CALCIO - LA STORIA DEL CALCIO
La storia del calcio
di Adalberto Bortolotti
Ricco di fascino è un viaggio a ritroso nel tempo alla ricerca di attendibili antenati di quello che è oggi definito il più grande spettacolo del mondo. Anche in una ricostruzione breve e sommaria, appare però fondamentale, nonché storicamente corretto, procedere a una suddivisione preliminare. Non prenderemo sistematicamente in considerazione tutti i giochi con la palla in uso nell'antichità, ricerca che risulterebbe senza fine, bensì soltanto quelli che presentano sostanziali e indiscusse analogie con il calcio attuale.
Cronologicamente, le prime manifestazioni di quello che potremmo definire protocalcio si ebbero in Estremo Oriente, come dimostrò il francese Jules Rimet, al quale si deve la creazione e il lancio, nel 1930, del primo Campionato del Mondo di calcio. Già nel 25° secolo a.C., l'imperatore cinese Xeng Ti obbligava gli uomini del suo esercito a praticare, fra i vari esercizi di addestramento militare, un gioco imperniato sul possesso di un oggetto sferico, molto simile a un pallone di oggi, formato di sostanze vegetali, tenuto insieme e ammorbidito in superficie da crini annodati (secondo una versione più poetica, da soffici capelli di fanciulla). Il gioco era chiamato Tsu-Chu. Un millennio più tardi, in Giappone aveva largo seguito il Kemari, finalizzato non più all'avviamento alle armi, ma al diletto delle classi nobili. Si giocava su un campo segnalato, agli angoli, da quattro tipi diversi di albero: un pino, un ciliegio, un mandorlo e un salice. Il pallone, il cui strato esterno era di pelle, misurava 22 cm di diametro ed era manovrato con le mani e con i piedi, una sorta di rugby ante litteram. Peraltro, molto gentile: il gioco, infatti, veniva spesso interrotto per scambi di scuse e complimenti.
Attorno al 1000 a.C., nella Grecia era in auge l'epískyros (il nome derivava da sk´yros, la linea centrale che divideva in due parti il campo) che, insieme a tanti altri e più importanti usi ellenici, fu trapiantato a Roma dove prese il nome di harpastum e assunse connotazioni decisamente più brutali. L'arpasto consisteva nel rubarsi la palla, senza troppi complimenti, e divenne il passatempo preferito dell'esercito. Lo praticavano con grande soddisfazione i legionari di Giulio Cesare, suddivisi in squadre regolari, e furono quindi probabilmente loro a farlo conoscere ai britanni durante l'invasione dell'isola, gettando così un seme destinato a germogliare copioso nella terra destinata a dare ufficialmente i natali al calcio moderno.
Le fortune di tutti i giochi con la palla declinarono poi bruscamente nel Medioevo, per un generale deprezzamento delle attività ludiche. Il divieto di praticarli riguardò dapprima i soli religiosi. In seguito progressivamente questi giochi furono messi al bando per tutti, anche perché causa di incidenti e di violenze che originavano veri e propri tumulti e sottraevano i soldati alle attività militari.
Anche in altre civiltà, come in quella maya, si praticarono forme di protocalcio. Nell'antico Messico, per esempio, il gioco consisteva nel far passare il pallone, che non poteva essere toccato con le mani, attraverso un piccolo foro nel muro. Il pallone era di caucciù massiccio e pesava tre chili e mezzo. Evidente la simbologia erotica, un connotato che, secondo Desmond Morris autore del fortunato saggio La tribù del calcio (1981), è presente anche nella versione attuale del gioco.
In Europa fu il Rinascimento, con la rivalutazione del mondo classico e il ritrovato culto per la bellezza e la forza, a favorire il ritorno alle attività ludiche e agonistiche. Nel pieno splendore dell'età medicea, Firenze ne divenne la capitale. Già nel 1410 un anonimo poeta fiorentino, cantando le glorie e le bellezze della città, accennava a una popolarissima forma di divertimento che veniva espressamente chiamata 'gioco del calcio'. Piero de' Medici, appassionato cultore di questa attività agonistica, chiamò alla sua corte i più abili giocatori, dando così vita al primo esempio di mecenatismo applicato al calcio. I Medici furono anche i primi a capire che il gioco costituiva una formidabile valvola di sfogo per il malcontento popolare (alla stessa guisa dei circenses romani) e quindi si impegnarono a incoraggiarlo e a diffonderlo.
Le regole prevedevano la contrapposizione di due squadre formate da un numero variabile di giocatori: 20, 30 o 40 a seconda delle dimensioni del terreno. La formazione standard era composta da 27 giocatori: 15 attaccanti (corridori), 4 centrocampisti (sconciatori), 4 terzini o trequarti (datori innanzi), 4 difensori (datori indietro). Sei arbitri controllavano e dirigevano il gioco da una tribunetta laterale. Il pallone poteva essere colpito con i piedi o afferrato con le mani, con le quali non era però consentito lanciarlo. L'obiettivo di entrambe le squadre era di collocare il pallone in una porta custodita da uno dei difensori, il solo che potesse utilizzare le mani, come l'attuale portiere; il gol era chiamato 'caccia'. Si trattava di autentiche battaglie, di grande violenza, che si protraevano per una giornata intera.
Esaminato con la mentalità attuale, il calcio fiorentino mostra alcune affinità con il calcio moderno e altre con il rugby. Come osserva Antonio Ghirelli nella sua Storia del calcio in Italia (1954), nel ventennio fascista al calcio fiorentino fu attribuito il ruolo di autentico e unico precursore del football, nell'intento di negare una gloria inglese e sottrarre così alla 'perfida Albione' il merito, oggettivamente indiscutibile, di aver dato i natali nel 19° secolo al calcio come viene oggi inteso, nello spirito e nelle regole. È comunque un fatto che anche il celebre Vocabolario della Crusca (edito per la prima volta nel 1612) annotasse questa definizione: "È calcio anche nome di un gioco, proprio, e antico della città di Firenze, a guisa di battaglia ordinata, con una palla a vento, rassomigliantesi alla sferomachia, passato da' Greci a' Latini e da' Latini a noi".
Riservato in un primo tempo ai nobili, il calcio fiorentino si aprì presto alla ricca borghesia dei mercanti e dei banchieri, e in seguito ai più abili giocatori di tutte le contrade, oltre ai veri professionisti reclutati dai Medici. In declino a partire dal 18° secolo, il calcio fiorentino viene ora tenuto in vita essenzialmente come spettacolo tradizionale e folcloristico, un modo di ritrovare le proprie radici con infiammate sfide in Piazza della Signoria, a memoria degli antichi campanilismi.
In Inghilterra ‒ dove era stato probabilmente introdotto, come abbiamo visto, dalle legioni di Giulio Cesare ‒ sono numerose le tracce, anche letterarie, dell'assidua pratica del gioco. Nel Re Lear, Shakespeare fa dire a Kent, che atterra Osvaldo con un abile sgambetto: "Beccati questa, cattivo giocatore di calcio!". È però il 19° secolo a inaugurare, insieme con la rivoluzione industriale e il progresso tecnico e scientifico, anche un interesse prima sconosciuto per l'attività sportiva. Il gioco della palla con i piedi, o football, che si era diffuso da tempo a livello popolare con l'accentuazione dei suoi caratteri brutali e violenti, cominciò a fare proseliti presso le classi superiori, secondo la gerarchia sociale dell'epoca: nobili e intellettuali videro nello sport un mezzo di aulica competizione, nella naturale cornice del college. In questo ambito si colloca, nella seconda epoca imperiale britannica, la vera origine del calcio moderno, che progressivamente trova la sua codificazione nei grandi e aristocratici campus di Harrow, Rugby e Charterhouse.
Tuttavia, un grande freno alla diffusione universale del gioco venne dalla disparità di regole fra un istituto e l'altro. A Charterhouse non era consentito toccare la palla con le mani e quindi si sviluppò, in modo naturale, quella tendenza al gioco individuale chiamata dribbling game, consistente nel possesso della palla da parte di un singolo giocatore che cercava di evitare (dribblare) quanti più avversari possibili. A Harrow si giocava 11 contro 11, ai piedi di una collina, con una maggiore attenzione alla manovra collettiva (passing game). A Rugby si poteva manovrare la palla con le mani. La tradizione vuole che quando uno studente di quel college, William Webb Ellis, nel 1823, percorse tutto il campo con il pallone fra le mani, sino a violare la linea di fondo avversaria, nacque il gioco che dal nome del college si chiamò appunto rugby e che già nel 1842 varò il suo regolamento ufficiale.
Forse anche per emulazione, qualche anno dopo, nel Trinity College di Cambridge, venne redatto un primo codice calcistico. Su questa base, nel 1857, vide la luce il primo club di calcio non universitario, lo Sheffield Club. Nel 1862, a Nottingham, nacque il Notts County e da quel momento fu tutto un proliferare di società calcistiche.
La data storica cui si fa risalire la nascita del gioco del calcio moderno è il 26 ottobre 1863. Quel giorno, alla Freemason's Tavern di Great Queen Street, nel rione di Holborn, si riunirono 11 club dell'area di Londra per uniformare i loro regolamenti. Due erano le tendenze dominanti: la prima intendeva consentire l'uso delle mani e dei piedi, mantenendo al gioco le sue caratteristiche originarie di scontro anche fisico; la seconda era favorevole, invece, al solo uso dei piedi e a un'impostazione nettamente meno violenta. I fautori di quest'ultimo orientamento confluirono nella FA (Football Association), che fu la prima federazione calcistica nazionale.
La separazione dal rugby non fu subito radicale. Il primo match organizzato dalla FA, al Battersea Park, tra le squadre del London e dello Sheffield, terminò con la vittoria del London per due gol e quattro touch-down a zero. Nel 1872 si giocò il primo incontro internazionale della storia fra le rappresentative di Scozia e Inghilterra, al West of Scotland Cricket Club, a Partick. Davanti a 4000 spettatori, che avevano pagato uno scellino a testa, l'accanitissima sfida terminò a reti inviolate, malgrado nel rudimentale schema tattico del tempo gli attaccanti figurassero in numero nettamente preponderante rispetto ai difensori.
Sempre in Gran Bretagna, due tappe fondamentali nell'evoluzione del calcio moderno furono raggiunte prima della fine del secolo. Nel 1885, di fronte al dilagare della pratica calcistica, che vedeva ormai impegnati un gran numero di club e moltissimi giocatori, la FA riconobbe la possibilità di corrispondere al calciatore, per le sue prestazioni agonistiche, un modesto compenso, che andava pertanto a integrare il guadagno derivante dal suo lavoro abituale. Era la prima forma di un fenomeno, il 'professionismo', che avrebbe profondamente segnato questa disciplina sportiva, portando, come primo effetto, una svolta decisiva a favore dei club più dotati di mezzi economici. In Inghilterra, infatti, proprio la possibilità di attirare con lusinghe di guadagno i giocatori più abili, segnò la leadership dell'Aston Villa. Il vero professionismo era comunque ancora di là da venire, ma un ulteriore passo in questa direzione fu compiuto nel 1897, quando venne istituita, a Londra, la prima associazione dei giocatori britannici, embrionale forma di sindacato calciatori, che si sarebbe trasformata, nel 1907, nella potente e organizzata PFA (Professional footballer's association). Il fortissimo anticipo con cui gli inglesi arrivarono a un vero e proprio inquadramento sindacale dei calciatori, rispetto al resto del mondo, si spiega anche con una coscienza associativa particolarmente viva nel paese in generale.
L'altro momento fondamentale fu rappresentato dall'istituzione, nel 1886, dell'IFAB (International football association board), a opera delle quattro federazioni britanniche (a quella inglese, che nel 1863 aveva aperto la strada del calcio moderno, si erano aggiunte la scozzese nel 1873, la gallese nel 1876, l'irlandese nel 1880). L'International board, nato per promulgare un regolamento comune mediando in un testo unico le specificità dei vari movimenti nazionali, rappresenta tuttora la 'corte suprema' del calcio, il 'sacro custode' delle regole. Ovviamente aperto alle delegazioni elette di altri paesi, il suo ruolo di giudice ultimo e inappellabile resiste dopo oltre un secolo di vita.
Prima di abbandonare questa rivisitazione delle origini e passare a trattare del gioco moderno, resta forse da chiarire un aspetto particolare: il motivo per cui il calcio si gioca in undici. La spiegazione prevalente rimanda ancora una volta alla realtà dei college, alle camerate composte da dieci studenti e un precettore, il primo abbozzo di 'squadra' che dai tempi dei pionieri è riuscito a mantenersi intatto sino al sofisticato football del Duemila.
Dalla Gran Bretagna, che gli aveva dato forma e organizzazione, il football, nell'ultimo trentennio del 19° secolo, cominciò a espandersi nel continente europeo e sulle rive sudamericane dell'Oceano Atlantico. La ricca struttura industriale inglese esigeva un'adeguata rete commerciale incentrata sui traffici d'oltremare. Il 'germe' del football fu così esportato dai marinai delle navi britanniche e dai funzionari delle agenzie che tenevano i rapporti con la madrepatria.
In Argentina, intorno al 1860, una compagnia inglese fu incaricata della costruzione della rete ferroviaria che, partendo da Buenos Aires, toccava altri centri sulle sponde del Rio della Plata. Nello stesso periodo, l'esportazione di frigoriferi inglesi avviava una fitta rete di scambi anche con Montevideo, capitale dell'Uruguay. Le due nazioni conobbero il football contemporaneamente e giocarono il loro primo incontro internazionale ancor prima che Charles Miller sbarcasse a San Paolo del Brasile con un pallone sottobraccio e convertisse al calcio un paese destinato a diventarne un simbolo. In realtà, i giocatori che si sfidarono nel 1899 a Montevideo, al circolo sportivo La Blanqueda, portavano quasi tutti nomi inconfondibilmente inglesi: erano marinai o funzionari, di stanza o residenti nei due paesi. Il Buenos Aires team superò il Montevideo team per 3-0.
In Brasile, come si è accennato, il pioniere fu Charles Miller, nativo di San Paolo ma figlio di un residente inglese che lo aveva mandato in Inghilterra a completare gli studi. Al ritorno, il giovane Charles portò con sé un pallone da football e introdusse il nuovo gioco presso i coetanei. Il calcio fiorì inizialmente nello Stato paulista e coinvolse soprattutto la popolazione bianca. Solo in seguito neri e meticci trovarono cittadinanza nei circoli che praticavano la disciplina importata dall'Europa e, in una nazione che non ha mai conosciuto veri conflitti razziali, non tardarono a farsi spazio sino a marcare una chiara superiorità.
In Europa, pur in circostanze diverse, lo sviluppo del calcio ebbe la sua matrice comune nelle navi inglesi alla fonda: i marinai impiegavano il tempo libero in interminabili e accanite sfide sul molo, sollecitando prima la curiosità, poi l'emulazione. Non è quindi un caso che a recepire e a diffondere il gioco siano state per prime le città sedi di affermati porti commerciali o militari. In Francia il club più antico nacque a Le Havre, nel 1872, lo stesso anno che vide, in Spagna, l'istituzione dell'Huelva ricreation club. In Italia, il primato fu di Genova, nel 1893. In Portogallo, in Olanda e nelle altre nazioni affacciate sul mare il gioco fu introdotto con le stesse modalità. Un paese non marinaro, la Svizzera, fu tuttavia il più sollecito a importare il calcio grazie a privilegiati scambi culturali con l'Inghilterra, che prevedevano una massiccia presenza di studenti elvetici nei college d'oltremanica. La Svizzera fu poi il naturale tramite della penetrazione del football nell'Europa centrale e orientale, senza per questo trascurare il ruolo svolto da personaggi come il giardiniere dei Rothschild, che fu tra i fondatori del First Vienna, in Austria, nel 1894, oppure come Karoly Lowenrosen, che in occasione della Grande Esposizione di Budapest del 1896, fra le merci importate dall'Inghilterra, inserì un pallone da football e organizzò sul posto il primo match calcistico ungherese. In Germania, il calcio fu introdotto dal professor Konrad Koch, reduce da una lunga permanenza in Inghilterra per ragioni di studio. Nel primo club tedesco, il Germania di Berlino, giocava tale Hugo Pauli, che poi fece conoscere il nuovo sport in Iugoslavia. All'inizio del 20° secolo, malgrado i mezzi di comunicazione di massa fossero di là da venire, grazie a questo singolare tam-tam, il calcio era così giocato in buona parte del mondo, segnatamente in quei continenti, Europa e Sud America, che a lungo ne hanno rappresentato le scuole dominanti, se non esclusive.
Ovviamente, la partenza anticipata aveva consentito alla Gran Bretagna un vantaggio anche sul versante tecnico. Quando nel resto d'Europa e nel Sud America si muovevano i passi iniziali e si allacciavano i primi timidi contatti internazionali, le quattro federazioni britanniche già disputavano da tempo un regolare e seguitissimo torneo. Chiamato Home championship, il quadrangolare fra le rappresentative d'Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda fu inaugurato nel 1884: questa prima edizione si concluse con il trionfo della Scozia, che vinse tutte le partite. Rispetto ai tradizionali rivali inglesi, gli scozzesi giocavano un calcio più organizzato, meno legato all'estro individuale e che recava già in sé precisi connotati tattici. Come abbiamo visto, in Sud America, giusto alla fine del 19° secolo, Uruguay e Argentina avevano aperto la serie infinita delle loro sfide, peraltro schierando giocatori quasi esclusivamente britannici. Quando però, ai primi del 20° secolo, Thomas Lipton, il magnate del tè, mise in palio fra le due nazionali platensi la Coppa che portava il suo nome, già si erano fatti strada i talenti indigeni. Scorrendo le formazioni, troviamo ancora molti Brown e Smith, ma anche i Laforia, i Saporiti, i Camacho e i Rovegno. In Europa, il primo incontro internazionale sostenuto da paesi non britannici si disputò nel 1902 a Vienna, fra Austria e Ungheria: l'Austria si impose con un nettissimo 5-1. La scuola mitteleuropea, per qualità tecnica, era forse la sola che potesse avvicinarsi ai maestri d'oltremanica.
La Francia non brillava particolarmente per il valore delle sue squadre, ma era sicuramente in prima linea nelle iniziative per lanciare il calcio su scala internazionale. Ospitando nel 1900 le seconde Olimpiadi dell'era moderna, gli organizzatori inserirono nel programma, non a titolo ufficiale ma solo come torneo dimostrativo, un triangolare di calcio che riscosse un notevole successo di pubblico. Oltre alla Francia e al vicino Belgio, era stata invitata una rappresentativa inglese, l'Upton Town, che pur non figurando nell'élite britannica si affermò nettamente sui debolissimi avversari.
Forte di questo promettente approccio, il giornalista francese Robert Guérin, affiancato dall'olandese Carl A. Wilhelm Hirschmann, nel 1902 si recò a Londra, presso il potente presidente della FA, Frederich Wall, per sottoporgli un progetto ambizioso: istituire una confederazione per regolare e organizzare l'attività delle federazioni nazionali, con il fine ultimo di dar vita a un vero e proprio Campionato del Mondo. Ottenne un brusco rifiuto, né miglior sorte incontrò due anni dopo con il successore di Wall, Lord Kinnaird. Gli inglesi erano troppo gelosi della loro posizione preminente per accettare l'idea di una super-federazione e non erano neppure entusiasti di mettere a disposizione di tutti i segreti e i regolamenti dello sport che avevano inventato. Il 21 maggio 1904, con il pretesto di un match internazionale tra Francia e Belgio, Guérin inviò a Parigi i delegati di otto federazioni (oltre alla Francia, Olanda, Belgio, Germania, Svezia, Svizzera, Spagna e Danimarca) e fondò la FIFA (Fédération internationale de football association), di cui fu eletto presidente, con Hirschmann segretario. Rafforzata da successive adesioni, la FIFA riuscì a convincere le federazioni britanniche a entrare a far parte del nuovo organismo nel 1905. Nel congresso di Berna del 1906, il nuovo presidente della FA, Daniel Burley Wolfall, divenne anche presidente della FIFA, subentrando al dimissionario Guérin. Nel suo discorso d'investitura, il dirigente inglese accantonò subito l'ambizioso progetto di un Campionato del Mondo, e dopo aver riaffermato il fondamentale ruolo dell'International board come garante del regolamento calcistico, propose di sfruttare l'opportunità offerta dal Comitato internazionale olimpico (CIO) di ospitare un torneo ufficiale di calcio nell'ambito dell'appuntamento quadriennale dei Giochi Olimpici.
È da notare che i britannici ottennero di entrare nella FIFA con tutte e quattro le loro federazioni, nonostante una norma dello statuto prevedesse la partecipazione di una sola federazione per ciascuna nazione; questa norma era stata peraltro già applicata alla Boemia che, in quanto facente ancora parte dell'impero austro-ungarico, si era vista respingere la richiesta di affiliazione. Nel caso della Gran Bretagna, invece, al di là di qualche opposizione di principio, prevalse, pragmaticamente, la considerazione che quattro federazioni della scuola calcistica dominante erano sempre meglio che nessuna. Questa anomalia, che tuttora resiste, va considerata un omaggio agli inventori del calcio moderno.
Dopo Parigi, anche Saint Louis, sede delle Olimpiadi del 1904, aveva ospitato a titolo ufficioso un torneo calcistico, ma si era trattato di un evento assai modesto e limitato all'area nordamericana, nel quale il Canada aveva prevalso sugli Stati Uniti. La linea britannica, tesa a fare del torneo olimpico un vero confronto mondiale, si affermò, com'era logico, nei Giochi del 1908, ospitati a Londra, che segnarono l'ingresso ufficiale del calcio nel programma del CIO. Ormai si giocavano regolari campionati nazionali in tutta Europa e in Sud America e si stavano moltiplicando, sia pure in modo spontaneo e caotico, i confronti internazionali. Le Olimpiadi, però, esigevano dai partecipanti lo status di dilettante puro e questo si rivelò presto un ostacolo. Non tutti i paesi, infatti, potevano godere dell'esemplare organizzazione del calcio inglese, dove, a livello di prima divisione, dilettanti e professionisti erano in grado di coesistere senza traumi di sorta. Così il giocatore più forte, famoso e rappresentativo della nazionale olimpica inglese (che vinse, ovviamente, la medaglia d'oro, battendo in finale la sorprendente Danimarca) era Vivien Jack Woodward (architetto di successo), autentico dilettante, ma allo stesso tempo un tiratore formidabile, in grado di ricoprire tutti i ruoli d'attacco.
Alle successive Olimpiadi del 1912, a Stoccolma, prese parte anche l'Italia, che era entrata nella FIFA nel 1905 e aveva iniziato la sua attività internazionale nel 1910 con una netta vittoria sulla Francia. Ben 11 furono le nazioni partecipanti, ma la competizione restava confinata in ambito europeo, senza poter svolgere, come invece era in programma, il ruolo di un Campionato del Mondo, perché le fortissime rappresentative sudamericane erano penalizzate dalle difficili comunicazioni del tempo. Infatti, fra il viaggio di andata e ritorno in piroscafo e la durata del torneo, per Argentina, Uruguay e Brasile si trattava di un impegno di due mesi abbondanti, eccessivo per un dilettante, vero o presunto che fosse. L'Inghilterra vinse ancora, e ancora in finale sui danesi. Il suo asso era Ivan Sharpe, degno erede di Woodward. Il riscontro storico è importante, perché fu questa l'ultima competizione internazionale vinta dagli inglesi sino ai Mondiali di Londra del 1966, ben 54 anni più tardi. Quanto all'Italia, affidata al giovane Vittorio Pozzo, fu eliminata dalla Finlandia, ma batté i padroni di casa svedesi nel torneo di consolazione, ottenendo nella circostanza il primo successo all'estero della sua storia. Abbandonata la divisa bianca delle origini, la squadra già indossava la maglia azzurra divenuta poi tradizionale. Pochi giorni dopo il successo sulla Svezia, la nazionale italiana fu però battuta dall'Austria con il netto punteggio di 5-1. Secondo la poco ortodossa spiegazione fornita da Pozzo, l'esito non esaltante della spedizione era da imputare allo scarso impegno negli allenamenti dei calciatori italiani, distratti dai 'liberi costumi' del Nord Europa. Fu, questa, l'ultima Olimpiade prima che la grande guerra imponesse un lungo arresto all'attività sportiva nel Vecchio Continente.
