CALCIO - IL PIANETA CALCIO
Calcio- Il Pianeta
di Giorgio Tosatti
Il calcio moderno, nato in Inghilterra e diffuso dai suoi figli in Europa e Sud America, ha attecchito rapidamente in queste zone del mondo grazie a tre caratteristiche: la semplicità delle norme, la facilità organizzativa (in fondo basta una palla), il divertimento dato dal praticarlo. Un gioco più che uno sport, un esercizio di abilità e di intelligente cooperazione, una forte componente agonistica a renderlo stuzzicante. Ma senza l'obbligo di possedere qualità fisiche eccezionali, indispensabili per emergere negli sport di prestazione o in alcuni giochi di squadra. Senza il fastidio di sottoporsi ad allenamenti intensi, metodici, maniacali, noiosi. Il calcio è per anni un passatempo in cui la bravura nel colpire il pallone e l'intesa fra compagni fanno aggio su tutto, comprese le doti atletiche. Chiunque può accostarvisi con la speranza di fare buona figura, pur non avendo né la potenza, né la velocità, né la resistenza necessarie per emergere in altre discipline. Conta la tecnica nel controllare l'attrezzo e nel liberarsi degli avversari, la destrezza più della forza.
Nella prima fase del suo sviluppo il calcio è essenzialmente un gioco con queste caratteristiche, anche se ogni paese lo veste con la propria cultura, con la propria indole. In Europa - da cui l'Inghilterra si tiene lontana, isolata nella sua superiorità - spicca la scuola danubiana, tecnicamente eccellente e ben organizzata da allenatori che cominciano a studiare la complessità del gioco. Nel Sud America, il calcio fiorisce sulle rive del Rio de la Plata, dove gli uruguayani ne danno un'interpretazione più concreta e difensiva mentre gli argentini esaltano la raffinatezza tecnica e l'individualismo. In pochi anni emergono altre scuole sui cui si basa la storia di questo sport, prima fra tutte quella brasiliana in cui si sposano la ricchezza atletica di una società multietnica, una maestria tecnica imparata da ragazzini nelle strade e sulle spiagge, e poi una concezione musicale e carnevalesca del gioco, visto come festa, allegria. In Europa si fanno rapidamente largo la scuola italiana (un misto di concretezza paesana e di genialità) e tedesca (potenza atletica, razionalità, fortissimo spirito di corpo). Ma quasi ogni parte del Vecchio Continente esprime un calcio di buon valore: dall'Ungheria (che tocca negli anni Cinquanta il livello forse più alto), ai paesi nordici, da Spagna e Portogallo alla Francia (regina di fine secolo e oggi grande produttrice di talenti), dalla Russia alla Gran Bretagna, la cui supremazia si scolora negli anni.
Il vero sviluppo del calcio si lega indissolubilmente alla televisione. Pochi sport sono così telegenici. Fino all'enorme esposizione assicuratagli dal video, il calcio è poco più popolare di altre discipline. Qualcuna (il pugilato, il ciclismo) forse lo supera. Ma con la televisione il calcio le lascia tutte indietro, si fa conoscere da chi non frequenta gli stadi, rompe il tabù secondo cui è un divertimento inguaribilmente maschile, conquista appassionati sia nelle zone dove è già forte sia negli altri continenti. Diventa il più grande spettacolo mediatico del mondo, tale da oscurare le stesse Olimpiadi. Secondo gli organizzatori nippo-coreani ben 40 miliardi di telespettatori hanno seguito le partite del Mondiale 2002 (nonostante l'orario scomodo per europei e sudamericani): la finale Brasile-Germania sarebbe stato l'evento più visto nella storia dell'umanità.
Possibile che un gioco che non è poi così attraente coinvolga tanta gente di ogni estrazione e cultura? Che diventi motivo di gioia o infelicità per milioni di individui senza distinzione d'età, razza, religione, censo? Che entri così profondamente nell'animo di un popolo, spinga in piazza per festeggiare cinesi e tedeschi, senegalesi e turchi, brasiliani e inglesi? Non si riscontra per nessun altro sport un'identificazione così totale fra la squadra e il paese.
