qualche benevola interpretazione arbitrale, la Germania riusciva a domare lo slancio degli Stati Uniti, una delle squadre rivelazione del torneo. Bellissima la partita fra due outsiders, Senegal e Turchia, risolta con il 'golden gol' dei turchi, che fermavano così la marcia degli africani e raggiungevano la semifinale per la prima volta nella loro storia calcistica. Nuovo scandalo per la Corea del Sud, che eliminava anche la Spagna, cui venivano annullati due gol validissimi da parte dell'arbitro egiziano. Chiusi anche i tempi supplementari sullo 0-0, la decisione era affidata ai calci di rigore e dal dischetto i coreani si dimostravano infallibili, mettendo a segno tutti e cinque i tiri. La Spagna seguiva l'Italia sulla strada della protesta, mentre l'ingresso di una squadra asiatica fra le prime quattro del Mondiale, evento rivoluzionario, accendeva ancora di più l'entusiasmo del popolo coreano. I continui aiuti ricevuti dalla squadra di casa inducevano però i responsabili della FIFA a cambiare strada. Per le semifinali, Germania-Corea e Brasile-Turchia, venivano designati arbitri europei di collaudata esperienza, la cui direzione imparziale consentiva alle due formazioni più forti, Germania e Brasile, di imporsi con l'identico punteggio di 1-0 e di programmare una finale in grado di restituire credibilità a un Mondiale così vistosamente compromesso. La rete del Brasile era realizzata da Ronaldo, al suo sesto gol personale.
La finale per il terzo posto fra Turchia e Corea del Sud entrava nella storia dei Mondiali perché il centravanti turco, Hakan Sükür, realizzando il primo gol dopo appena 11 secondi dal fischio d'inizio, conquistava il record della rete più veloce in tutte le diciassette edizioni, soppiantando il ceco Masek che nel 1962 aveva segnato dopo 16 secondi di gioco. La Turchia si imponeva per 3-2, confermandosi l'autentica rivelazione del torneo, nel corso del quale aveva collezionato soltanto due sconfitte ed entrambe a opera del Brasile, nel girone preliminare e nella semifinale. Il terzo posto della nazionale consacrava l'ascesa del calcio turco, già annunciata dai successi dei suoi club più importanti nelle competizioni europee.
La finalissima, la sera del 30 giugno a Yokohama, vedeva il calcio fantasioso e individuale dei brasiliani prevalere sulla ferrea organizzazione collettiva della Germania. I tedeschi prendevano l'iniziativa del gioco, senza però trovare sbocchi nella difesa brasiliana, più attenta del solito, grazie alla copertura dei centrocampisti, fra i quali si metteva in luce Kleberson, e alla posizione più arretrata degli esterni Cafu e Roberto Carlos. In contropiede, era anzi il Brasile a rendersi pericoloso, ma Ronaldo falliva due favorevoli occasioni da gol su suggerimento di Ronaldinho, e Kleberson centrava in pieno la traversa con un tiro da fuori area. Nella ripresa, anche la Germania colpiva i legni della porta avversaria, con un forte calcio piazzato di Neuville, deviato sul palo dal portiere brasiliano. La partita si sbloccava su un errore di Oliver Kahn, sino ad allora il miglior portiere del Mondiale, il vero artefice delle fortune tedesche. Kahn non tratteneva un tiro centrale di Rivaldo, e sulla sua corta respinta Ronaldo centrava la porta vuota. Era la svolta decisiva. Ancora Ronaldo, questa volta a conclusione di una splendida azione corale, raddoppiava per il Brasile, laureandosi così capocannoniere del torneo, con otto gol, e raggiungendo Pelé nelle reti totali segnate ai Campionati del Mondo (dodici). Il quinto titolo mondiale del Brasile premiava la squadra più forte, capace di vincere tutte le sette partite del torneo, con un bilancio finale di 18 gol realizzati e 4 subiti. Il suo capitano, Cafu, era il primo calciatore della storia ad aver giocato tre consecutive finali mondiali (due vinte, una perduta). Al di là delle molte ombre del torneo, il verdetto finale era assolutamente limpido.
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Quello fra calcio e Olimpiadi è un rapporto antico. Già ad Atene, nel 1896, nei primi Giochi dell'era moderna, si disputò un torneo dimostrativo, vinto da una selezione della Danimarca che si oppose non ad altre rappresentative nazionali, ma a due squadre greche di club: una di Smirne (travolta 15-0, unico risultato tramandato) e una di Salonicco. Anche le due successive edizioni dei giochi ospitarono il calcio come sport dimostrativo. A Parigi, nel 1900, si impose, superando la Francia per 4-0, l'Upton Park London, in rappresentanza della Gran Bretagna, mentre a Saint Louis, quattro anni dopo, il Canada prevalse sugli USA con lo stesso risultato. Anche in questo caso non si trattava di nazionali: la selezione canadese era composta interamente da calciatori del Galt, quella americana del St. Rose.
Fu a Londra, nel 1908, che il calcio iscrisse vere rappresentative nazionali, anche se il Comitato olimpico internazionale considererà il 1912 la data ufficiale dell'inserimento della disciplina nel programma dei Giochi. Tra le sei squadre iscritte trionfò la Gran Bretagna, seguita da Danimarca e Olanda; capocannoniere fu il danese Nielsen, autore di undici reti. Il podio si ripeté identico nel 1912 a Stoccolma, nei Giochi che segnarono il debutto dell'Italia: gli azzurri, guidati da Vittorio Pozzo, furono eliminati dalla Finlandia e relegati nel torneo di consolazione. Gli annali registrano un record singolare: quello del tedesco Fuchs che segnò ben dieci gol alla Russia.
Dopo la pausa della guerra, nell'edizione del 1920 in Belgio, il cammino dell'Italia durò due partite (vittoria con l'Egitto a Gand, sconfitta con la Francia ad Anversa), ma finì sempre con il torneo di consolazione. La medaglia d'oro fu vinta dal Belgio, che si aggiudicò il titolo a tavolino in quanto la Cecoslovacchia si era ritirata per protesta contro l'arbitro Lewis. L'argento andò, quindi, alla Spagna dell'esordiente Zamora. A Parigi, nel 1924, sul gradino più alto salì invece l'Uruguay trascinato da Cea, autore di sei reti. Gli azzurri, tornati sotto l'egida di Pozzo dopo un periodo di interregno, superarono Spagna e Lussemburgo prima di cedere il passo alla Svizzera, seconda nella classifica finale.
Le Olimpiadi di Amsterdam del 1928 segnarono una rivoluzione delle regole: il torneo di calcio chiuse ai professionisti e anticipò di un mese i Giochi veri e propri. L'Italia, affidata ad Augusto Rangone, si liberò di Francia e Spagna ma dovette cedere alla superiorità dell'Uruguay. I sudamericani si confermarono campioni con il successo in finale sull'Argentina al termine di un estenuante doppio confronto (1-1 e 2-1), mentre gli azzurri chiusero al terzo posto grazie alla clamorosa vittoria sull'Egitto (11-3).
Nel 1932, a Los Angeles, le Olimpiadi non contemplarono il football e l'appuntamento con il calcio slittò a Berlino 1936. Fu l'anno dell'Italia, ancora allenata da Pozzo, che schierò una squadra di calciatori studenti per aggirare i vincoli legati al professionismo. Dopo il successo affannoso (1-0) contro gli Stati Uniti, affrontati con eccessiva sufficienza, vennero la goleada contro il Giappone (8-0), la vittoria di misura contro la Norvegia (2-1 dopo i supplementari) e infine l'affermazione con identico risultato nella finale contro l'Austria: fu decisivo Frossi, autore di una doppietta inframmezzata dal momentaneo pareggio di Kainberger.
Fermati dalla Seconda guerra mondiale, i Giochi ripresero nel 1948 a Londra. Sulla panchina dell'Italia c'era sempre Pozzo. Il 9-0 iniziale contro gli Stati Uniti illuse gli azzurri, ma la sconfitta con la Danimarca (3-5) cancellò i sogni di gloria: quattro dei gol danesi furono segnati da John Hansen, futuro calciatore della Juventus. In finale approdarono Svezia e Iugoslavia, vinse la squadra di Nordhal e Liedholm nel pieno rispetto dei pronostici.
Nel 1952 a Helsinki per il calcio azzurro vi era un nuovo commissario tecnico, Carlo Beretta, affiancato da Giuseppe Meazza: insieme guidavano un gruppo di dilettanti tra cui spiccava il giovane Giampiero Boniperti. L'itinerario fu lo stesso di quattro anni prima: una vittoria con gli USA e una sconfitta decisiva, stavolta con l'Ungheria di Kocsis, Hidegkuti e Puskas, che alla fine vincerà l'oro. Quattro anni dopo, a Melbourne ‒ l'Italia era assente, come l'Ungheria ‒ vinse l'URSS davanti alla Iugoslavia, ma la vera novità fu il quarto posto dell'India.
I Giochi di Roma del 1960 registrarono 52 squadre iscritte, e, per la prima volta dopo le qualificazioni, le 16 finaliste vennero divise in quattro gironi. Tra gli azzurri diretti da Gipo Viani figuravano Burgnich, Trapattoni e Rivera. Le vittorie su Taiwan e Brasile, inframmezzate dal pareggio con la Gran Bretagna, portarono l'Italia in semifinale con la Iugoslavia: l'incontro finì 1-1 e si ricorse al sorteggio che privilegiò la Iugoslavia (che poi vinse la medaglia d'oro battendo la Danimarca). Nella finale per il terzo posto l'Italia fu sconfitta dall'Ungheria.
Nei Giochi Olimpici di Tokyo nel 1964, l'Italia di Edmondo Fabbri si qualificò brillantemente, ma fu costretta a rinunciare in seguito alle accuse di professionismo. L'oro andò all'Ungheria, che aveva la sua punta di diamante in Ferenc Bene, autore di 12 gol; seconda e terza Cecoslovacchia e Germania Est. L'Ungheria, quattro anni più tardi, replicò in Messico, dove si registrò il clamoroso terzo posto del Giappone trascinato da Nakamoto, capocannoniere con sette gol. A Monaco di Baviera nel 1972 (con 84 squadre iscritte alle qualificazioni) trionfò quella Polonia di Deyna, Gadocha e Lato che due anni dopo sarebbe stata la squadra rivelazione ai Mondiali del 1974.
Altre due nazionali dell'Est europeo vinsero nelle edizioni successive: a Montreal nel 1976 la Germania Est e a Mosca nel 1980 (in assenza di molte squadre occidentali per protesta contro l'invasione sovietica dell'Afghanistan) la Cecoslovacchia, reduce da un brillante terzo posto agli Europei. Grazie al ripescaggio, l'Italia (che si era qualificata terza nel girone eliminatorio) si ripresentò a Los Angeles, nel 1984, quando il blocco sovietico rispose al boicottaggio del 1980 disertando in massa i Giochi. Per gli azzurri il supervisore era Enzo Bearzot, neo-campione del mondo, affiancato da Cesare Maldini. Le speranze azzurre, nutrite dalle pur striminzite vittorie su Egitto (gol di Serena) e USA (rete di Fanna), vennero incrinate dalla sconfitta con la Costa Rica e poi rilanciate dal faticoso successo sul Cile ai quarti (rete di Vignola su rigore nei tempi supplementari), e furono infine spazzate via in semifinale dal Brasile. Gli azzurri persero anche il bronzo (1-2) contro la Iugoslavia, mentre la medaglia d'oro fu vinta dalla Francia che superò i sudamericani con reti di Brisson e Xuereb.
Nel 1988, a Seul, la nazionale azzurra arrivò guidata da Francesco Rocca subentrato a Dino Zoff, richiamato dalla Juventus. L'Italia riuscì ad arrivare fino ai quarti, dove fu battuta dall'URSS del colonnello Lobanovski, futura medaglia d'oro. Nei ricordi resta soprattutto la macchia della sconfitta con la Zambia (0-4), immediatamente paragonata alla storica caduta azzurra con la Corea del Nord nei Mondiali del 1966. Anche a Barcellona, nel 1992, il cammino degli azzurri si interruppe ai quarti, contro la Spagna di Luis Enrique e Guardiola, poi vincitrice del titolo; mentre ad Atlanta, nel 1996, incredibilmente, l'Italia non superò neanche il primo turno che la vide opposta a Messico, Ghana e Corea del Sud. Il tecnico era, come nella precedente edizione, Cesare Maldini. Fu quello l'anno della prima grande affermazione internazionale del calcio africano: sul gradino più alto del podio salì la Nigeria di Babayaro, West, Ipkeba e Kanu, vittoriosa in finale sull'Argentina di Sensini, Almeyda, Simeone, Lopez e Crespo.
Impronta africana anche a Sydney 2000: vinse il Camerun che batté la Spagna in finale. L'Italia di Tardelli, anche stavolta fra le favorite, si fermò proprio contro gli spagnoli, con il gol decisivo di Gabri.
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di Adalberto Bortolotti
La strada che portò a varare il Campionato d'Europa per nazioni fu lunga e tribolata: la competizione vide infatti la luce soltanto nel 1960, per ultima e con un largo distacco dagli altri grandi tornei internazionali. Basti dire che il Sud America, l'altro polo della più prestigiosa tradizione calcistica, vanta un proprio Campionato continentale sin dal 1916. Un altro apparente controsenso è che il Campionato d'Europa sia nato ben trent'anni dopo quello Mondiale, quando, secondo ogni logica, avrebbe dovuto precederlo e costituirne un presupposto.
In realtà, nel periodo fra le due guerre, mentre le Federazioni britanniche si chiudevano in un rigido isolamento, nel cuore della Mitteleuropa aveva largo seguito una manifestazione che va considerata come la più diretta anticipatrice del Campionato d'Europa: la Svelha Pokal, così chiamata perché metteva in palio una coppa in cristallo di Boemia. L'Italia di Vittorio Pozzo conquistò per due volte il trofeo, che fu ribattezzato, secondo la linea autarchica dei tempi e del regime, Coppa Internazionale.
Nel 1954 l'Europa riuscì finalmente a darsi un proprio governo calcistico, l'UEFA (Union des associations européennes de football), di cui fu eletto presidente il francese Henri Delaunay. La sua idea di allestire un Campionato che contrapponesse le rappresentative nazionali dei 33 paesi membri apparve affascinante ma di laboriosa realizzazione, e Delaunay morì nel 1955 senza avervi potuto dare contorni concreti. Quando il progetto fu portato a realizzazione, per la fattiva opera di suo figlio Pierre e di grandi uomini di calcio, come l'ungherese Gustav Sebes e lo spagnolo Luis Pujol, il tanto sospirato Campionato d'Europa venne intitolato a suo nome. La Coppa Henri Delaunay, a scadenza quadriennale, ebbe una fase eliminatoria, disputata dal 1958 al 1960, per ridurre il numero delle squadre partecipanti a quattro, chiamate poi a giocare in una sede unica le semifinali e le finali. In omaggio al benemerito pioniere, la Francia fu la prima nazione designata a ospitare la fase conclusiva.
1960
L'accoglienza al nuovo torneo risultò assai tiepida. Molte delle grandi potenze europee diedero forfait: tra queste l'Inghilterra, la Germania Ovest, la Svezia, che era stata seconda alle spalle del Brasile nei Mondiali di due anni prima, e la stessa Italia, che attraversava uno dei momenti più bui della sua storia calcistica. Alla resa dei conti, le iscritte furono 17, cioè la metà dei paesi aderenti all'UEFA. Il fattore campo e l'assenza di concorrenti qualificate facevano convergere i favori quasi universali del pronostico sulla Francia, che era stata terza ai Mondiali 1958 in Svezia e che inseguiva sempre il suo primo grande alloro internazionale.
La Francia praticava già allora un gioco veloce e spettacolare, il cosiddetto 'calcio-champagne', tutto in chiave offensiva. Aveva un geniale creatore di gioco, Raymond Kopa, e un grande realizzatore, Just Fontaine, cannoniere scelto con 13 gol agli ultimi Mondiali. Superate con punteggio nettissimo le qualificazioni (8-2 alla Grecia e 7-4 all'Austria nel doppio confronto), la Francia perse però per strada i suoi tre giocatori più forti, Kopa, Fontaine e Roger Piantoni, per gravi infortuni.
La rivale tecnicamente più accreditata era la Spagna, ufficialmente affidata a una terna di dirigenti, ma in realtà guidata dal 'mago' Helenio Herrera, il cui carisma era riuscito a far convivere nella stessa nazionale la coppia straordinaria del Real Madrid, Alfredo Di Stefano-Francisco Gento, con il tandem del Barcellona, Ladislao Kubala-Luis Suárez: un attacco in grado di travolgere ogni ostacolo.
Tuttavia, nei quarti di finale la Spagna venne abbinata dal sorteggio all'Unione Sovietica, da poco uscita dall'isolamento, sull'onda della medaglia d'oro conquistata alle Olimpiadi di Melbourne, e artefice di un buon Mondiale in Svezia. Fra Spagna e URSS non vi erano rapporti diplomatici e il dittatore Francisco Franco impose il forfait. La Spagna perse così una grande occasione e l'URSS si trovò inserita fra le quattro finaliste, nelle quali figuravano due altri paesi dell'Est europeo: Iugoslavia e Cecoslovacchia; soltanto la Francia rappresentava l'Occidente.
Nella semifinale contro la Iugoslavia i francesi, che a un quarto d'ora dalla fine erano in vantaggio per 4-2, riuscirono a incassare 3 reti in 3 minuti, anche per gli errori del portiere Georges Lamia. L'uscita di scena dei padroni di casa rappresentò il colpo di grazia per il torneo, che già aveva faticato a conquistare interesse nel pubblico.
L'URSS, che aveva superato la Cecoslovacchia per 3-0, affrontò in finale davanti a 18.000 spettatori la Iugoslavia. Quest'ultima, più tecnica e brillante, si portò in vantaggio per merito del centravanti Milan Galic e finché ebbe fiato condusse la gara, ma poi, si spense, duramente provata dai più atletici avversari. Slava Metreveli firmò il pareggio e nei supplementari il poderoso attaccante Viktor Ponedelnik chiuse il conto. C'erano due soli fuoriclasse, in quell'URSS: il portiere Lev Jascin, un vero baluardo, detto il 'ragno nero' per certe sue movenze e la tenuta di gioco che era solito indossare, e il mediano Igor Netto. Ma la formazione era di tutto rispetto, la preparazione fisica eccellente, la manovra, anche se scolastica, ordinata e funzionale. I sovietici furono vincitori non esaltanti e tuttavia onestissimi.
1964
Se la prima edizione si era chiusa sotto il segno di Lev Jascin, la seconda celebrò il fresco mito di Luisito Suárez. Nel giro di neppure un mese il fuoriclasse galiziano centrò una fantastica doppietta personale: il 27 maggio vinse la Coppa dei Campioni con l'Inter, battendo nettamente il Real Madrid; il 21 giugno si fece perdonare dai suoi connazionali, trascinando al titolo continentale la Spagna.