La sconfitta degli imperi centrali e il nuovo ordine europeo nato dalla Conferenza di Versailles ebbero una diretta ripercussione anche sul panorama calcistico. Austria, Germania e Ungheria furono escluse dalle Olimpiadi del 1920, che si tennero in Belgio, ad Anversa, mentre dallo sfacelo dell'impero asburgico era nata nel 1918 la Cecoslovacchia. Con i due fuoriclasse Janda e Kada, la nuova arrivata fu la vera rivelazione del torneo: avrebbe vinto la medaglia d'oro se, nella finale contro il Belgio, non avesse abbandonato il campo per protesta contro un arbitraggio sfacciatamente favorevole ai padroni di casa, venendo quindi automaticamente esclusa dalla classifica. Destò stupore la sconfitta dell'Inghilterra a opera della Norvegia, mentre fece il suo debutto internazionale la Spagna (che ad Anversa presentò il miglior portiere del mondo, il leggendario Ricardo Zamora) dove, pur svolgendosi una regolare attività calcistica interna sin dagli ultimi anni del 19° secolo, le rivalità municipali avevano fino a quel momento impedito di dar vita a una rappresentativa nazionale. La presenza dell'Egitto, infine, segnò l'ingresso dell'Africa nel calcio al più alto livello.
Mancava sempre il confronto con le 'stelle' del Sud America. Le notizie che arrivavano in Europa sul calcio sudamericano erano vaghe e contraddittorie. Eppure, sin dal 1916 si giocava un torneo continentale, il Campionato Sudamericano ‒ da cui discende l'attuale Coppa America ‒ che vedeva Uruguay e Argentina protagoniste di sfide accesissime. Le Olimpiadi del 1924 a Parigi e quelle del 1928 ad Amsterdam ebbero il merito di proporre finalmente l'incontro ravvicinato fra le due realtà rappresentate dal calcio europeo e da quello sudamericano: la superiorità di quest'ultimo, spettacolare e tecnico, dotato di grandi individualità, con fasi di gioco funamboliche, ma anche con un rigoroso ordine tattico, risultò nettissima, per merito in particolar modo dell'Uruguay.
L'Inghilterra si era chiamata fuori, dopo la sconfitta subita ad Anversa, protestando contro un regolamento che, a suo avviso, ad alcuni consentiva di schierare la formazione più forte, mentre agli inglesi imponeva di utilizzare i dilettanti, lasciando a casa i campioni. Anche Austria, Cecoslovacchia e Ungheria, le roccaforti del fiorente calcio danubiano, avevano disertato il torneo olimpico parigino, ma è verosimile che contro fuoriclasse quali Andrade, Scarone, Petrone, Cea e Nasazzi non sarebbe stato comunque possibile prevalere. La vittoria olimpica dell'Uruguay nel 1924 sollecitò l'Argentina a partecipare ai Giochi del 1928 e nella partita finale si confrontarono le due squadre platensi. Solo l'Italia del commissario tecnico Rangone oppose una valida resistenza all'Uruguay, da cui fu battuta di misura in semifinale, anche a causa di un clamoroso rigore negato. Medaglia di bronzo e prima fra le europee, l'Italia pose proprio ad Amsterdam le premesse per il suo periodo d'oro, che si sarebbe celebrato negli anni Trenta, con due titoli mondiali e un oro olimpico nell'arco di quattro anni, dal 1934 al 1938.
Il grande successo dei tornei olimpici del 1924 e del 1928 costituì anche la spinta decisiva per il varo ‒ sospiratissimo ‒ del Campionato del Mondo di calcio, senza più vincoli regolamentari a impedire la presenza dei campioni più forti e rappresentativi di ogni paese. Peraltro, la finale del primo Campionato del Mondo, disputato in Uruguay nel 1930, ripropose alla lettera, anche nell'esito, quella olimpica di Amsterdam. Il Sud America dettava legge e i suoi fuoriclasse diventarono oggetto di contesa da parte dei più ricchi club europei, tra i quali, naturalmente, quelli italiani.
Dopo un primo abbandono nel 1920, poi rientrato, al congresso di Amsterdam del 1928 le quattro federazioni britanniche erano uscite in blocco dalla FIFA, chiudendosi in uno splendido isolamento. La convivenza con le altre federazioni, del resto, era sempre stata difficile e i dissensi sullo status del calciatore, professionista o dilettante, si erano rivelati un ostacolo insuperabile, nonostante il varo del Campionato del Mondo avesse contribuito a portare chiarezza, uscendo dagli equivoci del regolamento olimpico.
A contrastare la superiorità della scuola sudamericana, nel periodo che va dai primi Mondiali alla guerra, fu dunque l'Italia. Il calcio italiano aveva conosciuto una crescita impetuosa anche grazie all'appoggio massiccio offerto dal regime fascista (che aveva intuito la formidabile efficacia propagandistica del calcio) alla struttura organizzativa, che diede i risultati migliori in occasione del secondo Campionato del Mondo, nel 1934. Il ruolo decisivo attribuito da molti critici al fattore campo nella conquista del titolo da parte degli azzurri, è però smentito dalla circostanza che quattro anni dopo la nazionale italiana replicò il successo in Francia, dove dovette superare ‒ oltre ad avversari fortissimi ‒ anche un clima di grande ostilità. Fra i due trofei iridati, inoltre, l'Italia si aggiudicò anche l'oro olimpico del 1936 a Berlino, con una squadra di (veri o presunti) studenti universitari, escamotage per aggirare l'obbligo dilettantistico preteso dal regolamento dei Giochi.
In realtà, è innegabile che il calcio italiano avesse raggiunto altissimi livelli sia tecnici sia tattici. La nazionale, sotto l'abile guida di Vittorio Pozzo, giocava una variante molto efficace del 'metodo', lo schema di gioco che era il fiore all'occhiello della scuola danubiana, che l'Italia aveva personalizzato con una più attenta copertura difensiva e con l'uso del contropiede in attacco. Nel periodo fra le due guerre, Giuseppe Meazza, centravanti-goleador in Campionato e mezzala di regia e di rifinitura in maglia azzurra (alle spalle di attaccanti di sfondamento quali Schiavio e Piola), fu sicuramente il più forte e completo giocatore di scuola europea. La Juventus, che vinse cinque scudetti consecutivi nei primi anni Trenta, era una squadra formidabile, integrata da fuoriclasse stranieri, quali gli argentini Luisito Monti, poderoso centromediano, e Mumo Orsi, funambolica ala sinistra, che in qualità di oriundi diedero un contributo decisivo anche in nazionale per la conquista del titolo mondiale del 1934. Quella Juventus, però, non fu altrettanto efficace in campo internazionale, mentre il Bologna, sua fiera avversaria interna, vinse due edizioni della Coppa dell'Europa Centrale, equivalente per prestigio alla Coppa dei Campioni del dopoguerra. Lo stesso Bologna, al Torneo dell'Esposizione di Parigi del 1937, smentì il preconcetto secondo il quale molti successi italiani erano agevolati dall'assenza delle squadre britanniche, travolgendo il Chelsea, club di primissimo piano nella League inglese. Fu, questo, un risultato importante anche sul piano tattico, perché il datato 'metodo' ebbe la meglio sul nuovo 'sistema' che gli inglesi avevano adottato sin dalla fine degli anni Venti, e che prevedeva più rigorose marcature difensive e in generale il primato del calcio fisico su quello tecnico.
Nel 1938, quattro anni dopo aver superato ai Mondiali del 1934 l'élite europea (battendo Spagna, Austria e Cecoslovacchia), il calcio italiano si guadagnò un'ulteriore laurea sul campo in Francia, eliminando in semifinale il più forte Brasile dell'anteguerra, una squadra spettacolare che aveva incantato il pubblico con le prodezze di Leonidas, detto il 'diamante nero', e che era unanimemente considerata la favorita per la conquista del titolo iridato. A questa imponente collezione di successi, l'Italia univa una dotazione di impianti seconda ‒ forse ‒ solo a quella dell'Inghilterra. Purtroppo non si presentò una terza occasione per confermare il momento d'oro del calcio italiano: i Mondiali in programma nel 1942 non si svolsero, a causa della Seconda guerra mondiale. In seguito, anche per il calcio, sarebbe stata tutta un'altra storia.
La prima grande novità calcistica del dopoguerra fu il rientro nella FIFA delle quattro federazioni britanniche, a chiusura di un esilio ultraventennale che aveva fortemente penalizzato il mondo del pallone. L'Inghilterra era tra i paesi vincitori del secondo conflitto mondiale e ottenne di ospitare le prime Olimpiadi della pace ritrovata, nel 1948. Sempre a Londra si tenne il congresso della Federazione calcistica internazionale, che sancì la riunificazione dei paesi membri con gli stessi inglesi, scozzesi, gallesi e irlandesi. I fondatori del calcio moderno sciolsero dunque ogni riserva sulla validità del titolo di campione del mondo assegnato dalla quadriennale manifestazione della FIFA, che sino a quel momento avevano considerato quasi abusivo.
Il torneo olimpico del 1948, aperto solo ai dilettanti ‒ qualifica che però non era interpretata nello stesso modo in tutti i casi ‒ vide il trionfo di una nazione la cui gioventù era stata risparmiata dagli orrori e dalle decimazioni della guerra. Infatti, la vittoria toccò alla Svezia, trascinata dai gol del centravanti Gunnar Nordahl e dalla creatività di Gunnar Gren. Seconda fu la Jugoslavia e terza la Danimarca, anch'essa per merito di eccellenti attaccanti, Hansen e Praest. Fu proprio la Danimarca a porre fine alle speranze dell'Italia, campione in carica grazie all'oro di Berlino 1936, e al ciclo leggendario di Vittorio Pozzo, il commissario tecnico che ha ottenuto il maggior numero di vittorie nella storia del calcio, non solo italiano.
Per adattarsi al regolamento olimpico, la Federazione italiana aveva deciso di far partecipare la solita formazione 'studentesca', quindi di qualità non eccelsa. Nell'Italia del dopoguerra vigeva l'egemonia tecnica del Grande Torino, che collezionava scudetti e record giocando un calcio estremamente innovativo, almeno nel panorama nazionale. La squadra granata, infatti, adottava gli schemi del sistema inglese, mentre quasi tutte le altre formazioni che partecipavano al Campionato erano ancora fedeli al metodo. Metodista convinto era soprattutto l'allenatore Pozzo, che grazie a quella tattica aveva vinto due Mondiali e un'Olimpiade, nonché due Coppe Internazionali, l'equivalente dell'epoca degli attuali Europei. Pozzo escluse quindi dalle convocazioni i giocatori del Torino, per allestire una formazione metodista, ma poi, in seguito alle pressioni degli innovatori, a Londra fece giocare la squadra secondo i dettami del sistema. Ne trasse giovamento la fase offensiva, mentre i difensori non riuscirono ad adeguarsi alla nuova impostazione di gioco. Nel debutto contro la debole formazione messa in campo dagli Stati Uniti, l'Italia illuse i tifosi, segnando ben nove gol. Di fronte all'eccellente Danimarca, gli azzurri riuscirono ancora a farsi valere in attacco, mettendo a segno tre reti, ma a prezzo di sbandamenti difensivi che consentirono agli avversari di violare per cinque volte la rete del portiere Casari. Comunque, al di là dell'aspetto tattico, la Danimarca poteva certamente vantare un impianto collettivo e valori individuali nettamente superiori a quelli dell'Italia.
Pozzo pagò duramente il prezzo della sconfitta e fu allontanato senza i riconoscimenti che il suo eccezionale stato di servizio avrebbe meritato, tornando a dedicarsi al giornalismo sportivo. A sostituirlo fu chiamata, quasi a sottolineare il radicale cambio di rotta, una commissione guidata dal presidente del Torino, Ferruccio Novo, il più deciso fautore del sistema.
Alle Olimpiadi del 1948 le prime tre classificate, Svezia, Iugoslavia e Danimarca, avevano schierato le loro migliori nazionali. Quarta era stata l'Inghilterra, padrona di casa, in effetti l'unica che avesse rispettato alla lettera il regolamento, presentando una formazione rigorosamente amatoriale, priva dei campioni che davano lustro alla League nazionale. Per il calcio inglese era un momento molto felice e anche questo aveva avuto il suo peso nel decidere il rientro nel consesso internazionale. Gli inglesi, insomma, si ritenevano finalmente in grado di rendere concreta la loro superiorità calcistica sul resto del mondo che, sino a quel momento, si erano limitati a teorizzare senza alcuna reale prova a sostegno. L'occasione tanto attesa furono i primi Campionati del mondo del dopoguerra, ospitati nel 1950 in Brasile, i primi che l'Inghilterra decise di onorare con la sua partecipazione.
Guidati da un singolare commissario tecnico, Walter Winterbotton, che non aveva contatti diretti con i giocatori, gli inglesi erano reduci da una serie di clamorosi successi. Per tre volte consecutive si erano imposti nell'annuale Home championship disputato con Scozia, Galles e Irlanda e anche nelle partite amichevoli giocate sul Continente avevano ottenuto ottimi risultati: 10-0 al Portogallo a Lisbona; 4-0 all'Italia campione del mondo in carica a Torino, il 16 maggio 1948, in una partita rimasta celebre ‒ oltre che per la clamorosa disfatta casalinga della squadra azzurra ancora affidata a Vittorio Pozzo ‒ per il gol che l'interno destro Stanley Mortensen aveva segnato con un tiro scoccato dalla linea di fondo (un'esecuzione forse più fortuita che abile, ma che è entrata nella terminologia del calcio: da allora si parla infatti di 'gol alla Mortensen'); e ancora 5-2 al Belgio a Bruxelles e 3-1 alla Francia a Parigi. Forti di campioni quali Matthews, Finney, Wright, Ramsey, gli inglesi si imponevano per una netta superiorità fisica e tattica. Anche per questo la delusione subita nel loro primo Mondiale fu ancora più cocente. Dopo un vittorioso ma stentato esordio contro il modesto Cile, infatti, l'Inghilterra fu battuta ed eliminata contro ogni previsione dagli Stati Uniti, una formazione di dilettanti senza pretese.
Il Campionato del Mondo del 1950 rappresentò in effetti una sorta di verifica dei valori calcistici dopo la lunga parentesi bellica. In quegli anni, in cui quasi tutta l'Europa era stata costretta all'inattività sportiva e a dirottare la propria gioventù al fronte, in Sud America l'attività calcistica era proseguita regolarmente, con le consuete accese sfide fra i tre paesi dominanti. In particolare il Brasile, dopo il tramonto di Leonidas, Tim, Domingos da Guia, che avevano conquistato il pubblico di Parigi nel 1938, aveva visto fiorire una generazione di nuovi talenti, soprattutto in attacco. Attraverso una severa selezione interna, si era infine formata una fortissima prima linea, che vedeva schierati, da destra a sinistra, Friaca, Zizinho, Ademir, Jair, Chico. Il giovane Ademir, uno fra i più grandi giocatori di tutti i tempi all'interno di un panorama calcistico, quello brasiliano, mediamente sempre di ottimo livello, era un centravanti difficilissimo da marcare, perché partiva da una posizione arretrata rispetto alle due mezzali, ma si segnalava per il grande senso del gol, che ne faceva un formidabile cannoniere. Di minor qualità era il reparto difensivo, ma ciò non costituiva motivo di preoccupazione per una scuola calcistica da sempre portata a trascurare la fase di copertura.
Questo Brasile già fortissimo nel Campionato Sudamericano del 1945 aveva realizzato 19 gol in 6 partite, ma era stato costretto a cedere di fronte ai tradizionali rivali argentini, forti di un fuoriclasse come Rinaldo Martino, poi ingaggiato in Italia dalla Juventus, e di un grande centravanti quale Tucho Mendez, che in finale segnò tre reti proprio al Brasile. L'anno seguente, l'Argentina replicò il successo, ancora in finale contro il Brasile e ancora con una doppietta di Mendez. Pedernera, Labruna, Moreno formavano un trio insuperabile per qualità ed efficacia. Al momento di avviare la preparazione ai Mondiali del 1950, che dovevano svolgersi in Brasile, l'Argentina fu però messa fuori causa da una delle più gravi crisi della sua storia calcistica. Lo sciopero dei professionisti, dopo un durissimo braccio di ferro con la federazione, ebbe come conseguenza l'emigrazione in Colombia di tutti i campioni più rappresentativi. Fra questi, anche un giovanissimo Alfredo Di Stefano, che già agli esordi nel River Plate si era dimostrato un fuoriclasse e che nel calcio di ogni tempo contende a Pelé e a Maradona la palma di miglior giocatore.
L'Uruguay era rimasto, fino ad allora, all'ombra del duello Brasile-Argentina, fedele alla sua tradizione di squadra eminentemente tattica, la più 'europea' fra le sudamericane. Chiuso il suo periodo di maggior splendore con gli ori olimpici del 1924 e del 1928 e il primo titolo mondiale del 1930, non aveva partecipato ai successivi Mondiali in Italia e in Francia e anche nel Campionato Sudamericano non era stato presente in modo regolare. Negli anni Quaranta il suo unico successo fu conseguito nel Campionato continentale del 1942, giocato in casa, a Montevideo. Anche dall'Uruguay, del resto, si verificò, sia pure in forma meno massiccia rispetto all'Argentina, la 'fuga' dei campioni verso la ricchissima lega colombiana Dimayor, considerata fuorilegge, perché non affiliata alla FIFA. In tal modo, il Brasile aveva maturato la convinzione che i Mondiali di casa si sarebbero risolti in una formalità: i rivali vicini si trovavano in grandi difficoltà e l'Europa non sembrava preoccupare.
I campioni del mondo in carica erano gli italiani, vincitori delle ultime due edizioni. L'armistizio e la fase finale della guerra al fianco degli Alleati avevano evitato all'Italia le sanzioni riservate ai paesi vinti e che alla Germania erano costate l'esclusione dalle Olimpiadi del 1948. La nazionale azzurra aveva ripreso l'attività l'11 novembre 1945, a Zurigo, contro la Svizzera (4-4) e aveva vinto le tre successive partite interne, con l'Austria, ancora la Svizzera e con l'Ungheria; ma non era più la grande squadra di prima della guerra. Le sucessive sconfitte in Austria (1-5, con il debutto del giovane Boniperti) e in casa contro l'Inghilterra (0-4 a Torino nel 1948) avevano già indebolito la posizione del commissario tecnico Vittorio Pozzo, che fu poi costretto, come abbiamo visto, a dimettersi dopo la sfortunata esperienza olimpica. Il calcio italiano attraversava una delicata crisi di ordine tattico, stretto fra le nostalgie del metodo, cui doveva le sue vittorie passate, e l'ormai universale affermazione del sistema, al quale pochi suoi giocatori, a eccezione di quelli del Torino, erano addestrati. In questa situazione già critica si verificò, l'anno prima del Mondiale 1950, il disastro aereo di Superga, in cui persero la vita tutti i giocatori del Torino, di ritorno da una partita amichevole giocata a Lisbona. La tragedia fece piombare il calcio italiano (e l'intero paese, che del Torino aveva fatto uno dei simboli della rinascita) nella costernazione. Il Torino, una squadra senza punti deboli, era stato anche il principale, talvolta quasi esclusivo, fornitore della nazionale, arrivando a comporne i dieci undicesimi. Non fu facile ricostruire una formazione affidabile per l'ormai prossima scadenza mondiale e, inoltre, il ricordo della recente sciagura indusse la squadra a decidere di raggiungere il Brasile per nave, con grave pregiudizio della preparazione. Sconfitta dalla Svezia nel debutto a San Paolo, l'Italia cedette in fretta il suo titolo e per il calcio azzurro si aprì, sino alla vittoria nei Campionati europei del 1968, un lungo periodo privo di vittorie, che lo vide passare dal ruolo di protagonista del panorama internazionale a quello di modesta comparsa.
Il Mondiale del 1950 fu dominato dal Brasile, che arrivò in finale battendo con punteggi nettissimi tutti gli avversari, ma non riuscì poi a conquistare il titolo. Ancora una volta tradito dalla presunzione e dalla ritrosia per ogni forma di organizzazione tattica, fu beffato dall'Uruguay, che aveva almeno due fuoriclasse, Schiaffino e Ghiggia, ma soprattutto una compattezza difensiva sconosciuta ai suoi più forti rivali. L'Uruguay si aggiudicava così due titoli su due partecipazioni ai Mondiali. L'Europa ‒ come previsto ‒ recitò un ruolo di secondo piano. Soltanto la Svezia, vincitrice dell'oro olimpico, avrebbe potuto contrastare degnamente il passo ai due colossi sudamericani, ma gli svedesi vollero restare rigorosamente fedeli a un loro regolamento interno, che non prevedeva l'impiego nella rappresentativa nazionale dei giocatori che avessero scelto la carriera di professionisti all'estero. Rinunciarono così a Gunnar Nordahl, in quel momento il più potente ed efficace centravanti del mondo, nonché alla coppia di mezzali Gren-Liedholm, i tre campioni che, ingaggiati dal Milan, formarono il cosiddetto Gre-No-Li e fecero la fortuna del club italiano. Anche con una formazione di ripiego, la Svezia fu comunque terza (e prima delle europee). Otto anni più tardi, rimossa quella regola autolesionistica, e nonostante i suoi campioni fossero ormai alla fine della carriera, si classificò addirittura seconda, dietro l'imbattibile Brasile del giovanissimo Pelé. Questo può far capire quale grande occasione la nazionale svedese avesse sprecato nel 1950, in omaggio a uno spirito sportivo che veniva ormai oltraggiato in forme ben più gravi.
Il dopoguerra aveva avviato la sempre più massiccia trasformazione del calcio da mero evento agonistico a fenomeno ben più coinvolgente, legato alle leggi dello spettacolo e del business più che a quelle tradizionali dello sport. Soprattutto i club spagnoli e italiani (Real Madrid e Barcellona, Juventus, Milan, Inter) si disputavano a prezzi sempre più alti i campioni stranieri e potevano così contare su compagini d'altissimo valore, mentre le nazionali erano assai poco competitive oltre che fortemente condizionate dalle esigenze del Campionato. Fu quindi naturale che si pensasse di affiancare alle competizioni riservate alle squadre nazionali anche tornei e manifestazioni internazionali tra club di nazioni diverse, un processo cui avrebbe dato un impulso decisivo l'ingresso del mezzo televisivo nel mondo del calcio. Prima che questo si verificasse, però, il panorama europeo venne vivacizzato, sul piano squisitamente tecnico, dalla comparsa e dalle sfortunate vicende di una delle squadre più belle e più forti di ogni tempo, la Grande Ungheria.