Molti studiosi hanno provato a spiegare questo fenomeno. Alcuni fanno risalire questo rapporto alla preistoria: la squadra ricorda il gruppo di cacciatori destinati a fornire gli alimenti alla tribù e da questo deriva il legame fra loro e il popolo. Altri danno alla partita un valore rituale: la sfida per il potere nella piazza degli antichi villaggi. Un'interpretazione suggestiva è fornita dallo scrittore statunitense Paul Auster, secondo cui il calcio è una guerra simulata: ha sostituito gli scontri fra eserciti che hanno insanguinato per oltre un millennio l'Europa e consente di liquidare, in modo incruento, vecchi conti. Scrive Auster: "Grazie a Dio, a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale c'è stata pace fra le maggiori potenze europee. Per i primi 45 anni, quella pace è stata inquinata da un altro genere di guerra, ma dopo la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione dell'URSS, la pace ha tenuto. Questo fatto non ha precedenti nella storia europea. Con una moneta comune all'orizzonte e frontiere libere dal passaporto già diventate realtà, sembra che i combattenti abbiano finalmente deposto le armi. Questo non significa che si amino né che il nazionalismo sia meno ardente di quanto non fosse in passato, ma per una volta sembra che gli europei abbiano trovato un modo per odiarsi senza farsi a pezzi. Questo miracolo va sotto il nome di calcio. Non voglio esagerare, ma come interpretare diversamente i fatti? Quando la Francia mise a segno una vittoria a sorpresa nella Coppa del Mondo, più di un milione di persone si ammassarono sugli Champs Elysées per festeggiare. Secondo tutti i resoconti è stata la più grande dimostrazione di felicità pubblica che si sia vista a Parigi dai giorni della Liberazione nel 1944". Non so quanto la tesi sia condivisibile, considerando che il fenomeno riguarda tutto il mondo e non solo l'Europa. Credo che mentre il pianeta si avvia a un governo mondiale e ogni paese cede sempre maggiori quote di potere, mentre le società diventano sempre più multietniche, il nazionalismo venga rinfocolato da un'esigenza d'identità. E il calcio - proprio per la sua immensa diffusione e, quindi, importanza - ne diventi una bandiera.
La sua importanza sociale è resa evidente dal messaggio inviato dal Segretario Generale dell'ONU Kofi Annan ai partecipanti del Mondiale nippo-coreano: "Ci congratuliamo con tutti voi, organizzatori, dirigenti, sponsor e naturalmente calciatori, che avete unificato il mondo, almeno per questo mese, attraverso l'amore per il calcio. Questa passione consente di avere un impatto rilevante sulle vite di milioni di persone nel mondo, particolarmente di bambini. Il calcio e i Mondiali possono promuovere una salute e un'educazione migliore per i bambini del mondo, la prevenzione dell'HIV e dell'AIDS, e il diritto dei bambini al divertimento. Per troppi bambini questo e altri diritti fondamentali non sono garantiti".
Nel secondo dopoguerra il calcio è andato mutando, da una parte diventando sempre più professionale, dall'altra avvicinandosi agli altri sport. Di qui la crescente importanza delle doti atletiche, della preparazione, della tattica, dell'addestramento, della velocità e della resistenza. Un'evoluzione così vertiginosa da rendere non paragonabili le diverse epoche di questo sport, passato da un gioco di destrezza in cui gli atleti coprivano una piccola parte del terreno, correndo poco e facendo viaggiare la palla, a una battaglia fisica imperniata sulla copertura totale del campo da parte di atleti in grado di attaccare e difendere a ritmi altissimi. Con frazioni di secondi per giocare la palla, prima di essere aggrediti da uno o più avversari.
A giudicare dalla ricchezza di campioni e dalla qualità dello spettacolo il periodo migliore del calcio è stato, probabilmente, quello compreso fra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta. Un giusto mix di valori tecnici e atletici. Negli anni Settanta la 'rivoluzione olandese' (con la nascita del giocatore universale non più vincolato a un ruolo e a un'incombenza specifica) ha fatto compiere un grande balzo in avanti al gioco, imponendo una miglior tecnica individuale da esercitare in modo molto più dinamico. Ma nello stesso tempo ha posto la base per un calcio molto fisico, basato sul pressing esasperato, lo scontro, la schematizzazione della manovra. Riducendo l'importanza della fantasia, della genialità.