L'intervallo di quattro anni aveva profondamente mutato il calcio e la storia. L'Europa andava abbattendo le sue frontiere, anche ideologiche. L'UEFA pretese che questa volta non ci fossero veti o preclusioni politiche a turbare la manifestazione. Le 17 squadre del 1960 divennero 29, con le sole rinunce di rilievo di Germania Ovest e Scozia. Fu anche il primo Europeo dell'Italia. Affidata a Edmondo Fabbri, la nazionale azzurra appariva in pieno rilancio, depositaria di un gioco d'avanguardia, con una coppia di centrali difensivi intercambiabili, Roberto Rosato e Sandro Salvadore, che sganciandosi a turno potevano annullare la tradizionale inferiorità numerica a centrocampo, causata dall'impiego del libero fisso. La costruzione del gioco si avvaleva di autentici talenti come Gianni Rivera, Sandro Mazzola, Giacomo Bulgarelli. Mancava però il grande attaccante, che sarebbe apparso qualche tempo dopo con Gigi Riva, a finalizzare la manovra. L'Italia debuttò con un sonante 7-0 alla Turchia, ma si fermò al turno successivo contro l'URSS, campione in carica. Ezio Pascutti fu espulso (e Angelo Sormani fu oggetto di una brutale marcatura) a Mosca, dove l'incontro terminò 2-0 per i sovietici; mentre nella partita di ritorno, a Roma, Jascin parò tutto, anche un rigore a Sandro Mazzola, arrendendosi solo, quando la qualificazione era ormai assicurata, a un elegante rasoterra di Rivera che portò gli azzurri sull'1-1. L'URSS appariva squadra più matura ed equilibrata di quella che quattro anni prima aveva conquistato il titolo. Dopo l'Italia, eliminò anche la quotata Svezia.
Un'altra attesissima esordiente al Campionato Europeo, l'Inghilterra, dovette arrendersi alla Francia. Ancorati al loro vecchio 'sistema WM', gli inglesi, dopo il pareggio interno, furono travolti per 5-2 al ritorno. Le loro linee difensive non risultarono adeguatamente protette contro la brillante offensiva francese. Ma neppure la Francia fece poi molta strada, battuta in casa e fuori, nei quarti, dall'Ungheria di Lajos Tichy, Ferenc Bene e Florian Albert.
Al secondo turno, si registrò un risultato inatteso: l'Olanda fu eliminata dal Lussemburgo, che sfiorò addirittura l'obiettivo di entrare nella fase finale a quattro e soltanto dopo uno spareggio fu messo fuori dalla Danimarca.
La quaterna delle finaliste fu completata dalla Spagna, che ottenne di ospitare le finali, anche per rimediare al criticato forfait di quattro anni prima. Il generalissimo Franco si mobilitò personalmente per garantire alla squadra sovietica la migliore ospitalità. Quelle finali registrarono un grande successo di pubblico e decretarono il definitivo decollo del Campionato d'Europa. La Spagna era stata affidata al commissario tecnico Josh Villalonga, militare di carriera e fanatico della disciplina, che, per evitare il dualismo fra Alfredo Di Stefano e Luís Suárez, aveva depennato il primo dalla lista dei convocati, affidando il ruolo di leader della squadra alla stella dell'Inter. Lo juventino Luís Del Sol, arrivato in ritardo a un allenamento, era stato escluso dalla rosa. Era una Spagna poco spettacolare, ma tatticamente blindata, modellata proprio sul calco dell'Inter di Helenio Herrera: pochi gli uomini di classe pura, forse solo Suárez e Amancio Amaro, difesa molto protetta, con il mediano Ignacio Zoco in posizione arretrata e due stopper ostinati, Fernando Olivella e Feliciano Rivilla. Nella semifinale contro l'Ungheria, Albert e Tichy subirono falli pesantissimi. Tuttavia solo ai tempi supplementari Amancio trovò il gol della vittoria.
La finalissima oppose a Madrid Spagna e URSS, una sfida annunciata. L'URSS era più forte, ma la Spagna era spinta dal tifo dei 100.000 spettatori dello stadio Chamartin. Un assist di Suárez mandò presto in gol Jesus Maria Pereda, ma dopo appena 2 minuti l'URSS pareggiò, con Galimzjan Schussanov. Poi, fu una lunga, sorda lotta. I sovietici puntavano ai supplementari, per imporre la loro superiore tenuta atletica, ma a 5 minuti dal termine il difensore Rivilla si sganciò in avanti e servì Pereda, sul cui cross Marcelino Martínez andò in gol, con uno spettacolare tuffo di testa, decretando il trionfo della nazionale spagnola.
1968
Due anni dopo avere scritto la sua pagina più nera con l'eliminazione a opera della Corea ai Mondiali del 1966, l'Italia si ritrovò al vertice del calcio europeo. Il titolo continentale conquistato a Roma fu anche la prima affermazione del dopoguerra a livello di nazionale: gli ultimi successi del calcio azzurro risalivano infatti ai tempi eroici di Vittorio Pozzo, vincitore di due Mondiali e di un oro olimpico fra il 1934 e il 1938. Era un'Italia molto diversa da quella che Edmondo Fabbri aveva cercato di modellare su canoni tattici d'avanguardia. Il suo ex vice, Ferruccio Valcareggi, ripristinò il modulo all'italiana, che l'Inter di Helenio Herrera aveva imposto al mondo nelle competizioni di club: rigide marcature individuali, libero fisso, contropiede come principale, se non unica, opzione offensiva. Ma a differenza della squadra di Fabbri, la nazionale di Valcareggi poteva contare su un grande cannoniere in grado di decidere il destino di una partita: Gigi Riva, il goleador mancino del Cagliari, che fu il protagonista del terzo Campionato Europeo, come Lev Jascin e Luisito Suárez lo erano stati dei primi due.
Il crescente successo della manifestazione costrinse l'UEFA a mutare la formula, inserendo otto gironi di qualificazione (sette a quattro squadre, uno a tre), le cui vincitrici sarebbero approdate ai quarti di finale. Nel girone a tre, con la Iugoslavia e l'Albania, debuttò negli Europei la Germania Ovest, che aveva disertato le due prime edizioni e che era reduce dal secondo posto ai Mondiali di Wembley. Fu la prima ad affrontare la Iugoslavia più forte di tutti i tempi e ne fu clamorosamente eliminata, nonostante avesse iniziato a mettersi in luce un irresistibile genio del gol, Gerd Müller (quattro reti alla seconda presenza in nazionale). Anche il Portogallo di Eusebio uscì, a opera della Bulgaria; cosicché delle squadre salite sul podio mondiale nel 1966, solamente l'Inghilterra di Bobby Charlton superò il girone preliminare, avendo eliminato Scozia, Galles e Irlanda del Nord.
Quanto all'Italia, Gigi Riva scandì con i suoi gol, sei in altrettante partite, un girone trionfale. E quando Riva fu bloccato da un serio infortunio, ci pensò il suo valido sostituto, Pierino Prati, a condurre gli azzurri oltre il quarto di finale con la vittoria sull'ostica Bulgaria. A quel punto, intuendo la possibilità di una vittoria, il presidente federale Artemio Franchi riuscì a fare assegnare all'Italia l'organizzazione della fase finale a quattro, cui erano approdate anche, con l'Inghilterra, l'URSS specialista del Campionato Europeo e la rivelazione Iugoslavia.
Fu proprio la Iugoslavia a mostrare il gioco più interessante. La sua difesa era molto serrata, con tre terzini marcatori e il libero staccato, davanti all'eccellente portiere Dragan Pantelic. Ma il centrocampo esprimeva grande creatività, con palleggiatori di stampo brasiliano, e in avanti l'ala sinistra Dragan Dzaijc era un vero fenomeno, fonte inesauribile di gol e di assist. Se ne accorse l'Inghilterra che, partendo con il favore del pronostico, l'affrontò a Firenze. Nonostante la Iugoslavia fosse rimasta presto in inferiorità numerica per l'uscita di Ivica Osim, perno di centrocampo (non erano ancora consentite le sostituzioni), la soffocante marcatura riservata dal commissario tecnico iugoslavo, Rajko Mitic, a Bobby Charlton, costrinse i campioni del mondo a un cieco forcing privo di sbocchi. A 3 minuti dalla fine, Dzaijc folgorò il portiere Gordon Banks e conquistò la finalissima dell'Olimpico.
L'Italia affrontò l'URSS a Napoli. Ancora fermo Gigi Riva, Valcareggi confermò Prati, contando sulla sua intesa con Rivera. Sandro Mazzola era la seconda punta, Angelo Domenghini il tornante di destra. L'URSS non aveva campioni, ma organizzazione e cinismo. Un colpo proibito mise presto Rivera ai margini del match. La prevalenza delle difese e la mancanza di idee prolungarono lo 0-0 per 120 minuti, nel corso dei quali il solo momento emozionante fu un palo di Domenghini. Decise il sorteggio. Negli spogliatoi, l'arbitro Kurt Tschenscher tirò fuori uno scellino austriaco, davanti ai capitani, Giacinto Facchetti e Albert Chesternev. Facchetti scelse testa e la fortuna stabilì il superamento del turno da parte dell'Italia.
La finale dell'Olimpico cadeva esattamente trent'anni dopo l'ultimo successo dell'Italia (Mondiali 1938). La fiducia era tanta, forse troppa. Valcareggi scelse come punte Prati e Pietro Anastasi, lasciando fuori Mazzola. Rimase fuori anche Rivera, sul cui ginocchio i sovietici avevano picchiato duro. La Iugoslavia segnò con Dzajic e poi commise l'errore di smettere di attaccare, ma il solo Domenghini, fra gli azzurri, pareva battersi con furore. A 10 minuti dalla fine, un suo violento calcio di punizione mandò la palla a incastrarsi fra palo e portiere. L'1-1 costrinse alla ripetizione della finale, due giorni dopo. La Iugoslavia era forte, ma senza valide alternative ai forti giocatori titolari. Ripresentò dieci uomini su undici, stanchi e delusi. Valcareggi invece cambiò molto: inserì nuovamente Gigi Riva, tornato in forma, e con lui Giancarlo De Sisti e Sandro Mazzola, con un automatico incremento di qualità. Dopo 12 minuti, Riva andò in gol, sul filo del fuorigioco. La Iugoslavia capì di aver perso la grande occasione e si spense. Il raddoppio di Anastasi, con una spettacolare acrobazia, fu il colpo di grazia. La notte romana si accese di mille luci e Riva, 'rombo di tuono', conobbe il suo trionfo.
1972
La quarta edizione del torneo continentale si giocò nel 1972 in Belgio, a formula immutata e partecipazione pressoché totale. I Mondiali messicani di due anni prima erano stati dominati dal Brasile dell'ultimo Pelé, ma l'Europa era stata seconda con l'Italia e terza con la Germania Ovest, protagoniste di un'indimenticabile sfida in semifinale. Erano le logiche favorite, ma solo una di esse onorò il pronostico: la Germania Ovest, che nell'occasione presentò la migliore nazionale di sempre, forse più forte e spettacolare di quella che due anni dopo avrebbe vinto i Mondiali in casa.
Sostanzialmente fedele al suo calcio e restia a seguire le mode del momento, la Germania Ovest poteva contare su un gruppo di autentici fuoriclasse. Il portiere Sepp Maier, il terzino d'attacco Paul Breitner, l'interno di regia Günther Netzer, il goleador Gerd Müller e su tutti Franz Beckenbauer, libero di manovra e leader naturale, avrebbero probabilmente garantito il successo a qualsiasi modulo. Il tecnico Helmut Schön si limitò saggiamente a garantire gli equilibri minimi, sul piano tattico, lasciando per il resto le redini sciolte ai suoi campioni. Lo schema era a grandi linee un 4-3-3. A renderlo unico era la posizione di Beckenbauer, l'ago della bilancia, che in fase difensiva scalava alle spalle dei compagni di reparto, mentre quando la squadra era in possesso di palla si univa al centrocampo, determinando la superiorità numerica.
La Germania Ovest, dopo un trionfale girone di qualificazione, trovò nei quarti l'Inghilterra, rivale storica, e la batté a Wembley con un secco 3-1. Nella partita si misero in luce soprattutto Netzer, autore anche di un gol, ed il solito Müller. Nella gara di ritorno, Alf Ramsey, per evitare l'umiliazione, schierò la formazione inglese più difensiva di tutti i tempi e rimediò lo 0-0, contro avversari appagati.
L'Italia avrebbe potuto essere una degna rivale dei tedeschi, ma la generazione di veterani di Ferruccio Valcareggi cominciava a dare segni di logorio. Il commissario tecnico era un conservatore, talmente affezionato ai suoi campioni (dai quali aveva ricevuto un titolo europeo e un secondo posto mondiale) da ridurre al minimo gli avvicendamenti. Nel girone di qualificazione, che li vide dominare Austria, Svezia e Irlanda, gli azzurri pagarono un prezzo altissimo, perché a Vienna Gigi Riva riportò la frattura di tibia e perone dopo un brutale intervento da dietro del difensore austriaco Hof. Nei quarti, a eliminazione diretta, l'Italia trovò sulla sua strada un Belgio molto agguerrito, tatticamente ostico e rafforzato dalla presenza di due fuoriclasse, Paul Van Himst e Wilfried Van Moer: in casa, a Milano, gli azzurri non riuscirono a superarne la diga difensiva, anche per le condizioni fisiche poco brillanti di Riva, appena recuperato dopo il grave infortunio; nel match di ritorno, a Bruxelles, il Belgio andò in doppio vantaggio, proprio con Van Himst e Van Moer, e all'Italia restò solo una rete su calcio di rigore di Riva, allo scadere del secondo tempo.
Il quartetto che disputò la fase finale (Germania Ovest, Belgio, URSS e Ungheria) era decisamente squilibrato e i tedeschi dominarono secondo le previsioni, incontrando le maggiori difficoltà nella semifinale di Anversa contro il Belgio, padrone di casa. Ci volle il fiuto del gol di Gerd Müller per strappare un sofferto 2-1. Nell'altra semifinale, giocata a spalti quasi deserti a Bruxelles, l'URSS sfruttò il superiore atletismo per domare un'Ungheria più tecnica e leggera.
La finale fu quasi a senso unico. L'URSS si era illusa di poter neutralizzare Gerd Müller ricorrendo alla marcatura asfissiante da parte del più potente dei suoi difensori, l'ottimo Mutaz Khurtsilava, ma lo scatenato centravanti del Bayern segnò subito due gol. Il mediano Herbert Wimmer completò l'opera. I 45.000 spettatori esultarono per il primo alloro europeo della Germania Ovest.
1976
Grandi attese circondavano gli Europei del 1976. Due anni prima i Campionati del Mondo disputati in Germania Occidentale si erano conclusi con il trionfo della squadra di casa, che aveva così dato immediato seguito al titolo continentale vinto nel 1972 in Belgio, ma avevano soprattutto portato alla ribalta un calcio nuovo, il gioco totale dell'Olanda, che, seppur sconfitto in finale dal realismo tattico dei tedeschi, aveva rappresentato una svolta epocale, sollecitando ovunque un gran numero di imitatori, sovente maldestri. Era quindi l'occasione ideale per una rivincita fra i due movimenti calcistici dominanti degli anni Settanta. La terza, tradizionale potenza europea, l'Italia, era alle prese con una forzata rivoluzione, dopo il fallimento agli ultimi Mondiali. Il presidente federale Artemio Franchi aveva dovuto liquidare Valcareggi, affidando la nazionale a Fulvio Bernardini, figura prestigiosa, chiamato a 68 anni al delicato compito di 'traghettatore'. Gli Europei non furono certo d'aiuto alla fase sperimentale, perché l'Italia finì in un girone di qualificazione molto duro, proprio con Olanda e Polonia, seconda e terza ai Mondiali. Passò il turno, in conformità al pronostico, l'Olanda, ma solo per differenza reti sui polacchi, che vivevano il loro momento d'oro, forti di campioni quali Casimir Deyna, Andrzej Szarmach, Gregorz Lato, Robert Gadocha. L'Italia fu onorevolmente terza, a un punto di distacco.
Nulla pareva poter fermare l'Olanda, che nei quarti prevalse nettamente sul Belgio, segnando in totale 7 reti nelle due gare. Johan Cruijff e i suoi compagni davano l'impressione di giocare già il calcio del futuro, contro avversari ancora prigionieri del passato. Solo la Germania Ovest, che aveva perso il bomber Gerd Müller ma non il suo tradizionale pragmatismo, si proponeva come una seria alternativa. Pochi fecero caso alla Cecoslovacchia, che pure aveva eliminato prima l'Inghilterra e poi l'URSS nei quarti di finale. I cechi contavano su un grande portiere, Ivo Viktor, su un lucido organizzatore di gioco, Antoni Panenka, e su un attaccante di classe mondiale, Zdenek Nehoda. A completare il quartetto delle finaliste fu la Iugoslavia, che ottenne di ospitare la fase conclusiva del torneo.
Fu a conti fatti un Campionato Europeo assai particolare. Tutte le partite, giocate su terreni pesantissimi, ai limiti della praticabilità, si prolungarono ai tempi supplementari. L'Olanda, prima ancora che dalla Cecoslovacchia, fu eliminata da laceranti dissidi interni, al punto che il tecnico Knobel rassegnò le dimissioni, subito accettate, nel corso della fase finale. Cruijff era il pomo della discordia. Già in forza al Barcellona, con il fido Johan Neeskens al seguito, si era lasciato convincere a partecipare al torneo, dopo aver contrattato in 15.000 fiorini il suo gettone di presenza. La squadra, profondamente divisa, non aveva voglia di soffrire. Si arrese ai cechi, alla distanza, e Cruijff fece precipitosamente ritorno in Spagna, abbandonando definitivamente la nazionale. Il duello-rivincita con la Germania Ovest, che a sua volta aveva a fatica battuto la Iugoslavia, era svanito sul nascere.
Ma anche i tedeschi furono sconfitti, in una finalissima decisa, per la prima volta, dai calci di rigore, dopo gli immancabili supplementari che si erano chiusi sul 2-2. Curiosamente era stata proprio la delegazione tedesca a proporre di ricorrere ai calci dal dischetto, in caso di parità, anziché ripetere la partita, nonostante Franz Beckenbauer si fosse opposto, garantendo che la squadra era pronta a sostenere altre fatiche, pur di arrivare a una tripletta che sarebbe stata leggendaria (due titoli europei e uno mondiale in sequenza). La Germania Ovest fu costretta a inseguire i cechi per tutta la gara, raggiungendo il pari con Bernd Hölzenbein, dopo il gol di Dieter Müller. Dopo i supplementari, i tiri dagli 11 metri esaltarono la classe del portiere Ivo Viktor. Panenka mise a segno il rigore decisivo e la Cecoslovacchia, dopo due secondi posti ai Mondiali del 1934 e del 1962, conquistò il suo primo trofeo internazionale.