Dopo i fasti dell'anteguerra, culminati nella finale dei Mondiali 1938, l'Ungheria aveva conosciuto un brusco declino, pur restando in attività sino al novembre del 1943, quando il conflitto si era ormai propagato a tutta l'Europa. I punti più critici furono la sconfitta per 0-7 subita a opera della Germania nel 1941 a Colonia e, due anni più tardi, quella per 2-7, inflittale in casa dalla Svezia di Nordahl e Gren, primo successo svedese in terra ungherese. Liberata dall'occupazione nazista nel febbraio 1945, per passare peraltro sotto il ferreo controllo sovietico, l'Ungheria già nell'agosto dello stesso anno affrontava l'Austria in un doppio incontro, che esaltava una nuova generazione di forti attaccanti, fra i quali Nyers e Mike che presto furono attratti dal calcio italiano. Già all'epoca muoveva i suoi primi passi nella nazionale ungherese un giovane talento dal potente sinistro, Ferenc Puskas. La svolta si ebbe nel 1949, quando salì alla carica di commissario tecnico Gustav Sebes, uomo dalle idee tattiche avanzatissime, anticipatore di un gioco 'universale', che precorse di un ventennio quello poi imposto al mondo dall'Olanda negli anni Settanta. Nacque così, pezzo dopo pezzo, l'aranycsapat, la "squadra d'oro", raro esempio di una formazione che riusciva a fondere la classe dei suoi solisti, quasi tutti campioni di altissimo livello, in un'armonica manovra corale. Tatticamente, l'Ungheria riprese, perfezionandola, una figura del calcio brasiliano, il centravanti arretrato, che trovò in Hidegkuti un ottimo interprete: un numero 9 che teneva una posizione da suggeritore, mentre le punte più avanzate erano le due mezzali, Kocsis e Puskas, supportati da una grande ala mancina, Czibor. Il regista era il finissimo mediano Bozsik. Questa disposizione, inedita per l'Europa, mise in crisi tutti gli avversari, che vedevano il proprio difensore centrale 'risucchiato' dagli arretramenti di Hidegkuti, mentre il sinistro di Puskas e lo stacco aereo di Kocsis provocavano enormi danni agli avversari.
La squadra d'oro rimase imbattuta dal 14 maggio 1950 al 4 luglio 1954, per quasi un quinquennio, nel corso del quale disputò 31 partite internazionali, vincendone 28 e pareggiandone 3, con 142 gol segnati (alla media di oltre 4,5 a gara) e appena 32 subiti. In questo periodo ‒ nel quale va inserito anche l'oro olimpico di Helsinki del 1952 ‒ incontrò, quasi sempre in trasferta, tutte le più forti nazionali del mondo e fece crollare il famoso home record, cioè il primato interno di imbattibilità dell'Inghilterra, che mai nella sua storia, cioè dall'inizio del calcio moderno, era stata sconfitta in patria da un avversario non britannico. Il 25 novembre 1953, nello stadio imperiale di Wembley, davanti a 100.000 inglesi ammutoliti, l'Ungheria si impose per 6-3 con tripletta di Hidegkuti (arretrato, ma non troppo), doppietta di Puskas e gol di Bozsik, i suoi tre fuoriclasse. Sei mesi dopo, nella rivincita giocata a Budapest, l'Ungheria vinse ancora, con il punteggio di 7-1.
Ai Mondiali del 1954 in Svizzera, dove, secondo ogni logica ci si attendeva la sua definitiva consacrazione, l'Ungheria in due memorabili partite si affermò nettamente su Brasile e Uruguay, ancora più forti di quattro anni prima. In finale incontrò la Germania Ovest, che aveva ripreso l'attività internazionale alla fine del 1950, dopo che nel 1948 la FIFA aveva rimosso il divieto ai propri affiliati di intrattenere rapporti calcistici con gli sconfitti della guerra. L'Ungheria, avendo sconfitto con facilità i tedeschi nelle fasi preliminari, era convinta di poter vincere altrettanto facilmente anche in questa occasione. Infatti, dopo otto minuti conduceva già per 2-0. Fu colta di sorpresa, invece, dalla strepitosa rimonta degli avversari. In seguito si avanzò il sospetto che i tedeschi avessero fatto uso di farmaci. La Germania Ovest fu comunque campione del mondo, mentre la più grande squadra di tutti i tempi non ottenne il titolo più importante, né ebbe l'occasione di rifarsi. L'insurrezione del 1956 e il conseguente ingresso a Budapest dei carri armati sovietici smembrarono quasi del tutto la nazionale ungherese, i cui campioni più significativi rimasero all'estero o vi si rifugiarono, proseguendo l'attività sotto altre bandiere. Mai più, almeno sino a oggi, l'Ungheria ha potuto ritrovare un momento altrettanto fulgido, anche se nel suo carnet figurano i due ori olimpici consecutivi del 1964 e del 1968, frutto peraltro delle condizioni di vantaggio in cui si venivano a trovare le nazionali dell'Est europeo, cui il dilettantismo di Stato consentiva di schierare ai Giochi la formazione migliore.
Il Campionato del Mondo del 1954, considerato tuttora quello di maggior qualità in assoluto, per valore tecnico e spettacolare, non si ricorda soltanto per l'inaspettata affermazione dei tedeschi, tornati rapidamente a vincere dopo la sconfitta bellica. Deve essere detto, fra l'altro, che, se è vero che quella Germania Ovest probabilmente non avrebbe superato indenne l'esame antidoping, è altrettanto vero che presentava eccellenti campioni, primi fra tutti il capitano Fritz Walter, mezzala completa, e il cannoniere Helmut Rahn, una punta estremamente efficace in zona gol. La vera novità di questo Campionato fu, però, il debutto ufficiale della televisione in una grande manifestazione calcistica. Sino ad allora soltanto gli addetti ai lavori potevano spingere la loro competenza oltre i confini nazionali, mentre gli sportivi, che pure seguivano le vicende calcistiche in misura sempre più massiccia, conoscevano bene i campioni di casa, ma degli altri avevano pochi e vaghi riscontri. Ammirare dal vivo fuoriclasse quali Puskas, Schiaffino, Didí, Julinho, Hidegkuti, Beara, Ocwirk, Rahn contribuì ad aprire nuove prospettive.
In Italia, per es., dove si giocava un calcio tatticamente molto bloccato e dove l'Inter aveva vinto due titoli nazionali consecutivi praticando il 'catenaccio' ‒ una disposizione tattica di forte accentuazione difensiva, adottata di regola solo dalle squadre più deboli ‒ il gioco spettacolare di Ungheria, Brasile, Uruguay e le prodezze di tanti campioni liberi di esprimere il loro talento determinarono una sorta di rigetto verso le esasperazioni tattiche. Non a caso, salì alla ribalta (effimera, ma ugualmente significativa, considerato l'assoluto primato delle squadre settentrionali) la Fiorentina, che un allenatore amante del calcio come Fulvio Bernardini aveva impostato nel pieno rispetto dei canoni tecnici.
La televisione ebbe un ruolo assai importante anche nel lancio di una manifestazione che, partita in sordina a metà degli anni Cinquanta, acquisì col tempo un'importanza fondamentale: la Coppa dei Campioni. Ancora una volta furono i francesi a lanciare l'idea, osteggiata dalla federazione europea e da quella mondiale, ma sostenuta fermamente dai club spagnoli, in particolare dal potente Real Madrid, il cui presidente Santiago Bernabéu andava allestendo una grande squadra, con l'ingaggio dei più contesi campioni internazionali. L'idea di una competizione che coinvolgesse ogni anno le più forti squadre del continente, in particolare le detentrici del titolo nazionale, era particolarmente allettante per quei dirigenti che non trovavano più nel solo Campionato un ritorno economico adeguato ai loro massicci investimenti. Anche nel periodo anteguerra si era disputata una Coppa dell'Europa Centrale, riservata alle formazioni dell'area danubiana e all'Italia, che con il Bologna vi aveva raccolto due prestigiose affermazioni. Si trattava però di un calcio non ancora uniformemente diffuso, che limitava il torneo alle scuole realmente competitive. La Coppa dei Campioni, invece, nasceva con una prospettiva molto più ampia, anche se inizialmente limitata dalla diffidenza dei britannici, sempre restii a misurarsi con il resto del continente. A portare la Coppa dei Campioni al vertice del gradimento popolare fu proprio il Real Madrid, il cui calcio scintillante, libero da vincoli tattici, illuminato da grandissimi campioni, diventò per tutti un riferimento obbligato. L'argentino Di Stefano, il francese Kopa, lo spagnolo Gento, più avanti l'ungherese Puskas (lo sfortunato capitano della Grande Ungheria) divennero gli ambasciatori di questo calcio che ‒ miscelando diverse scuole all'interno della stessa squadra ‒ risultava anche più affascinante e coinvolgente di quello delle rappresentative nazionali.
Sulla scia della Coppa dei Campioni, altre competizioni come la Coppa delle Coppe, riservata alle squadre vincitrici della Coppa nazionale, e la Coppa delle Fiere, poi divenuta Coppa UEFA, contribuirono ad arricchire sempre più il panorama di confronti internazionali. Il Real Madrid impose la sua supremazia nelle prime cinque edizioni della Coppa dei Campioni; la superiorità tecnica era accompagnata da un 'peso politico' che gli valeva, nei rari momenti difficili, la puntuale protezione degli arbitri. Ne fecero esperienza anche due squadre italiane, la già citata Fiorentina di Bernardini e il Milan, giunte sino alla finale, ma poi incapaci di interrompere l'imbattibilità dei campioni del Real. Con gli inglesi sempre arroccati nel loro isolamento, la Coppa dei Campioni fu a lungo una vetrina del calcio latino, che del resto si segnalava per attingere costantemente talenti fuori dai propri confini. Quando declinarono, per puri motivi anagrafici, i campioni del Real, il loro posto venne preso per un biennio dai portoghesi del Benfica, che si avvalevano di fuoriclasse nati nell'ex colonia del Mozambico, come Eusebio e Coluña.
Fu poi il momento degli italiani, con le due squadre milanesi. Il Milan fece da apripista, coniugando la creatività di Gianni Rivera e la scaltrezza tattica di Viani e Rocco con il talento brasiliano del goleador José Altafini e del regista Dino Sani. L'Inter raccolse il testimone e impose a sua volta un dominio mondiale, ratificato dai successi nella durissima Coppa Intercontinentale, che opponeva la vincitrice della Coppa dei Campioni europea alla squadra che si era imposta nella Coppa Libertadores, l'omologa manifestazione sudamericana. La Coppa Intercontinentale assegnava, in pratica, il titolo virtuale di campione del mondo a livello di club e i neroazzurri se lo aggiudicarono per due stagioni di seguito, nel 1964 e nel 1965. Anche l'Inter, come il Real, segnò un'epoca, ma per ragioni tatticamente opposte. Il Real giocava un calcio libero, affidato all'estro dei suoi solisti, dove il giocatore più autorevole in campo, Alfredo Di Stefano, era assai più importante dell'allenatore, che infatti veniva sostituito ogni anno malgrado i puntuali successi. Anche l'Inter annoverava grandi campioni, dal regista spagnolo Suarez, a Sandro Mazzola, figlio di Valentino, il capitano del Grande Torino, punta di rapidità fulminea. Sotto gli ordini di Helenio Herrera, il tecnico che tutto il mondo del calcio conosceva come 'il mago', l'Inter adottava però ferrei schemi tattici, imperniati su un reparto difensivo quasi invulnerabile e su un inarrestabile contropiede: gli ingredienti fondamentali di quello che fu poi etichettato come 'calcio all'italiana', con intenti denigratori. In realtà, applicato da una grande squadra e dagli interpreti giusti, anche il calcio all'italiana trovava una sua dignità tecnica. Era senza dubbio più efficace che spettacolare. Ma sul concetto di spettacolo nel calcio le opinioni sono e resteranno difformi, mentre i risultati sono incontestabili.
I successi italiani nella vetrina europea e mondiale dei club formavano un netto e singolare contrasto col periodo oscuro della nazionale azzurra, che toccava il punto più basso della sua storia mancando la qualificazione ai Mondiali del 1958, per poi essere eliminata, sollecitamente e tempestosamente, da quelli del 1962 in Cile. Con i ruoli chiave delle sue squadre di club più forti occupati dagli stranieri, la scuola italiana rischiava il soffocamento. Né si rivelava un buon rimedio il tentativo di reclutare sotto la bandiera azzurra, conferendo loro la cittadinanza italiana, i migliori oriundi del nostro Campionato (da Sivori ad Altafini). Un fenomeno simile, del resto, avveniva anche in Spagna, che pure si segnalava per le 'naturalizzazioni facili', da Di Stefano a Kubala. Era, questa, una dimostrazione di quanto fossero indipendenti fra loro, se non addirittura contraddittori, il calcio dei club e quello delle rappresentative nazionali.
Il discorso sulla Coppa dei Campioni e sulle squadre che ne determinarono le fortune ci ha già introdotto negli anni Sessanta. È però necessario un passo indietro, perché ‒ sul fronte internazionale ‒ la fine degli anni Cinquanta fu segnata da eventi memorabili: la prima vittoria del Brasile in un Campionato del Mondo, l'affermazione di una linea tattica che, con inevitabili ritocchi, costituisce tuttora la base del gioco moderno e la comparsa di quello che è considerato legittimamente il più grande calciatore di tutti i tempi, Edson Arantes do Nascimento, noto universalmente come Pelé.
Il Brasile, dopo la cocente delusione (sfociata in autentica tragedia nazionale) seguita al mancato trionfo nel Mondiale ospitato in casa nel 1950, si era autocondannato a due anni di inattività per riprendersi da quell'autentico shock. L'ampio serbatoio di talenti di quell'immenso paese aveva comunque fatto sì che ai Campionati del Mondo del 1954, in Svizzera, il Brasile ripresentasse una nazionale altamente competitiva. Il memorabile incontro, nei quarti di finale, con la Grande Ungheria si era chiuso sul 4-2 a favore di questa ed era sfociato in una gigantesca rissa, che aveva richiesto l'intervento della polizia sul campo. Puskas, che a causa di un infortunio era seduto in panchina, al rientro negli spogliatoi aveva addirittura spaccato una bottiglia sulla testa del mediano brasiliano Pinheiro. In Brasile la sconfitta era stata giustificata con la solita tesi della 'truffa' europea, ma agli uomini di calcio più avveduti essa era apparsa l'ultima dimostrazione che il puro talento individuale non bastava per raggiungere i traguardi più alti. Occorreva una razionale organizzazione di gioco, nel cui ambito i solisti potessero esaltare la loro creatività, senza cadere però nell'anarchia tattica. In una parola, occorreva ispirarsi proprio al tanto disprezzato calcio europeo e trarvi ispirazione per un decisivo cambio di rotta.
Non a caso, l'artefice della svolta fu un oriundo italiano, Vincenzo Feola, che, chiamato alla guida tecnica del Brasile per la preparazione ai Mondiali del 1958, selezionò quasi 200 giocatori facendoli passare al vaglio della junta medica, al fine di scartare tutti coloro che ‒ a prescindere dal talento ‒ non offrissero adeguate garanzie dal punto di vista atletico: un concetto rivoluzionario per il calcio brasiliano, basato su una straordinaria destrezza individuale. I 33 prescelti furono sottoposti all'addestramento tattico: Feola fece applicare alla squadra uno schieramento che prevedeva davanti al portiere quattro difensori in linea, due mediani, uno di copertura e uno di regia, e quattro attaccanti, dei quali due ali e due punte centrali. Schema molto offensivo, in sintonia con la vocazione brasiliana al calcio d'attacco, ma anche molto rigoroso nei meccanismi di gioco. Non molto dissimile, per la verità, era la disposizione della Grande Ungheria, a parte la figura del centravanti arretrato. L'originalità del 4-2-4 brasiliano (come venne battezzato per comodità di sintesi) consisteva però nella sua capacità di adeguarsi alle mutevoli esigenze della partita. La duttilità dell'ala sinistra, Zagallo, che nei momenti di pressione avversaria retrocedeva sulla linea dei mediani, trasformando il 4-2-4 in 4-3-3, rendeva finalmente il Brasile competitivo anche nella fase difensiva. Come sempre, i moduli vengono esaltati dai loro interpreti e quel Brasile aveva grandissimi giocatori in ogni ruolo. Grazie a loro, il 4-2-4 fu tanto imitato da propagarsi rapidamente in tutto il mondo, anche se molte squadre dovettero rendersi conto a proprie spese di come il modulo brasiliano, applicato a giocatori diversi dai brasiliani, non risultasse risolutivo quanto si era sperato.
Il Brasile, con una formazione quasi identica, vinse due Mondiali consecutivi, nel 1958 in Svezia (interrompendo la tradizione per cui sino ad allora le nazionali sudamericane ed europee si erano imposte rispettivamente a casa loro) e nel 1962 in Cile, quando Zagallo giocò quasi sempre da mediano, per dare maggiore solidità a una squadra di giocatori più anziani, meno freschi dal punto di vista atletico. La leggenda di un calcio tanto bello e narcisistico da risultare incapace di vincere subì così una radicale smentita. Prima del debutto ai Mondiali svedesi, Feola condusse i suoi giocatori in una tournée europea per abituarli al clima tattico e agonistico. L'Italia approfittò di questa vetrina per ingaggiare, nel Milan, il ventenne centravanti José Altafini, soprannominato 'Mazzola' in onore del capitano del Grande Torino, che sarebbe poi diventato uno dei realizzatori più efficaci dell'intera storia del Campionato italiano. A causa della gelosia dei compagni di squadra, Altafini, che pure aveva debuttato ai Mondiali segnando due gol, perse poi il posto di centravanti titolare, affidato a Vavà. In quel Brasile, comunque, si mise in luce per la prima volta il non ancora diciottenne Pelé, anch'egli entrato in squadra a torneo in corso, dagli ottavi di finale in avanti, e autore di tali prodezze (tra cui sei gol nelle ultime tre partite) da lasciare stupefatta la critica mondiale. Lo stesso re Gustavo di Svezia, dopo la finale vinta dai brasiliani proprio contro la nazionale padrona di casa, scese sul campo per complimentarsi personalmente con il giovanissimo giocatore: era nato un grandissimo campione, che avrebbe dominato il panorama calcistico internazionale per più di dodici anni.
Il Mondiale del 1958 aveva visto il debutto nel torneo della nazionale sovietica, che sino a quel momento si era ritagliata uno spazio privilegiato nel calcio olimpico, dove le ambigue regole di iscrizione le consentivano di sfruttare il suo dilettantismo di Stato. Ai Giochi, infatti, l'URSS schierava la miglior formazione possibile, a differenza dei paesi dell'Europa occidentale costretti a rinunciare ai professionisti. Era anche questo il segno di un calcio che vedeva cambiare impetuosamente i propri scenari. Gerarchie tecniche che sembravano consolidate subivano bruschi ridimensionamenti: le sole nazioni detentrici ciascuna di due titoli mondiali, Italia e Uruguay, erano state escluse entrambe dalla fase finale eliminate da squadre prive di una grande tradizione calcistica, rispettivamente l'Irlanda del Nord e il Paraguay. Mentre la formazione dell'Uruguay era priva dei talenti migliori, ingaggiati dai ricchi club europei, l'Italia scontava il fenomeno opposto: un Campionato inflazionato da giocatori stranieri e una politica che anteponeva gli interessi delle società (specialmente dei potenti club delle grandi città del Nord) a quelli della nazionale, nella quale giocavano moltissimi oriundi, ma che era priva di un vero spirito di bandiera. La guida tecnica della squadra azzurra, via via affidata a effimere e inaffidabili commissioni sollevate dall'incarico al primo risultato sfavorevole, non era in grado di garantire quel profondo lavoro di ricostruzione che sarebbe stato necessario per ritrovare gli antichi splendori.
A prescindere da questi casi particolari, tuttavia, il calcio conosceva un poderoso sviluppo. Il successo delle competizioni di club diede all'Europa il decisivo impulso ‒ sempre su iniziativa francese ‒ per dotarsi di un Campionato continentale, che aveva avuto un precedente, prima della guerra, nella Svelha Cup, o Coppa Internazionale. Il Campionato d'Europa per nazioni vide la luce nel 1960 e ad aggiudicarsi la vittoria nella prima edizione, la cui fase finale a quattro squadre venne ospitata dalla Francia, fu proprio l'Unione Sovietica, favorita dal forfait della Spagna franchista, che rifiutò di incontrarla, non intrattenendo rapporti diplomatici con la superpotenza comunista. Nelle file dell'URSS, che pure privilegiava il collettivo rispetto alle individualità, si impose alla ribalta un portiere, Lev Jascin, che, insieme a Zamora e a Dino Zoff, va considerato fra i più forti di ogni tempo e paese.
Pensato sulla falsariga del Campionato del Mondo, anche quello d'Europa aveva una cadenza quadriennale. Snobbato inizialmente dagli inglesi (come si era già verificato per tutte le manifestazioni di cui non erano stati i promotori), ebbe un avvio stentato, ma decollò sin dalla seconda edizione che, come vedremo, fu ospitata dalla Spagna, forse per rimediare alla sua assenza dall'edizione precedente.
Gli anni Sessanta furono caratterizzati, in effetti, dalla presenza contemporanea di correnti tattiche diverse. Due titoli mondiali consecutivi avevano premiato e portato ai vertici il gioco tecnico e creativo del Brasile, un gioco basato sul palleggio e sull'abilità dei singoli, sia pure finalmente inquadrati in un preciso disegno tattico. Con questo tipo di calcio conviveva con successo anche quello più pragmatico ed essenziale dell'Inter (dominatrice della scena europea e mondiale a livello di club), che privilegiava la ferrea difesa e il rapido micidiale contropiede come principale espressione offensiva. Un calcio verticale, che aveva lo scopo di raggiungere la porta avversaria nel minor tempo possibile e con il minor numero di passaggi, tralasciando il fraseggio orizzontale del quale erano maestri i brasiliani e i loro seguaci.
L'avvento dell'URSS, estremamente competitiva negli Europei (prima e seconda alle due edizioni iniziali) e nel cui solco si ponevano quasi tutte le formazioni dell'Est europeo, nonché il ritorno degli inglesi e dei tedeschi, naturalmente portati a un gioco ad alto ritmo, andavano però determinando una nuova tendenza, che avrebbe raggiunto il suo culmine nei Mondiali del 1966, da ricordare per molti motivi. Il calcio atletico, caratterizzato dal vigore fisico, dalla velocità nella corsa e dalla potenza nei contrasti, più che dall'abilità tecnica, si affermò prepotentemente sulla scena internazionale, procurando anche danni notevoli. Infatti, un giudizio superficiale poteva generare l'equivoco che il talento di un calciatore si sarebbe in futuro misurato soltanto in muscoli, chili e centimetri. Inoltre, fatto ancora più pericoloso, essendo molto labile il confine tra calcio a forte impatto fisico e calcio brutale e violento, diveniva forte la tentazione, per le squadre e i giocatori di minore abilità tecnica, di colmare con la sopraffazione e gli interventi intimidatori, il divario con i più dotati. Da questa antitesi fra atletismo e tecnica sarebbe poi scaturita l'efficacissima sintesi della scuola olandese, capace di abbinare il vigore e la destrezza in un tipo di gioco che, non a caso, sarebbe stato definito 'calcio totale'.
Il Brasile, sia pure senza Pelé, infortunato ma sostituito splendidamente dal giovane Amarildo, replicò anche in Cile, nel 1962, il successo ottenuto ai Mondiali di Svezia del 1958, senza doversi impegnare contro rivali particolarmente agguerriti. L'onesta Cecoslovacchia era arrivata sino alla finale grazie alle prodezze del suo portiere, che però nella partita conclusiva non fu all'altezza delle precedenti prestazioni. La Spagna, guidata da Herrera, era uscita precocemente di scena e l'Italia, che partecipava nuovamente alla fase conclusiva di un Mondiale dopo la mancata qualificazione di quattro anni prima, aveva risentito di un ambiente ostile ed era stata eliminata proprio dal Cile, paese organizzatore, anche con la 'complicità' dell'arbitro inglese Aston, apertamente favorevole ai padroni di casa. Un Campionato, quello cileno, decisamente non ispirato all'esemplare sportività che aveva caratterizzato l'edizione svedese. Al poco edificante repertorio di prevaricazioni, favoritismi, irregolarità, si era accompagnato anche lo scarso livello tecnico generale delle squadre partecipanti. Il terzo posto finale della nazionale cilena fu il frutto di manovre che avevano avuto lo scopo di garantire alla squadra di casa ‒ per ragioni di incassi e di quieto vivere ‒ il piazzamento migliore possibile. Due anni dopo, la Spagna sfruttava a sua volta in pieno il fattore campo, aggiudicandosi la seconda edizione del Campionato d'Europa nella finale contro l'URSS, partita più ricca di fair play che di spettacolo.