La televisione, oltre a farne il maggiore evento mediatico del pianeta, ha arricchito il calcio, su cui sono piovuti migliaia di miliardi in diritti televisivi. Specie in Europa, diventata il centro motore di questo sport. La forza economica dei suoi club ha letteralmente spogliato il Sud America e l'Africa (cresciuta poderosamente negli ultimi trent'anni del Novecento) dei talenti migliori. Fenomeno comunque positivo: da una parte perché ha fornito risorse ai club di quelle zone, incentivandoli a curare i vivai; dall'altra perché ha arricchito i giocatori non solo di soldi ma di vitali esperienze culturali e professionali, insegnando loro le nozioni tattiche, l'importanza della preparazione, il primato del collettivo sull'individualismo, come tenersi in forma e alimentarsi e tutte le nozioni basilari per svolgere al meglio il loro lavoro. Non è un caso che le ultime tre nazionali vincitrici dei Mondiali siano composte da molti calciatori professionalmente maturati in Europa.
È un esempio positivo di globalizzazione, perché questo ha portato a una rapidissima diffusione culturale (cui ha contribuito in modo sostanziale la televisione) anche in quelle zone del mondo dove il calcio era, o è, appena ai primi passi: allenatori come missionari ben pagati (si pensi all'olandese Hiddink e a ciò che ha rappresentato per la crescita calcistica della Corea del Sud), giocatori che al ritorno nel paese di origine trasmettono quanto hanno imparato, la possibilità di studiare su testi e cassette le tecniche, le tattiche, i sistemi di allenamento all'avanguardia. Un calcio euro-centrico, un po' omogeneizzato ma non fino al punto di alterare i caratteri originari di ciascuna scuola.
La ricchezza riversatasi, tramite televisione e sponsor, sul settore ha coinciso con una rivoluzione nei rapporti fra club e giocatori. Abolito da tempo il vincolo (per decenni l'atleta era proprietà a vita del club), restava un forte freno alla libera circolazione dei calciatori: i limiti posti da ciascuna Federazione nazionale alla presenza di stranieri. Il ricorso di un giocatore belga, Bosman, presso la Corte di giustizia dell'Unione Europea, ha obbligato tutti i paesi membri a non fare discriminazioni di questo tipo. Quindi ogni calciatore poteva trasferirsi all'interno dell'UE, mentre anche i divieti per gli extracomunitari cadevano per intervento della magistratura ordinaria. Questa liberalizzazione aumentava a dismisura il potere contrattuale dei più bravi e diminuiva quello dei club.
In svariati paesi si approfittava di questa crescita delle risorse per costruire o rimodernare gli stadi. Dovunque i compensi di tecnici e giocatori aumentavano vertiginosamente. Ma erano le società italiane, alcune spagnole e alcune inglesi a pagare prezzi e ingaggi sproporzionati, accumulando deficit enormi. Soprattutto l'ubriacatura televisiva faceva commettere sia alle emittenti sia ai padroni del calcio un gravissimo errore commerciale, con la convinzione di poter aumentare gli introiti, intensificando l'attività e, quindi, i compensi derivanti dai diritti televisivi. In realtà ciò era sbagliato per più motivi: da una parte un'overdose di calcio in TV finiva per stancare il pubblico; dall'altra la quantità andava a scapito della qualità, offrendo spettacoli sempre meno attraenti; infine i giocatori si logoravano rapidamente: troppe partite, poco tempo per recuperare, molti infortuni. L'errore di prospettiva era poi aggravato dalla crisi dell'economia mondiale e dal crollo del mercato pubblicitario, con molte emittenti sull'orlo del fallimento e, comunque, non più in grado di mantenere i compensi promessi per i diritti. Il risultato è stato una crisi devastante da cui sarà difficile uscire, specie per chi ha speso oltre le proprie possibilità.