1980
Battuta sorprendentemente in finale nel 1976, la Germania Ovest si prese la rivincita quattro anni dopo, in Italia. Il Campionato del 1980 inaugurò una nuova formula. Constatato il crescente successo finanziario, l'UEFA decise, infatti, di allargare la fase finale a otto squadre, sette uscite da altrettanti gironi di qualificazione e l'ottava ammessa di diritto in qualità di paese ospitante. In tal modo gli Europei si avvicinavano sempre di più ai Mondiali. Artemio Franchi mise in campo tutte le arti diplomatiche e riuscì a ottenere che la fase finale fosse giocata in Italia, nonostante vi fossero state già disputate le finali del 1968. L'intento era quello di offrire una grandiosa dimostrazione di efficienza e contemporaneamente sfruttare il fattore campo per guadagnare il gradino più alto del podio. Dopo il periodo buio, infatti, per la nazionale azzurra era tornato a splendere il sole. Trasformata tatticamente da Enzo Bearzot, con l'adozione della 'zona mista' (marcature fisse in difesa, ma centrocampo creativo e un libero come Gaetano Scirea che partecipava alla costruzione del gioco), l'Italia aveva conquistato gli elogi della critica internazionale ai Mondiali 1978 in Argentina, al di là di un quarto posto penalizzante rispetto ai meriti.
Sui sogni di Franchi, proprio alla vigilia della fase finale, si abbatté con effetti devastanti la tempesta del calcio-scommesse. Una vicenda confusa e squallida aveva evidenziato la possibilità, se non la certezza, che qualche 'addetto ai lavori' fosse in grado di truccare i risultati di certe partite, in collusione con organizzazioni clandestine che gestivano illegalmente giri di scommesse sul calcio. Quello scandalo trascinò nel vortice campioni di primissimo piano e fece scendere a zero la credibilità del movimento calcistico italiano nell'opinione pubblica. I tifosi disertarono gli stadi, per una crisi di rigetto nei confronti dei propri beniamini, e il torneo, pur splendidamente organizzato, non registrò un grande successo. Sul piano tecnico, Bearzot fu privato, a causa delle squalifiche successive allo scandalo, dei due attaccanti in quel momento più validi, Paolo Rossi e Bruno Giordano. Così l'Italia, danneggiata anche da qualche arbitraggio ostile, dovette accontentarsi di un deludente quarto posto, un piazzamento spiegabile solo alla luce di queste circostanze particolari, perché si collocò fra due Mondiali felicissimi, quello argentino del 1978 e quello vittorioso di Spagna '82. Gli Europei 1980 portarono anche alla ribalta il triste fenomeno degli hooligans, un'orda di tifosi violenti che, al seguito dell'Inghilterra, provocò disordini in serie, giovandosi della sorpresa, e quindi dell'impreparazione, delle forze dell'ordine deputate a fronteggiarla.
Sul fronte agonistico si persero presto Olanda e Inghilterra, pur fra qualche effimero sprazzo, e il realismo della Germania Ovest rappresentò ancora una volta l'incrollabile punto di riferimento. Lo schema era quello abituale e supercollaudato: un libero di manovra, Ulrich Stielike, erede del grande Franz Beckenbauer, due efficaci marcatori in difesa (Karl Heinz Forster e Bernhard Dietz), un terzino incursore, Manfred Kaltz, e soprattutto un fenomenale centrocampo, atletico e tecnico insieme, formato dal giovanissimo Bernd Schuster, rivelazione del torneo, sistemato, accanto al poderoso Hans Peter Briegel, alle spalle del fantasioso Hansi Müller; quest'ultimo poteva anche avanzare in posizione di rifinitore per il tridente d'attacco, formato da Klaus Allofs e Karl Heinz Rummenigge sui lati e dall'esperto Horst Hrubesch al centro.
Questa Germania Ovest, decisamente a trazione anteriore, diventò la favorita d'obbligo, dopo che i rivali più pericolosi si erano neutralizzati a vicenda. L'Italia, infatti, fece registrare l'unico guizzo del torneo battendo l'Inghilterra grazie a Marco Tardelli, che annullò con una stretta marcatura il fuoriclasse avversario Kevin Keegan e a 12 minuti dal termine siglò anche il gol-partita. Ma poi gli azzurri, che per il meccanismo della media-reti dovevano battere il Belgio, non andarono oltre lo 0-0, scontrandosi con l'accorto difensivismo degli avversari (che con quel risultato avrebbero invece guadagnato la finale) e lamentando in ugual misura sprechi in attacco e torti arbitrali (in particolare la mancata concessione di un rigore molto evidente).
Nella finalissima il Belgio affrontò la Germania Ovest, che nel proprio girone si era piazzata davanti alla Cecoslovacchia, seconda, e all'Olanda, eliminata. Peraltro i belgi non si prestarono al ruolo di vittime predestinate. La Germania andò in vantaggio con un bolide di Hrubesch dai 20 metri, il Belgio pareggiò a metà ripresa con un rigore dubbio. Già si profilavano i supplementari, quando ancora Hrubesch svettò in mischia per il decisivo colpo di testa. La Germania Occidentale fu così la prima nazione a vincere per la seconda volta il titolo europeo. Per l'Italia non vi fu neppure il conforto del podio: nella finale per il terzo e quarto posto, contro la Cecoslovacchia, una lunga sequela di calci di rigore, dopo che tempi regolamentari e supplementari si erano chiusi in parità, premiò i cechi.
1984
In quasi tutte le sue precedenti edizioni il Campionato Europeo aveva legato il suo destino a un uomo simbolo, da Lev Jascin a Luis Suárez, da Gigi Riva a Gerd Müller, da Ivo Viktor a Horst Hrubesch, ma mai un singolo giocatore era stato così determinante nel successo di una squadra come risultò Michel Platini, detto le roi, nel trionfo francese del 1984. Platini fu il trascinatore e l'irresistibile cannoniere di una Francia che sino a quel momento, pur avendo spesso incantato con il suo gioco frizzante, non aveva mai vinto. Invece, in quell'anno, arrivò a centrare una sensazionale doppietta in poche settimane: prima il titolo europeo e poi l'oro olimpico di Los Angeles, segno di una crescita impetuosa, che sarebbe poi stata confermata dal terzo posto ai Mondiali messicani del 1986.
Come già l'Italia quattro anni prima, la Francia aveva ottenuto per la seconda volta l'organizzazione della fase finale. Nei Mondiali di Spagna '82 i francesi erano arrivati quarti, piazzamento forse inadeguato ai meriti di una nazionale che, con Jean Tigana, Alain Giresse e Michel Platini ‒ ai quali si sarebbe poi aggiunto Luis Fernández ‒ allineava il più forte e meglio assortito centrocampo del mondo. Completata da un grande attaccante, la Francia sarebbe stata imbattibile. Negli Europei giocati in casa Platini riuscì nell'impresa di sdoppiarsi: rimase il leader ispiratore, ma divenne anche l'efficace realizzatore della squadra che il finissimo tecnico Michel Hidalgo aveva impostato su canoni offensivi e spettacolari.
Alla festa francese mancò l'Italia campione del mondo. Dopo quel trionfo inatteso, sarebbe occorso un graduale rinnovamento, ma Bearzot rimase prigioniero della gratitudine che nutriva nei confronti dei suoi campioni, ormai logori. Il girone di qualificazione con Svezia, Cecoslovacchia, Romania e Cipro fu poco felice nel gioco e nei risultati. Gli azzurri iniziarono con tre pareggi consecutivi, poi furono battuti dalla Romania e due volte dalla Svezia (in casa, a Napoli, addirittura con il punteggio di 0-3). Persero anche a Praga, e soltanto nella gara conclusiva contro Cipro, a Perugia, riuscirono a ottenere l'unica vittoria, che servì almeno a evitare l'ultimo posto.
Un vero peccato, perché Parigi celebrò il trionfo del calcio latino, con Francia, Spagna e Portogallo sul podio, e la sola felice eccezione della Danimarca. La Francia giocava un 4-3-1-2, con quattro difensori teoricamente in linea (ma Maxime Bossis scalava spesso alle spalle di tutti), centrocampo governato dalla regia del centrale Giresse, con il raffinato Tigana e l'aggressivo Fernandez ai lati, e Platini che navigava, seguendo l'ispirazione, fra le due linee, ora integrandosi con i tre centrocampisti, ora aggiungendosi alle due punte di ruolo, che erano Bernard Lacombe e Didier Six. I due attaccanti, bravi ma non eccezionali, facevano più movimento che gol. A questi, del resto, provvedeva Platini: ne segnò otto (e provocò inoltre un'autorete) nelle cinque partite della fase finale. L'autorete fu segnata nella gara con la Danimarca, quando il tiro di Platini carambolò sul danese Soren Busk e finì in rete; tre gol furono fatti al Belgio, tre alla Iugoslavia, uno in semifinale al Portogallo (quello decisivo, al 119′ di gioco), uno in finale alla Spagna, con la generosa collaborazione, in questo caso, del portiere Luís Miguel Arconada. Mai si era visto un uomo solo condizionare in modo così pesante un torneo internazionale ad alto livello. Pur non essendo, in senso stretto, un attaccante di ruolo, Platini aveva realizzato da solo il 65% dei gol della Francia.
Alle spalle dei vincitori, più della Spagna, seconda con molta fortuna, impressionarono il Portogallo e la Danimarca. I danesi giocavano un calcio aggressivo, ad alto ritmo e in costante iniziativa: in attacco l'estro di Michael Laudrup e la potenza di Preben Elkjaer Larsen determinavano una combinazione vincente. In semifinale persero con la Spagna solo ai calci di rigore, per un errore proprio di Elkjaer. I portoghesi, sempre fedeli a un calcio di possesso, con lunghi e raffinati palleggi, rivelarono un interno di classe, Fernando Chalana. Anche se in zona gol il solo Ruí Jordao sapeva rendersi pericoloso, in semifinale il Portogallo mise in difficoltà la Francia, tenuta a galla da due prodezze estemporanee del terzino Jean-François Domergue, sino al gol conclusivo di Platini al termine dell'incontro. I francesi faticarono meno nella finale contro la Spagna: dopo l'errore di Arconada sul tiro di Platini, Bruno Bellone raddoppiò in chiusura. Eliminata l'inutile finale di consolazione, danesi e portoghesi furono classificati terzi a pari merito.
In linea generale, gli Europei 1984 interruppero la supremazia continentale esercitata dal calcio atletico per oltre un decennio (Germania Ovest 1972 e 1980, Cecoslovacchia 1976), riportando la tecnica e la fantasia in primo piano.
1988
Nella storia dei Campionati Europei, l'edizione del 1988, superbamente organizzata dalla Germania Occidentale, deve essere forse ricordata come quella di più elevato livello tecnico. A nobilitarla furono almeno quattro grandi squadre, ciascuna con una precisa identità tattica e con grandi campioni nelle proprie file. Vinse l'Olanda, che crebbe strada facendo dopo un avvio impacciato, presentando sotto la guida di Rinus Michels la più attendibile riproposizione del calcio totale dei tempi di Cruijff: un gioco di grande coinvolgimento collettivo, al quale tre interpreti di primo piano (Marco Van Basten, Ruud Gullit, Frank Rijkaard) seppero aggiungere quel pizzico decisivo di cinismo che avevano maturato giocando nel Campionato italiano. Sullo stesso piano dei vincitori si espressero sia l'ultima URSS, magistralmente assemblata dal tecnico Valery Lobanowski, detto 'il colonnello', sia l'Italia di Azeglio Vicini, brillante e aggressiva come poche altre volte, sia infine la Germania Ovest, padrona di casa, reduce dal secondo posto mondiale in Messico. La squadra tedesca era ispirata da Beckenbauer al consueto pragmatismo tattico e poteva disporre, in fase propositiva e realizzativa, di ottime individualità, quali Lothar Matthäus, Jürgen Klinsmann, Rudi Völler.
La squadra azzurra avrebbe potuto senz'altro vincere il titolo. Vicini l'aveva ricostruita, a tempo di record, dalle rovine di Messico '86, attraverso un accurato trapianto dall'under 21. Walter Zenga, Paolo Maldini, Riccardo Ferri, Roberto Donadoni, Giuseppe Giannini, Roberto Mancini e Gianluca Vialli presto divennero gli uomini cardine della nazionale maggiore. Nei programmi, gli Europei del 1988 avrebbe dovuto costituire una tappa intermedia verso il grande traguardo dei Mondiali italiani del 1990. Invece il trionfale cammino nelle qualificazioni, chiuso con sei vittorie, un pareggio e una sola sconfitta, fece lievitare le ambizioni a breve termine. Tatticamente, l'Italia seguiva il solco tracciato da Enzo Bearzot. Marcature a uomo in difesa, centrocampo a zona, con due cardini (Carlo Ancelotti e Giuseppe Giannini), un mediano di corsa, Fernando De Napoli, e un tornante di classe, Roberto Donadoni. In attacco, Gianluca Vialli era il punto fermo, affiancato o da Roberto Mancini, più creativo, o da Alessandro Altobelli, più efficace nelle conclusioni, specialmente di testa.
Nel primo girone della fase finale, all'Italia capitarono avversarie temibili: Germania Ovest, Spagna e Danimarca. Pareggiò con i tedeschi, dopo il vantaggio di Mancini; prevalse sulla Spagna di Emilio Butragueño grazie a una prodezza di Vialli; vinse i danesi con i gol di Altobelli, subentrato a Mancini, e di Luigi De Agostini, che aveva appena preso il posto di Donadoni (segno che la panchina offriva un contributo decisivo). Seconda per differenza reti nei confronti della Germania Ovest, l'Italia affrontò l'URSS, prima nell'altro girone. Al momento parve una fortuna. Infatti l'URSS di Lobanowski era ritenuta meno temibile dell'Olanda. Questa aveva cominciato in sordina, anche perché il tecnico Michels aveva scelto come centravanti titolare Johnny Bosman, lasciando sorprendentemente in panchina il fuoriclasse Marco Van Basten. Perduto il primo match con i sovietici, e davanti allo spettro di una precoce eliminazione, Michels richiamò Van Basten, che impose all'Inghilterra una sensazionale tripletta, segnalandosi da quel momento come l'uomo del torneo. L'Olanda era ricca di qualità, semmai un po' incostante e quasi restia a impegnarsi al massimo, se non nelle grandi occasioni. Rischiò anche contro la determinata Irlanda e arrivò alle semifinali con una buona dose di fortuna. Era una squadra a trazione anteriore, perché la coppia centrale difensiva, composta da Ronald 'Rambo' Koeman e Frank Rijkaard, era più votata alla costruzione che alla fase di contenimento, mentre i terzini laterali erano di qualità modesta. Grande, invece, risultava il potenziale offensivo, con Gerald Vanenburg ed Erwin Koeman sulle due fasce e Gullit-Van Basten punte centrali, e con il finissimo Arnhold Muhren o il più potente Jan Wouters a reggere i fili della manovra.
L'Italia cadde in semifinale a Stoccarda, campo storicamente ostile, in una notte di pioggia battente, dopo aver dominato per un tempo l'URSS e aver sprecato almeno tre opportunità da gol. In particolare, due pericolosi colpi di testa di Giuseppe Giannini e Gianluca Vialli furono prodigiosamente sviati dal portiere Rinat Dasaev. Solo alla distanza i sovietici imposero la propria superiore forza atletica, esaltata anche dalle proibitive condizioni ambientali.
Nell'altra semifinale l'Olanda venne a capo dei rivali di sempre, i tedeschi, grazie a un rigore assai dubbio realizzato da Koeman (che pareggiava il vantaggio, sempre ottenuto dal dischetto, di Völler) e alla puntuale prodezza di Van Basten, nei minuti finali. La Germania Ovest non aveva ricevuto né sconti né favori, come in genere capitava ai padroni di casa, ma l'Olanda era una degna finalista.
Nell'ultimo atto, all'Olympiastadion di Monaco, l'URSS non apparve molto inferiore sul piano del gioco, ma fu superata dalle prodezze individuali di Gullit, al suo primo centro nel torneo, e di Van Basten, che segnò con un tiro al volo, da posizione molto decentrata, imprimendo al pallone una traiettoria incredibile (un gol fra i più belli di tutti i tempi). L'URSS sbagliò anche un rigore. Quegli Europei del 1988 ‒ rimasti una delle poche vittorie della nazionale olandese ‒ restano legati soprattutto al nome di Marco Van Basten, degno erede di Joahn Cruijff.
1992
In netta contrapposizione con la splendida edizione del 1988, quattro anni dopo in Svezia andò in scena uno degli Europei di più basso profilo. Ripescata all'immediata vigilia del torneo finale per sostituire la Iugoslavia, colpita dalle sanzioni dell'ONU anche in campo sportivo, la Danimarca aveva richiamato in fretta e furia i suoi giocatori, in gran parte già in vacanza all'estero, e si era presentata alla fase conclusiva in condizioni di chiara inferiorità. Il suo campione di maggiore prestigio, Michael Laudrup, fresco del titolo europeo per club conquistato con il Barcellona, aveva rifiutato la convocazione, a causa di insanabili contrasti con il tecnico Richard Moeller Nielsen.
Arrivati in Svezia all'ultimo momento, con il solo intento di limitare i danni e di salvare la faccia, quindici giorni dopo i danesi si ritrovarono a festeggiare, allo stadio Rasunda di Göteborg, la prima prestigiosa conquista della loro storia calcistica. Divennero campioni d'Europa dopo aver sconfitto, in semifinale e in finale, le due grandi favorite, l'Olanda, detentrice del titolo continentale, e la Germania, campione del mondo in carica. Fu una beffa autentica inflitta alle formazioni più prestigiose del calcio internazionale. Tatticamente, la Danimarca giocava un 4-3-3 di base, che spesso si articolava in un 4-3-2-1 perché la sola punta fissa restava il centrale Flemming Povlsen, alle spalle del quale agivano in qualità di trequartisti Brian Laudrup e Henryk Larsen. Quest'ultimo, che era stato da poco ceduto da una modesta squadra italiana, il Pisa, a una società danese, il Lingby, che inizialmente non gli pagava neppure lo stipendio, risultò il cannoniere della nazionale campione d'Europa. La classe del portiere Peter Schmeichel, un baluardo insuperabile, e la grande esperienza di Jesper Olsen nobilitavano il gioco atletico e datato della Danimarca, che aggrediva a centrocampo e faceva scattare, sulle ispirazioni di Brian Laudrup, un contropiede micidiale, secondo una formula semplice, ma che risultava straordinariamente efficace.