In questo clima, l'assegnazione all'Inghilterra della fase finale del Mondiale del 1966 si configurava come il tentativo di riportare il calcio nell'ambito della più assoluta regolarità. Contrariamente alle aspettative, però, i Mondiali d'Inghilterra furono anch'essi dominati dalla faziosità. Le nazionali sudamericane, che avevano affrontato in forze l'avventura in Europa anche per l'attrazione esercitata dalla possibilità di giocare nella culla del football, furono presto eliminate: il Brasile dai picchiatori bulgari che provocarono scientemente l'infortunio di Pelé, l'Argentina e l'Uruguay da arbitraggi sfavorevoli al limite della persecuzione. Gli argentini, per la loro strenua opposizione ai padroni di casa, furono bollati dalla stampa inglese con l'epiteto di animals. Nella finale contro i rivali tedeschi, l'Inghilterra si laureò campione del mondo, come tutta la nazione pretendeva, grazie a un gol che ai più parve dubbio e tuttavia fu compiacentemente convalidato dall'arbitro e anche dal guardalinee.
D'altra parte, il calcio inglese, per arrivare nelle migliori condizioni a questo importante appuntamento, aveva proceduto, come il Brasile nel 1958, a una razionale riorganizzazione tattica. Il commissario tecnico Walter Winterbottom, fedele al tradizionale ma ormai obsoleto 'WM' puro (il sistema di gioco che gli inglesi avevano inventato negli anni Venti ed esportato in tutto il mondo) e fino a questo momento sopravvissuto a tutte le disfatte, fu sostituito da Alf Ramsey. Ex terzino di valore, Ramsey aveva giocato nei Mondiali del 1950, quando il calcio inglese aveva conosciuto la crisi più grave della sua storia con l'eliminazione a opera degli Stati Uniti. Ramsey impose alla sua squadra l'abbandono, che per certi versi risultò addirittura traumatico, degli schemi abituali. Davanti a una linea di quattro difensori disposti alla brasiliana, assemblò un centrocampo foltissimo nel quale convivevano Nobby Stiles (giocatore non elegante ma estremamente efficace, incaricato regolarmente di neutralizzare il più pericoloso fra gli avversari con un controllo individuale asfissiante), Bobby Charlton (calciatore ricco di talento, centravanti di numero ma in realtà mobilissimo, come Di Stefano), e due esterni molto dinamici, Ball e Peters. In avanti restavano così soltanto due attaccanti fissi, le 'torri' Hunt e Hurst. Fu in particolare l'abolizione delle ali, che avevano sempre costituito il vanto e il 'marchio di fabbrica' del calcio inglese, a scatenare violente reazioni da parte di critica e opinione pubblica; solamente i risultati positivi consentirono a Ramsey di restare al suo posto, al momento in cui la vittoria al Campionato del Mondo gli portò, insieme al titolo di baronetto, anche il consenso popolare.
In sostanza, Ramsey era partito dal 4-2-4 brasiliano, corretto all'europea sino ad arrivare a un 4-4-2 o 4-3-1-2, tenendo conto della versatilità di Bobby Charlton (il solo fuoriclasse della compagnia, insieme con il difensore centrale Bobby Moore). Ma poiché i due terzini avevano spiccato il senso della propulsione, in fase di attacco l'Inghilterra poteva premere sull'avversario a pieno organico, mentre era pronta a raccogliersi e a presidiare efficacemente la propria area in fase difensiva. Questa abilità nell'adattarsi alle mutevoli esigenze della partita costituì la base della sua ritrovata competitività. Un decisivo contributo al trionfo inglese venne, però, come abbiamo visto, dalla generalizzata propensione del calcio mondiale di quegli anni a favorire i padroni di casa.
Dopo il titolo europeo conquistato dalla Spagna a Madrid nel 1964 e l'alloro mondiale degli inglesi a Wembley nel 1966, di tale propensione godette anche l'Italia che, nel 1968, si aggiudicò la terza edizione del Campionato d'Europa, a Roma, tornando ad affermarsi in campo internazionale: erano trascorsi esattamente trent'anni dall'ultima vittoria ottenuta al Mondiale del 1938 giocato a Parigi. Tuttavia, neppure in occasione di questo successo tanto atteso mancarono le ombre. La prima finale con la Iugoslavia si chiuse in pareggio grazie a interpretazioni arbitrali assai benevole nei confronti degli azzurri. La ripetizione della partita consentì all'Italia di sfruttare il suo organico più ampio e di imporsi, questa volta con pieno merito, su avversari meno provvisti di valide alternative.
L'Italia tornò così ai vertici, a solo due anni di distanza dall'episodio più mortificante della sua storia calcistica. Ai Mondiali d'Inghilterra del 1966, infatti, il calcio italiano si era presentato con giustificate ambizioni. Dopo la negativa esperienza cilena, la federazione era corsa ai ripari, affidando la squadra azzurra a una gestione stabile e autonoma come non si verificava dai tempi di Vittorio Pozzo. Un giovane tecnico emergente, Edmondo Fabbri, che godeva del pieno appoggio del presidente federale Giuseppe Pasquale, aveva reimpostato la nazionale sottraendola all'influenza delle società; aveva costituito, infatti, un nucleo fisso di giocatori (il club Italia) mettendo a punto per loro un tipo di gioco in controtendenza rispetto al Campionato. Molti giovani di valore, che in parte si erano rivelati nella nazionale olimpica del 1960, ne costituivano l'ossatura: Rivera, Mazzola, Bulgarelli, Salvadore, Rosato sembravano poter assicurare un brillante futuro a una squadra che si era via via disfatta degli oriundi, optando coraggiosamente per l'autarchia. I primi risultati furono ottimi e ottenuti con un gioco spumeggiante, che riavvicinò alla nazionale il grande pubblico. Purtroppo, però, Fabbri era tanto preparato e valido sul piano tecnico quanto ombroso e sospettoso di carattere. Ai Mondiali inglesi, inaugurati da una vittoria sul Cile che assunse anche il valore di una rivincita del 'sopruso' di quattro anni prima, si chiuse in se stesso e prese decisioni discutibili (come quella di mandare in campo Bulgarelli, non ancora ristabilito da un infortunio, quando non erano previste le sostituzioni a partita in corso). L'Italia finì con l'essere eliminata dalla Corea del Nord, una squadra fino a quel momento assolutamente sconosciuta nel panorama del calcio internazionale. Partiti con l'appoggio dell'entusiasmo popolare, gli azzurri furono accolti al loro ritorno all'aeroporto di Genova, dal lancio di pomodori, da parte di una folla inviperita.
Fabbri fu liquidato e poi squalificato per aver lanciato pubbliche accuse di cospirazione ai componenti dello staff medico (i giocatori italiani sarebbero stati 'dopati' alla rovescia, per farli perdere). Il suo lavoro, però, aveva agito in profondità ed era stato prezioso e decisivo. L'avvento alla presidenza federale di un illuminato dirigente come Artemio Franchi e la promozione a commissario tecnico del vice di Fabbri, Ferruccio Valcareggi, coincisero con un biennio di grandi successi: l'Italia vinse gli Europei del 1968 e due anni dopo si classificò seconda ai Mondiali messicani. È da notare che, nel frattempo, si era messo in luce un grande attaccante, Gigi Riva, figura che invece era mancata alla nazionale di Fabbri. Con una punta di valore mondiale, in grado di garantire un'eccezionale media di gol realizzati, e con un portiere (prima Zoff e Albertosi che si avvicendavano l'uno all'altro, poi, per molti anni, il solo Zoff, divenuto atleta simbolo della nazionale) degno dei campioni del passato, il gioco all'italiana ritrovava una sua indiscutibile efficacia. La nazionale di Valcareggi, che pure non incantò mai sul piano squisitamente estetico, si mantenne per sei anni ai primissimi posti del ranking mondiale come mai era accaduto nel dopoguerra, ispirandosi al modello di schema tattico, cinico ma vincente dell'Inter da cui, del resto, provenivano molti dei giocatori azzurri.
La resa dei conti avvenne nel 1970 sugli altipiani del Messico. Per la prima volta nella storia un Campionato del Mondo si giocava in altura ed era anche la prima volta che la sede veniva scelta al di fuori dell'alternanza obbligata fra Europa e Sud America. I problemi posti dall'altitudine, già sperimentati alle Olimpiadi che si erano disputate due anni prima nella stessa cornice, si rivelarono pesanti e non tutte le squadre seppero affrontarli con la necessaria preparazione. Il dominante calcio atletico, basato su una fisicità esasperata e su un gioco aggressivo che richiedeva un dispendio notevole di energie, trovò nelle condizioni ambientali un notevole ostacolo.
L'Europa mise in campo le risorse migliori: Germania Ovest e Inghilterra, le protagoniste del precedente Mondiale che presentarono formazioni forse ancora più forti e complete di quattro anni prima, e l'Italia, campione continentale in carica.
Dall'altra parte il Brasile, determinato a riconquistare il titolo dopo la sfortunata esperienza ai Mondiali disputati in Inghilterra, attendeva gli avversari sul suo terreno preferito: il gioco brasiliano, basato sul prolungato possesso della palla, su raffinati fraseggi a basso ritmo, sulla tecnica individuale, meglio si adattava a ridurre i disagi dell'alta quota, acuiti dalle accelerazioni violente. Erano passati dodici anni da quando Pelé aveva vinto il suo primo titolo mondiale e ora, a trent'anni, il grande campione era l'anima di una squadra che il suo ex compagno Zagallo, la preziosa ala tornante di Feola cui era stata affidata la guida della Seleção, aveva messo insieme seguendo un principio inedito e rischioso: riunire i migliori talenti del calcio brasiliano indipendentemente dalla loro compatibilità tecnica.
La prima linea del Brasile era così formata da cinque giocatori che nelle rispettive formazioni di club portavano tutti la maglia numero 10: cinque leader, che solo il carisma di Pelé riusciva a far convivere senza contrasti. Questa singolare situazione si risolse in un trionfo per le enormi potenzialità della squadra, ma anche per alcune circostanze propizie. A parte l'altura, infatti, avvenne che le tre grandi squadre europee furono costrette a scontrarsi duramente fra di loro: Germania Ovest e Inghilterra disputarono un quarto di finale all'ultimo sangue, concluso nei tempi supplementari a favore dei tedeschi, che vendicarono con un'incredibile rimonta lo 'scippo' di Wembley. Ancora provata, la Germania Ovest incontrò in semifinale l'Italia e ne venne fuori quel 4-3 a favore degli azzurri che è ormai entrato nella leggenda e al cui ricordo è stata dedicata una targa nel monumentale stadio Azteca di Città del Messico. Quell'Italia cinica e sfrontata, riscattatasi nel corso del torneo da un avvio deludente, nella finale tenne testa degnamente al grande Brasile per oltre un'ora fermando il punteggio sull'1-1; poi crollò fisicamente e fu travolta dai brasiliani. La tecnica aveva avuto il suo grande riscatto e Pelé, unico calciatore al mondo ad aver vinto tre titoli iridati, era tornato più saldo che mai sul suo trono. L'Italia, che si attendeva degni festeggiamenti per il suo exploit, fu accolta al rientro in patria da una folla inferocita, che costrinse tecnico e giocatori a rifugiarsi in un hangar dell'aeroporto di Fiumicino. Oggetto di questa ostilità era il commissario tecnico Valcareggi, che aveva fatto giocare soltanto negli ultimi sei minuti, ormai ininfluenti, della finale Gianni Rivera, l'idolo dei tifosi italiani, l'autore del gol decisivo nel 4-3 inflitto ai tedeschi.
Con il trionfo messicano del Brasile (che si aggiudicava definitivamente la Coppa Rimet, destinata alla nazione che avesse per prima conquistato tre titoli mondiali) si apriva la stagione del calcio degli anni Settanta, straordinariamente ricca di novità epocali. Già sul finire del decennio precedente non erano sfuggiti, agli osservatori più attenti, i primi annunci di un fenomeno che avrebbe costituito un vero spartiacque nella storia del calcio: nel 1969, alla finale della Coppa dei Campioni, era imprevedibilmente approdata una formazione olandese, l'Ajax di Amsterdam, che il tecnico Rinus Michels aveva costruito basandosi su canoni assolutamente innovativi rispetto alla tradizione. Composta da un nucleo di giovani talenti allevati con cura nel vivaio del club, quindi abituati da anni a giocare con un grande senso del collettivo, l'Ajax esprimeva sul campo un tipo di gioco che non si era mai visto. La sua autentica rivoluzione consisteva nell'abolizione dei ruoli: i difensori si sganciavano in attacco e gli attaccanti rientravano in copertura nell'ambito di una manovra ad alto ritmo, che non concedeva agli avversari né punti di riferimento fissi, né, di conseguenza, la possibilità di adottare efficaci contromisure. Il suo uomo di maggior talento, Johan Cruijff, si muoveva con una rapidità impressionante, abbinata a una tecnica di primissimo ordine. Quasi a significare la sua rottura con il passato, portava sulla maglia il numero 14, non identificandosi in nessuno degli undici ruoli tradizionali. In realtà era un attaccante completo, con un grande senso del gol, ma che variava di continuo la sua posizione sul campo e aggrediva la porta partendo da lontano, con micidiali accelerazioni.
Alla finale europea ‒ dove era arrivato dopo una serie di vittorie rocambolesche, di sensazionali rimonte, di punteggi nettissimi ‒ l'Ajax incontrò l'avversario peggiore che potesse capitargli: il Milan. Impostato dall'allenatore Nereo Rocco sui canoni più avanzati del calcio all'italiana, animato in campo da Gianni Rivera, bloccato in difesa su rigorose marcature individuali e con la regia del grande Cesare Maldini, il Milan riuscì, infatti, a disattivare con estrema facilità i rivoluzionari meccanismi di gioco olandesi. Cruijff fu subito escluso dalla manovra e la difesa in linea dell'Ajax, che applicava in modo sistematico la trappola del fuorigioco (avanzando simultaneamente a ranghi compatti per lasciare le punte rivali in posizione irregolare), venne neutralizzata dal tempismo di Rivera, in grado di cogliere l'attimo giusto per lanciare a rete, in una zona del campo praticamente deserta, il cannoniere Pierino Prati. La sconfitta dell'Ajax fu quasi un massacro e lì parve chiudersi quel tentativo di inventare un gioco nuovo e di imporlo come modello vincente. Il trionfo milanista si rivelò, invece, il canto del cigno del calcio tradizionale. L'Ajax era stato tradito dalla sua inesperienza e, forse, da una certa dose di presunzione, ma a partire dalla stagione seguente i club olandesi, prima con il Feyenoord e poi, per tre anni di seguito, con lo stesso Ajax, furono i dominatori delle competizioni europee riservate ai club.
Più laboriosa si rivelò, invece, la trasposizione nella rappresentativa nazionale di quel modulo. L'Olanda aveva collezionato una lunga serie di sconfitte, conoscendo proprio negli anni Cinquanta e Sessanta il suo periodo più oscuro. Un anno dopo che l'Ajax, pur sconfitto in finale, aveva stupito e incantato la critica internazionale, la nazionale olandese fu esclusa dai Mondiali messicani, perché eliminata in fase di qualificazione, come già era successo nelle tre edizioni precedenti. I giocatori erano praticamente gli stessi che giocavano nell'Ajax, ma va anche detto che non erano troppo sensibili allo spirito di bandiera, a cominciare proprio da Cruijff, che nel corso della sua lunga e straordinaria carriera antepose sempre l'interesse personale all''amor di patria'. Il modello olandese, comunque, ebbe un immediato impatto su un calcio che già avvertiva forte l'esigenza di un cambiamento. Il gioco 'totale' (con figure inedite come il pressing, cioè l'aggressione sistematica e in forze dell'avversario in possesso di palla, in ogni zona del campo; la già citata tattica del fuorigioco, con spettacolari e sincrone avanzate dell'intera linea difensiva; il tourbillon determinato dai continui scambi di ruolo), se applicato da interpreti di valore, si rivelava altamente spettacolare. Tornavano di moda gli alti punteggi, che il pragmatico, seppur efficacissimo, calcio all'italiana aveva invece contribuito a congelare, privilegiando la fase difensiva e rarefacendo la fase d'attacco.
Il calcio olandese, cui si ispirarono tecnici d'avanguardia di ogni paese, era in effetti diverso da tutti i precedenti tipi di gioco, anche se, ovviamente, non poteva non riproporre alcune soluzioni già sperimentate. La linea difensiva a quattro, per es., si rifaceva al 4-2-4 brasiliano, che però non prevedeva il ricorso alla trappola del fuorigioco.
In precedenza, l'interscambio dei ruoli era già stata adottato con successo dalla Grande Ungheria, ma su ritmi meno frenetici e con una chiara prevalenza dell'abilità tecnica sul vigore atletico. La vera originalità del modulo olandese fu di giocare un calcio fisico con la proprietà tecnica tipica dei campioni sudamericani. Come era già capitato all'Ungheria degli anni Cinquanta, anche l'Olanda chiuse la sua grande stagione senza aver colto allori: fu seconda in due Campionati del Mondo consecutivi, sempre alle spalle della nazionale padrona di casa (la Germania Ovest nel 1974 e l'Argentina nel 1978), e quest'ultima circostanza costituisce qualcosa di più di un'attenuante, se si tiene conto della rilevanza che in quel periodo, come abbiamo visto, assumeva il fattore campo.
Occorre ricordare ancora una volta che, per quanto sapiente e innovativo sia il modulo tattico adottato, la qualità dei singoli giocatori resta un fattore determinante per le fortune di una squadra: come furono gli assi del Brasile, nel 1958, a esaltare il 4-2-4 che, riproposto da altre formazioni di minor talento si rivelò assai meno efficace, così il 'calcio totale' dell'Olanda non avrebbe suscitato tanto ‒ e giustificato ‒ clamore, se a imporlo con la maglia dell'Ajax o della nazionale, non fosse stato un gruppo di autentici fuoriclasse. Infatti, tramontata quella generazione di campioni, l'Olanda continuò ad adottare il medesimo schema, ma non seppe ripetere lo stesso spettacolo né gli stessi risultati. Peraltro, a metà degli anni Settanta si trovarono a convivere e a disputarsi la ribalta due grandi scuole: quella olandese e quella tedesca forte, a sua volta, di eccellenti campioni guidati da Franz Beckenbauer, il 'Kaiser'. Beckenbauer si era rivelato giovanissimo ai Mondiali del 1966 in Inghilterra come impetuoso mediano laterale (memorabile il suo duello in finale con il leader della squadra inglese Bobby Charlton) e aveva confermato il suo valore quattro anni dopo in Messico, nel ruolo di libero difensivo da lui interpretato con assoluta originalità: non più, o non solo, l'ultimo baluardo in fase di copertura, ma il vero regista della difesa, il primo a riproporre la manovra e ad aggiungersi ai centrocampisti quando la squadra riprendeva l'iniziativa. Non a caso, da allora, si definisce 'libero alla Beckenbauer' chi segue questa impostazione tattica.
La Germania Ovest era rimasta costantemente ai vertici del calcio internazionale con una serie impressionante di piazzamenti (seconda ai Mondiali del 1966, terza a quelli del 1970), ottenuti restando fedele ai canoni tradizionali del calcio, rinnovati però da un grande atletismo collettivo e da alcune individualità di notevole spicco. Accanto a Beckenbauer si segnalavano i centrocampisti Overath e Netzer, mentre in attacco dominava il centravanti Gerd Müller, uno dei più grandi realizzatori di tutti i tempi. Nel 1972 i tedeschi avevano finalmente conseguito un importante successo internazionale, dominando i campionati europei in Belgio e proponendosi, così, come i favoriti per il Mondiale che, due anni dopo, avrebbero ospitato per la prima volta. Con il Brasile impegnato nella laboriosa gestione del dopo-Pelé e l'Inghilterra ripiombata in una fase di stanca per mancanza di ricambi agli 'eroi' del 1966, non si profilava una concorrenza spietata. L'Olanda, da parte sua, restava un'incognita interessante anche se, del resto, una competizione lunga e faticosa come il Campionato del Mondo sembrava la meno adatta al calcio olandese, innovativo e coinvolgente, ma anche molto dispendioso dal punto di vista delle energie. Inoltre, la nazionale olandese era spesso penalizzata, in occasione degli appuntamenti internazionali, da furiose rivalità interne. Cruijff, infatti, era un leader in campo, ma non un capo carismatico seguito e rispettato da tutti, come lo era Beckenbauer per i tedeschi.
L'altra squadra ‒ oltre alla Germania Ovest ‒ favorita per il Mondiale del 1974 appariva l'Italia. Il rendimento della nazionale azzurra, dopo il Messico e le polemiche che ne erano seguite, aveva subito una brusca flessione. Il Belgio l'aveva eliminata dalla fase finale degli Europei del 1972, anche a causa delle precarie condizioni del goleador Riva, reduce da un lungo e grave infortunio. Il commissario tecnico Valcareggi era però riuscito a superare indenne la crisi e, per quanto conservatore per natura, si era tuttavia convinto a rinnovare gradualmente l'ossatura della squadra. Al nucleo storico si erano aggiunti la mezzala di regia Fabio Capello e il centravanti Giorgio Chinaglia, un vero campione anche se non facile da gestire. Chinaglia era il simbolo della Lazio, che si apprestava a infrangere nel Campionato italiano ‒ sia pure per un anno soltanto ‒ la consolidata egemonia delle squadre del Nord. In coppia con Riva, costituiva potenzialmente un attacco esplosivo. Nel novembre del 1973, sette mesi prima del Mondiale in Germania Ovest, l'Italia colse un risultato storico: la prima vittoria sul suolo inglese, che sino a quel momento era stato un inviolabile tabù per gli azzurri. Nell'occasione, contro un'Inghilterra protesa in un cieco assalto, sotto la pioggia battente, emerse ancora una volta la straordinaria efficacia del contropiede. La difesa italiana, arroccata in forze davanti al portiere Zoff, si rivelò insuperabile e a pochi minuti dal termine una poderosa incursione di Chinaglia fu trasformata in gol da Capello. Al di là del valore degli avversari, quell'impresa ebbe un'eco straordinaria e alimentò attorno alla Nazionale un clima di grande fiducia. Proprio mentre l'Olanda stava imponendo al mondo un calcio nuovo, la vecchia e collaudata ricetta italiana ("primo, non prenderle") si proponeva ancora come la più affidabile. In effetti, al momento in cui l'Italia iniziava la sua avventura mondiale, Zoff non subiva gol in nazionale da due anni e mezzo.
Fu, quel Mondiale del 1974, uno scontro appassionante non soltanto di squadre, ma anche di mentalità. La gerarchia tradizionale subiva continue smentite. Sempre in Germania, alle Olimpiadi del 1972, il torneo calcistico era stato vinto dalla Polonia; un fatto sottovalutato dalla critica e da essa considerato circoscritto al ristretto ambito del calcio olimpico, che notoriamente favoriva i dilettanti di Stato dell'Est europeo. La Polonia, invece, forte di autentici campioni e capace di offrire un gioco solido e spettacolare insieme, lontanissimo da quello assolutamente prevedibile della scuola orientale, anche nel 1974, con la stessa formazione eliminò l'Inghilterra dalle qualificazioni mondiali e si ritagliò un ruolo da protagonista. Nello stesso modo, la prolungata imbattibilità di Zoff e della difesa italiana fu interrotta, dopo 46 minuti della partita inaugurale, non a opera di un'avversaria già affermata, ma dalla rappresentativa di Haiti, pittoresco esempio dello sconosciuto calcio caraibico. L'Italia rimontò e vinse, ma quella faticosa vittoria fu seguita dal pareggio con l'Argentina e dalla sconfitta contro la forte Polonia (in una partita assai chiacchierata, perché i polacchi denunciarono un tentativo di corruzione da parte dell'Italia), che la costrinsero a un rapido ritorno a casa. Così si concluse, con amarezza in fondo immeritata, la gestione tecnica di Valcareggi, il primo commissario tecnico vittorioso dai tempi di Pozzo.