Se l'errore commesso dai club è, in qualche modo, giustificabile, in quanto partecipi di una competizione sportiva e commerciale spietata, non è scusabile che le Federazioni internazionali e nazionali lo avallino anziché opporvisi. Dovrebbero mettere un freno all'attività, varare un calendario che faccia ordine; invece si adeguano al vento, moltiplicando le partite nelle Coppe continentali, nei Mondiali, negli Europei, nelle Coppe d'America e d'Africa. Entrano in conflitto con i club, di cui sfruttano gratis i calciatori, senza alcun rispetto né per i diritti di chi li paga né per gli atleti sottoposti a devastanti tours de force. Il Mondiale nippo-coreano ne è stato un esempio. Ha inizio soltanto 20-25 giorni dopo la fine dei Campionati europei più importanti e delle Coppe. Molte delle nazionali favorite vi arrivano con giocatori esausti, con già 60-70 partite nelle gambe, pieni di acciacchi o reduci da infortuni, senza aver avuto il tempo per recuperare. Nelle squadre avversarie, specie quelle medio piccole, invece vi sono calciatori che hanno giocato molto meno, che hanno finito prima, che addirittura si allenano da mesi (come la Corea del Sud in vista di questo appuntamento). Così c'è una falcidia di favorite, dalla Francia campione uscente all'Argentina, dall'Italia alla Spagna. In alcuni casi sui guasti dell'usura s'innestano pessimi arbitraggi, con esiti devastanti per la credibilità del torneo. Ne sono vittime, in particolar modo, le avversarie della Corea, ambiziosissima padrona di casa. Portogallo, Italia e Spagna vengono eliminate più da arbitri e guardalinee che dai rossi allievi di Hiddink. Ma gli errori sono veramente molti e in più direzioni. Gli azzurri di Trapattoni stabiliscono un record: cinque gol annullati in tre partite e l'ingiusta espulsione di Totti.
Il problema dell'arbitraggio è cruciale nel calcio di oggi. Perché il direttore di gara e i suoi assistenti, per quanto bravi e scrupolosi, sono esposti alla continua smentita della televisione. Hanno frazioni di secondo per giudicare, sono ad altezza del terreno, possono oggettivamente non vedere quanto dieci o sedici telecamere, collocate dovunque, illustrano al pubblico. Non hanno replay e moviola. Dovrebbe essere evidente alla FIFA del presidente Blatter che non è possibile vendere uno spettacolo televisivo e pretendere che chi lo guarda si rassegni ad accettare una decisione sbagliata dell'arbitro contraria a quanto ha potuto vedere. Alla lunga il sistema comunica alla clientela un messaggio di non attendibilità. Non sarebbe impossibile consentire un uso limitato dei mezzi tecnologici per evitare gli errori più gravi ed evidenti, come si fa in altri sport. Ma la burocrazia calcistica si oppone, poiché perderebbe il potere di manipolare i risultati secondo i propri interessi.
All'alba del nuovo secolo il calcio attraversa la crisi forse più seria della sua storia. Il presidente Blatter è stato accusato dal suo ex segretario e da undici vicepresidenti di diversi reati, ora all'esame della magistratura svizzera. Le finanze della Federazione mondiale sarebbero in profondo deficit. Lo scontro fra Blatter e i suoi sostenitori con l'Europa è forte. Pur essendo il motore anche economico del calcio, il Vecchio Continente conta sempre di meno. Il sistema elettorale della FIFA consente l'instaurarsi di un potere non democratico, retto dai voti dei piccolissimi paesi, facilmente acquistabili. Non conta il numero di tesserati per ciascuna nazione: Germania e Benin hanno lo stesso peso, un voto. Così persino davanti ad accuse difficilmente contestabili, Blatter può stravincere le elezioni distribuendo prebende ai suoi clientes.
A questo si aggiungono la drastica diminuzione delle entrate per la difficoltà delle emittenti televisive, degli sponsor e del mercato pubblicitario, e il rischio di fallimento cui sono esposti molti club europei. È già in atto un vistosissimo calo dei prezzi e degli ingaggi, specie nei paesi come l'Italia dove si è mal amministrato. Per ora non s'intravedono miglioramenti e volontà d'intervento per quanto riguarda la razionalizzazione dell'attività, privilegiando gli aspetti qualitativi rispetto a quelli quantitativi. Ma prima o poi il movimento uscirà da questa situazione di stallo. Perché il calcio è in crescita vertiginosa sul piano della diffusione. Comincia a essere una realtà anche tecnica negli USA, ha spalancato le porte dell'Asia, dove la Cina è approdata per la prima volta al Mondiale.