All'inizio la Danimarca sembrava inesorabilmente chiusa nel suo girone, che comprendeva la Svezia padrona di casa, la Francia guidata da Michel Platini, reduce da una lunga serie positiva, e l'Inghilterra di David Platt e Gary Lineker. I danesi pareggiarono 0-0 con gli inglesi, grazie alla prestazione di Schmeichel, e poi persero con la Svezia. Però nell'ultimo match sconfissero la Francia, mentre l'Inghilterra cedeva alla Svezia. Riuscirono così a piazzarsi secondi, con un netto distacco dalla Svezia, chiara vincitrice del raggruppamento. Nell'altro girone, Olanda e Germania si qualificarono senza problemi, essendosi trovate di fronte avversari modesti, quali la Scozia e la CSI, la Comunità degli Stati indipendenti, in cui si raccoglievano gli eredi dell'URSS, ormai smembrata.
In semifinale l'Olanda affrontò i danesi, convinta di poter vincere senza difficoltà. Ronald Koeman, giocatore bravo ma forse un po' lento, era lasciato solo a presidiare gli spazi difensivi e il contropiede danese ne approfittò, segnando due volte, sempre con Henryk Larsen. Prima Dennis Bergkamp, poi Frank Rijkaard a 4 minuti dalla fine, rimisero in corsa l'Olanda. A decidere furono i calci di rigore. L'unico errore fu quello di Marco Van Basten, che con questo insuccesso chiuse un torneo fallimentare per lui, che quattro anni prima era stato il protagonista.
Per l'incredula Danimarca l'avversaria successiva fu la Germania, che grazie a una prodezza di Thomas Hässler aveva messo subito in svantaggio la Svezia, battendola infine per 3-2, nonostante i bei gol di Tomas Brolin e Kennet Andersson. Il 26 giugno, a Göteborg, i danesi, stanchi e decimati da infortuni e squalifiche, si predisposero alla difesa. Schmeichel era il loro punto di forza e volava a fermare tutti i tiri avversari. Dopo il gol in contropiede di John Jensen, la Danimarca si chiuse ancora di più. Su una Germania ormai demoralizzata, nel finale Kim Vilfort piazzò il colpo decisivo.
L'Italia non partecipò alla fase finale. Quando già la qualificazione appariva compromessa, il presidente Antonio Matarrese aveva licenziato Azeglio Vicini (mai perdonato per il mancato successo ai Mondiali del 1990) sostituendolo con Arrigo Sacchi. Gli azzurri chiusero al secondo posto un girone che promosse l'URSS, alle sue ultime apparizioni ufficiali. Nel torneo finale, come si è detto, l'ex nazionale sovietica avrebbe cambiato nome e si sarebbe presto fatta da parte, pagando a caro prezzo il disorientamento morale e le difficoltà economiche.
1996
Come abbiamo visto, già nelle ultime partite di qualificazione degli Europei del 1992 l'Italia era passata dalle mani del tradizionalista Azeglio Vicini a quelle dell'innovatore Arrigo Sacchi, che con il Milan aveva esportato in tutto il mondo i suoi nuovi schemi tattici. Zona integrale, pressing, fuorigioco sistematico: in pratica l'intero repertorio del calcio totale olandese, con maggiore cura alla fase difensiva, fu trapiantato nella nazionale azzurra, che non lo assorbì subito in modo indolore. Il meritato e sofferto secondo posto ai Mondiali americani del 1994 poneva tuttavia l'Italia tra le favorite per i successivi Campionati Europei, che si presentarono con una nuova formula. L'UEFA aveva infatti deciso di allargare ancora la rosa delle finaliste, portandola a 16 squadre. In tal modo l'Inghilterra, che aveva ottenuto l'organizzazione, poteva ospitare tutta l'aristocrazia calcistica del continente, per un torneo che, in quanto a durata, audience televisiva, presenze negli stadi e qualità tecnica delle forze in campo, poco aveva ormai da invidiare a un Campionato del Mondo.
Malgrado la formula rivoluzionata, l'esito fu tradizionale: la Germania confermò anche sui campi inglesi la particolare adattabilità a questo torneo, la sua vera specialità (ha raggiunto per cinque volte la finalissima, aggiudicandosi il titolo in tre occasioni). Nel 1996 il trionfo tedesco a Wembley si segnalò per due motivi: la Germania conquistò in via definitiva la Coppa Henri Delaunay, mentre dal punto di vista del regolamento si trattò del primo titolo europeo attribuito con la regola del 'golden gol', secondo la quale nei tempi supplementari la partita si interrompe automaticamente alla prima rete, con il successo della squadra che l'ha realizzata.
L'Italia, superata una fase delicata nel corso delle qualificazioni, quando la Croazia aveva messo in forse il suo ingresso fra le 16 finaliste, era poi migliorata e mostrava di poter applicare proficuamente il calcio aggressivo e spettacolare, ma non facile e dispendioso, teorizzato dal suo tecnico. In un girone impegnativo, con Germania, Repubblica Ceca e Russia, l'Italia esordì alla grande, battendo la Russia con due splendidi gol del centravanti Pierluigi Casiraghi, ispirato da Gianfranco Zola, l'erede di Roberto Baggio in azzurro. Grande sorpresa destava quindi la decisione di Sacchi di lasciare a riposo, per il successivo impegno contro i cechi, cinque titolari, fra i quali proprio Casiraghi e Zola. Secondo molti osservatori la più elementare delle strategie avrebbe consigliato di mettere prima al sicuro la qualificazione, e poi, eventualmente, ricorrere al turnover per mantenere i giocatori più importanti in condizioni di freschezza atletica. Contro la Repubblica Ceca, Fabrizio Ravanelli, il sostituto di Casiraghi, si confermava in cattive condizioni di forma. Il giovane Enrico Chiesa pareggiava il vantaggio acquisito per i suoi da Pavel Nedved, ma nella ripresa gli azzurri, ridotti in 10, andarono nuovamente in svantaggio e non servì a nulla l'ingresso di Casiraghi e Zola nei minuti finali. L'Italia doveva così giocarsi l'ultima chance contro i tedeschi. Solo una vittoria l'avrebbe rimessa in corsa. Zola fallì un calcio di rigore e lo 0-0 finale, pur giunto al termine di una buona gara, suonò come una condanna senza appello.
Mentre in Italia esplodeva la contestazione, Repubblica Ceca e Germania confermavano l'alta qualità del girone arrivando sino alla finalissima, nel quadro di un torneo che, dopo l'uscita degli azzurri e quella successiva dell'Olanda, si sviluppava all'insegna della restaurazione tattica: prevalenza del gioco difensivo, libero fisso come ai vecchi tempi, marcature individuali e soffocanti, centrocampo folto e attacco sviluppato quasi soltanto in contropiede.
Con tedeschi e cechi erano entrati nei quarti di finale Inghilterra, Olanda, Francia, Spagna, Portogallo e Croazia. Gli inglesi prevalsero sulla Spagna solo ai calci di rigore, dopo 120 minuti senza gol, e lo stesso fece la Francia nei confronti dell'Olanda. Un gol di Karel Poborski permise invece ai cechi di battere un Portogallo molto brillante grazie a Luis Figo e Manuel Rui Costa, ma poco efficace sotto porta. La Germania eliminò la Croazia, andata a segno con il solito Davor Suker, grazie a un rigore di Jurgen Klinsmann e a una felice incursione offensiva del libero Matthias Sammer. Nelle quattro partite erano stati segnati in tutto quattro gol, a dimostrazione della collettiva involuzione tattica.
In semifinale, anche la partita fra cechi e francesi finì 0-0, e furono i tiri dal dischetto a promuovere Nedved e compagni. Anche la classica sfida fra Inghilterra e Germania fu risolta ai rigori, ma almeno le due squadre avevano segnato un gol a testa, con Alan Shearer e Stefan Kuntz. Il quinto rigore fu fatale agli inglesi, che sbagliarono con Gareth Southgate, mentre i tedeschi realizzarono tutti i tiri dal dischetto.
La finale, arbitrata dall'italiano Pierluigi Pairetto, fu un revival del passato. In vantaggio con Patrik Berger su rigore, la Cecoslovacchia fu raggiunta al 73′ da Oliver Bierhoff, mandato in campo dal commissario tecnico Berti Vogts appena 4 minuti prima, in sostituzione di Mehmet Scholl. Proprio Bierhoff risultò l'uomo decisivo: al sesto minuto dei tempi supplementari, il centravanti segnò il golden gol che procurava il terzo titolo continentale e la Coppa Delaunay al calcio tedesco, quasi mai (e forse neppure in questa occasione) il più brillante, ma sempre fedele a se stesso, e quindi continuo e affidabile nei tornei, al di là delle mode.
2000
Suddivisi fra Belgio e Olanda, gli Europei del 2000 incoronarono la Francia, vincitrice due anni prima del titolo mondiale: un'accoppiata già riuscita, in ordine inverso, alla Germania, campione d'Europa nel 1972 e del mondo nel 1974. Non poteva quindi esserci vincitore più degno e qualificato, ma neppure più fortunato. Nelle ultime tre partite (quarti, semifinale e finale) la Francia di Zinedine Zidane superò la Spagna grazie a un calcio di rigore fallito da Raúl; eliminò il Portogallo nei supplementari grazie a un altro rigore, questa volta a favore e molto contestato, che Zidane trasformò nel provvidenziale golden gol; infine batté l'Italia (dopo che Alessandro Del Piero aveva più volte mancato irripetibili opportunità da rete) raggiungendola a 40 secondi dalla fine dei tempi regolamentari e infliggendole un altro golden gol nei supplementari.
Il diffuso equilibrio è stato la caratteristica saliente del torneo. Almeno altre tre nazionali avrebbero potuto vincerlo in piena legittimità: l'Italia, arrivata a un passo dalla vittoria; l'Olanda, che aveva espresso il gioco più convincente e spettacolare; il Portogallo, illuminato da tre fuoriclasse come Manuel Rui Costa, Luis Figo e Sergio Conceição, ma forse sprovvisto di quel pizzico di concretezza che costituisce requisito indispensabile per le grandi conquiste.
I quattro gironi preliminari raccoglievano quasi tutta l'élite continentale, con l'eccezione della Croazia, salita due anni prima sul podio mondiale. Ben tre squadre concludevano la prima fase a punteggio pieno. Sensazionale fu l'exploit del Portogallo nel girone comprendente la Germania campione in carica, l'Inghilterra e la Romania. Nella partita contro l'Inghilterra i portoghesi, in svantaggio di due gol dopo 20 minuti di gioco, furono protagonisti di una rimonta prodigiosa, che già all'intervallo li portò al pareggio, mentre nel secondo tempo Miguel Nuno Gomes batteva ancora la difesa inglese, firmando vittoriosamente una partita spettacolare. Sullo slancio acquisito con questa gara il Portogallo superò nei giorni successivi la Romania e travolse una spenta Germania per 3-0. Tedeschi e inglesi, i favoriti del girone, prendevano insieme la via di casa, superati anche dalla Romania.
L'Italia, affidata alla guida tecnica di Dino Zoff, subentrato due anni prima a Cesare Maldini, fronteggiava senza affanni avversari non proibitivi. Battuta la Turchia nel primo match, gli azzurri replicavano contro Belgio e Svezia. L'uomo nuovo era Francesco Totti, astro nascente della Roma, che Zoff impiegava da seconda punta, in alternativa ad Alessandro Del Piero. Assente Christian Vieri, il ruolo di centravanti era conteso da Filippo Inzaghi e Marco Delvecchio. L'Italia si segnalava per una magistrale difesa, che aveva nel portiere Francesco Toldo e nell'asse centrale Fabio Cannavaro-Alessandro Nesta i punti di forza. Il gioco non entusiasmava, ma i risultati erano puntuali. Ad accompagnare gli azzurri nei quarti di finale fu la sorprendente Turchia, che aveva subito estromesso uno dei paesi organizzatori, il Belgio.
L'altra nazionale padrona di casa, l'Olanda, otteneva tre vittorie significative di fila, contro la Repubblica Ceca, la Danimarca e soprattutto la Francia, in un match che valeva solo ad assicurarsi il primo posto del girone e che vide gli olandesi rimontare due volte sugli avversari e chiudere sul 3-2. Guidati da Frank Rijkaard, i 'tulipani' praticavano un gioco molto aggressivo, secondo i dettami della zona pura. Forti del fattore campo, sembravano destinati a replicare il cammino del 1988. Il quadro delle otto promosse era completato da Spagna (ripresasi dopo la sconfitta inaugurale contro la Norvegia) e Iugoslavia.
Dei quarti di finale, uno solo, il più atteso, Francia contro Spagna, offrì momenti di suspense. Si giocò sul filo dell'equilibrio. Sul finire del primo tempo, in situazione di pareggio (punizione vincente di Zinedine Zidane, rigore realizzato da Gaizka Mendieta), un gran gol di Youri Djorkaeff mandava in vantaggio i francesi, ricchi di trequartisti e al solito privi di grandi attaccanti. La partita si chiuse sul 2-1, dopo che, a pochi secondi dal termine, il fuoriclasse spagnolo Raúl aveva calciato alto il tiro su rigore concesso dall'arbitro italiano Pierluigi Collina per un fallo del portiere francese Fabien Barthez su Abelardo. Le altre tre partite non ebbero storia. L'Italia, in crescendo, piegò nettamente la Romania (rimasta in 10 dopo l'epulsione di Gheorghe Hagi) con due bellissimi gol di Francesco Totti e Filippo Inzaghi. Con lo stesso punteggio di 2-0 (doppietta di Nuno Gomes) il Portogallo sconfisse la Turchia, anch'essa in inferiorità numerica dopo mezz'ora per l'espulsione di Ozalan Alpay. L'Olanda, infine, travolse la Iugoslavia, nella cui difesa lo smarrito Sinisa Mihajlovic collezionava diversi errori, battendola per 6-1 (con tripletta di Patrick Kluivert).
Proprio l'Olanda, sul campo di casa di Amsterdam, fu l'avversaria dell'Italia in semifinale. Fu una partita a senso unico: giocando con due ali vere, Overmars e Zenden, gli olandesi aggiravano la difesa azzurra e ponevano l'assedio alla porta di Toldo. L'arbitraggio del tedesco Markus Merk contribuì a mettere in difficoltà gli azzurri, con l'espulsione di Gianluca Zambrotta alla mezz'ora. Sembrava finita, ma Toldo, Nesta e Cannavaro su tutti riuscirono a fermare ogni assalto avversario. All'Olanda vennero assegnati anche due calci di rigore, almeno uno dei quali discutibile; ma Toldo parò il primo, mentre Kluivert calciò il secondo sul palo. La difesa italiana resse per tutti i 90 minuti regolamentari e i 30 supplementari e si tornò così sul dischetto per designare la finalista. Toldo fu ancora strepitoso, fermando i tiri di Frank De Boer e Paul Bosvelt, mentre Totti realizzò in modo beffardo il penalty decisivo. L'Italia entrava in finale, l'Olanda, incredula, usciva da un torneo al quale aveva regalato alcuni momenti tecnici piuttosto significativi.
Francia e Portogallo si affrontarono a Bruxelles senza particolari contromisure tattiche. Squadre votate all'attacco, giocavano tutte le loro chances nella conquista dell'iniziativa. Vi riuscì, per tutto il primo tempo, il Portogallo, andato presto in vantaggio con Nuno Gomes (la giovane punta centrale che confermava lo spiccato senso del gol) e capace poi di gestire sapientamente il match. La Francia alzò il ritmo nella ripresa e colse il pareggio con Thierry Henry. I supplementari non parevano destinati a modificare la situazione. A 2 minuti dal fischio finale, però, un tiro del francese Sylvain Wiltord, destinato a rete, impattò contro il difensore Abel Xavier, appostato davanti alla porta. L'arbitro austriaco Günter Benko, dopo aver consultato l'assistente di linea, concesse il calcio di rigore alla Francia, considerando volontario il tocco con il braccio del portoghese. Tra le vibrate proteste avversarie, Zidane trasformò il penalty, portando i campioni del mondo alla sfida conclusiva con l'Italia.
Fu una partita a scacchi fra i due tecnici. Dino Zoff preferì inizialmente Delvecchio a Inzaghi e Totti a Del Piero. Giocando sotto ritmo, l'Italia inchiodò il match sullo 0-0 per tutto il primo tempo. Dopo 8 minuti della ripresa, Zoff mandò in campo Del Piero al posto di Stefano Fiore e l'assetto più offensivo fu premiato subito dal gol del vantaggio segnato da Delvecchio. Roger Lemerre, il tecnico francese, a quel punto replicò inserendo due punte, Wiltord e Trezeguet, che andarono a formare il tridente d'attacco con Henry, mentre Zidane operava alle loro spalle. Era una formazione a rischio, che aprì infatti spazi al contropiede italiano. Per due volte, Del Piero si trovò solo davanti al portiere francese, e sempre fallì gol praticamente già fatti, che avrebbero chiuso la partita.
In piena fase di recupero, 3 minuti dopo la fine dei tempi regolamentari, un lungo lancio del portiere Fabien Barthez venne deviato di testa da David Trezeguet verso Wiltord, che sorprese Toldo con un tiro diagonale. Scossa e demoralizzata dal pareggio inatteso, l'Italia sembrava più stanca dei francesi all'inizio dei tempi supplementari. Dopo 13 minuti Trezeguet chiuse la partita con il golden gol.
Per la Francia erano stati decisivi i due attaccanti subentrati dalla panchina; per l'Italia l'innesto di Del Piero, l'uomo che avrebbe dovuto fare la differenza, si era invece rivelato fatale. Su quella vittoria sfumata in vista del traguardo, Dino Zoff chiuse la sua avventura da commissario tecnico. Criticato violentemente per non aver disposto una marcatura individuale su Zidane (che peraltro non era stato decisivo nel successo francese) rassegnò le dimissioni al rientro in patria, nonostante la squadra da lui guidata avesse di gran lunga superato gli obiettivi di partenza. I Campionati Europei del 2000, in effetti, avevano fatto strage di tecnici: dal tedesco Berti Vogts all'inglese Kevin Keegan, all'olandese Frank Rijkaard, allo iugoslavo Vujadin Boskov, per citare solo i più famosi.
Tabella
di Enzo D'Orsi
La Coppa Internazionale vede la luce nel 1927, per iniziativa delle nazionali danubiane escluse dalle Olimpiadi con l'accusa di professionismo. In particolare risulta decisivo per l'organizzazione il contributo di Hugo Meisl, segretario della Federazione austriaca, già calciatore e arbitro, futuro commissario tecnico. Inizialmente è prevista la partecipazione di Austria, Ungheria e Cecoslovacchia, ma presto la manifestazione viene estesa a Italia e Svizzera. La durata è triennale, il premio in palio un trofeo in cristallo di Boemia, la Svelha Pokal (da assegnare a chi vinca tre edizioni del torneo), la formula quella del girone con partite di andata e ritorno. Il torneo, oltre che Coppa Internazionale, viene chiamato anche Coppa dell'Europa Centrale.