Uscita di scena l'Italia, Germania Ovest, Olanda e Polonia dominarono un Mondiale che vide il Brasile di Zagallo recitare soltanto un dignitoso ruolo di comprimario. L'Olanda incantava le folle e la televisione contribuiva a diffondere il fascino di quel gioco nuovo e senza calcoli, che si traduceva in ricchi bottini di gol, mentre il sistematico ricorso a pressing e tattica del fuorigioco impediva regolarmente agli avversari di segnare. La Germania Ovest giocava risparmiando energie (si consentì anche una diplomatica sconfitta con la Repubblica Denocratica Tedesca nella fase iniziale del torneo, in un inedito confronto diretto fra tedeschi che riempì le cronache non solo sportive), ma fu infine costretta a uscire allo scoperto nella semifinale contro la Polonia, forte del bravissimo portiere Tomaszewski: uno splendido scontro, di alto livello agonistico, che alla fine fu vinto di misura dalla Germania Ovest. Così, la finale con gli olandesi, che avevano sconfitto nettamente il Brasile, divenne la sfida ultima fra il calcio conservatore e quello della 'grande riforma', o almeno fu interpretata in quest'ottica da una critica sempre pronta a proporre nette contrapposizioni più che a mettere in rilievo come il progresso, anche nel calcio, si attui a piccoli passi e con infinite mediazioni. L'Olanda andò in vantaggio dopo un minuto e credette di avere già vinto. La Germania Ovest, tradizionalmente tenace, la raggiunse caparbiamente e poi la batté. Il fattore campo, anche per la bravura dell'arbitro inglese Taylor, ebbe un'importanza solo relativa, mentre risultò decisiva la presunzione degli interpreti del calcio totale, che pensavano di essere troppo forti per qualsiasi avversario. Non fu, comunque, la vittoria del vecchio sul nuovo, perché proprio da quel Mondiale il calcio olandese uscì consacrato; si trattò, semplicemente, della vittoria di una grande squadra, sempre ai vertici delle grandi competizioni. Beckenbauer si tolse una soddisfazione nei confronti di Cruijff, il rivale per il quale non nutriva simpatia e che a sua volta non lo amava. La contesa fra i due campioni dominava ormai tutta la scena europea: anche nella Coppa dei Campioni ai tre successi consecutivi dell'Ajax di Cruijff seguì l'analoga tripletta del Bayern di Beckenbauer. Gli altri, per il momento, stavano a guardare.
Il ferreo duopolio Germania Ovest-Olanda, secondo ogni ragionevole previsione, era destinato a confermarsi nel Campionato d'Europa del 1976, considerati come una concreta possibilità di rivincita rispetto al Mondiale tedesco di due anni prima. In effetti, le due squadre favorite giunsero senza problemi nel quartetto delle finaliste, completato dalla Iugoslavia, paese ospitante, e dalla solida Cecoslovacchia, squadra di scarsa fantasia ma di robusto collettivo, provvista di sufficiente cinismo tattico per opporsi alle formazioni più quotate senza il minimo timore reverenziale. Il duello tra Beckenbauer e Cruijff si spostava su ribalte diverse, senza tuttavia perdere il suo ruolo di principale attrattiva del cartellone calcistico.
Proprio in quegli Europei, disputatisi in proibitive condizioni atmosferiche, si verificarono due fatti importanti: la Cecoslovacchia batté prima l'Olanda in semifinale e poi la Germania Ovest in finale e la perenne conflittualità all'interno della squadra olandese, lacerata da rivalità insanabili, determinò la rottura definitiva di Cruijff con la propria nazionale. Cruijff, che pure in campo rappresentava il perno del gioco totale, si faceva guidare nelle scelte e negli atteggiamenti da un assoluto individualismo. Aveva già lasciato l'Ajax per il Barcellona, cedendo alle lusinghe economiche di un favoloso contratto proprio alla vigilia dei Mondiali 1974: una decisione che la federazione olandese aveva dovuto subire, senza mai accettarla del tutto. Per partecipare alle finali del Campionato d'Europa, poi, aveva preteso un compenso straordinario, il che gli aveva del tutto inimicato la maggioranza degli altri giocatori. La sconfitta fece precipitare la situazione. Cruijff lasciò l'Olanda, chiudendo la sua carriera in nazionale senza quei successi che la sua classe e il suo talento naturale avrebbero sicuramente meritato. In questo, fu costretto a invidiare il suo rivale Beckenbauer, vero e proprio collezionista di trofei.
L'abbandono di Cruijff e dei giocatori a lui più legati, parve così chiudere la breve ma esaltante stagione della Grande Olanda. Invece, una formazione olandese di minore qualità, ma solida e unita più che in passato sotto il profilo morale, riuscì a raggiungere ancora la finale nel Mondiale del 1978, anch'essa, come la precedente, giocata contro la nazionale di casa: questa volta al posto della Germania Ovest c'era l'Argentina e il fattore campo si fece sentire in modo ben più pesante. L'Argentina aveva organizzato il Mondiale con la ferma determinazione di vincerlo per offrire evasione e sfogo alla popolazione oppressa dalla dittatura militare e per dare all'opinione pubblica mondiale ‒ che la guardava con giustificato sospetto ‒ una dimostrazione di alta efficienza organizzativa. Il trionfo finale, che sotto il profilo sportivo fu anche un meritato, e persino tardivo, riconoscimento per una delle scuole calcistiche più forti di ogni tempo, lasciò aperti molti interrogativi su quell'esito scontato. Oltre all'Olanda, altre due squadre si dimostrarono all'altezza del titolo: il Brasile, forse vittima di una combine tra Argentina e Perù, e l'Italia, uscita dal periodo di crisi e ammirata come la miglior nazionale, in chiave tecnica e tattica, di quel Mondiale.
Per l'Italia, con il Mondiale 1974, si era registrata la conclusione traumatica del lungo, e tutto sommato felice, ciclo tecnico di Valcareggi; contemporaneamente, grandi campioni come Rivera, Sandro Mazzola, Riva, chiudevano la loro milizia in maglia azzurra. Il delicato periodo di passaggio fu gestito, con mano salda e assoluta noncuranza dell'impopolarità, da un uomo esperto come Fulvio Bernardini, che collezionò sconfitte e feroci critiche, ma riuscì a formare un nucleo di freschi talenti accomunati dalla qualità tecnica (i 'piedi buoni', il cui simbolo era considerato il giovane Giancarlo Antognoni) e dalla disciplina di squadra. Quando Bernardini, esaurito il compito di traghettatore, consegnò la nazionale al suo collaboratore Enzo Bearzot, si aprì una fase importante: Bearzot riuscì a dare alla squadra un impianto di gioco che mediava felicemente i valori tradizionali della scuola italiana con i nuovi fermenti seguiti alla rivoluzione olandese. Non a caso il suo schema di gioco fu definito 'zona mista'. L'Italia, cioè, conservava la sua forza difensiva, basata essenzialmente su rigorose marcature individuali, ma da metà campo in su si apriva a una manovra più libera e corale, con fruttuosi interscambi che spezzavano la rigidità dei ruoli.
Trascinata da un giovane cannoniere, Paolo Rossi, un attaccante di fisico leggero ma dal grande istinto del gol, l'Italia incantò in Argentina il pubblico e la critica, ma non andò oltre un quarto posto finale, sicuramente inadeguato ai suoi meriti. Due anni dopo, nel 1980, ospitando per la seconda volta i Campionati d'Europa, la squadra azzurra si apprestava ad arricchire il suo medagliere, quando fu travolta da uno scandalo senza precedenti. Il 'totonero', il fenomeno delle scommesse clandestine e degli accordi preventivi sul risultato di molte partite al fine di ottenere vincite illecite, coinvolse parecchi calciatori di primo piano, fra i quali lo stesso Paolo Rossi e l'altro attaccante più quotato del momento, Bruno Giordano, colpiti da pesanti squalifiche. Privato delle sue punte più forti e dell'appoggio del pubblico, che per un giustificato calo di fiducia disertò gli stadi, Bearzot concluse l'Europeo disputato in casa con un deludente quarto posto, mentre la Germania Ovest ne approfittava per collezionare l'ennesimo titolo continentale.
In tali condizioni, va considerata in un certo senso prodigiosa l'immediata ripresa della nazionale azzurra, che nel 1982, in Spagna, vinse il suo terzo titolo mondiale, il primo del dopoguerra dopo la doppietta, ormai lontanissima, del 1934 e 1938. Alla vittoria contribuì in modo determinante lo stesso Paolo Rossi, che aveva esaurito il periodo di squalifica proprio alla vigilia del Mondiale. Bearzot lo volle unire alla squadra sfidando le ire dei benpensanti e le critiche dei tecnici, che lo ritenevano irrimediabilmente arrugginito dalla forzata e prolungata inattività. In effetti, l'esordio dell'Italia fu stentato e Rossi fu la causa principale delle difficoltà iniziali. Ma proprio quando il 'linciaggio' di Bearzot toccava il culmine, gli azzurri si scossero ed eliminarono in successione l'Argentina campione in carica (dove giocava il nuovo astro mondiale, Diego Maradona) e il Brasile, la formazione favorita. Con tre gol al Brasile, impresa mai riuscita a nessun altro calciatore, Rossi interruppe la serie negativa, finendo per laurearsi capocannoniere del torneo con sei reti concentrate nelle ultime tre partite. Nella finale, fu ancora la Germania Ovest ‒ squadra di eccezionale continuità ai massimi livelli ‒ ad affrontare gli azzurri, che però si imposero in modo estremamente netto dando prova di una superiorità indiscutibile.
Ancor più dell'esaltante ma estemporaneo secondo posto conquistato in Messico nel 1970, fu il trionfo spagnolo a proiettare di nuovo e stabilmente l'Italia nell'aristocrazia internazionale del calcio. Il suo gioco, a lungo giudicato dalla critica estera come espressione di puro difensivismo, privo di ogni slancio spettacolare, aveva ritrovato credibilità e consensi, oltre che imitatori. Frattanto, la riapertura delle frontiere, dapprima contingentata, poi sempre più massiccia, aveva ridato piena competitività alle formazioni di club, senza che ne risentisse il rendimento della rappresentativa nazionale. Bearzot fallì la spedizione messicana del 1986, tradito (come in parte era accaduto anche a Valcareggi) dal sentimento di gratitudine nei confronti dei suoi veterani, in omaggio ai quali aveva rinviato un'adeguata operazione di ricambio e di ringiovanimento dei ranghi. Ma fu, quello, l'ultimo Campionato del Mondo in cui l'Italia ebbe un ruolo da comparsa. Nel 1990, nei Mondiali organizzati in casa, gli azzurri guidati da Vicini furono terzi, senza subire una sola sconfitta. Nella successiva edizione ospitata dagli Stati Uniti nel 1994, sotto la gestione tecnica di Arrigo Sacchi, autore di un'autentica rivoluzione che già aveva portato il suo Milan ai vertici europei e mondiali, l'Italia arrivò sino alla finale, arrendendosi al Brasile soltanto ai calci di rigore. In quell'occasione, il trascinatore degli azzurri fu Roberto Baggio, il fuoriclasse che si aggiunse a Rivera e a Paolo Rossi nel conquistare il Pallone d'oro, riconoscimento destinato al miglior calciatore europeo della stagione. Nell'ultimo Mondiale del secolo, quello organizzato e vinto dalla Francia nel 1998, ancora una volta soltanto ai calci di rigore, l'Italia allenata da Maldini cedette nei quarti di finale ai padroni di casa, poi vittoriosi anche in finale contro il Brasile. Agli Europei del 2000 l'Italia si classificò seconda, ancora dietro alla Francia; sulla panchina della nazionale sedeva Dino Zoff, il grande portiere che aveva dato un contributo decisivo alla conquista del titolo mondiale in Spagna. Peraltro, le ingrate critiche per il mancato successo indussero Zoff alle dimissioni, subito dopo la conclusione del torneo. Al suo posto divenne commissario tecnico della nazionale Giovanni Trapattoni, reduce da una carriera ricca di vittorie quale tecnico di club.
È da sottolineare la singolare circostanza che, proprio mentre il mondo del calcio si apriva a nuove realtà ‒ in particolare alle squadre africane portatrici di un atletismo prorompente ma sempre più disciplinato dai progressi tecnici e tattici ‒ i titoli più importanti continuavano a essere conquistati dalle grandi potenze tradizionali. Al ritorno dell'Italia ai vertici mondiali si accompagnò, infatti, un momento assai felice dell'Argentina sotto la spinta decisiva del suo fuoriclasse Diego Maradona, l'erede naturale di Pelé. La grandezza di Maradona portò la squadra argentina, nonostante l'assenza di qualche giocatore di altissimo livello, a vincere il Mondiale del 1986 e a classificarsi seconda in quello del 1990, disputando due finali contro una sempre grande Germania Ovest, alla cui guida tecnica era l'ex campione Franz Beckenbauer. Il Brasile, da parte sua, si aggiudicò il suo quarto titolo iridato nel 1994 e arrivò in finale quattro anni dopo, in Francia, perdendo nettamente l'ultima partita contro gli scatenati padroni di casa anche a causa di un misterioso malore che aveva costretto il suo campione più rappresentativo, Ronaldo, a scendere in campo in condizioni fisiche estremamente precarie. Fra le protagoniste di fine secolo, dunque, Italia, Argentina, Germania e Brasile erano le formazioni più titolate a livello mondiale, il segno di una continuità che aveva resistito a tutte le mode. In questo senso, va riconosciuto che l'autentica rivelazione calcistica nel passaggio di secolo è stata la Francia, vincitrice del titolo mondiale nel 1998 e di quello europeo nel 2000, una doppietta che in precedenza era riuscita, in ordine inverso, soltanto alla Germania Ovest nel 1972 e nel 1974.
La Francia aveva conosciuto altri periodi di splendore senza riuscire, peraltro, a concretizzarli se non parzialmente in risultati positivi. Nella seconda metà degli anni Cinquanta, la fioritura di genuini talenti, quali il finissimo creatore di gioco Raymond Kopa (stella del Real Madrid accanto a Di Stefano) e il goleador Just Fontaine, consentì alla squadra di esprimere momenti di grande calcio. Nei Mondiali del 1958, vinti dal Brasile del diciottenne Pelé, la Francia fu terza e Fontaine fu il capocannoniere del torneo con 13 gol, quota tuttora insuperata anche dopo l'allargamento della formula. Quindi, a partire dalla fine degli anni Settanta, la Francia si ripropose come protagonista, grazie al miglior reparto di centrocampo del mondo, imperniato attorno al fuoriclasse Michel Platini che, trasferitosi in Italia, fu anche l'uomo di punta di una grandissima Juventus. Ai Mondiali del 1978 i francesi furono presto eliminati a vantaggio dell'Argentina, padrona di casa, favorita da innegabili protezioni arbitrali. Quattro anni dopo, in Spagna, forse la miglior Francia di sempre, guidata dal tecnico Michel Hidalgo, dopo aver incantato gli spettatori con un gioco frizzante, ribattezzato 'calcio-champagne', sprecò l'occasione di disputare la finale contro l'Italia dilapidando un vantaggio, in apparenza decisivo, nei tempi supplementari della semifinale con la Germania Ovest. Un'analoga vicenda si ripeté nel Mondiale messicano del 1986, dove la Francia, una delle favorite, eliminò l'Italia campione in carica e poi anche il Brasile nei quarti, ma si arrese ancora alla Germania Ovest in semifinale concludendo al terzo posto. Insomma, un lungo periodo di grandissima forma portò ai francesi soltanto il titolo europeo del 1984 (con Platini capocannoniere) e la medaglia d'oro ai Giochi Olimpici di Los Angeles nello stesso anno, peraltro un po' svalutata dal forfait di molte nazioni dell'Est europeo.
I successi della Francia, però, cominciarono a susseguirsi proprio alla svolta del secolo. Il calcio aveva ormai abbattuto le sue frontiere, la libera circolazione dei calciatori all'interno dell'Europa, ufficializzata con la 'sentenza Bosman' dell'Unione Europea (che prese il nome dal giocatore belga che interessò per primo l'Alta Corte), aveva trasformato le più forti formazioni di club in autentiche multinazionali. In questa progressiva perdita di identità nazionale e di sovrapposizione di scuole diverse, la Francia trovò terreno fertile per imporre il suo modello multietnico. Nella sua rappresentativa di punta confluivano i giocatori originari dalle ex colonie del Nord Africa e quelli dei territori caraibici d'oltremare, in particolare Martinica e Guadalupa, atleti di splendida costituzione fisica, potenti, agili e flessuosi (di un fenomeno del genere aveva beneficiato anche l'Olanda con i nativi del Suriname e, più indietro nel tempo, il Portogallo con i fuoriclasse mozambicani Eusebio e Coluña). Della squadra francese, che vinse il Mondiale del 1998 disputato sui campi di casa, andandosi ad aggiungere, così, alle sei nazioni che avevano sino ad allora conquistato il titolo (Uruguay, Italia, Germania, Brasile, Inghilterra, Argentina), soltanto 8 giocatori su 22 erano francesi in senso stretto. Zinedine Zidane, il nuovo Platini, autore di due gol nella finale contro il Brasile, era figlio di immigrati algerini. Tra i suoi compagni di squadra, molti avevano origini armena, basca, portoghese, africana, caraibica.
Due anni dopo, con una squadra largamente confermata, la Francia, dopo aver chiuso quello del Novecento, aprì l'albo d'oro del Duemila affermandosi nel Campionato d'Europa organizzato, in partnership, da Olanda e Belgio, ponendo con ciò le premesse per un ciclo non effimero, garantito dalla ricchezza di un vivaio senza più confini territoriali e prodigo di talenti. Sul piano tecnico, è giusto sottolineare che la Francia, famosa per il suo calcio offensivo e assolutamente non opportunista, vinse il suo Mondiale soprattutto grazie alla solidità della difesa, forte di individualità spiccate quali Thuram, Blanc e Desailly, che si erano tutti ‒ in tempi diversi ‒ addestrati nella grande palestra del Campionato italiano.
La disponibilità di centrocampisti di qualità, soprattutto Zidane, campione della Juventus (come il suo modello Platini) e poi del Real Madrid, unita alla penuria di grandi attaccanti di ruolo, ha fatto sì che la Francia cercasse la porta avversaria più con una manovra collettiva e avvolgente che con le iniziative delle punte. Anzi, rovesciando in un certo senso i canoni tradizionali del calcio, in quella Francia erano gli attaccanti, in funzione gregaria, a lavorare per i centrocampisti e non viceversa. Nel suo piccolo, una rivoluzione anche questa, sia pure obbligata dall'organico a disposizione.
Proprio il Mondiale di fine secolo può costituire un eloquente parametro per riuscire a valutare la complessa evoluzione subita da questa disciplina agonistica. I primi coraggiosi pionieri che tentarono di abbattere le frontiere e di avviare contatti universali nel mondo del pallone avevano dovuto affrontare enormi ostacoli. Nel 1930, l'edizione inaugurale del Campionato del Mondo aveva faticosamente radunato in Uruguay 13 nazioni (alcune delle quali costrette alla partecipazione dagli atteggiamenti dittatoriali di Jules Rimet). In occasione del Mondiale francese del 1998, il sedicesimo della serie, valido per la settima Coppa FIFA, furono necessari quasi due anni (dal 10 marzo 1996 al 29 novembre 1997), 649 partite eliminatorie e 1922 gol per ridurre drasticamente il numero di paesi iscritti alla competizione da 172 a 30. Trenta nazionali che, con l'aggiunta della Francia paese ospitante e del Brasile campione in carica, qualificati d'ufficio, diedero vita al tabellone finale del torneo che prevedeva un serrato calendario agonistico. La competizione fu seguita in ogni fase dalle televisioni dell'intero pianeta. Ormai, tutti i continenti erano presenti nel panorama calcistico ai massimi livelli.
Nell'ottobre del 2001, la prima, storica qualificazione della Cina alla fase finale di un Campionato del Mondo, quello in programma, anch'esso per la prima volta, in Asia (diviso tra Corea e Giappone) nel giugno 2002, ha aperto un altro immenso serbatoio di risorse, sulla strada della completa globalizzazione. Oltre alla Cina altre tre nazionali hanno partecipato per la prima volta alla fase finale: Slovenia, Ecuador, Senegal. Nel novero delle trentadue squadre ammesse vi sono state tutte le nazioni storiche, cioè le vincitrici di una o più edizioni precedenti: il Brasile con quattro titoli (1958, 1962, 1970, 1994), l'Italia (1934, 1938, 1982) e la Germania (1954, 1974, 1990) con tre, l'Uruguay (1930, 1950) e l'Argentina (1978, 1986) con due, l'Inghilterra (1966) e la Francia (1998) con uno.
Certo, quella del calcio non è stata un'evoluzione indolore. Nel corso di questa sua prepotente ascesa, il calcio ha dovuto pagare prezzi molti alti. In primo luogo alla violenza, quasi inevitabile in un movimento di massa così esteso e perennemente sotto la luce dei riflettori. La tragedia dell'Heysel, in occasione della finale di Coppa dei Campioni del 1985 fra Juventus e Liverpool, determinata dal cieco e brutale assalto degli hooligans inglesi nei confronti degli spettatori italiani, oltre a un bilancio delle vittime davvero agghiacciante, provocò uno shock all'intera organizzazione. La temporanea esclusione delle formazioni inglesi dalle competizioni europee per club fu un provvedimento obbligato, ma non valse, ovviamente, a estirpare alla radice un malessere che il calcio ereditava dalla società, amplificandolo con la sua enorme cassa di risonanza. Anche la corruzione, che per principio dovrebbe essere estranea all'evento sportivo, di fronte a interessi economici sempre più forti e a un giro di denaro in vertiginosa crescita, ha fatto il suo ingresso nel mondo del calcio, così come il doping ‒ il tentativo di incrementare artificialmente le prestazioni ‒ ha rappresentato una tentazione cui non sempre società e atleti hanno saputo resistere.
Non sarebbe però giusto sottacere gli enormi meriti del calcio sotto il profilo dell'aggregazione. Il primo Campionato del Mondo del Duemila, come abbiamo detto, è stato ospitato in Asia e anche l'Africa si è già attivata per ottenere l'impegnativa organizzazione di un torneo dalla partecipazione sempre più universale, dunque sempre meno elitaria. Malgrado siano partiti in forte ritardo rispetto alle scuole tradizionali, movimenti calcistici considerati minori hanno già raggiunto una notevole competitività sul piano dei risultati. Due nazionali africane, Nigeria e Camerun, hanno vinto la medaglia d'oro olimpica nelle due ultime edizioni dei Giochi, ad Atlanta nel 1996 e a Sydney nel 2000. Dal punto di vista atletico, tecnico e tattico il gioco è andato profondamente cambiando, senza però mai rinnegare (e forse questo è il segreto del suo successo travolgente rispetto ad altre discipline più sensibili alle mode) le proprie radici e le proprie regole fondamentali. Si è registrata, specie negli anni più recenti, da parte del governo mondiale del calcio, una ricerca costante di aggiornamento per salvaguardare il lato spettacolare del gioco e quindi la sua audience televisiva, senza però che sia mai stato attuato uno stravolgimento sostanziale. Dalla cornice esclusiva dei college inglesi dell'Ottocento, alla ribalta planetaria del Duemila, il calcio ha compiuto un lungo cammino, senza mai tradire se stesso.
di Gianni Leali
L'elevata qualità tecnica del calcio odierno, soprattutto ai massimi livelli, è tutt'altro che un dato scontato, in quanto è stata raggiunta gradualmente nel corso di una storia lunga e travagliata. Il successivo evolversi dei sistemi di gioco e della tattica è stato sempre strettamente congiunto allo sviluppo delle capacità tecniche dei calciatori, che sono andate continuamente progredendo in virtù di un'applicazione sempre più assidua e intensa e di un insegnamento sempre più efficace e razionale. Il football nacque nel 1863 in Inghilterra, quando i calciatori si separarono dai giocatori di rugby proprio per prendere le distanze dallo svolgimento rude di quel gioco in cui sono consentiti l'aggressione e il placcaggio dell'avversario. Introducendo regole che punivano l'uso della violenza, il calcio metteva in primo piano l'abilità più specificatamente tecnica. Nei primi anni ai calciatori era consentito 'stoppare' il pallone anche con le mani, mentre solo il passaggio e il tiro in porta dovevano essere eseguiti con il piede. Queste 'azioni di mano', sia pur limitate, erano necessarie a garantire un buon flusso di gioco, dato che l'abilità dei calciatori nel controllare il pallone con il corpo e con il piede era ancora molto poco sviluppata. Soltanto nella stagione sportiva 1871-72 fu introdotta la regola che proibiva a tutti i calciatori, tranne il portiere, di toccare la palla con le mani. Ciò determinò la necessità di apprendere nuovi modi per controllare il pallone e di migliorare tutto il repertorio della tecnica individuale.