L'Italia debutta a Praga il 23 ottobre 1927, pareggiando 2-2 con la Cecoslovacchia, ma il risultato positivo viene cancellato dalla successiva sconfitta interna con l'Austria a Bologna. Seguono due successi consecutivi contro Svizzera e Ungheria prima della sosta per le Olimpiadi. Alla ripresa, ancora due vittorie su Svizzera (3-2) e Cecoslovacchia (4-2), quindi una dura sconfitta (0-3) contro l'Austria. Per l'esito del torneo diventa decisiva la trasferta di Budapest, l'11 maggio 1930: gli azzurri, affidati a Pozzo, non deludono, offrono una prova di grande rilievo e si impongono addirittura per 5-0. L'Italia chiude con 11 punti (Austria e Cecoslovacchia 10, Ungheria 9, Svizzera 0).
Il secondo torneo inizia un anno dopo. Questa volta l'Italia non va oltre il secondo posto, staccata di due punti nella classifica finale dall'Austria. Il Wunderteam fa valere il suo 'metodo', perdendo una sola partita (proprio contro l'Italia nella gara inaugurale a Milano), vincendone quattro e pareggiandone tre. I 19 gol siglati (miglior attacco) e i 9 subiti (miglior difesa) completano il quadro di una supremazia schiacciante. Sul cammino azzurro pesa soprattutto la sconfitta con la Cecoslovacchia del 28 ottobre 1932. Nella classifica finale l'Austria ha 11 punti (Italia 9, Ungheria 8, Cecoslovacchia 7, Svizzera 5). Il terzo torneo, iniziato nel 1933, viene concluso due anni più tardi, dopo la sospensione dettata dai concomitanti Mondiali. L'Italia colleziona cinque vittorie, domina la scena e guadagna il primo posto pareggiando a Milano l'ultima, determinante partita con l'Ungheria. Gli azzurri scendono in campo forti del primo posto con 10 punti. Al secondo posto, con 9 punti, è l'Austria, che però ha già completato il suo calendario: il pericolo è rappresentato proprio dall'Ungheria, terza in classifica, con 8 punti. Gli ungheresi passano in vantaggio con Sarosi, Colaussi e Ferrari ribaltano il risultato, Sarosi va ancora in gol, ma il 2-2 è sufficiente agli azzurri per conquistare il torneo. Alla fine i punti dell'Italia sono 11 (Austria e Ungheria 9, Cecoslovacchia 8, Svizzera 3).
L'edizione successiva (1936-38) viene interrotta in seguito all'annessione dell'Austria alla Germania.
Nuovo appuntamento nel dopoguerra. Le contendenti sono le solite: gelosia e spirito elitario, nonostante le richieste pervenute, impediscono di allargare le partecipazioni. Nell'edizione 1948-53 vince l'Ungheria guidata da Gustav Sebes: 11 punti in 8 partite, Austria e Cecoslovacchia dividono il secondo posto a quota 9, l'Italia è quarta con 8 punti, ultima ‒ come nei precedenti tre tornei ‒ la Svizzera, con 3 punti.
Nel 1955-60, al gruppo storico si aggiunge la Iugoslavia. Si impone la Cecoslovacchia, dopo un lungo braccio di ferro con l'Ungheria: 16 punti contro 15 nella classifica finale. L'Italia chiude al penultimo posto con 7 punti (2 vittorie, 3 pareggi e 5 sconfitte). L'Austria è terza con 11 punti, la Iugoslavia quarta con 9, la Svizzera di nuovo ultima con 2 punti. Il trofeo di cristallo non sarà mai assegnato. La manifestazione ha perso prestigio e cessa di essere disputata quando l'UEFA, attraverso il segretario generale Henri Delaunay, promuove il primo torneo europeo per nazioni.
Tabella
di Matteo Dotto
Nel 1916 su un totale di 23 Federazioni affiliate alla FIFA ben 19 sono europee e solo due sudamericane. Tuttavia, mentre nel Vecchio Continente l'attività sportiva registra, a causa del conflitto mondiale, una brusca frenata, sulle sponde del Rio de La Plata fervono le iniziative. E proprio il 1916, centenario dell'indipendenza dell'Argentina, è la data ideale, secondo il dirigente uruguayano Héctor Rivadavia Gómez, per dare vita a un torneo di calcio e contestualmente creare la CSF (Confederación sudamericana de fútbol ), con la partecipazione, in origine, di Argentina, Uruguay, Brasile e Cile. Sono queste quattro nazionali a dare vita, dal 2 al 17 luglio 1916, al primo Campeonato Sudamericano de Fútbol: lo vince l'Uruguay, anche se la Coppa America sarà materialmente assegnata a partire dall'edizione successiva. Nomi poco conosciuti partecipano a questo primo torneo continentale. La curiosità è Isabelino Gradin, mezzala sinistra dell'Uruguay, che rappresenta un bell'esempio di atleta bivalente: gioca bene a calcio ed è campione sudamericano di atletica leggera sui 400 metri piani.
La vera Coppa America, fabbricata in una gioielleria di Buenos Aires e costata 3000 franchi svizzeri, entra in palio l'anno dopo, 1917, nel torneo disputato in Uruguay. È ancora l'Uruguay a laurearsi campione sudamericano e questa volta, assente Gradin, la stella si chiama Héctor Scarone: suo il gol vincente nell'ultima partita contro l'Argentina. Scarone, attaccante dalle straordinarie doti tecniche, trascinerà poi l'Uruguay alla vittoria nelle Olimpiadi del 1928 e nei Mondiali del 1930 e tenterà l'avventura europea nelle file del Barcellona e dell'Inter (stagione 1931-32), dove il suo compagno Giuseppe Meazza lo definirà 'il migliore giocatore del mondo'.
Nel 1919 ‒ con le quattro partecipanti di sempre, Argentina, Uruguay, Brasile e Cile ‒ la Coppa approda in Brasile. A Rio de Janeiro il torneo termina con Uruguay e Brasile a pari punti: decisivo nello spareggio il gol del centravanti brasiliano Arthur Friedenreich, il primo grande campione del calcio verdeoro. Mulatto dagli occhi verdi, maestro nel dribbling, fortissimo nel gioco aereo, Friedenreich nei vent'anni della sua carriera mette a segno, secondo le statistiche dell'epoca, lo straordinario numero di 1329 reti, cifra a cui nel mondo si è avvicinato soltanto Pelé. La scarpetta del gol vincente sull'Uruguay è rimasta esposta diversi anni nella vetrina di un negozio nella calle Ouvidor di Rio de Janeiro.
Dal 1920 al 1927 la Coppa America si disputa a cadenza annuale. Nel 1921 l'Argentina iscrive per la prima volta il suo nome nell'albo d'oro, terminando il torneo a punteggio pieno (vittorie su Brasile, Uruguay e Paraguay) e senza incassare reti. L'autore del gol vincente nella decisiva gara con l'Uruguay, il centravanti Julio Libonatti, a fine partita viene portato in trionfo dai tifosi festanti, a Buenos Aires, per 4 km, dallo stadio di Barracas alla centralissima Plaza de Mayo. Poi per Libonatti, primo calciatore sudamericano a trionfare in Europa, verranno le tante soddisfazioni della sua carriera italiana: 284 partite e 164 gol con le maglie di Torino e Genoa, uno scudetto in granata, 17 presenze e 15 reti nella nazionale italiana.
Dalle prime 14 edizioni emerge chiarissimo il dominio del fútbol rioplatense: sette successi dell'Uruguay, cinque dell'Argentina e due del Brasile. Di conseguenza a brillare sono soprattutto le stelle di Uruguay e Argentina. Nella 'Celeste', la nazionale uruguayana, fanno epoca il Gran Capitan e difensore centrale José Nasazzi, il goleador Pedro Petrone, che confermerà le sue doti di cannoniere anche in Italia, nella Fiorentina, e José Leandro Andrade, soprannominato maravilla nigra, centrocampista difensivo dalle sopraffine doti tecniche. L'Argentina mette in mostra un portiere, Américo Tesoriere, basso di statura ma dai riflessi straordinari, e due giocatori, il centromediano Luis Monti e l'ala sinistra Raimundo Orsi, protagonisti nel successo del 1927, che faranno la fortuna della Juventus negli anni Trenta.
Con l'edizione del 1939 si interrompe la tripla egemonia Uruguay-Argentina-Brasile. Il merito è del Perù, che per la terza occasione organizza la Coppa in casa e per la prima volta la vince. Sulla panchina peruviana siede l'inglese Jack Greenwell, unico allenatore di scuola europea a conquistare il titolo americano. Teodoro 'Lolo' Fernández, con sette gol, è il capocannoniere della manifestazione e la stella di un Perù degno vincitore. L'edizione 1939 segna anche il debutto del centrocampista uruguayano Obdulio Varela, per quindici anni pilastro della Celeste. Nel 1941 esordisce invece il portiere cileno Sergio Livingstone (figlio di Juan, arbitro della finale Argentina-Uruguay del 1917), che ancora oggi detiene il record di presenze in Coppa America: 34, distribuite nelle edizioni che si svolgono tra il 1941 e il 1953.
La guerra che insanguina l'Europa non ferma la Coppa America. Nel 1945, anzi, si gioca in Cile una delle edizioni dai contenuti tecnici più spettacolari. La sfida è tra i formidabili attacchi presentati da Argentina e Brasile: Mario Boyé, Norberto 'Tucho' Méndez, René Pontoni, Rinaldo Martino e Felix Loustau contro Osmar Tesourinha, Thomaz Zizinho, Heleno de Freitas, Jair Pinto e Ademir de Menezes. Non a caso Argentina e Brasile chiudono il torneo con una media superiore ai 3 gol per partita. In classifica ha la meglio per un punto l'Argentina, che vince 3-1 il confronto diretto (tripletta di Méndez, artista del dribbling dal tiro potentissimo), ma gli applausi sono estesi anche ai vinti. L'Argentina conquisterà nuovamente la Coppa nei due anni successivi, realizzando così un ciclo mai riuscito ad altre nazionali. Proprio nel 1947 fa il suo debutto in campo internazionale un attaccante velocissimo e abile a giostrare in tutte le zone del campo: si chiama Alfredo Di Stefano, all'epoca ha solo 21 anni e, partito come riserva, trova spazio solo perché il titolare Pontoni s'infortuna nel corso della seconda partita contro la Bolivia. Diventerà uno dei più grandi calciatori di tutti i tempi.
Curiosamente, la Coppa America vinta alla vigilia dei Mondiali non porta mai alla conquista del titolo più prestigioso del calcio. Ne sa qualcosa il Brasile, che nel 1949 organizza il torneo in casa. Sono le prove generali dei Mondiali dell'anno successivo, e il Brasile, a distanza di ventisette anni dalla sua ultima conquista, si aggiudica la Coppa dopo lo spareggio con il Paraguay, che aveva vinto 2-1, proprio contro il Brasile, l'ultima partita del girone per poi perdere 7-0 nella sfida decisiva. La rinuncia dell'Argentina e un Uruguay ridotto a una squadra di riserve, a causa dello sciopero dei suoi migliori calciatori, facilitano forse il Brasile, che segna il record storico dei gol all'attivo (39 in sette partite, più sette nello spareggio), ma che di lì a qualche mese andrà incontro alla più grande delusione sportiva della sua storia: la sconfitta nei Mondiali organizzati in casa e vinti dall'Uruguay.
Dopo l'impresa del Perù nel 1939, è un'altra 'piccola', il Paraguay, ad aggiudicarsi l'edizione del 1953, che si disputa in Perù senza la partecipazione dell'Argentina, dissanguata dall'esodo dei suoi migliori calciatori, dopo il lungo sciopero del 1948. Nel Paraguay, che batte il Brasile 3-2 allo spareggio, rifacendosi così dell'umiliazione subita quattro anni prima, gioca come difensore Heriberto Herrera, qualche anno dopo apprezzato tecnico in Italia e in Spagna. Il Brasile comincia a costruire la grande squadra che vincerà i suoi primi Mondiali in Svezia nel 1958: sulle fasce agiscono Djalma e Nilton Santos, il regista è Waldir Didí, in attacco fa faville il futuro fiorentino Julio Botelho, 'Julinho'. Gli anni Cinquanta sono comunque caratterizzati da un ritorno del calcio rioplatense: dopo il Paraguay, vincono tre volte l'Argentina e due l'Uruguay. L'edizione dal più alto livello tecnico è senza dubbio quella del 1957: nel Brasile, oltre ai Santos e a Didí, ci sono anche Manuel Garrincha e Dino Sani. Ma è l'Argentina, che conquista la Coppa, a mettere in vetrina i talenti più interessanti. Tra i pali, Rogelio Domínguez si guadagna a fine torneo un contratto con il Real Madrid. Il ricco calcio italiano si assicura invece gli attaccanti Humberto Maschio, Antonio Valentín Angelillo ed Enrique Omar Sivori, un trio ribattezzato los angeles de las caras sucias ("gli angeli dalla faccia sporca"). Sotto la regia del procuratore di origini italiane, Felix Latronico, Maschio e Angelillo approdano all'Inter di Angelo Moratti, mentre Sivori va alla Juventus della famiglia Agnelli, e la sua squadra d'origine, il River Plate, proprio grazie ai proventi della sua cessione, può finalmente completare il secondo anello dello stadio Monumental. L'Argentina, grande favorita ai Mondiali del 1958, vede però ridimensionate le sue ambizioni a causa del trasferimento in Europa dei suoi quattro assi, che non saranno convocati. Così dalla Svezia arriva puntuale la notizia del tonfo di una Selección modesta e disabituata al confronto con le grandi scuole europee (clamorosa la sconfitta per 6-1 contro la Cecoslovacchia). Per la prima volta nella storia, si laurea campione del mondo il Brasile, una squadra cresciuta e collaudata nelle ultime edizioni della Coppa America e che, inoltre, presenta il diciassettenne Pelé.
I campioni del mondo del Brasile sono attesi nel 1959 alla conferma continentale. Con Pelé, Didí, Garrincha, Mario Zagalo, Djalma Santos sono presenti quasi tutti i migliori del trionfo svedese, ma la vittoria finale va all'Argentina con una Selección rinnovata per dieci undicesimi (unico superstite il giocoliere di fascia Oreste Corbatta) rispetto a quella vittoriosa due anni prima. Per il Brasile la magra consolazione della piazza d'onore, per Pelé l'unica partecipazione a una Coppa America, impreziosita dal titolo di capocannoniere (otto gol segnati in sei partite). Il 1959 è anche l'anno della doppia Coppa America. In passato, a parte la prima edizione (semplice Campionato sudamericano senza coppa in palio), si erano giocate altre cinque edizioni definite 'straordinarie', che non assegnavano cioè il trofeo. Mai però era successo di giocare due volte nello stesso anno, come accade invece nel 1959 quando, oltre alla 'classica' Coppa America, disputata in Argentina e vinta dai padroni di casa a cavallo tra marzo e aprile, arriva a dicembre una seconda edizione, organizzata dall'Ecuador per festeggiare l'inaugurazione dello stadio Modelo di Guayaquil. Rispetto alle sette squadre impegnate nel torneo nelle ultime occasioni, solo cinque nazionali partecipano in Ecuador: oltre ai padroni di casa, Uruguay, Argentina, Brasile e Paraguay. Piuttosto modesto comunque il livello tecnico, con le nazionali più rappresentative schierate con formazioni sperimentali. La nota più interessante è l'affermazione a livello internazionale di Alberto Spencer, all'epoca appena ventiduenne, miglior calciatore nella storia dell'Ecuador, centravanti agile e potente, idolo poi per più di un decennio del Peñarol di Montevideo e detentore del record di gol in Coppa Libertadores (54).
Gli anni Sessanta sono piuttosto bui per il prestigio della Coppa America. Nel 1963 si gioca in Bolivia e i padroni di casa, anche grazie ai vantaggi derivanti dall'abitudine a giocare in altura ai 3600 m di La Paz, conquistano per la prima e unica volta il trofeo. Ma le regine del Sud America snobbano l'evento: l'Uruguay non partecipa, il Brasile manda una rappresentativa minore, l'Argentina invia una squadra sperimentale. Va un po' meglio nel 1967 in Uruguay, dove comunque il Brasile non è presente. Si rinnova così lo storico duello tra Uruguay e Argentina, che vede trionfare i padroni di casa (1-0, con gol di Pedro Rocha nell'ultima partita), tra i quali spicca il grintoso Julio Montero Castillo, padre del futuro juventino Paolo. Per la prima volta partecipa alla Coppa il Venezuela (superando 3-0 la Bolivia e ottenendo la sua prima vittoria nella competizione), considerato la 'Cenerentola' del Sud America, mentre nel Cile si mette in evidenza Elías Figueroa, difensore centrale completo, vincitore per tre volte consecutive del Pallone d'oro sudamericano.
Dopo l'edizione del 1967, la Coppa America si interrompe per otto anni (il più lungo intervallo della sua storia). Torna nel 1975, con tre importanti novità: per la prima volta vi partecipano tutte le dieci nazionali iscritte alla CSF; la formula, ancorata dalla nascita al girone unico con eventuale spareggio in caso di parità, cambia e prevede tre gironi di tre squadre, con gare di andata e ritorno e 'promozione' delle prime classificate, cui si aggiunge la squadra campione in carica per la disputa delle semifinali; viene a cadere la sede fissa, poiché la formula della doppia gara la rende superflua. Tornano a fare sul serio anche le tre 'grandi' del Sud America, che si ripresentano tutte con squadre degne della loro fama. Il sorteggio mette nello stesso girone l'Argentina, che prepara con Luis César Menotti l'avventura del Mundial di tre anni dopo, e il Brasile, che si qualifica vincendo lo scontro diretto nonostante la travolgente vittoria argentina sul Venezuela (11-0, con ben sette marcatori diversi, anche se resiste il record storico della Coppa stabilito sempre dall'Argentina nel 1942 con un 12-0 all'Ecuador). Accompagnano il Brasile in semifinale il Perù, la Colombia e l'Uruguay, detentore della Coppa. Il Perù compie la storica impresa di vincere 3-1 in Brasile; la successiva sconfitta, 0-2, a Lima costringe allo spareggio, che premia il Perù, vittorioso poi anche in finale sulla Colombia, ma solo alla terza partita. È un Perù ricco di campioni: dal trequartista Teofilo Cubillas, gloria assoluta del calcio incaico, all'attaccante Juan Carlos Oblitas, dal valido Hugo Sotil, compagno di Johan Cruijff al Barcellona, al rapidissimo Geronimo Barbadillo, protagonista in seguito di buoni Campionati in Italia nelle file di Avellino e Udinese.
Quattro anni dopo l'Argentina, campione del mondo in carica, schiera una formazione sperimentale: l'esperto Daniel Passarella guida un gruppo di giovani, tra i quali il diciannovenne Diego Maradona che regala spettacolo. Ancora una volta Argentina e Brasile sono nello stesso girone e ancora una volta prevalgono i verdeoro, con una formazione che sarà la base di quella dei Mondiali di Spagna '82: Leovigildo Junior, Arthur Zico, Paulo Roberto Falcão, Sócrates de Oliveira e Alexo Eder i nomi più importanti, che non bastano tuttavia a superare in semifinale l'ostinato Paraguay. In finale, contro il Paraguay, approda il Cile, dopo aver eliminato i campioni del Perù: come nel 1975, occorrono tre partite per laureare la squadra campione e al Paraguay (che nelle prime due gare aveva, rispettivamente, vinto per 3-0 e perso per 1-0) basta per regolamento lo 0-0, nello spareggio giocato a Buenos Aires, per conquistare la sua seconda Coppa America.