All'epoca delle origini, comunque, quando il regolamento prevedeva il fuorigioco totale (era in fuorigioco, cioè, chiunque si trovasse davanti alla linea della palla in qualsiasi zona del campo) e gli allenamenti si svolgevano saltuariamente, l'impostazione tecnica individuale lasciava molto a desiderare. L'unico elemento tecnico in cui i calciatori mostravano una certa abilità era il dribbling, perché il gioco si sviluppava in forma essenzialmente individualista: colui che di volta in volta era in possesso del pallone puntava direttamente verso il portiere avversario e, in dribbling, tentava di andare in gol da solo. Gli 'stop' erano approssimativi, i pochi passaggi che era inevitabile eseguire erano per lo più imprecisi, i tiri in porta e i calci al pallone venivano effettuati prevalentemente con la punta del piede. Si trattava, in definitiva, di una tecnica rudimentale, grossolana e improvvisata.
Successivamente, nel periodo di applicazione del 'sistema piramidale' e del 'metodo', si sviluppò una tecnica che rispondeva ai più importanti principi di gioco collettivo e consentiva d'altra parte alle individualità di notevole rilievo di emergere. Il tocco della palla divenne più leggero e più morbido, il repertorio degli 'stop' e delle finte si arricchì enormemente, le preziosità stilistiche e acrobatiche divennero patrimonio di molti giocatori e l'impostazione tecnica individuale divenne mediamente di buon livello, con inevitabili riflessi sul miglioramento del gioco collettivo e dell'aspetto spettacolare. Nel secondo dopoguerra, con l'affermazione del 'WM' in tutto il mondo, tranne che nei paesi del Sud America, si ebbe la fase della specializzazione della tecnica in relazione al ruolo che i giocatori ricoprivano in gara. Nel 'WM', infatti, i ruoli erano ben distinti e definiti sia per la posizione dei giocatori in campo sia per i compiti da svolgere. Le funzioni di difensori, centrocampisti e attaccanti erano completamente differenti e circoscritte a zone del campo ben delimitate: mentre i difensori si occupavano di respingere l'offensiva avversaria, i loro compagni di attacco, a circa 40 m di distanza, assistevano passivamente all'esito dello scontro; allo stesso modo si comportavano da spettatori i difensori quando la palla si trovava nelle vicinanze della porta avversaria. Non esisteva collaborazione tra giocatori di reparti diversi e ognuno era responsabile soltanto di ciò che avveniva nella sua zona di competenza. Anche da un punto di vista tecnico, l'addestramento era differente per difensori e attaccanti. Ai primi, per lo più giocatori alti, robusti, vigorosi, venivano proposte prevalentemente esercitazioni per le varie forme di tackle, per il colpo di testa, per i rinvii lunghi al volo di collo-piede; l'allenamento dei secondi era invece finalizzato al tiro in porta, al dribbling, al cross da fondo campo con conclusione a rete di testa o di piede. Una tecnica particolare, messa a punto negli anni Cinquanta dai difensori del 'WM' e consacrata a livello internazionale nel 1954 quando la Germania divenne per la prima volta, in modo clamoroso, campione del mondo, è stata quella del 'tackle scivolato', diffusasi in seguito in Italia soprattutto sull'esempio di un calciatore straniero che la praticava in modo magistrale: il difensore tedesco Schnellinger. Nel 1974, ai Campionati del Mondo in Germania Ovest, l'Olanda inaugurò il cosiddetto 'calcio totale'; questo tipo di gioco allargava notevolmente il raggio d'azione di ogni giocatore, che si alternava ininterrottamente fra attacco e difesa non rimanendo più ancorato a una sola zona del campo. Di conseguenza, cominciò a diffondersi (affermandosi poi definitivamente) un tipo di addestramento tecnico non più legato alle particolari e differenti funzioni di ciascun ruolo, ma caratterizzato dal principio dell'eclettismo mirato alla formazione di calciatori di elevata tecnica generale, capaci di eseguire con il pallone, in maniera corretta e disinvolta, tutto il repertorio dei gesti previsti dalla tecnica calcistica individuale e di agire, con efficacia, in ogni zona del campo e nelle diverse situazioni di gioco. Anche per il portiere ‒ non più relegato per tutta la durata della partita sulla linea di porta, ma costretto a intervenire anche fuori dell'area di rigore per svolgere la funzione di libero nei momenti in cui, lontano dalla propria porta, scattava il fuorigioco dei compagni del reparto difensivo ‒ si cominciò ad avvertire l'esigenza di un addestramento più generale, tendente, in altri termini, a sviluppare non solo le abilità specifiche all'uso delle mani, ma anche quelle richieste agli altri giocatori in campo. È da precisare, comunque, che una sostanziale evoluzione tecnica del ruolo del portiere, soprattutto per quanto riguarda la maggiore frequenza del gioco di piede, si è avuta dal 1996 in poi, da quando cioè è stata introdotta la nuova norma che vieta al portiere l'uso delle mani in caso di retropassaggio volontario di un compagno.
Gli eterni nostalgici continuano a sostenere che i calciatori del passato erano migliori, sotto l'aspetto tecnico, di quelli di oggi. Questa tesi è naturalmente assurda, soprattutto se riferita al calcio ai massimi livelli: appare evidente infatti che il livello tecnico dei calciatori si è dovuto adeguare al ritmo di gioco più elevato, all'accresciuta dinamica dei contrasti e al perfezionamento della tattica.
Certamente, il calcio che si gioca attualmente è diverso da quello del passato, ma è altrettanto innegabile che è tecnicamente molto più impegnativo sia per i difensori sia per i centrocampisti sia per gli attaccanti: lo spazio di gioco e di azione è più ristretto, ed è minore anche il tempo di reazione che il calciatore, ricevuta la palla, ha a sua disposizione per proseguire il gioco. Di conseguenza, le azioni tecniche devono essere eseguite rapidamente, cercando di conciliare precisione e velocità. Se in passato molti giocatori, anche se lenti, sono riusciti ugualmente ad affermarsi nel calcio di alto livello in virtù della loro grande abilità nel controllare e nel trattare il pallone, nel calcio moderno calciatori di tali caratteristiche difficilmente riescono a emergere e nell'ambito delle proprie squadre vengono sempre più spesso sostituiti da elementi dotati magari di minore abilità tecnica, ma molto più rapidi nei gesti e nella corsa. L'ex allenatore della nazionale francese, Hidalgo, ha tracciato il profilo del grande giocatore del calcio moderno d'élite, che deve possedere un notevole valore nella tecnica individuale con una qualità di base: la velocità nei gesti, nella corsa e anche nei tempi di reazione.
Lo slogan un tempo assai diffuso tra gli allenatori ‒ "controlla il pallone, guarda e gioca" ‒ appare ormai privo di senso dal momento che, oggi, sui campi di calcio esistono ben poche possibilità di stoppare il pallone tranquillamente, di spostare il peso del corpo sul piede di appoggio, quindi volgere intorno lo sguardo e scegliere la migliore soluzione per proseguire il gioco. Una buona tecnica consiste, piuttosto, nel controllo preciso del pallone e dei vari movimenti con esso sotto l'assillo del tempo e dell'avversario e di questo, ovviamente, si tiene conto nell'insegnamento e nell'allenamento della tecnica stessa.
Si afferma comunemente che la tecnica sia una dote innata ed è in effetti innegabile che alcuni giocatori, già in età relativamente precoce, mostrino più disposizione di altri nel trattare il pallone. Tuttavia, anche i meno dotati possono raggiungere risultati apprezzabili mediante un'attività di addestramento sistematica e ben programmata, comunque indispensabile anche per i più portati. Sicuramente questi ultimi assimilano prima le abilità necessarie per il gioco del calcio e hanno quindi maggiori possibilità di emergere; nessuno, però, può divenire un campione senza un'applicazione continua, assidua, attenta e ben guidata da parte di un istruttore, la cui funzione è determinante per il giusto apprendimento della tecnica.
Viene in rilievo, allora, il ruolo dell'istruttore che, soprattutto nell'ambito giovanile, è fondamentale per lo sviluppo massimale delle capacità potenziali degli allievi e per l'apprendimento di una tecnica veramente efficace e in sintonia con le esigenze e le caratteristiche del calcio moderno, in cui la velocità di esecuzione dei vari movimenti con il pallone (gesti tecnici) e l'esaltazione di quelle che si definiscono le doti atletiche (forza, resistenza, capacità di scatto) appaiono fattori sempre più determinanti per il successo.
Per riuscire nel calcio, in conclusione, è attualmente indispensabile essere ben preparati atleticamente e in grado di commettere il minor numero di errori possibile nell'effettuazione dei gesti tecnici ad alta velocità. In questo, i calciatori attuali si distinguono da quelli del passato e, mediamente, sono loro superiori. Se qualche decennio fa era ancora possibile che alcuni calciatori dalla tecnica debole potessero giocare con successo come difensori, oggi ciò non si verifica più a testimonianza che, in generale, la tecnica dei calciatori di alto livello si è ulteriormente perfezionata, indipendentemente dal loro ruolo.
Oltre al progressivo miglioramento degli attrezzi (palloni e scarpe da calcio) e dei terreni di gioco, alla sempre più accentuata professionalizzazione degli atleti, a sistemi e tattiche (raddoppi di marcatura, pressing, squadra corta) che hanno ristretto sempre più lo spazio d'azione di ogni singolo calciatore (con la conseguenza di dover necessariamente velocizzare l'esecuzione dei diversi gesti tecnici), un fattore di importanza certamente non trascurabile dell'evoluzione della tecnica è rappresentato anche dal diverso modo con cui, oggi, essa viene insegnata e coltivata rispetto al passato.
Al metodo tradizionale di insegnamento degli elementi della tecnica calcistica (i cosiddetti 'fondamentali': calcio, arresto, contrasto, colpo di testa, guida della palla ecc.) attraverso procedimenti addestrativi di tipo analitico ‒ che propongono cioè numerose ripetizioni di ogni singolo gesto tecnico in forma pressoché stereotipata e isolata dagli altri fattori del gioco, tattici e di condizione fisica ‒, si è sostituito il metodo cosiddetto 'globale'. Esso si caratterizza sostanzialmente, sin dall'inizio del processo di addestramento, per il continuo collegamento con situazioni di gioco simili a quelle che si verificano in gara. La maggior parte degli istruttori e degli allenatori, attualmente, punta cioè a sviluppare l'abilità tecnica dei giocatori per mezzo della ripetizione sistematica di combinazioni di gioco. Nel corso di queste combinazioni, che presentano anche un significato tattico, l'accento viene messo soprattutto sulla corretta esecuzione dei movimenti tecnici, in stretta correlazione con i differenti fattori che intervengono durante lo svolgimento dell'esercitazione (movimento dei compagni, posizione degli avversari ecc.). La ripetizione continuativa di particolari situazioni e combinazioni di gioco, ciascuna delle quali comporta determinati movimenti tecnici che devono rispondere ai principi generali del gioco, induce processi di automatismo che riguardano destrezze non soltanto di movimento, ma anche e soprattutto di comportamento.
Nella convinzione, ormai pressoché universalmente condivisa, che soltanto un'abilità tecnica sviluppata e perfezionata in funzione del gioco possa rivelarsi realmente efficace sul campo e rispondere alla duplice necessità della rapidità e della precisione, da alcuni anni gli allenatori dedicano sempre minor tempo all'allenamento nei palleggi, nella guida della palla tra i paletti, nei colpi di testa e di piede al pallone sospeso alla 'forca' o al pallone che rimbalza contro il 'muro'. Anzi, tali tipi di attrezzature, che una volta erano considerate utilissime, quasi indispensabili per l'addestramento e il perfezionamento tecnico del calciatore, vanno scomparendo dai campi di allenamento.
Sempre in questa ottica, circa vent'anni fa, furono aboliti i NAGC (Nuclei di addestramento giovani calciatori), accusati di formare più che dei calciatori, dei giocolieri molto bravi nell'esecuzione dei fondamentali sul posto o in condizioni di particolare facilitazione (senza la pressione degli avversari e senza preoccupazioni tattiche), ma spesso non altrettanto efficaci in partita dove la loro abilità tecnica sembrava dissolversi. Il limite della scuola dei NAGC consisteva, infatti, nell'esercitare i bambini con il pallone fuori dalle azioni di gioco tipiche della partita.
Bisogna precisare, tuttavia, che ancora oggi alcuni tecnici rivendicano l'importanza dell'addestramento individuale con la palla sui cosiddetti fondamentali e auspicano il ritorno sui campi di allenamento di attrezzature specifiche per l'allenamento tecnico, considerate di grande utilità per sviluppare e tenere allenate le abilità coordinative, che non sempre il gioco di per sé o la ripetizione di sue determinate situazioni riescono a far esercitare. Di questo avviso è, per es., anche Joseph Blatter, presidente della FIFA, che ha rivolto un appello agli allenatori delle squadre giovanili, invitandoli a insegnare ai ragazzi la tecnica prima della tattica, dedicando più tempo alla tecnica di base, affinché i calciatori possano sfruttarla al meglio durante il gioco.
In verità, non disponiamo di conoscenze oggettive tali da poter stabilire con certezza quale sia la maniera migliore di insegnare, di allenare e di apprendere la tecnica calcistica. Certo, le teorie sull'apprendimento motorio attualmente più in auge considerano, come si è detto, il metodo globale il migliore per l'acquisizione e il perfezionamento anche dei movimenti con il pallone. Ma la comparazione con altri metodi, per quanto riguarda i risultati ottenuti, non è obiettivamente possibile. La soluzione migliore potrebbe essere quella del compromesso tra le due concezioni metodologiche sopra citate, quella analitica e quella globale, che, più che escludersi a vicenda, dovrebbero essere considerate complementari. In effetti, se l'allenatore si limita a insegnare ai suoi allievi forme stereotipate, rigide ed estranee alle reali situazioni della pratica sportiva, il suo insegnamento non aderisce alla realtà del gioco ma, d'altra parte, se esclude del tutto o quasi l'allenamento isolato e individuale dei fondamentali, basando in maniera pressoché assoluta l'addestramento tecnico su combinazioni di gioco, cioè su esercitazioni che potremmo definire di tecnica applicata piuttosto che di tecnica pura, tale procedimento può non risultare sufficiente a eliminare o a limitare talune carenze soggettive. Diversi grandi campioni del passato continuarono a migliorare la loro abilità tecnica anche in età avanzata proprio grazie all'abitudine che avevano di sottoporsi, al termine di ogni allenamento con la squadra, a un addestramento individuale basato su palleggi, arresti del pallone, traversoni, tiri in porta da varie posizioni, da fermi o in corsa.
In conclusione si può dire che nel processo globale di allenamento dei giovani calciatori (come in quello di qualsiasi altra disciplina sportiva), l'allenamento della tecnica deve occupare una posizione di primo piano rispetto ad altre componenti della prestazione, come le qualità fisiche e tattiche. L'avviamento a uno sport, infatti, non può avvenire se non attraverso l'apprendimento delle abilità fondamentali che lo riguardano: così, anche nel calcio, la tecnica, intesa come corretta acquisizione dei gesti e dei movimenti che si riferiscono al contatto uomo-palla, è la prima qualità che deve essere appresa e, quindi, addestrata. Il processo di apprendimento e di perfezionamento della tecnica non si esaurisce nel periodo evolutivo, anche se è soprattutto in età evolutiva che la tecnica deve costituire il lavoro fondamentale del calciatore in allenamento; su di essa, l'istruttore deve possedere un ricco patrimonio di conoscenze, specialmente di ordine biomeccanico, senza le quali la sua opera si rivelerebbe di scarsa utilità.
La tecnica calcistica ha elaborato norme ben precise atte a definire la corretta posizione del corpo e l'atteggiamento degli arti in relazione alla palla secondo che essa debba essere ricevuta, respinta o guidata, anche se i grandi campioni, in realtà, spesso modellano queste norme secondo un'impronta personale o creano essi stessi nuove tecniche. In generale, però, la tecnica ha ormai un repertorio di modelli stabili, che l'allenatore deve conoscere approfonditamente e saper trasmettere ai propri allievi per adattarli al multiforme linguaggio espressivo del gioco. Questi modelli derivano dall'esperienza pratica, da riflessioni teoriche e dai risultati delle ricerche scientifiche sulle caratteristiche degli atleti di alto livello.
Il calciatore deve apprendere presto le tecniche di base, ma sapere anche come modificarle e adattarle alle varie situazioni di gioco. Tutto questo è possibile solo se, durante la pratica sportiva dei bambini e degli adolescenti, esercitazioni di tecnica pura sono debitamente alternate a esercitazioni di tecnica applicata e alla disputa di partitelle o partite di calcio vere e proprie, preferibilmente su spazi ridotti e con un numero limitato di giocatori per squadra. Queste partite su spazi ridotti costituiscono per i giovani calciatori una situazione di apprendimento difficilmente sostituibile: ogni giocatore viene impegnato attivamente e costantemente in situazioni di attacco e di difesa dove ha occasione, entrando più spesso in contatto con il pallone, di prendere decisioni e di esprimersi. Al calcio, infatti, ci si prepara soprattutto giocando. Far disputare gare a ragazzi dalla tecnica individuale ancora molto rudimentale è, a differenza di quanto ritenevano molti allenatori del passato, un metodo assolutamente consigliabile. È la gara, e soltanto la gara, che riesce a dare un significato ai movimenti tecnici: l'intervento puntuale e tempestivo dell'allenatore nel far rilevare l'errore commesso dal singolo giocatore ha un valore didattico determinante e contribuisce a far meglio comprendere all'allievo l'importanza dell'addestramento tecnico.
È importante, inoltre, che l'istruttore si sforzi di far acquisire ai suoi allievi la capacità di eseguire i vari gesti tecnici con entrambi i piedi e alla massima velocità possibile. La bilateralità (ambidestrismo) e la rapidità espressiva sono, infatti, caratteristiche sempre più importanti del calcio attuale. In sede di allenamento, pertanto, non appena l'atleta è in grado di padroneggiare le strutture di base del processo motorio, occorre che l'esecuzione venga gradatamente velocizzata, così come è necessario incoraggiare i principianti all'uso del dribbling, perché tale gesto tecnico, oltre a offrire una notevole soddisfazione personale, assume un'importanza fondamentale nel calcio moderno.
È deleterio, invece, ai fini di una completa formazione dei calciatori, pretendere dai giovani atleti la ricerca spasmodica del cosiddetto 'collettivo', per cui essi, non appena entrati in possesso del pallone, non hanno altra preoccupazione che di passarlo al compagno, magari prestabilito dagli schemi dell'allenatore: in tal modo si rischia di uccidere la fantasia, la creatività, il divertimento e il piacere di giocare.
Infine, se non è raccomandabile assegnare subito un ruolo fisso al giovane principiante e addestrarlo esclusivamente in funzione di esso, bensì abituarlo ad alternanze e variazioni di posizioni e di ruoli per sviluppare qualità e attitudini polivalenti, è però auspicabile che, quando egli abbia accresciuto il proprio bagaglio tecnico e la capacità di agire nelle varie zone del campo, si passi a forme di addestramento aventi l'obiettivo di raggiungere la massima perfezione nell'esecuzione dei compiti e delle azioni tipiche del ruolo per cui è più predisposto. Infatti, è vero che il tipo di football che si pratica attualmente richiede giocatori capaci di agire con disinvoltura ed efficacia nelle diverse zone del campo, ma questo non significa che attaccanti, centrocampisti e difensori non debbano essere anche degli specialisti. La tesi del calcio moderno ‒ "tutti attaccanti e tutti difensori" ‒ non significa affatto formazione di calciatori polivalenti a scapito della specializzazione, bensì formazione di giocatori sempre più specializzati, ma in grado anche di operare con efficacia in tutte le zone del campo.
Giova ribadire che è importante dedicare molto tempo all'allenamento delle abilità tecniche: calciare con l'interno, con l'esterno, con il collo pieno del piede, guidare la palla, dribblare, fintare, colpire di testa ecc., sono tutti gesti che costituiscono un bagaglio assolutamente indispensabile per la formazione del vero giocatore di calcio. D'altra parte, la forza di una squadra è data innanzitutto dalla qualità dei singoli giocatori e dunque, quanto più elevato è il livello tecnico dei singoli, tanto più spettacolare ed efficace risulterà il gioco dell'intera formazione.
di Adalberto Bortolotti
All'inizio il calcio non aveva regole codificate e valide per tutti. Dunque è privo di senso, per la fase iniziale, parlare di tattiche o di strategie di gioco e tantomeno di spirito collettivo. Chiunque venisse in possesso della palla iniziava un'azione individuale muovendosi in direzione della porta avversaria finché le forze sorreggevano il suo slancio. In questa prima forma di calcio, gli undici giocatori si disponevano alla rinfusa e soltanto il portiere, l'unico autorizzato all'uso delle mani, aveva una sua specifica caratterizzazione.
In una fase successiva, dopo che la creazione della Football Association (1863) aveva posto alcune norme fondamentali per differenziare il calcio dal rugby, davanti al portiere si disposero in verticale due giocatori, mentre gli altri otto erano unicamente proiettati all'attacco. Utilizzando le formule aritmetiche che sono attualmente di uso comune per classificare gli schemi di gioco, si dovrebbe parlare di 1-1-8, e se consideriamo che il modulo oggi più diffuso è il 4-4-2, potremmo dedurne che, dalle origini a oggi, il calcio si è evoluto esclusivamente in fase difensiva, sottraendo uomini all'attacco, per irrobustire la fase di copertura.
Furono gli scozzesi, che alla fine del 19° secolo si distinguevano per praticare il calcio più sofisticato e meglio organizzato, a modificare per primi lo schieramento standard, raddoppiando il numero dei giocatori addetti alla difesa della propria porta. Per rimanere ai numeri, nacque così il 2-2-6: due coppie verticali di difensori, che dovevano contrastare, su due successive linee, lo slancio degli attaccanti. È in apparenza singolare, dunque, che il primo match internazionale della storia, che oppose il 30 novembre 1872, a Glasgow, il 2-2-6 scozzese all'1-1-8 inglese, si sia concluso a reti inviolate, nonostante entrambi i moduli adottati fossero nettamente offensivi. Sin da allora, divenne evidente che l'efficacia di un attacco non dipende dal numero degli attaccanti, bensì dal loro razionale impiego.
Quest'epoca del calcio viene definita del kick and yusch ("calcia e corri"), espressione che sta a indicare un gioco assolutamente spontaneo, frutto della libera iniziativa dei singoli, e privo di un benché minimo collegamento fra i diversi reparti. I difensori, per esempio, provvedevano unicamente a rilanciare il pallone il più lontano possibile, senza prendere nemmeno in considerazione l'idea di mettere in azione i propri attaccanti. Nei college inglesi, questa fase caratterizzata da un gioco esclusivamente individuale venne chiamata dribbling game. Fondamentale fu il passaggio, sempre sotto la spinta decisiva degli scozzesi, al passing game, cioè alla manovra basata sui passaggi fra i compagni di squadra: è proprio con il passing game che il calcio inizia la sua lunga e complessa evoluzione tattica.
Lo sviluppo delle strategie di gioco fu senza dubbio agevolato dal fatto che il calcio di fine secolo si giocasse soprattutto in ambiente universitario: l'evento agonistico, infatti, divenne oggetto di studio, in vista di un suo progressivo perfezionamento. Il college di Cambridge, uno dei più prestigiosi d'Inghilterra, ideò una formula rimasta fondamentale nella storia del calcio e alla quale, in ultima analisi, vanno fatti risalire tutti gli schemi moderni. Il passing game, come si è visto, aveva introdotto il concetto della collaborazione fra i compagni di squadra, anche di reparti diversi. Per ottenere una più razionale occupazione del terreno di gioco, Cambridge adottò e diffuse uno schema a piramide: davanti al portiere si collocavano due difensori (backs); poco più avanti si posiziona un'altra linea, formata da tre giocatori (definiti half-backs, e poi semplicemente halfs), che dovevano raccogliere le respinte dei difensori e tramutarle in suggerimento per la linea degli attaccanti (forwards), composta da cinque uomini che occupavano l'intera larghezza del campo.
Quando fu introdotta in Italia, questa impostazione a 2-3-5, portò a definizioni ancora in uso: 'prima linea' (a partire dall'alto) per gli attaccanti, 'linea mediana' per quella intermedia (e mediani furono definiti i suoi interpreti), 'terza linea' per gli ultimi difensori, chiamati quindi terzini. La rappresentazione grafica di questo schieramento, comprendente un portiere, due terzini, tre mediani, cinque attaccanti, assume la forma di una piramide rovesciata, e col nome di 'piramide' questo schema si diffuse in tutta Europa. Si tratta di un sistema di gioco già completo, cui manca però un elemento: la marcatura, cioè l'abbinamento di un proprio difensore a uno specifico attaccante avversario, e proprio per questa caratteristica, in un certo senso, la piramide di Cambridge può essere considerata un antecedente della 'zona'. È comunque da questa formula che partono i due schemi gioco destinati alla massima diffusione nel periodo fra le due guerre: il 'metodo' e il 'sistema'.
Chiaramente ispirato alla piramide, il metodo venne anche chiamato 'modulo a W', perché la disposizione dei giocatori in campo disegnava due W poste l'una sull'altra. Come nella piramide, davanti al portiere prendevano posizione i due terzini, chiamati a presidiare la propria area di rigore senza specifiche funzioni di controllo nei confronti degli avversari. La linea mediana veniva però diversamente articolata: i due mediani laterali si allargavano sulle due opposte fasce di campo e finivano per controllare direttamente gli attaccanti esterni avversari, cioè le 'ali', mentre il mediano centrale, detto 'centromediano', diventava la figura dominante della squadra. Lievemente arretrato rispetto ai due laterali, aveva il doppio compito di opporsi al centravanti avversario e di capovolgere il fronte del gioco con precisi e potenti rilanci che mettevano in moto la controffensiva. In genere, il suo rinvio veniva raccolto dalle mezzali, che impostavano la manovra sulle ali, i cui cross chiamavano in causa, per la conclusione a rete, il centravanti. Perno del metodo, il mediano centrale venne indicato anche come 'centromediano metodista', ruolo che assommava le funzioni svolte attualmente dal 'libero' difensivo e dal regista di centrocampo. In sintesi, il mediano centrale era l''uomo-squadra'.
Rispetto alla piramide, inoltre, gli attaccanti non erano più disposti tutti e cinque su una medesima linea: i due interni, o mezzeali, erano più arretrati rispetto alle ali e al centravanti. In tal modo, passando dal 2-3-5 della piramide a un più articolato 2-3-2-3, il metodo raggiunse il perfetto equilibrio numerico fra giocatori di difesa e di attacco.
Questo schema tattico venne esaltato dalla scuola danubiana, la cui squadra più rappresentativa fu il Wunderteam austriaco, e raggiunse i risultati migliori con l'Italia di Vittorio Pozzo, che proprio grazie al metodo vinse due titoli mondiali consecutivi, nel 1934 e nel 1938, inframmezzati dalla medaglia d'oro ai Giochi Olimpici del 1936. Deve essere però precisato che l'Italia diede del metodo classico un'interpretazione particolare, potenziando la fase difensiva e adottando l'efficacissima arma offensiva del contropiede, cioè invogliando la squadra avversaria all'attacco in massa, al fine di coglierla sguarnita mediante improvvisi contrattacchi.
Il 'metodo' era la tattica ideale per un gioco essenzialmente tecnico, basato sull'abilità di palleggio e sui prolungati scambi di passaggi, e mal si adattava, quindi, al calcio inglese, che si sviluppava invece in chiave prevalentemente atletica, veloce, aggressiva, esaltando il tackle, cioè il duro contrasto uomo contro uomo per la conquista del pallone, ed era alla ricerca di un modulo di gioco più congeniale a queste caratteristiche.
L'occasione fu offerta dalla modifica alla norma sul fuorigioco, apportata nel 1925 dall'IFAB(International football association board), l'ente preposto ai regolamenti internazionali. Sino ad allora un attaccante che si trovasse più avanzato rispetto alla linea del pallone era considerato in posizione regolare soltanto se, al momento in cui partiva il passaggio destinato a raggiungerlo, almeno tre avversari (normalmente due più il portiere), si frapponessero fra lui e la porta. Si trattava di una regola penalizzante per il gioco di attacco: bastava infatti che uno dei terzini avanzasse, lasciando l'altro a presidio dell'area, perché il centravanti si trovasse sistematicamente in posizione irregolare. Come conseguenza, si era sviluppata la tendenza a mantenere il centravanti arretrato, con il ruolo di rifinitore per gli interni che, partendo da lontano, potevano arrivare al gol senza cadere nella trappola del fuorigioco. Nel 1925 l'IFAB ridusse a due (in pratica uno più il portiere) il numero dei difensori che un attaccante doveva avere tra sé e la porta, e stabilì inoltre che non esisteva fuorigioco nella propria metà campo.
La modifica favorì la ripresa del calcio offensivo. Fu Herbert Chapman, mediocre ex giocatore ma grande stratega, assunto dall'Arsenal per risollevare le declinanti sorti del club, a mettere a punto una nuova tattica di gioco, che da lui si chiamò Chapman system, e che si diffuse ovunque semplicemente con il nome di 'sistema'. In questo schema tattico, la figura determinante rimaneva il centromediano che però, a differenza di quanto previsto dal 'metodo', veniva arretrato sulla stessa linea dei terzini, i quali a loro volta si allargavano sulle fasce laterali, dando vita a una difesa a tre. Il centromediano, piazzato nel cuore del reparto arretrato, doveva prendersi direttamente cura ('a uomo', come si direbbe oggi) del centravanti avversario: nasceva così il ruolo specifico dello 'stopper'. I due mediani laterali avanzavano e formavano, con le due mezzali, il quadrilatero di centrocampo, mentre le ali e il centravanti costituivano il terzetto di punta. Rispetto al 2-3-2-3 del metodo, il sistema presentava un 3-2-2-3 e, nella rappresentazione grafica, la squadra non disegnava più due W, bensì una W e una M, ed è infatti con il nome 'WM' che il sistema inglese si diffuse in tutto il mondo. Le differenze fra metodo e sistema potrebbero apparire poco significative, ma in realtà non cambiò soltanto la posizione sul campo di alcuni giocatori, quanto piuttosto l'intera filosofia di gioco. Le marcature divennero individuali, strette, a volte asfissianti; la frammentazione della partita in una serie di duelli uomo contro uomo determinò un calcio più aggressivo, meno tecnico e fantasioso, più veloce e fisico.
In Inghilterra il successo del sistema fu immediato, anche perché l'Arsenal, reimpostato da Chapman, uscì da un lungo periodo di crisi e ottenne una lunga serie di vittorie, conquistando una Coppa d'Inghilterra e tre titoli assoluti nell'arco di cinque anni. Questi positivi risultati indussero, come sempre avviene, molte altre squadre ad adottare il nuovo schema tattico: tutti i club inglesi si convertirono rapidamente al sistema, e anche in Germania il successo fu notevole (sotto la guida del tecnico Otto Nerz, i tedeschi furono la sola nazionale sistemista ai Mondali del 1934 vinti dall'Italia, che invece, come abbiamo visto, applicava il metodo). Nell'Europa centrale, culla della scuola danubiana, e in Italia il processo fu più lento. Nel Campionato italiano la prima squadra ad adottare il sistema fu il Genoa, nella seconda metà degli anni Trenta, ma solo le vittorie in serie del Grande Torino ‒ la cui superiorità era tale che avrebbe dominato con qualsiasi tattica, e che nel 1943 firmò il primo scudetto sistemista del calcio italiano ‒ indussero nell'immediato dopoguerra a una generale conversione. L'ultima squadra ad abbandonare il metodo fu il Bologna. Alla nuova realtà, malgrado le resistenze di Vittorio Pozzo, metodista convinto, dovette arrendersi anche la nazionale azzurra, che però incontrò non pochi problemi nel cambio di impostazione.
Come Pozzo aveva intuito e sostenuto, con la conseguenza di essere rimosso dall'incarico di commissario tecnico della nazionale italiana, il sistema puro, quale lo concepivano gli inglesi, non si adattava al calcio italiano. Il passaggio alla nuova impostazione tattica non era ancora completato, che già si cominciò ad apportare correzioni e adattamenti al modulo originario. Nel 1944, vincendo un Campionato di guerra non riconosciuto ufficialmente, la squadra dei Vigili del Fuoco di La Spezia, guidata dal tecnico Barbieri, ex genoano e quindi tra i primi giocatori a praticare il sistema in Italia, aveva applicato il 'mezzo sistema', un ibrido fra metodo e sistema. Uno schema simile a questo era stato adottato nella stagione 1946-47 anche dal Modena, che schierava un terzino, Remondini, a guardia del centravanti avversario e l'altro, Braglia, libero da marcature e pronto a intervenire in seconda battuta. Quel Modena arrivò secondo, dietro all'imbattibile Torino, miglior risultato di tutta la sua storia. Lo stesso Nereo Rocco, alle sue prime armi come tecnico della Triestina, si segnalò per una tattica che privilegiava la fase difensiva, sottraendo un uomo all'attacco per dotare la squadra di un ultimo baluardo, che la rendesse meno vulnerabile di fronte alle squadre più ricche, in grado di ingaggiare i più forti attaccanti stranieri.
La variante più famosa e geniale del sistema, rimasta legata al nome del suo ideatore, è però quella che consentì alla Salernitana di accedere, nel 1947, alla massima categoria. Il tecnico Gipo Viani, resosi conto che il parco giocatori della Salernitana era troppo modesto per affrontare con successo, uomo contro uomo, le avversarie più forti, mise in atto un accorgimento semplice ed efficace, schierando con il numero 9, quindi come nominale centravanti, un giocatore che aveva invece caratteristiche difensive. Questi, al fischio d'inizio, retrocedeva e andava a controllare il centravanti avversario, liberando così dall'incarico il proprio centromediano, che si portava alle spalle di tutti, per accorrere ovunque si aprisse una falla e rimediare all'errore di un compagno o allo spunto vincente di un avversario. Questo sistema di gioco, che potenziava la difesa e impoveriva l'attacco, fu chiamato 'vianema', e si ispirava al verrou che il tecnico austriaco Karl Rappan aveva fatto giocare alla Svizzera nei Mondiali del 1938. Si trattava di una sorta di anticipazione di quel 'catenaccio', che sarebbe in seguito divenuto il simbolo della vocazione ostruzionistica del calcio italiano, in un'ottica spregiativa che andrebbe però rivista in sede critica. In realtà, quando venne applicato da grandi squadre, il catenaccio si rivelò una tattica efficacissima, utilizzando la quale l'Inter allenata da Foni vinse due scudetti consecutivi, nel 1953 e nel 1954. La mossa decisiva era l'arretramento dell'ala destra interista, Armano, che in fase difensiva prendeva il posto del terzino Blason, il quale a sua volta retrocedeva alle spalle degli altri difensori-marcatori con la funzione di 'spazzino dell'area'. Una volta in possesso di palla, l'Inter ripristinava le posizioni originarie e in tal modo rendeva più impenetrabile la difesa, ma non penalizzava l'attacco, quando manteneva l'iniziativa del gioco. Come sempre, la tattica era tanto più funzionale quanto più efficaci ne erano gli interpreti. Disponendo di attaccanti eccezionali (Lorenzi, Nyers, Skoglund), quell'Inter poteva permettersi di lasciarli talvolta in inferiorità numerica. Deve essere ricordato che Blason era già stato il battitore libero della Triestina di Rocco, che abbiamo ricordato come una delle prime squadre ad adottare quello che si poteva chiamare 'mezzosistema'.
Anche nella scuola sudamericana, che contendeva a quella europea la leadership mondiale, si era sviluppata la ricerca di un razionale schema di gioco. Argentina e Brasile preferivano affidarsi al libero talento dei loro fuoriclasse (e il Brasile spesso scadeva nell'anarchia). L'Uruguay, invece, si era affermato proprio in virtù di una rigorosa organizzazione, che curava soprattutto la fase difensiva, e sul canovaccio del metodo già negli anni Venti e Trenta aveva adottato una variante chiamata en abanico ("a ventaglio"), che prevedeva il centravanti arretrato. Una figura, questa, che si ritrova nella diagonal, modulo di gioco sviluppato nei primi anni del dopoguerra dalle due principali squadre brasiliane di Rio, Flamengo e Fluminense. La diagonal si ispirava al sistema inglese, ma con una particolare attenzione alla manovra sulle fasce laterali, dove terzino e ala operavano in tandem, spostando poi il gioco sul centro (da qui il nome di diagonal). Qui il mediano, con la maglia numero 5, vero perno della squadra, agiva in sintonia con il centravanti, più arretrato nei confronti dei compagni di reparto. Il più celebre centravanti arretrato del Brasile fu Ademir, tiratore scelto dei Mondiali 1950, dove peraltro la diagonal del Brasile fu sorprendentemente battuta dall'Uruguay, schierato secondo dettami assai vicini al catenaccio europeo.
Il centravanti arretrato fu anche il fiore all'occhiello, in senso tattico, della più forte nazionale degli anni Cinquanta, la Grande Ungheria, che disponendo di autentici fuoriclasse poteva permettersi un modulo assai spregiudicato: tre difensori in linea, come nel sistema puro, due mediani di filtro e rilancio, il centravanti arretrato (Hidegkuti) in linea con le due ali, mentre i due teorici interni, Kocsis e Puskas, costituivano in realtà le punte più avanzate, quasi un doppio centravanti. Rispetto al sistema classico, o 'WM', il sistema ungherese fu definito 'MM' (3-2-3-2).
La vera rivoluzione tattica si verificò in Sud America nel 1958 a opera del Brasile, affidato alla guida dell'oriundo italiano Vicente Feola. Mentre quasi tutta l'Europa, sotto la spinta dell'Italia, giocava con il libero fisso in difesa, il Brasile si presentò con tre linee parallele: quattro difensori (due terzini e due centrali); due mediani, uno di contenimento e uno di regia (il grande Didí); quattro attaccanti. Il 4-2-4 può essere considerato l'antecedente di tutte le tattiche moderne, perché dalle sue correzioni, in senso difensivo, discendono prima il 4-3-3 (con un'ala sottratta all'attacco e aggiunta al centrocampo), poi l'ancora attualissimo 4-4-2, dove difesa e centrocampo presentano una disposizione speculare (due laterali e due centrali) e dove gli attaccanti, ridotti a due, si spostano sull'intero fronte e creano varchi per gli inserimenti dei compagni più arretrati. È, in altri termini, la 'zona' che si contrappone al calcio all'italiana, basato su marcature individuali e il libero fisso, alle spalle della linea difensiva.
Il 4-2-4 brasiliano, con i suoi derivati, stentò a trovare applicazione in Europa, dove resisteva il più pragmatico calcio all'italiana, esaltato dai successi dell'Inter di Herrera. Perché si verificasse un vero cambiamento, occorreva un'autentica rivoluzione: nei primi anni Settanta, l'Olanda (una nazione che sino ad allora era rimasta molto ai margini del calcio d'élite), con i suoi club, soprattutto l'Ajax, e la sua nazionale, ma anche grazie all'eccezionale fioritura di un gruppo di talenti che avrebbero saputo applicare con successo qualsiasi modulo, attaccò il punto fermo di ogni strategia sino allora teorizzata: la fissità dei ruoli. Il 'calcio totale' del tecnico Rinus Michels prevedeva infatti una completa intercambiabilità di funzioni fra i giocatori in campo: persino il portiere poteva usare i piedi e uscire dall'area per partecipare alla manovra. Si trattava di una rivoluzione 'culturale' prima ancora che tecnica. I difensori appoggiavano l'attacco, gli attaccanti retrocedevano a coprire la propria area e, quindi, al calciatore specializzato si sostituiva il calciatore universale. Un fuoriclasse, Johan Cruijff, divenne il simbolo del nuovo calcio. Come disposizione iniziale, l'Olanda non si discostava troppo dal 4-3-3, ma la differenza era determinata dagli spostamenti in campo, dal ritmo altissimo, da figure di gioco innovative come il fuorigioco sistematico (avanzata sincrona e improvvisa di tutti i difensori, per mettere in posizione irregolare gli attaccanti avversari) o il pressing, cioè l'aggressione all'avversario in possesso di palla, attuata da due o tre giocatori contemporaneamente.
Il calcio totale olandese sembrò, all'epoca della sua affermazione, la soluzione ideale, ma quel modulo ‒ come tutti, del resto ‒ era strettamente legato all'abilità degli interpreti: quasi tutti i tentativi di imitazione fallirono e la stessa Olanda, nella successiva generazione, non replicò i suoi successi. Fu una squadra italiana, sul finire degli anni Ottanta, il Milan allenato da Arrigo Sacchi e del quale non a caso facevano parte tre campioni olandesi, Gullit, Van Basten e Rijkaard, a proporre la più attendibile rivisitazione del calcio totale. Quel Milan vinse più all'estero che in Italia, e fu ammirato nel mondo come l'esempio di un calcio spettacolare, basato sul contributo collettivo nel quale si fondevano le prodezze dei singoli.
La storia dell'evoluzione tattica del calcio è fatta di continue contaminazioni. Dopo la rivoluzione olandese, si susseguirono fasi di restaurazione, con periodici ritorni di marcature individuali e di libero fisso. Una delle più efficaci sintesi tra i vari moduli fu quella adottata dall'Italia di Bearzot, che vinse il titolo mondiale nel 1982, adottando uno schema di gioco definito 'zona mista'. La difesa rispettava i canoni del calcio all'italiana, con rigorosi controlli individuali e il battitore libero (però di manovra, come il grande Scirea). Negli altri reparti, invece, gli azzurri si disponevano a zona, con frequenti interscambi. Specie in Italia il dibattito fra difesa a uomo e difesa a zona assunse toni accesi, come si era verificato anni prima tra i fautori del metodo e quelli del sistema. Il primo scudetto conquistato da una squadra schierata rigorosamente a zona fu quello vinto nel 1983 dalla Roma, allenata dallo svedese Nils Liedholm. Quest'ultimo aveva già conquistato il titolo quattro anni prima alla guida del Milan, che però non si difendeva rigorosamente a zona, in quanto la coppia centrale della retroguardia prevedeva Bet in funzione di stopper e Franco Baresi in veste di libero.
A poco a poco, la difesa a zona si è affermata, perdendo però qualche caratteristica tipicamente olandese, penalizzata dalle nuove regole. Alcune modifiche della norma sul fuorigioco, per esempio, hanno reso troppo rischioso il ricorso sistematico a questo espediente difensivo, così come il divieto di retropassaggio al portiere e l'espulsione per fallo commesso in una chiara azione da gol hanno consigliato di correggere lo schieramento rigorosamente in linea del reparto difensivo. L'ultima evoluzione ha così riguardato prevalentemente l'assetto della difesa. Da quella classica a quattro uomini, si è passati a quella a cinque (tre centrali, di cui uno assai simile al vecchio libero, e due laterali, i terzini di un tempo), o a quella a tre, in cui gli esterni vanno a integrare il centrocampo, retrocedendo soltanto in situazione di pericolo. Attualmente i moduli più applicati sono l'inossidabile 4-4-2, che garantisce tuttora la migliore copertura degli spazi, il 4-3-3, che privilegia la fase offensiva, con due attaccanti esterni e uno centrale, il 3-4-1-2, che prevede la presenza di un trequartista, in genere giocatore molto tecnico e fantasioso, che occupa lo spazio fra le due linee di attacco e di centrocampo e ha la funzione principale di creare opportunità da gol per le due punte. Altre varianti prevedono la difesa a quattro o a cinque giocatori.
Ogni squadra, in realtà, adotta lo schema più congeniale ai giocatori che ha a disposizione, piuttosto che forzare le vocazioni tecniche dei singoli in un modulo astratto. Di conseguenza, infinite sono le varianti, frequenti i ritorni al passato (la difesa a tre è la rivisitazione del sistema), ma l'ultima vera rivoluzione resta, per ora, quella olandese degli inizi degli anni Settanta. Da allora, vi è stato solo un paziente lavoro di perfezionamento e di adattamento, ma nessuna intuizione veramente originale. Il calcio del Duemila attende ancora il suo Chapman o il suo Michels.
di Gianni Leali
Riguardo alla fase pionieristica del calcio, non mancano notizie anche piuttosto dettagliate sull'evoluzione delle regole di gioco, sui primi tipi di schieramento e sull'introduzione delle diverse tattiche, nonché su alcuni incontri internazionali particolarmente significativi. Siamo invece privi di un'adeguata documentazione sulla durata e le modalità di allenamento. Questo, con ogni probabilità, doveva svolgersi in maniera assai semplice, consistendo in qualche incontro, una o due volte la settimana, nelle ore libere, sul 'campo dei giochi', dove ci si addestrava in gare improvvisate, a una o a due porte, in formazioni regolari o ridotte. L'idea di una vera e propria preparazione specifica non era ancora presa in considerazione.
In Europa, soltanto dopo la Prima guerra mondiale si cominciò a considerare la necessità di una buona preparazione fisica ai fini della prestazione del calciatore, anche se l'attenzione era ancora orientata quasi esclusivamente sul perfezionamento tecnico. Nel volume Tecnica del giuoco del calcio (1928), l'ungherese Géyza Széhany metteva in rilievo la grande importanza della resistenza e consigliava attività quali la corsa di durata, il nuoto, il ciclismo. È ben vero che si tratta di consigli generali, senza alcun preciso indirizzo sistematico, ma ciò che importa è che la resistenza viene considerata un fattore determinante per la prestazione calcistica.
Alcuni anni dopo, in Caligaris insegna (1934), Ermanno Marielli rivolge pesanti critiche agli allenatori delle grandi società, cui imputa l'empirismo da ex calciatori, affermando che occorre variare il lavoro dei giocatori in base al ruolo, alle caratteristiche fisiche e al peso corporeo. Per i giocatori sovrappeso, per esempio, vengono consigliati salti alla corda per un'ora intera, con intervalli di 5 o 10 minuti.
Secondo le notizie giornalistiche riguardanti i ritiri collegiali della nazionale italiana ‒ che fu per due volte consecutive campione del mondo (1934 e 1938), conquistando nel frattempo (Berlino 1936) anche l'alloro olimpico ‒, la preparazione fisica (o attività ginnico-atletica, come si era soliti definirla) veniva effettuata a scaglioni e variava in base ai ruoli. Per i portieri prevedeva soprattutto esercizi di agilità e salti alla corda, senza giri di campo o attività di corsa; per i terzini, brevi tratti di corsa veloce (sprint), esercitazioni di salto, ginnastica di mobilizzazione; per i mediani, corsa di fondo, alternata con la marcia, fino a raggiungere un totale di 4-5 km e alcune ripetizioni di sprint; per gli attaccanti, la massima importanza era data agli esercizi di scatto, con molteplici varianti (arresti repentini, cambi di direzione ecc.).