L'edizione del 1983 mette per la terza volta nello stesso gruppo eliminatorio Argentina e Brasile, e sono ancora i verdeoro a passare in semifinale nonostante il saldo negativo degli scontri diretti: a Buenos Aires vince l'Argentina, che spezza con un gol di Ricardo Gareca una tradizione negativa durata ben tredici anni, mentre al Maracaná l'incontro finisce 0-0. In semifinale l'Uruguay ha la meglio sul Perù, e il Brasile passa grazie al sorteggio dopo i due pareggi contro il Paraguay. La finale mette il Brasile di fronte all'Uruguay, che vince 2-0 in casa e impone il pari (1-1) fuori: due dei tre gol uruguayani portano la firma di calciatori che in seguito militeranno anche in Italia, Enzo Francescoli e Carlos Aguilera.
Si torna alla formula con sede fissa nel 1987. Paese organizzatore è l'Argentina, campione del mondo in carica. Dal punto di vista tecnico sarà una delle migliori edizioni degli ultimi decenni: Maradona e Claudio Caniggia nell'Argentina, Romário e Antonio Careca nel Brasile, René Higuita e Carlos Valderrama nella Colombia, Ivan Zamorano nel Cile, Francescoli e Rubén Sosa nell'Uruguay, tutti giocatori di prima grandezza e di giovane età (Careca con 27 anni è il più vecchio, Caniggia e Zamorano con 20 i più giovani). L'Uruguay approfitta del suo status di campione in carica e accede direttamente alla semifinale, dove supera con un gol di Antonio Alzamendi i padroni di casa dell'Argentina. Un altro 1-0 nella finale contro il Cile basta alla Celeste per diventare per la tredicesima volta campione d'America. Proprio l'accesso diretto in semifinale per il detentore della Coppa, ritenuto privilegio eccessivo, costringe la CSF a ritoccare la formula, con le dieci squadre divise in due gruppi da cinque, e un girone finale a quattro.
Anche l'edizione del 1989, in cui il Brasile dopo quarant'anni torna a essere paese ospitante, è tecnicamente di rilievo. L'Argentina di Carlos Bilardo raccoglie attorno al genio di Maradona i giovani migliori: la Coppa America per Caniggia è una consacrazione, per Abel Balbo e Nestor Sensini il trampolino per cominciare una lunga e prestigiosa carriera nel calcio italiano. L'Uruguay presenta tutti i suoi campioni degli anni Ottanta, da Francescoli a Rubén Paz, da Rubén Sosa ad Aguilera. Nel Paraguay, rivelazione del torneo, si mette in luce, con il suo sinistro, il diciassettenne Gustavo Neffa: la Juventus di Boniperti ne acquista il cartellino e lo gira alla Cremonese, dove tuttavia il talento del giovane paraguayano rimarrà soffocato. Il Brasile si assicura il successo, quarant'anni dopo il suo ultimo trionfo in Coppa America. L'allenatore della Seleção è Sebastiao Lazaroni ‒ futuro tecnico della Fiorentina ‒ e il suo lavoro comincia tra mille difficoltà. Il Brasile gioca il girone eliminatorio al Nord, a Salvador de Bahia, e la tifoseria locale non accetta la mancata convocazione dell'attaccante Fabian Charles, idolo assoluto della torcida bahiana. Lazaroni però ha fiducia nella coppia formata da Romário e José Bebeto e il 16 luglio ‒ con l'1-0 nell'ultima e decisiva partita contro l'Uruguay ‒ proprio un gol di Romário regala al Brasile la Coppa; Bebeto è capocannoniere del torneo con sei reti. La squadra di Lazaroni è in sostanza la stessa che cinque anni più tardi conquisterà negli Stati Uniti il suo quarto titolo mondiale: oltre al tandem offensivo Bebeto-Romário, infatti, altri cinque protagonisti di quella Coppa giocheranno da titolari nella finale del 1994 contro l'Italia: il portiere Claudio Taffarel, i difensori Aldair Dos Santos e Claudio Branco, i centrocampisti Carlos Dunga e Iomar Mazinho.
L'edizione del 1991 è organizzata dal Cile e conferma la formula di successo inaugurata due anni prima. Delle quattro nazionali approdate alla fase finale nel 1989 si confermano solo Argentina e Brasile (allenato da Paulo Roberto Falcão), che si giocano la vittoria con Cile e Colombia. Quella che si trova tra le mani Alfio Basile, successore di Bilardo, è un'Argentina orfana di Diego Maradona, squalificato perché trovato positivo alla cocaina in Napoli-Bari del 17 marzo 1991. Sono pochi i superstiti della squadra arrivata seconda, l'anno prima, ai Mondiali disputati in Italia, ma il portiere Sergio Goycochea e l'imprevedibile attaccante Caniggia garantiscono il loro importante contributo; saranno determinanti anche i gol di un centravanti sconosciuto alle platee europee, Gabriel Batistuta, e la grinta del centrocampista Diego Simeone. Proprio la coppia d'attacco Caniggia-Batistuta sarà considerata l'arma decisiva dell'Argentina: Caniggia conferma le sue doti di tecnica e velocità, Batistuta, capocannoniere con sei reti, si mette in luce per la potenza del proprio destro e la precisione nel colpo di testa. La sua brillante performance in Coppa America suscita l'interesse della Fiorentina, che lo acquista dal Boca Juniors per 6 miliardi di lire.
Nel 1993, un altro ritocco alla formula. Alle dieci nazionali affiliate alla Federcalcio sudamericana si aggiungono 'a inviti' altre due squadre; si formano così tre gironi di quattro squadre e le prime due di ogni girone più le due migliori terze classificate accedono alla fase successiva. Poi, sempre con partita unica, semifinali e finali. In Ecuador si conferma campione l'Argentina di Basile, che rispetto a due anni prima ha perso Caniggia ‒ anche lui positivo alla cocaina dopo Roma-Napoli del 21 marzo 1993 ‒ e presenta, come regista, il centrocampista Fernando Redondo. Batistuta brilla un po' meno rispetto all'edizione cilena, ma è comunque decisivo con la doppietta nella finale contro il Messico, squadra debuttante nella manifestazione e sorpresa positiva del torneo. Deludente invece il Brasile, che non arriva neppure tra le prime quattro. Fondamentale per il successo argentino anche il portiere Goycochea che conferma la sua abilità nel neutralizzare i calci di rigore, già mostrata in occasione dei Mondiali del 1990 contro Iugoslavia e Italia. Goycochea consente alla sua squadra di superare, proprio ai rigori, il Brasile, nei quarti, e la Colombia, in semifinale. Storico per il calcio venezuelano, il meno nobile del Sud America, il titolo di capocannoniere vinto con quattro reti da José Luis Dolgetta.
La Coppa America 1995 è invece targata Uruguay, paese organizzatore e vincitore del trofeo. Nella finale contro il Brasile, l'1-1 sul campo porta ai tempi supplementari e ai rigori, e la parata di Fernando Alvez sul tiro di Humberto Tulio regala la vittoria all'Uruguay. Sorprendente il quarto posto degli USA, che nel girone eliminatorio sconfiggono per 3-0 l'Argentina. La partecipazione dell'Argentina, allenata da Passarella, è assolutamente deludente: funziona solo la coppia d'attacco, con i tre gol di Balbo e i quattro di Batistuta.
Il 1997 vede il trionfo del Brasile di Ronaldo. Proprio in Bolivia, paese ospitante, si decide il trasferimento del centravanti brasiliano dal Barcellona all'Inter, per 50 miliardi di lire, ma Ronaldo non si lascia distrarre dalle voci di mercato. Trascina il Brasile, con ben cinque gol, alla vittoria e forma con Romário una coppia da sogno. In finale la Seleção batte per 3-1 i padroni di casa, chiudendo il torneo con sei vittorie in sei partite. Ancora una volta una nazionale 'invitata' si classifica tra le prime quattro: si tratta del Messico, terzo, che inoltre esprime, con Luis Hernández, il capocannoniere del torneo (sei gol). Delude invece il calcio rioplatense: l'Uruguay non arriva neppure ai quarti di finale, l'Argentina (che presenta una squadra sperimentale) è eliminata nei quarti dal Perù.
L'edizione del 1999, disputata in Paraguay, è ancora appannaggio del Brasile, che come due anni prima vince tutte e sei le partite e in finale supera per 3-0 l'Uruguay, con due gol di Rivaldo e uno di Ronaldo. Il portiere Nelson Dida, futuro milanista, incassa solo due gol, a centrocampo Emerson Ferreira da Rosa, futuro romanista, dirige le operazioni. Ma sono proprio Rivaldo e Ronaldo le stelle verdeoro e sono loro a vincere, con cinque reti, la classifica cannonieri: per Rivaldo è la definitiva consacrazione a livello internazionale, per Ronaldo il riscatto dopo i Mondiali francesi, per lui più ricchi di ombre che di luci. Ancora una volta positivo il rendimento del Messico, terzo classificato, e deludente quello dell'Argentina, in campo con molte riserve. Eliminata nei quarti dal Brasile, la Selección diretta da Marcelo Bielsa riesce a battere un record negativo: il 4 luglio il suo centravanti Martin Palermo sbaglia nella gara contro la Colombia (persa alla fine 3-0) tre calci di rigore.
Decisamente tormentata l'edizione 2001, organizzata in Colombia e in un primo tempo sospesa per motivi di ordine pubblico (minaccia di sequestri da parte di gruppi terroristici in guerra con lo Stato). Una volta deciso il regolare svolgimento, giunge però la defezione dell'Argentina, mentre Brasile e Uruguay si presentano con formazioni di secondo piano. Modesto quindi il contenuto tecnico, ma di rilievo la vittoria dei padroni di casa nella finale contro il Messico (decisivo il gol del difensore dell'Inter Ivan Cordoba per il primo successo della Colombia in una competizione internazionale) e il terzo posto dell'Honduras, invitato in extremis al posto dell'Argentina.
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Gold Cup CONCACAF
di Enzo D'Orsi
La Gold Cup è la più importante delle manifestazioni organizzate dalla CONCACAF (Confederación Norte-Centroamericana y del Caribe de Fútbol), la Confederazione nata nel 1961 con l'intento di dare nuovo impulso all'attività calcistica dell'America Centrale e Settentrionale, dove spiccava una sola nazione leader, il Messico. Nel nuovo organismo, di cui si fecero promotori proprio i messicani, confluirono la CCCF (Confederación Centroamericana y del Caribe de Fútbol), fondata nel 1938, e una Confederazione quasi coeva, la NAFC (North American Football Confederation), di cui facevano parte Stati Uniti, Cuba e Messico.
Sin dal 1962 la CONCACAF iniziò a organizzare una competizione per club, la Champions' Cup. Dal 1963, inoltre, sotto i suoi auspici si svolse un Campionato biennale per nazioni, che si ricollegava al Campionato organizzato dalla CCCF (di quest'ultimo si tennero dieci edizioni, dal 1941 al 1961, sette delle quali vinte dal Costa Rica). Il Campionato CONCACAF fu disputato cinque volte (vinto dalla Costa Rica nel 1963, dal Messico nel 1965, dal Guatemala nel 1967, dalla Costa Rica nel 1969, dal Messico nel 1971). Il Campionato si interruppe nel 1971, soprattutto a causa dello scarso interesse mostrato dal Messico.
La Gold Cup, che teoricamente dovrebbe avere cadenza biennale, è stata ideata nel 1991 sulle ceneri del Campionato CONCACAF. La prima edizione si è disputata a Los Angeles e vi hanno partecipato otto nazionali: tre provenienti dall'America Settentrionale (Canada, Stati Uniti e Messico), tre dall'America Centrale (qualificate attraverso la UNCAF Nations Cup) e due dalle Federazioni caraibiche (qualificate attraverso la Shell Caribbean Cup). Il successo è andato agli Stati Uniti, che hanno battuto l'Honduras per 4-3 ai rigori, dopo che i tempi regolamentari si erano conclusi con il punteggio di 0-0.
Nel 1993 gli Stati Uniti hanno raggiunto nuovamente la finale, ma sono stati sconfitti pesantemente, per 4-0, dal Messico, nello stadio Azteca di Città del Messico. Nel 1996 la competizione, disputata per la prima volta nella nuova collocazione invernale, è stata allargata a nove nazionali, con la partecipazione del Brasile, campione del mondo in carica, che aveva inviato una squadra under 23. Per la seconda volta consecutiva il torneo è stato vinto dal Messico, vincitore in finale sul Brasile (2-0, con reti di Luis Garcia e Blanco nella ripresa). Nel 1998 le squadre partecipanti sono diventate dieci, suddivise in due gruppi da tre e uno da quattro; passano alle semifinali le vincenti di ogni girone e la migliore seconda. Dopo aver eliminato il Brasile (1-0, con gol di Preki Radosavljevic), gli Stati Uniti nella finale al Memorial Coliseum di Los Angeles sono stati sconfitti dal Messico (1-0, con gol di Hernández, capocannoniere del torneo insieme al costaricano Wanchope). Una rete di Romário ha dato al Brasile la vittoria sulla Giamaica nella finale per il terzo posto.
Nel 2000 il torneo è stato ulteriormente allargato fino a comprendere 12 formazioni: oltre alle nove ammesse di diritto (tre, e non più due, per la zona caraibica), hanno partecipato Colombia, Corea del Sud e Perù, invitate per la prima volta. Le squadre sono state suddivise in quattro gruppi da tre, con passaggio ai quarti di finale per le prime due. È stato l'anno del Canada, che ha eliminato nei quarti il Messico, vincitore delle precedenti tre edizioni, e superato in finale la Colombia (2-0, con gol di De Vos e Corazzin, capocannoniere del torneo con quattro reti).
La stessa formula, con 12 squadre ammesse, è stata adottata anche per l'edizione 2002 disputata sempre negli Stati Uniti, dal 19 gennaio al 2 febbraio. Si sono qualificate Canada (campione in carica), Messico e Stati Uniti per l'America Settentrionale; Costa Rica, El Salvador e Guatemala per l'America Centrale; Cuba, Haiti, Martinica e Trinidad e Tobago per la zona caraibica. La finale disputata allo stadio Rose Bowl di Pasadena ha visto la vittoria degli Stati Uniti sulla Costa Rica per 2-0.
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Coppa d'Africa
di Filippo Maria Ricci
In 45 anni le 25 edizioni della Coppa d'Africa, dalla prima in Sudan nel 1957 a quella in Mali del 2002, hanno visto crescere il numero delle squadre partecipanti dalle tre del primo torneo alle sedici attuali. Nello stesso periodo, dai quattro membri fondatori nel 1957 della Confederazione africana (CAF) si è passati a 54 paesi africani membri della FIFA. La Coppa d'Africa è la storia del calcio africano, che si intreccia con quella del continente: con nomi delle nazionali modificati, paesi squalificati e riammessi, rinunce per motivi politici, nazioni organizzatrici che si sono tirate indietro perché soffocate da problemi molto più seri della realizzazione di stadi e alberghi.
Le prime basi per la creazione della CAF sono poste in occasione della Coppa del Mondo del 1954. Due anni dopo, nel giugno 1956, durante un congresso della FIFA a Lisbona, sette rappresentanti africani, tre del Sudan, tre dell'Egitto e uno del Sudafrica, si riuniscono nell'hotel Avenida e al termine dell'incontro fissano un appuntamento decisivo: nel febbraio del 1957 si ritroveranno a Khartoum, capitale del Sudan, per creare la CAF e lanciare la prima Coppa delle Nazioni. Puntualmente, venerdì 8 febbraio 1957, 13 delegati delle quattro nazioni all'epoca già affiliate alla FIFA (Egitto, Sudan, Etiopia e Sudafrica) si riuniscono a Khartoum e stilano lo statuto della CAF e il regolamento della Coppa delle Nazioni. Un orafo del Cairo forgia il primo trofeo, dedicato all'ingegnere egiziano Abdelaziz Abdallah Salem, primo presidente della neonata CAF. Il trofeo finirà nelle mani del Ghana nel 1978, dopo il terzo trionfo nella competizione, e sarà sostituito dal Trofeo dell'Unità Africana, dono del Consiglio Superiore dello Sport in Africa. La quota per partecipare alla Coppa delle Nazioni è fissata inizialmente in 15 lire egiziane. La formula è quella dell'eliminazione diretta, la periodicità biennale.
Il clima di armonia creatosi al Grand Hotel di Khartoum dura tuttavia assai poco. Il primo problema in agenda per la neonata CAF è rappresentato dal Sudafrica. La Confederazione vuole che alla Coppa delle Nazioni partecipi una squadra multirazziale. Di fronte alla risposta negativa di Pretoria, che intende schierare una formazione composta di soli bianchi, la CAF estromette il Sudafrica dalla competizione, che si riduce così a sole tre compagini (il Sudafrica tornerà a prendere parte a una fase finale della Coppa d'Africa soltanto dopo 39 anni, nel 1996). Egitto e Sudan vorrebbero dunque passare alla formula del girone all'italiana, ma l'Etiopia rifiuta: essendo stati sorteggiati per fronteggiare il Sudafrica, gli etiopi si considerano già in finale. La loro tesi prevale e così il 10 febbraio Egitto e Sudan disputano a Khartoum l'unica semifinale rimasta. Vince, per 2-1, l'Egitto, che il 16 febbraio 1957 sfida l'Etiopia nella prima finale del torneo. Il risultato è di 4-0 per gli egiziani, con tutti e quattro i gol segnati da Diab Mohamed El Attar, detto El-Diba. Undici anni dopo, conclusa la carriera di calciatore e intrapresa quella di arbitro, El-Diba dirigerà in Etiopia la finale tra Congo Kinshasa e Ghana.
Il 1957 è un anno fondamentale per l'Africa, non solo dal punto di vista calcistico. Guidato da Kwame Nkrumah, il Ghana conquista l'indipendenza dall'Inghilterra, dando un esempio che sarà seguito nei cinque anni successivi da quasi tutti gli Stati africani ancora soggetti al regime coloniale. La nazionale di calcio ghanese, nata nel 1959 ed erede dei successi già ottenuti con il nome di Gold Coast, avrà la missione di farsi portatrice dello stendardo del panafricanismo tanto caro a Nkrumah.
Il 1° febbraio 1958 Egitto e Siria annunciano la fusione dei due paesi nella Repubblica Araba Unita. Viene annunciato che sarà questa a organizzare la successiva Coppa delle Nazioni, nel 1959, e che vi parteciperanno otto paesi. Ma nel maggio 1959 allo stadio dell'Al Ahly del Cairo si ritrovano ancora le tre formazioni dell'edizione precedente: Egitto (ora RAU), Sudan ed Etiopia. Questa volta, però, il torneo si svolge con la formula del girone. I padroni di casa della RAU, pur schierando due soli elementi della squadra affermatasi due anni prima, rifilano nuovamente quattro gol all'Etiopia e poi affrontano il Sudan, che ha a sua volta sconfitto gli etiopi. L'Egitto, guidato dall'ungherese Titkos, gioca con il 'sistema WM', l'allenatore del Sudan, il cecoslovacco Jiri Starosta, utilizza il 4-2-4. Come due anni prima, l'Egitto vince 2-1. Il secondo gol di Issam, una spettacolare rovesciata, arriva solo all'89′. L'arbitro iugoslavo Guisebatic, dopo un'invasione di campo, ha il suo daffare per far giocare gli ultimi minuti dell'incontro.
L'organizzazione della terza edizione viene affidata all'Etiopia e, per permettere che i lavori allo stadio Haile Selassie di Addis Abeba siano completati, la Coppa delle Nazioni viene spostata al gennaio 1962. Nella fase finale l'Etiopia e l'Egitto sono affiancati da Tunisia e Uganda. Si gioca a 2500 m di altitudine, elemento che ha il suo peso nei successi dei padroni di casa. In finale si ritrovano Egitto ed Etiopia. I campioni in carica vanno due volte in vantaggio ma, raggiunti a 6 minuti dal termine, crollano nei tempi supplementari e incassano altri due gol. L'imperatore Haile Selassie consegna così la Coppa ai suoi compatrioti, che tra le loro fila annoverano, oltre al grande Worku Mengistou, i fratelli Luciano e Italo Vassalo.
La quarta edizione della Coppa viene disputata nel novembre 1963 in Ghana. In seguito a una proposta del delegato ghanese all'assemblea generale della CAF del 1962, la formula ha subito alcune modifiche e il torneo ha assunto la denominazione che porta ancora attualmente: Coppa d'Africa delle Nazioni (CAN). I partecipanti sono saliti a sei, divisi in due gironi da tre, con le squadre vincenti che si scontrano in finale. Le Black Stars del Ghana battono nettamente il Sudan (3-0) e il giorno seguente vengono ricevute e premiate da Kwame Nkrumah.
Nel 1965 l'appuntamento è in Tunisia. Nella consueta assemblea della CAF che precede il torneo, il dibattito si accende sulla possibilità o meno per le nazionali partecipanti alla Coppa d'Africa di schierare giocatori tesserati da club europei. Inizialmente prevale la tesi promossa dal Senegal e dall'Algeria, paesi che da anni vantano giocatori impegnati in Francia e sono per l'apertura totale. Ma nel 1967 la CAF nell'assemblea del Cairo cambierà idea, decidendo di permettere alle nazionali che partecipano alla Coppa d'Africa di schierare due soli 'espatriati', regola che rimarrà poi in vigore fino al 1982. A Tunisi il Ghana detentore del titolo si conferma campione, battendo in finale i padroni di casa per 3-2 ai tempi supplementari, dopo aver raggiunto il pareggio a 11 minuti dal termine. Bisognerà aspettare il 1978 per ritrovare il Ghana ai vertici del calcio continentale. Nel febbraio 1966 Kwame Nkrumah è destituito da un colpo di Stato militare e vengono allontanati anche i dirigenti che avevano contribuito alla creazione del mito di invincibilità delle Black Stars. Il Ghana arriva nuovamente alla finale della Coppa d'Africa nel 1968, ma perde 1-0 contro il Congo Kinshasa, un avversario che una settimana prima, nel girone, aveva battuto 2-1, dopo averlo sconfitto 5-2 nel 1965 e 3-0 fuori casa nel 1966. Nel 1970 il Ghana perderà nuovamente in finale contro il Sudan.
Un altro colpo di Stato, nel novembre 1965, porta al potere il colonnello Mobutu Sese Seko nell'ex Congo belga (l'odierna Repubblica Democratica del Congo, indipendente dal 1960, che dal 1971 al 1997 si è denominata Zaire). Mobutu ha grande influenza nella creazione di una nazionale che si avvia a raccogliere successi per quasi un decennio ed è molto attivo nel favorire la crescita della squadra: promuove un raduno tecnico in Brasile, un incontro amichevole con il Santos di Pelé nella capitale, Kinshasa, ed è un convinto fautore dell'arrivo dell'allenatore ungherese Ferenc Csanadi. Gli sforzi sono premiati già nel 1968, quando il Congo Kinshasa (così denominato per distinguerlo dall'altro Congo, che ha per capitale Brazzaville) conquista la Coppa d'Africa, battendo in finale il Ghana. Mobutu decora i giocatori con una medaglia d'oro per meriti sportivi. L'edizione del 1968 è la prima alla quale prendono parte otto squadre, un numero che non subirà variazioni fino al 1992.
La Coppa d'Africa del 1970 è affidata alla RAU, ma la guerra scoppiata nel 1967 con Israele costringe il paese a rinunciarvi. L'organizzazione passa così al Sudan. I padroni di casa si impongono battendo il Ghana in una finale contestata. L'arbitro, l'etiope Tesfaye, all'esordio in questo ruolo dopo aver partecipato al torneo da giocatore nel 1959, 1962 e 1963, concede un gol dubbio a El Issed, e si salva dalla rabbia dei ghanesi soltanto grazie all'intervento della polizia. Il Ghana diserta la cerimonia di premiazione e la notte stessa i giocatori sono espulsi dal paese.
Nel 1972 a imporsi è il Congo Brazzaville (Repubblica del Congo). Si tratta di una vittoria a sorpresa, dopo che il passaggio in semifinale è ottenuto per sorteggio, a discapito del Marocco, pari al Congo in classifica, alle spalle dello Zaire. In semifinale il Congo sorprende i padroni di casa del Camerun, e in finale batte per 3-2 l'altra grande rivelazione del torneo, il Mali di Salif Keita, primo Pallone d'oro africano, nel 1970.
Il 1974 è l'anno dello Zaire, che in Egitto si impone grazie ai 9 gol segnati da Mulamba Ndaye, record tuttora ineguagliato. Lo Zaire batte la Zambia (2-0) nell'unica finale della storia della Coppa che sia stata ripetuta, dopo il pareggio (2-2) della prima gara. Nello stesso anno lo Zaire parteciperà ai Mondiali di Germania, incappando in tre pesanti sconfitte.
L'edizione del 1976 è da ricordare soprattutto per il cambio di formula adottato dalla CAF: non più semifinali e finali, ma un ulteriore girone all'italiana tra le prime due qualificate della prima fase. Ad Addis Abeba si impone per la prima volta il Marocco, grazie a un gol di Baba a 4 minuti dal termine dell'ultima gara, disputata contro la grande favorita del torneo, la Guinea.
Due anni dopo il Ghana, che si è preparato in Brasile ed è guidato dal tecnico locale Fed Osam Duodu, diplomatosi all'istituto per allenatori di Rio de Janeiro, batte in casa il sorprendente Uganda di Philip Omondi. Fra i giocatori si mettono in luce Abdul Razak e Mohammed Ahmed detto 'Polo'. Tutti e due al termine del torneo firmeranno lucrativi contratti con club arabi.
La vittoria del Ghana nel 1978 dà inizio a un periodo di prevalenza delle nazionali dell'Africa occidentale. Nel 1980 si impone la Nigeria (che in casa batte l'Algeria per 3-0), nel 1982 in Libia di nuovo il Ghana (guidato dal giovanissimo Abedi Pelé), nel 1984 e nel 1988 il Camerun, due vittorie inframmezzate da un secondo posto nel 1986 in Egitto, alle spalle dei padroni di casa. Dopo aver vinto nel 1980, la Nigeria si classifica seconda nel 1984 e nel 1988, e nuovamente nel 1990 ad Algeri, dove è prima l'Algeria.
Dal 1982 le nazioni che partecipano alla Coppa d'Africa sono libere di convocare un numero illimitato di giocatori tesserati all'estero. Il numero di 'professionisti' ‒ come vengono chiamati in Africa i calciatori militanti in squadre non africane ‒ comincia, infatti, a essere troppo elevato per non rivedere una regola vecchia di 15 anni. È il primo passo verso la modernizzazione del torneo. La presenza di giocatori affermatisi nei club europei favorisce l'interesse del resto del mondo nei confronti della competizione, interesse che cresce soprattutto negli anni in cui la Coppa d'Africa precede il Mondiale. È anche l'inizio delle polemiche, che si protraggono ancora oggi, tra i club europei e le nazionali africane in merito all'utilizzo dei giocatori. Per risolvere almeno parzialmente la questione, la CAF nel 1996 deciderà di anticipare la competizione da marzo a gennaio, mese in cui diversi Campionati europei sono fermi per la pausa invernale.
Nel 1992 le squadre ammesse alla fase finale del torneo diventano 12, mentre il numero sempre crescente di Federazioni che chiedono di partecipare alla competizione costringe la CAF a organizzare gironi di qualificazione. La fase finale viene disputata in Senegal e vede la vittoria della Costa d'Avorio. Nell'edizione successiva, quella del 1994 in Tunisia, la Coppa torna invece per la seconda volta alla Nigeria.
L'Africa ha un solo rappresentante ai Mondiali fino al 1982, diventano due nel 1986, tre nel 1990 e cinque nel 1998, quando il Mondiale viene allargato a 32 partecipanti. La Coppa d'Africa si adegua. Nel 1996, nell'edizione organizzata dal Sudafrica, subentrato al Kenya frenato da problemi strutturali, le nazioni ammesse alla fase finale sono 16, ma uno scontro politico tra Nigeria e Sudafrica porta al ritiro della nazionale nigeriana e così la competizione si disputa orfana di un elemento. La vittoria va ai padroni di casa.
L'esordio della formula a 16 squadre è rimandato di due anni, in Burkina Faso, dove il trofeo è conquistato dall'Egitto, che così raggiunge con quattro vittorie il Ghana in testa alla classifica delle squadre più volte vincitrici.
Nel 2000 la CAF, sull'esempio di quanto fatto dalla UEFA con Belgio e Olanda per gli Europei del 2000 e dalla FIFA con Giappone e Corea per i Mondiali 2002, affida, pur tra mille polemiche, l'organizzazione della competizione a due paesi confinanti, Nigeria e Ghana, dopo che ancora una volta il paese designato, questa volta lo Zimbabwe, è stato destituito per non aver rispettato i tempi previsti. Nella finale giocata a Lagos il Camerun batte la Nigeria ai rigori, dopo che l'incontro si è chiuso sul 2-2.
Nell'edizione del 2002, svoltasi in Mali, si conferma campione il Camerun che supera ai rigori il Senegal (tempi regolamentari e supplementari si sono chiusi a reti inviolate). Il Camerun raggiunge così Ghana ed Egitto nella classifica delle squadre più volte vincitrici. Per il Senegal si è trattato della prima finale nel torneo, dopo essere stato semifinalista nel 1965 e nel 1990.
Attualmente nelle nazionali che partecipano alla Coppa d'Africa la percentuale di 'espatriati' è superiore al 50% e vi sono alcune formazioni in cui l'intera rosa dei 22 giocatori è composta da tesserati da club non africani. L'interesse dei media soprattutto europei verso il torneo è enormemente cresciuto, anche in seguito ai trionfi di Nigeria e Camerun nelle Olimpiadi del 1996 e del 2000, ulteriore testimonianza degli ottimi livelli raggiunti dal calcio africano.
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Coppa d'Asia
di Enzo D'Orsi
La Coppa d'Asia è la più antica e senza dubbio la più prestigiosa competizione internazionale in seno all'AFC (Asian Football Confederation), che la inaugura nel 1956, due anni dopo il proprio atto di fondazione, concependola sin dall'inizio come un Campionato per squadre nazionali. La prima edizione viene assegnata a Hong Kong, che è tra i primi soci dell'AFC. Gli ospiti entrano di diritto nella fase finale, identica sorte tocca agli israeliani per il fatto che Afghanistan e Pakistan, inseriti nello stesso girone di qualificazione, rifiutano di affrontarli. Si qualificano anche la Corea del Sud e il Vietnam del Sud. Il regolamento prevede a questo punto un girone unico tra le quattro squadre qualificate. La gara più attesa è quella dell'8 settembre 1956 tra Corea del Sud e Israele, che si incontrano al Government Stadium di Hong Kong: vincono i coreani 2-1, con gol di Woo Sang-Koon e Soung Rak-woon (il gol della bandiera israeliano è di Stelmach).
Subito emergono quelli che saranno due motivi dominanti nella storia del calcio asiatico: il primo, di natura politica, riguarda i problemi di convivenza che la situazione di Israele (e in una certa misura di Taiwan) pone all'interno della Confederazione; il secondo, prettamente tecnico, è legato al predominio della Corea del Sud, condiviso con l'Iran e più tardi con l'Arabia Saudita. Ne è prova il bis alla Coppa del 1960, organizzata in casa. Il numero delle squadre partecipanti è cresciuto da 7 a 11, ma la formula della fase finale rimane la stessa e non cambierà sino al 1972 (quando sarà introdotto un sistema più complesso, consistente in due gironi al primo turno e scontri diretti dalle semifinali in poi). Alla fase finale dell'edizione coreana partecipano Corea del Sud, Israele, Vietnam del Sud e Taiwan. La gara decisiva, come nella edizione precedente, sarà quella tra Corea del Sud e Israele, che stavolta soccombe con un bilancio passivo più pesante (3-0). Nella circostanza l'Hyochang Park di Seul è invaso da una folla doppia rispetto alla sua effettiva capienza (che è di 20.000 posti) e a metà partita il primo ministro è costretto a lasciare lo stadio per motivi di sicurezza.
Nel 1964 la Coppa d'Asia subisce un'involuzione di gioco ma non di interesse, visto il buon seguito di tifosi a Gerusalemme, Jaffa e Ramat Gan, le tre città israeliane che ospitano la terza edizione. La scelta di Israele non è facile, anche alla luce delle violenti polemiche esplose ai Giochi asiatici indonesiani. Il successo dei padroni di casa è favorito anche dal disimpegno della Corea del Sud, la cui Federazione trattiene i migliori giocatori in vista di una gara di qualificazione olimpica contro il Vietnam del Sud.
Se la tripletta sfugge ai coreani, nell'impresa riuscirà l'Iran, la cui nazionale è protagonista di una crescita costante negli anni Sessanta. Nel 1966 appare nella finale dei Giochi asiatici, due anni dopo conquista la prima Coppa d'Asia, vincendo tutte le gare, tra cui quella con la Birmania (3-1 a Teheran, doppietta di Kalani e terzo gol di Bahzadi). È soltanto il primo atto di una sequela di successi: sino al 1976 l'Iran continuerà a vincere infatti tutte le partite di questa manifestazione, ribadendo nel 1972 la sua superiorità sulla Corea del Sud (2-1 nella finale di Bangkok, a segno Jabary e Khalani per gli iraniani, Lee Whae-taek per la Corea) e fermando quattro anni dopo l'avanzata del Kuwait (1-0 a Teheran; terza finisce la Cina).
L'exploit del Kuwait non è casuale. In quegli stessi anni le nazioni arabe del Medio Oriente cominciano a investire nel calcio i 'petroldollari' ricavati dalle esportazioni di greggio. L'occhio di riguardo della FIFA, sempre sensibile alle potenzialità economiche dei suoi affiliati, e l'invasione di tecnici stranieri, allettati dai lauti ingaggi, producono i primi sensibili risultati alla fine degli anni Settanta. Nel 1980 la Coppa d'Asia finisce appunto al Kuwait, che tra l'altro è il paese organizzatore di quell'edizione: i tre gol inflitti alla Corea del Sud in finale non lasciano dubbi sulla legittimità del titolo. La finalina per il terzo posto va all'Iran (3-0 sulla Corea del Nord).
Si inaugura poi il ciclo dell'Arabia Saudita, che conquista le due successive edizioni. Nel 1984 la fase finale è ospitata da Singapore: nelle semifinali l'Arabia Saudita ha la meglio sull'Iran ai calci di rigore (5-4, dopo l'1-1 nei tempi regolamentari), mentre la Cina sorprende il Kuwait (1-0). Il successo dell'Arabia nella finale al National Stadium si deve ai gol di Shaye Nafisah e Majed Abdullah. Nel 1988 si gioca in Qatar e l'Arabia Saudita conquista il trofeo dopo una combattutissima partita contro la Corea del Sud, decisa ai rigori (4-3). Nel 1992, decima edizione della Coppa d'Asia, l'Arabia arriva alla finale per la terza volta consecutiva, ma deve fare i conti con la nascita di una nuova realtà calcistica, il Giappone, che ha il vantaggio di ospitare la competizione e il merito di sfruttare il fattore campo. Al Park Main Stadium di Hiroshima i sauditi sono battuti per 1-0 (gol di Takagi).
L'Arabia però quattro anni dopo si riprenderà il titolo battendo, ancora una volta ai rigori (4-2), i padroni di casa degli Emirati Arabi Uniti. Nel 2000 il calcio torna in Libano, dopo gli anni rovinosi della guerra. L'Arabia conquista la quinta finale di fila ma cede nuovamente al Giappone, il cui successo per 1-0 è siglato da Shigeyoshi.
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di Enzo D'Orsi
Il Campionato Mondiale under 20 (FIFA world youth tournament) è stato istituito dalla FIFA nel 1977, su progetto del presidente João Havelange. A cadenza biennale, il torneo ha visto fino al 1995 la partecipazione di 16 squadre; dal 1997 il numero è salito a 24. Dopo esordi abbastanza modesti, la competizione è andata guadagnandosi un interesse sempre crescente ed è ora un avvenimento di rilievo, seguito da un largo pubblico e dai media di tutto il mondo. La sede varia a ogni edizione e soltanto l'Australia è stata paese ospitante due volte (1981 e 1993).
Il primo Campionato, disputato in Tunisia, è nel segno dell'URSS. La selezione sovietica, nel girone eliminatorio, precede di un punto il Paraguay e guadagna le semifinali, insieme a Messico, Uruguay e Brasile. Per la conquista del titolo contano anche freddezza e buona sorte: sia nella partita contro l'Uruguay sia nella finale con il Messico risultano decisivi i calci di rigore. I tiri dal dischetto sono favorevoli all'URSS anche nella successiva edizione giapponese, quando supera nei quarti di finale il Paraguay. La vittoria sulla Polonia vale ai sovietici la seconda finale consecutiva, ma il trofeo va all'Argentina, che si impone con un secco 3-1. Della formazione argentina fanno parte Diego Maradona e Ramón Diaz.
Nel 1981, in Australia, la Germania Ovest si aggiudica il titolo, travolgendo in finale (4-0) un sorprendente Qatar. Due anni più tardi, in Messico, il Brasile è campione vincendo di misura (1-0) sui rivali storici dell'Argentina. Nel 1985, in Unione Sovietica, i brasiliani replicano, superando in finale la Spagna (1-0 dopo i tempi supplementari). Nel 1987, in Cile, la finale è tutta europea: Germania Ovest e Iugoslavia chiudono sull'1-1 e i calci di rigore sono fatali ai tedeschi. Il 1989 è l'anno del Portogallo, che in Arabia Saudita elimina Colombia e Brasile prima di battere (2-0) la Nigeria in finale. I portoghesi sono di nuovo campioni nel 1991, sfruttando il fattore campo: la squadra di Figo e Rui Costa batte il Brasile di Roberto Carlos e Elber (4-2 dopo i calci di rigore necessari per sbloccare lo 0-0). I brasiliani si rifanno in Australia due anni dopo (2-1 sul Ghana, gol decisivo di Gian a 2 minuti dal termine), mentre nel 1995 in Qatar devono accontentarsi del secondo posto: trionfa l'Argentina per 2-0, con gol di Biagini e Guerrero. Il derby sudamericano si ripete ai quarti di finale del Mondiale 1997, in Malesia: vincono ancora i biancocelesti di Peckerman, che superano poi Irlanda e Uruguay, conquistando il loro terzo titolo. Nel 1999 la fase finale si disputa in Nigeria: in finale approdano Spagna e Giappone e vince senza problemi (4-0) la squadra di Saez Ruiz.
Nel 2001 trionfa ancora l'Argentina, che organizza la manifestazione, battendo nettamente il Ghana (3-0) a Buenos Aires; Javier Saviola segna la sua undicesima rete, record assoluto nella storia del Mondiale under 20.
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I Campionati under 23 sono istituiti dalla UEFA nel 1970, in sostituzione della Challenge Cup under 23, di cui dal 1967 al 1970 si erano disputate otto partite, quattro vinte dalla Bulgaria, le altre quattro dalla Iugoslavia. L'organizzazione del nuovo Campionato è la stessa di quello delle rappresentative assolute, e di fatto le gare di qualificazione, con la fase eliminatoria, accompagnano, spesso anticipandoli di un giorno, gli incontri della selezione maggiore. Il primo torneo, cui partecipano 23 formazioni suddivise in otto gironi, prende l'avvio il 6 ottobre 1970 e si conclude il 30 giugno 1972 con la vittoria della Cecoslovacchia, che nella doppia finale prima pareggia 2-2, poi batte l'URSS 3-1. Nelle semifinali i cecoslovacchi avevano superato la Grecia, i sovietici liquidato la Bulgaria. Deludente il cammino dell'Italia, uscita nella fase eliminatoria.
Alla seconda edizione del torneo UEFA under 23 sono iscritte 20 squadre, suddivise in 8 gruppi. È ancora il calcio dell'Est a dominare la scena. A metà maggio del 1974 l'Ungheria perde contro la Germania Est la finale d'andata a Dresda per 3-2, ma due settimane dopo, a Budapest, conquista il trofeo con un netto 4-0. Per l'Italia ancora una prestazione modesta, benché la partecipazione sia più dignitosa rispetto all'esordio. Gli azzurri passano infatti il primo turno eliminatorio, ma vengono fermati nei quarti di finale dalla Germania Est, con una doppia sconfitta (0-1 e 1-2).
Nella terza edizione, quella del biennio 1974-76, delle 24 squadre iscritte in gara ne restano solo 23, a causa del ritiro dell'Irlanda. Continua il predominio delle squadre dell'Est, mentre l'Italia subisce un'ennesima delusione, non riuscendo neppure a superare il turno delle qualificazioni. Iugoslavia e Olanda vengono eliminate nelle semifinali rispettivamente da Ungheria e URSS, che si affrontano nella finalissima: la vittoria tocca ai sovietici, grazie a un pareggio (1-1) all'andata e alla vittoria (2-1) nel secondo incontro.
Nel biennio 1976-78 l'UEFA introduce un'importante innovazione: il torneo under 23 viene sostituito con una nuova competizione riservata alle 'speranze' dell'under 21. Ventiquattro nazioni aderiscono alla manifestazione, che si disputa parallelamente al Campionato Mondiale e a quello Europeo, nell'arco di due anni. Cambia l'età dei partecipanti, ma sono ancora le squadre dell'Est europeo a dominare. L'Italia si ferma ai quarti di finale, trovando nell'Inghilterra un ostacolo insormontabile. In semifinale gli inglesi si arrendono alla Iugoslavia, mentre la Germania Est supera la Bulgaria. Nella finalissima, gli slavi conquistano il torneo, con una vittoria di misura (1-0) nell'andata e un pareggio (4-4) al ritorno: è dunque loro il primo titolo UEFA 'Speranze under 21'.
Due anni dopo, nel biennio 1978-80, le formazioni in lizza sono 25, suddivise in otto gironi eliminatori. In finale, confermando una netta superiorità manifestata in tutti gli anni Settanta, si ritrovano due squadre dell'Est europeo, Germania Est e URSS. La vittoria premia i sovietici, che con un solo gol, dopo il pareggio senza reti dell'andata, si aggiudicano la finale di ritorno. L'Italia ha una piccolissima consolazione: essere stata eliminata nei quarti dai futuri vincitori del torneo.
Alla terza edizione della manifestazione, in programma nel biennio 1980-82, parallelamente alle qualificazioni per il Campionato del Mondo, partecipano 26 nazioni. Le vincenti degli otto gironi eliminatori si affrontano, dai quarti di finale in poi, a eliminazione diretta, con gare di andata e ritorno. Il Campionato registra, se non proprio un'inversione di tendenza, una significativa novità: in semifinale è presente soltanto una squadra dell'Est, oltre a due britanniche e alla Germania Occidentale. Nelle semifinali, l'Inghilterra si afferma sulla Scozia, mentre la Germania batte l'URSS in due partite dal risultato nettissimo: 4-3 e 5-0. Gli inglesi si aggiudicano il torneo, alla fine di una doppia, equilibratissima finale: l'Inghilterra vince l'andata (3-1) e perde il ritorno (2-3).
Con il passare degli anni il numero delle nazioni partecipanti tende a crescere. Nel biennio 1982-84, quello che accompagna la qualificazione ai Campionati Europei, le formazioni iscritte sono 30, sempre suddivise in otto gironi eliminatori. Stavolta la supremazia è delle squadre occidentali: nelle semifinali, l'Italia è battuta dall'Inghilterra, la Iugoslavia dalla Spagna. In finale, gli inglesi sono di nuovo campioni, imponendosi sia all'andata sia al ritorno (1-0 e 2-0).
La quinta edizione, in programma tra il 1984 e il 1986, vede la rivincita della Spagna, che dopo essersi avvicinata alla vittoria nell'edizione precedente, si aggiudica la manifestazione battendo l'Italia. Gli azzurri, comunque, sono finalmente protagonisti di una grande prestazione. La squadra allenata da Azeglio Vicini perde solo ai calci di rigore: gli spagnoli ne segnano tre, gli italiani ne sbagliano altrettanti.
Sono di nuovo 30 le nazioni che prendono parte alla sesta edizione, quella del biennio 1986-88. Nell'albo d'oro segna il suo nome la Francia, che in finale batte la Grecia piuttosto agevolmente (3-0), dopo aver pareggiato senza reti l'andata. Era stata la Francia stessa a eliminare l'Italia nei quarti di finale.
L'edizione che accompagna le qualificazioni ai Mondiali di Italia 1990 vede le ultime vittorie delle formazioni dell'Est europeo: l'URSS iscrive per la terza volta il proprio nome nell'albo d'oro, battendo in entrambe le gare di finale (4-2 e 3-1) la Iugoslavia, che in semifinale aveva eliminato l'Italia con due pareggi.
Dal 1992 l'Europeo under 21 serve anche come qualificazione alle Olimpiadi. È l'Italia di Cesare Maldini a conquistare il titolo in quell'ottava edizione del torneo: si afferma contro la Svezia in finale (2-0 e 0-1), dando l'avvio a una serie di risultati positivi. Gli azzurri, infatti, si confermano campioni nel 1994, sbaragliando la concorrenza nella nona edizione, nella quale viene introdotta la fase finale a quattro squadre, con finalissima unica. Nell'ultima partita gli azzurri vincono sul Portogallo, grazie al 'golden gol' di Orlandini, che pone fine ai tempi supplementari. Occorre ricordare che in semifinale la squadra italiana, benché in inferiorità numerica, aveva resistito alla Francia, che giocava davanti al pubblico amico, conquistando l'accesso in finale ai rigori.
Per l'edizione 1994-96 sono 44 le squadre partecipanti, un record. Per la terza volta consecutiva, impresa mai riuscita ad altri, l'Italia di Maldini conquista il titolo. A Barcellona, pur in doppia inferiorità numerica, batte la Spagna ai rigori, grazie alla bravura di Pagotto, che ne para due.
Gli spagnoli si rifanno nel torneo 1996-98, che vede iscritte 46 formazioni. Deludente la prestazione degli azzurri, eliminati prima ancora della fase finale, che si disputa in Romania. La Spagna batte in finale con il massimo sforzo e il minimo risultato la Grecia.
Per l'Italia si tratterà di attendere soltanto un altro biennio, perché nell'edizione 1998-2000, questa volta con Tardelli in panchina, gli azzurri si laureano campioni per la quarta volta, su dodici edizioni. In Slovacchia, infatti, l'Italia supera in finale la Repubblica Ceca, conquistando anche il diritto a partecipare alle Olimpiadi di Sydney.
Nella fase finale dell'edizione 2000-02, disputata in Svizzera, l'Italia, guidata da Claudio Gentile, è stata fermata in semifinale dalla Repubblica Ceca, poi vincitrice del torneo. La finale, contro la Francia, si è risolta ai rigori.
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di Enzo D'Orsi
Il primo Campionato Mondiale femminile si gioca in Cina nel 1991. Le nazionali iscritte sono 12, la squadra di casa e gli Stati Uniti condividono i favori del pronostico. Alla partita inaugurale, Cina-Norvegia, assistono 65.000 spettatori: è il primo segnale del successo che accompagnerà l'intera manifestazione. Partecipa anche l'Italia, che il commissario tecnico Sergio Guenza ha costruito sul blocco della Reggiana: le azzurre debuttano a Jiangmen contro Taiwan, imponendosi per 5-0, e Carolina Morace mette a segno una tripletta. L'attaccante è decisiva anche nella gara successiva con la Nigeria: l'1-0 garantisce il passaggio di turno, anche se il girone si chiude con la sconfitta contro la Germania. I sogni, però, finiscono nei quarti contro la Norvegia: un rigore della Svensson nel secondo tempo supplementare (2-2 il risultato al termine dell'incontro) porta in semifinale le norvegesi, che battono la Svezia e sono dunque finaliste con gli USA. Il trofeo va alle statunitensi (2-1), ma è l'intero movimento calcistico femminile a festeggiare: sull'onda del Mondiale, in pochi anni, il numero delle calciatrici nel mondo arriva a superare quota 50 milioni.
Il successo ottenuto convince i vertici FIFA a insistere: il presidente João Havelange annuncia che i Mondiali femminili avranno scadenza quadriennale. Gli Stati Uniti sono fra i principali candidati per l'organizzazione, ma avendo già avuto l'assegnazione dei Mondiali maschili del 1994 e delle Olimpiadi del 1996, devono cedere il passo a una nazione europea. Nel 1995 tocca dunque alla Svezia, paese dalle forti tradizioni sportive: formula invariata, 12 nazionali divise in 3 gironi, manca l'Italia estromessa dalla Norvegia in un doppio spareggio preliminare. Ai quarti vengono promosse Germania, Inghilterra, Svezia, Cina, Giappone, Stati Uniti, Norvegia e Danimarca. La Norvegia è l'unica a punteggio pieno dopo aver superato Nigeria, Inghilterra e Canada, segnando 17 reti senza subirne alcuna. È la prova di una supremazia schiacciante, coronata dalla vittoria finale sulla Germania (2-0). Le statunitensi cedono in semifinale proprio alle norvegesi (0-1), mentre le svedesi padrone di casa si fermano ai quarti con la Cina (3-4 ai calci di rigore).
Nel 1999 il Mondiale approda negli USA, dove il calcio, con oltre 6 milioni di praticanti, è lo sport femminile più diffuso. Riappare l'Italia, che vince il girone di qualificazione europeo davanti a Finlandia, Francia e Svizzera. Le azzurre vengono inserite in un girone di ferro con la Germania, campione d'Europa, il Brasile, migliore squadra del Sudamerica, e il Messico. Il commissario tecnico è Carlo Facchin, che raccoglie l'eredità di Sergio Vatta. Le squadre iscritte sono 16, i raggruppamenti quattro, è previsto che le otto classificate ai quarti accedano alle Olimpiadi 2000. Stadi pieni e dirette tv sintetizzano l'entusiasmo per l'evento. Nella sfida inaugurale di New York la nazionale statunitense, trascinata da Mia Hamm, travolge la Danimarca (3-0): sugli spalti 78.972 spettatori paganti. L'Italia esordisce con la Germania a Pasadena, nello stesso stadio dove la squadra di Sacchi aveva perso nel 1994 la Coppa del Mondo: finisce con un buon pareggio (1-1), sembra il primo passo di un facile cammino, invece la seconda gara con il Brasile riserva una grande delusione: l'Italia fallisce un rigore con la Carta, si vede annullare un gol della Panico, cede a due gol della centravanti Sissi. La successiva vittoria contro il Messico non basta a passare il turno. Ai quarti la Germania si arrende agli Stati Uniti, il Brasile supera la Nigeria, per essere poi bloccato in semifinale dagli Stati Uniti. Alla finale prendono parte gli USA e la Cina, vittoriosa (5-0) sulla Norvegia. Il Rose Bowl di Pasadena è affollato da oltre 90.000 persone, fra gli spettatori c'è anche Bill Clinton, le ragazze di Di Cicco conquistano il secondo Mondiale insieme ai talk show e alle copertine dei giornali. Occorrono i calci di rigore, dopo 120 minuti di battaglia senza gol: decidono Briana Scurry, che para il tiro della Liu, e Brandi Chastain, che firma il rigore della vittoria e festeggia sfilandosi la maglia: la sua corsa gioiosa, in reggiseno nero, diventa il simbolo di USA '99. La fase finale dell'edizione 2003 dei Mondiali femminili si svolgerà in Cina.
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Il primo Campionato Europeo femminile viene istituito nel 1982, a tre anni di distanza da un'edizione non ufficiale giocata in Italia nel luglio 1979 e vinta dalla Danimarca (finale Danimarca-Italia 2-0). La fase finale dell'Europeo femminile 1984, disputata dopo due anni di qualificazioni, è vinta dalla Svezia che supera l'Inghilterra ai rigori (4-3). L'Italia risulta terza, quarta la Danimarca. Le azzurre ottengono lo stesso piazzamento nell'edizione del 1987 a Oslo: vincono il girone di qualificazione che le oppone a Spagna, Svizzera e Ungheria, ma nella fase finale sono sconfitte (0-2) dalla Norvegia, successivamente vittoriosa in finale contro la Svezia (2-1). Nel 1989 trionfa la Germania Ovest, padrona di casa, davanti alla Norvegia battuta per 4-1. L'Italia è quarta, preceduta dalla Svezia. La medesima gerarchia si ripropone pressoché identica due anni dopo in Danimarca: unica novità, la nazionale danese terza in luogo della Svezia, eliminata proprio dalle azzurre nei quarti (1-1 a Malmö, 0-0 a Castellammare di Stabia).
Il salto di qualità azzurro arriva nel 1993 con un brillante secondo posto. L'Italia rinnova la tradizione che la vuole presente tra le big four eliminando l'Inghilterra sconfitta due volte (3-2 a Solofra, 3-0 a Totherham), supera la Germania in semifinale a Rimini (5-4 ai calci di rigore), cede di misura alla Norvegia (0-1, gol della Hegstad) nella finale disputata a Cesena. Nel 1995, battute ai quarti proprio dalle scandinave, le azzurre, per la prima volta, vengono escluse dalla fase finale: vince la Germania davanti a Svezia, Norvegia e Inghilterra. Le italiane si prendono la rivincita nel 1997: sulle ali dell'entusiasmo per una brillante qualificazione (superate Norvegia, Germania e Danimarca), raggiungono la finale con la Germania. Come nel 1993, tuttavia, la squadra deve contentarsi dell'argento: a Oslo Minnert e Prinz, con un gol per tempo, spazzano via i sogni di gloria. L'edizione 2001 sfocia in un'eliminazione clamorosa: l'Italia batte la Danimarca e impatta con la Norvegia, può bastarle un pareggio con la Francia per guadagnare le semifinali e invece, a Ulm, arriva una sconfitta dolorosa (2-0): la differenza reti manda avanti la Norvegia. Sul podio più alto sale la Germania, vittoriosa in finale contro la Svezia, grazie al golden gol di Claudia Müller.
Due italiane entrano di diritto tra le più grandi calciatrici di ogni tempo. La prima è Carolina Morace, attuale commissario tecnico della nazionale, vincitrice di 12 scudetti, 153 presenze e 105 reti in nazionale, due volte vicecampione d'Europa, eletta miglior giocatrice del mondo nel 1995 e giudicata tra le migliori quattro del secolo dall'International federation of soccer history. Tra i suoi momenti più belli vanno ricordate le prodezze compiute a Wembley nel 1992 nella partita di qualificazione per gli Europei Inghilterra-Italia (0-3) e il breve periodo in cui ha allenato la squadra maschile professionistica del Viterbo. Il grande simbolo del calcio femminile italiano rimane tuttavia Elisabetta 'Betty' Vignotto: 461 partite in serie A e 467 reti, 109 presenze e 107 gol in azzurro.
Meglio della Vignotto, nel rapporto partite giocate-gol realizzati con la maglia della propria nazionale, ha fatto solo Mia Hamm, regina del calcio statunitense e probabilmente del mondo. Nata a Burke, in Virginia, ha scoperto la passione per il calcio in Italia, dove ha vissuto due anni, diventando tifosa della Fiorentina. Tra le americane meritano una citazione anche Brandi Chastain, autrice del rigore decisivo che ha assegnato agli USA il Mondiale del 1999, e soprattutto Michelle Akers, la donna più decorata nella storia del calcio femminile, medaglia d'oro alle Olimpiadi del 1996 e due volte campione del mondo.
In Europa, deve essere ricordata Heidi Mohr, nata a Niederkirkhen. Messasi in luce nel 1990 con 36 gol in 18 partite del Campionato tedesco (sette in una sola gara) è la stella della Germania. Una menzione meritano anche la svedese Gunnilla Paijkull e la canadese Sylvie Pelivean, non a caso scelte per guidare la formazione femminile del 'Resto del Mondo' che ha sfidato la nazionale americana nella festa inaugurale del Mondiale statunitense. L'unica italiana in campo era Manuela Tesse, chiamata al posto del capitano azzurro Antonella Carta, infortunata.
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