Per la questione dell'allenamento fisico, almeno fino alla fine della Seconda guerra mondiale, non sembra si siano tentate nuove strade né sperimentati nuovi metodi. Il maggior interesse calcistico, in quei tempi, era orientato sulla dialettica dei vari sistemi di gioco, anche se proprio l'introduzione di schemi più razionali per quanto riguardava la distribuzione dei giocatori sul campo e dei ruoli loro assegnati avesse cominciato a sollecitare, come naturale conseguenza, il problema di un allenamento fisico specifico per le forme di movimento che il particolare compito esigeva.
Fu però negli anni subito dopo la Seconda guerra mondiale che la preparazione atletica cominciò a essere considerata una componente essenziale dell'allenamento calcistico e l'attenzione degli esperti a orientarsi sulle metodiche più adatte a portare il calciatore, nel modo più rapido e continuativo possibile, a esprimere la sua 'vitalità di gioco': arrivare per primi sulla palla, saltare più in alto dell'avversario, resistere alle sue cariche, mantenere inalterati i riflessi per tutta la durata dell'incontro erano elementi che quasi tutti i tecnici consideravano ormai fondamentali per il conseguimento della vittoria.
Il problema della preparazione atletica nell'allenamento calcistico venne affrontato per la prima volta in modo sistematico e razionale ‒ anche se incerta e incompleta fu la soluzione prospettata ‒ dall'ungherese Francisco Platko, in Arte y ciencia del futbol moderno (Santiago del Cile, 1946). Platko, divenuto allenatore dopo aver giocato per molti anni e in molti paesi, affermava, tra l'altro, che "è un problema molto discusso se il giocatore di calcio abbia bisogno di poco o di molto allenamento" e, con notevole intuito, insisteva sul fatto che esso dovesse essere comunque caratterizzato dall'alternanza di fasi intense con altre relativamente leggere. Questa alternanza deve manifestarsi sia nella successione delle varie forme di attività nel corso della seduta, sia nella successione delle varie sedute. Per l'attività di corsa, per esempio, Platko consigliava di alternare corse rapide con corse lente. Mancano, purtroppo, nella sua opera esempi di sedute complete di allenamento, che possano dare un'esemplificazione concreta dei principi teorici da lui enunciati.
Un modello di seduta di allenamento, descritto sinteticamente da Jean Cornilli, istruttore ai Corsi per allenatori in Francia, in Le football dévoilé (1951), prevedeva: a) messa in azione; b) esercizi addominali; c) esercizi di agilità e di acrobatica elementare (capriole, cadute ecc.); d) esercizi tecnici con il pallone; e) defaticamento. La successione delle esercitazioni indica che, nell'ambito della seduta di allenamento, viene attuato il cosiddetto metodo progressivo-parabolico. A tale metodo si attengono anche le pubblicazioni tecniche edite a cura della FIGC (1950-1952), le quali, corredate da alcune nozioni generali sui criteri di valutazione, sulla morfologia e costituzione umana, sulle leggi di crescenza, mettono in evidenza le caratteristiche generali della contrazione muscolare statica e dinamica. Il gioco del calcio, pur rimanendo valutato nella sua globalità, comincia a essere studiato e analizzato nelle sue componenti. Esercizi di forza sono debitamente alternati con altri di distensione e di mobilità articolare. Si introduce il concetto di preatletismo generale, orientato parallelamente verso il potenziamento delle qualità muscolari e di quelle organiche. Viene presa in esame la tecnica della corsa e del salto, con particolare riferimento ai movimenti e alle esigenze calcistiche.
Nel 1954, in Svizzera, la Germania Occidentale vinse i Campionati del Mondo. Nella finale contro la rappresentativa ungherese, considerata la grande favorita del torneo, la squadra guidata da Sepp Herberger lasciò stupefatti gli spettatori di tutto il mondo (per la prima volta, infatti, le partite vennero trasmesse per televisione). Questo successo fu universalmente considerato una vittoria della condizione fisica sulla tecnica e sulla tattica. Da qualche anno, infatti, la nazionale ungherese aveva riscosso ovunque consensi e vittorie per il suo gioco bello ed efficace che alla fantasia e all'abilità dei singoli sapeva unire uno spettacolare movimento collettivo. Lo stesso Herberger rispose, almeno parzialmente, al grande interesse suscitato dalla vittoria dei calciatori tedeschi riguardo ai metodi di allenamento adottati, in un film didattico apparso qualche anno più tardi. Contrariamente a quanto sarebbe stato logico attendersi (e cioè l'esaltazione del condizionamento fisico dal punto di vista organico e muscolare), l'idea prevalente era che la forma di allenamento più idonea per il calciatore consistesse nel ripetere metodicamente i movimenti che sarebbe stato chiamato a compiere durante la gara.
Più esplicitamente, l'argomento fu trattato in una pubblicazione redatta da un giovane allenatore, allievo dello stesso Herberger, Hennes Weisweiler, che in seguito sarebbe divenuto famoso per aver condotto a prestigiosi risultati la squadra da lui allenata per molti anni: il Borussia Mönchengladbach. Il libro di Weisweiler, dal titolo Der Fussbal-Taktik, Training und Mannschaft, pubblicato per la prima volta nel 1959, è stato successivamente più volte rielaborato. Nel capitolo dedicato alla condizione fisica, già nella prima edizione si fa riferimento ad alcune controversie ‒ che si faranno sempre più aspre negli anni seguenti ‒ relative alla eccessiva 'morbidezza' dell'allenamento calcistico nei confronti di altre specialità e discipline sportive. L'autore, in particolare, si dichiara apertamente contrario all'utilizzo, nell'allenamento dei giocatori di calcio, delle metodiche specifiche dell'atletica leggera, da più parti proposte in alternativa a quelle adottate dalle squadre. Secondo Weisweiler, per il gioco del calcio non devono essere attuati procedimenti di allenamento rigidi ed eccessivamente sistematici: il calciatore non è né un velocista, né un mezzofondista, né un maratoneta, e nemmeno un sollevatore di pesi. Egli deve semplicemente giocare a calcio, e per far questo gli occorrono la forza, la velocità, la resistenza necessarie per utilizzare la propria tecnica al servizio della squadra: ciò richiede un allenamento specifico, che non può essere preso a prestito altrove. Le misurazioni oggettive con cui si cerca di valutare l'insieme delle prestazioni di un calciatore sono destinate a offrire un quadro incompleto, perché non dicono nulla del grado di tensione fisica e psichica con cui viene condotta ogni azione. Riconosciuto il valore accessorio di un buon addestramento alla corsa e al salto, di un'adeguata ginnastica di rafforzamento per i muscoli del tronco, delle spalle e delle gambe, Weisweiler insiste sulla preponderante efficacia delle forme di allenamento basate sui giochi, con e senza pallone: è soltanto per mezzo del gioco che il calciatore può essere stimolato a partecipare a un lavoro di allenamento sufficientemente intenso e opportunamente vario. Le attività calcistiche fondamentali, sempre secondo l'autore, sono i giochi 3:1, 4:2, 3:2, 1:1, 3:3, oltre a forme ridotte e semplificate di pallamano e di pallacanestro.
I Mondiali del 1958, disputati in Svezia, furono vinti dal Brasile soprattutto grazie all'eccelso valore tecnico dei giocatori: i due Santos, Didí, Vavà, Pelé, Garrincha possedevano tanta tecnica e tanta fantasia da non temere rivali in tutto il mondo. Tuttavia, in uno studio sulla preparazione delle squadre partecipanti, l'ungherese Arpad Csamadi affermò di essere rimasto sorpreso dalla serietà e dalla disciplina con cui i giocatori brasiliani, considerati generalmente poco disposti a sottoporsi a forme di allenamento intense e impegnative, seguivano le varie esercitazioni preparatorie, anche di natura squisitamente atletica.
Nel 1961, a cura della Commissione tecnica dell'UEFA, fu organizzato a Macolin, in Svizzera, il Primo corso internazionale per allenatori di calcio. Il programma comprendeva anche alcune relazioni, conferenze, dimostrazioni pratiche, riguardanti l'allenamento per il condizionamento fisico. Il relatore principale fu Walter Winterbottom, che per molti anni era stato il selezionatore della rappresentativa nazionale inglese. Dopo aver esposto i risultati di alcuni suoi studi sulla prestazione di corsa del calciatore in gara, Winterbottom illustrò e diede dimostrazioni pratiche di due forme di allenamento basate sul 'metodo del circuito' (circuit training): una per la resistenza muscolare, l'altra per la resistenza organica. La dimostrazione suscitò grande interesse nei partecipanti. Il circuit training calcistico, con opportune aggiunte o modifiche in relazione all'età e allo sviluppo tecnico degli allievi, fu poi pubblicato in manuali e riviste specializzate, e molti allenatori cominciarono a metterlo in pratica sul campo, inserendolo nei loro programmi di allenamento. Occorre notare, però, che secondo Winterbottom tale circuito doveva comprendere tutta l'attività per il raggiungimento e il mantenimento della condizione fisica, sostituendo completamente ogni altra forma di esercitazione.
Nel 1962, sempre a cura dell'UEFA, venne organizzato il Secondo corso internazionale per allenatori di calcio, che si svolse presso la Scuola di sport di Hennef-Sieg (Bonn). Erano da poco terminati i Campionati del Mondo in Cile, vinti per la seconda volta consecutiva dal Brasile, che aveva schierato una formazione comprendente gli 8/11 della stessa squadra che aveva trionfato quattro anni prima in Svezia. Per quanto riguarda i problemi del condizionamento fisico, Winterbottom presentò un programma di interval training, cosiddetto 'dei 45 secondi'. Si trattava di uno fra i primi tentativi di applicazione all'allenamento calcistico di una metodica che a quel tempo godeva di grande prestigio, per i risultati già conseguiti in altre discipline sportive. L'interval training di Winterbottom, però, anche per alcune deviazioni dalla forma originaria che lo rendevano particolarmente intenso e faticoso, non trovò largo seguito. Si sviluppava invece la tendenza generalizzata a inserire nel programma di allenamento dei calciatori nuove elaborazioni di metodiche in uso in altri sport quali isometria, body-building, power-training, naturalmente adattate alle esigenze del calcio.
Nel 1966, a Londra, la finale del Campionato del Mondo vide contrapposte Inghilterra e Germania Occidentale, le due nazionali che già da alcuni anni venivano giudicate le tipiche rappresentanti del calcio cosiddetto atletico. Con questa denominazione veniva a quei tempi indicato il tipo di gioco praticato dalle squadre di scuola anglosassone e nordeuropea, considerato il più spettacolare ed efficace. Di fronte all'eccellenza dei risultati, per mantenersi al passo, tutte le altre scuole cercarono di uniformarsi allo spirito di quel gioco e ai metodi di preparazione che ne erano alla base.
L'anno successivo ai Mondiali d'Inghilterra, secondo la prassi ormai consueta, venne indetto dall'UEFA il Convegno internazionale per allenatori di calcio, che si svolse a Zeist, in Olanda, dal 25 giugno al 2 luglio 1967. Fra i molti oratori e dimostratori che si alternarono al microfono e sui terreni di allenamento, i più seguiti, naturalmente, furono l'inglese Allen Wade e il tedesco Helmut Schön. Le loro relazioni dimostrarono ampiamente, seppure ce ne fosse stato bisogno, l'importanza della preparazione atletica nell'allenamento calcistico e dello sviluppo, attraverso l'esercizio, delle qualità fisiche richieste al calciatore: resistenza muscolare, resistenza organica, forza, velocità. Le procedure di allenamento dovevano avere una stretta attinenza con le esigenze calcistiche e, soprattutto, con combinazioni di gioco eseguite alla massima velocità possibile. Oltre alle relazioni di Wade e Schön, suscitò notevole interesse anche l'illustrazione, da parte dello scozzese Roy Small, di una seduta di interval training calcistico: questa si basava su una distanza di 100 m da ripetersi globalmente per 15 volte con un intervallo di recupero variabile tra 60 e 75 secondi fra una ripetizione e l'altra. Il programma completo avrebbe compreso l'inserimento di questo tipo di lavoro, per quattro settimane consecutive, durante il periodo di allenamento precampionato.
I Mondiali d'Inghilterra, in ultima analisi, avevano evidenziato il fatto che il calcio moderno non poteva più basarsi esclusivamente su una tecnica raffinatissima o su accorgimenti tattici particolari capaci di neutralizzare l'eventuale superiorità dell'avversario, ma richiedeva anche e soprattutto giocatori dotati di elevato dinamismo.
I Campionati del Mondo del 1970 in Messico, così come era avvenuto per le Olimpiadi che si erano svolte nella stessa sede due anni prima, richiamarono, al seguito degli atleti e delle squadre, medici, biologi, ricercatori. Con l'obiettivo principale di esaminare le reazioni dell'organismo umano in condizioni di massima prestazione in altitudine, veri e propri laboratori scientifici attraversarono l'oceano per svolgere la loro opera direttamente alle elevate quote dell'altipiano messicano. La nazionale italiana, già campione d'Europa due anni prima a Roma, ottenne il titolo platonico di vicecampione del Mondo dopo aver superato la Germania Occidentale, depositaria del calcio atletico, al termine di una partita protrattasi per due ore e rimasta famosa per il suo risultato altalenante fino agli ultimi minuti. Fu il Brasile, comunque, a vincere quei Mondiali e a riportare in auge la scuola sudamericana.
Negli ultimi trent'anni nel football si sono verificati notevoli cambiamenti sul piano tecnico-tattico e fisico. Ciò è avvenuto soprattutto grazie al calcio totale praticato dagli olandesi ai Mondiali del 1974 in Germania Ovest e dal Milan di Sacchi nel periodo 1987-91, che ha contribuito in maniera decisiva ad affermare concetti di gioco quali il pressing, i raddoppi di marcatura, la ricerca costante della superiorità numerica in fase sia difensiva sia offensiva tramite il movimento ininterrotto da parte di tutti i giocatori della squadra.
Lo studio del condizionamento fisico, di conseguenza, ha acquisito sempre maggiore importanza ed è divenuto sempre più intenso e accurato, specialmente in Italia dove peraltro, a partire dal 1991, il Settore tecnico della FIGC organizza annualmente a Coverciano (Firenze) un corso specifico per l'abilitazione a preparatore atletico del calcio: iniziativa per ora ancora unica al mondo, ma destinata a diffondersi altrove per la validità dei risultati ottenuti e per il forte interesse suscitato nelle Federazioni calcistiche di altri paesi. I preparatori atletici diplomati a Coverciano, infatti, per aver dimostrato elevata competenza e professionalità, sono molto stimati e apprezzati dagli allenatori di calcio, che li considerano ormai collaboratori assolutamente indispensabili nel difficile e delicato compito di far raggiungere ai calciatori un buon livello di forma già all'inizio del campionato e, ciò che più conta, di far loro mantenere un ottimo standard di prestazioni per i molti mesi successivi di intensa attività agonistica.
Un cambiamento importante verificatosi nel mondo del calcio negli ultimi anni è rappresentato dalla crescente importanza assunta (soprattutto per quanto riguarda gli introiti economici) da meeting e tornei che si svolgono già dopo pochi giorni di preparazione precampionato. Ciò fa sì che, per molte squadre, il periodo da dedicare alla sola preparazione sia assai più limitato rispetto al passato, quando in alcune settimane di training erano inserite soltanto partite di importanza minima o nulla. Per ovviare alla carenza di tempo da dedicare allo sviluppo delle qualità fisiche nel periodo precampionato e per accelerare il raggiungimento di una buona condizione fisica, è divenuto sempre più frequente il caso di calciatori professionisti che, secondo il criterio inaugurato alcune stagioni fa da Giampiero Ventrone alla Juventus, sono seguiti anche in vacanza da un preparatore atletico della loro società.
Con l'inserimento a pieno titolo dei preparatori atletici nell'organico delle squadre di calcio, si è intensificata la sperimentazione sulla metodologia dell'allenamento, con il supporto sia delle teorie sviluppate dagli studiosi in laboratorio sia della ricerca tecnologica, cui si deve la diffusione di strumenti e apparecchiature di grande efficacia per la valutazione funzionale dell'atleta e per il miglioramento del controllo e della pratica dell'allenamento. Così, per esempio, è diventato ormai abituale l'impiego da parte dei preparatori atletici di un certo numero di macchine e strumentazioni: cardiofrequenzimetri per determinare con precisione lo sforzo cardiaco e quindi il carico di lavoro di una determinata esercitazione, strumenti per la rilevazione immediata della quantità di acido lattico presente nel sangue e della percentuale di massa grassa nel corpo dell'atleta (plicometri), la pedana computerizzata di Bosco (ergo jump) che permette, tramite salti verticali, di determinare in tempo reale i valori delle varie espressioni di forza (forza esplosiva, forza esplosiva elastica, forza esplosiva elastica-reattiva) e la percentuale delle fibre muscolari lente e rapide degli arti inferiori, gli elettrostimolatori e le sempre più sofisticate macchine di muscolazione da palestra per l'incremento localizzato della forza nei vari distretti muscolari.
In sostanza si può senz'altro affermare che il mondo del calcio, per quanto riguarda l'allenamento delle qualità fisiche, ha registrato una profonda trasformazione, passando da una fase empirica e artigianale a una che si può definire scientifica e 'industriale', cui si devono in gran parte i notevoli passi avanti che si riscontrano nella preparazione atletica dei calciatori. Tale trasformazione ha determinato una razionalizzazione dell'allenamento, con la messa a punto, sulla base di una conoscenza più precisa delle caratteristiche fisiologiche e dell'entità dello sforzo del giocatore in gara, di metodiche più efficaci per lo sviluppo delle qualità fisiche utili al calciatore e con l'applicazione sui singoli soggetti di carichi e tipi di lavoro effettivamente adatti alle loro caratteristiche individuali e alle loro specifiche carenze e necessità.
In particolare, due aspetti rappresentano i grandi temi della preparazione atletica moderna dei calciatori: l'allenamento della forza e l'allenamento differenziato.
Diversamente dal passato, anche relativamente recente, in cui la metodologia dell'allenamento era orientata prevalentemente allo sviluppo della resistenza, attualmente, sia in precampionato sia durante la fase agonistica, il potenziamento muscolare, soprattutto dei gruppi muscolari maggiormente sollecitati nella prestazione calcistica, sembra essere diventato la preoccupazione principale della maggior parte dei preparatori atletici. Sprint in salita, multibalzi, pliometria, salti di ostacoli, tonificazione di addominali e dorsali, lavoro in palestra alle macchine con grossi carichi da spostare con gli arti inferiori trovano pertanto sempre maggior spazio nella preparazione atletica dei calciatori. È opinione ormai ampiamente diffusa che l'allenamento debba essere basato più sulla forza che sulla resistenza, perché i momenti atleticamente più importanti di una partita sono quelli in cui il giocatore compie prestazioni influenzate in maniera decisiva dalla forza (tiri, scatti, arresti e cambi di direzione improvvisi, contrasti, stacchi per colpire di testa ecc.).
Una delle ragioni che hanno determinato un'accentuazione rispetto al passato dell'allenamento differenziato, individuale o a piccoli gruppi con soggetti con caratteristiche pressoché similari, è che attualmente le squadre sono composte da rose di giocatori sempre più nutrite, per far fronte a un calendario agonistico che prevede una maggiore quantità di partite ufficiali. Essendo così aumentato il numero di giocatori da allenare, con caratteristiche morfostrutturali e fisiologiche differenti e in un diverso stato di preparazione (come accade normalmente, per esempio, tra titolari e riserve), è logico che si ricorra più frequentemente ad allenamenti differenziati, anche per la convinzione ormai imperante della necessità di un allenamento specifico in relazione al ruolo e ai relativi compiti tattici che i giocatori sono chiamati a svolgere in gara.
di Mario Valitutti
Le regole del calcio sono state codificate gradualmente nel corso degli anni, in un percorso non sempre univoco. Per il periodo delle origini accade, quindi, che siano pervenute a noi versioni contrastanti sia per quanto concerne le date della loro adozione sia per ciò che attiene ai loro contenuti.
Le prime regole risalgono al 1848 quando un gruppo di studenti si riunì a Cambridge per tracciare un codice di comportamento, nel tentativo di introdurre nella pratica del gioco un minimo di uniformità. Secondo tale codice: "una rete è valida quando la palla viene calciata attraverso i pali della porta e sotto il nastro che unisce i pali"; "quando un giocatore riceve la palla deve calciarla senza correre con essa, trattenendola. In ogni caso la palla non può mai essere toccata con le mani se non per fermarla"; "in nessun caso è consentito abbracciare un avversario, colpirlo con le mani oppure ostacolarlo. Nessun giocatore deve impedire agli altri di catturare il pallone in una di queste maniere".
Seguono nel 1857 le 'regole di Sheffield' emanate dal primo club di calcio non universitario, lo Sheffield Club: "ogni giocatore deve essere dotato di un cappellino di flanella di colore rosso oppure blu scuro e indossare il cappellino a seconda della squadra di appartenenza"; "la palla può essere colpita con la mano ma è vietato portarla sotto braccio"; "un gol non può essere segnato con la mano e neppure con un calcio libero dopo una presa".
Pochi anni dopo, nel 1862 le regole redatte da J.C. Thring della Uppingham School sanciscono che: "un gol è valido quando la palla attraversa la porta sotto la sbarra eccetto quando viene portata con la mano"; "la palla non può essere calciata se è in aria"; "un giocatore è considerato fuorigioco quando si trova davanti alla linea del pallone".
Infine, il 26 ottobre 1863 i rappresentanti di 11 club e associazioni sportive londinesi si riunirono presso la Free Mason's Tavern di Londra per dare vita a una struttura unitaria, la Football Association. Il loro scopo primario era quello di codificare in maniera organica e omogenea il gioco del calcio, concordando modalità comuni di azione e procedendo alla stesura di un regolamento ufficiale cui avrebbero dovuto attenersi tutte le società aderenti. Le prime riunioni della Football Association furono caratterizzate da un'accesa dialettica. Si fronteggiavano due opposte tendenze, rappresentate da un lato dal segretario dell'Associazione, E.C. Morley, deciso a eliminare la matrice rugbystica del nuovo gioco (lo hacking, lo scalciare gli stinchi dell'avversario, l'aggredirlo con durezza), e dall'altro dal tesoriere dell'Associazione nonché presidente del Football Club Blackheath, F.M. Campbell, rigido difensore di quella impostazione. Prevalsero le ragioni di Morley e l'8 dicembre fu varato il regolamento, secondo il quale nessun giocatore avrebbe potuto correre con la palla tra le mani o caricare l'avversario. Il calcio, come oggi lo intendiamo, aveva finalmente intrapreso la sua strada.
Le regole del 1863, pur avendo il pregio di portare a unità le norme in precedenza emanate da più parti e di imporle a tutti gli associati alla Federazione, non erano ancora sufficienti a gestire e regolare un gioco che era venuto assumendo importanza e dimensioni non trascurabili nella società e nel costume dell'epoca. Basti pensare che non si faceva cenno alla durata dell'incontro, al numero dei giocatori da schierare in campo, ai giudici di gara, al punteggio da assegnare per la vittoria e il pareggio, all'altezza delle porte e così via.
Nel regolamento figuravano, invece, le dimensioni massime del campo di gioco (200 yard, pari a 182 m, di lunghezza; 100 yard, pari a 91 m, di larghezza), l'ampiezza delle porte, la validità del gol ("un gol viene segnato quando la palla passa attraverso i pali o sopra lo spazio tra i pali a qualsiasi altezza, a meno che essa non vi sia stata fatta passare con le mani"), la disciplina del fuorigioco ("quando un calciatore ha calciato la palla, qualsiasi appartenente alla stessa squadra è considerato in fuorigioco se si trova più vicino della palla stessa alla linea della porta avversaria"), le distanze su calcio d'inizio o su calci piazzati (10 yard pari a 9,15 m), i comportamenti in campo ("nessun giocatore potrà correre tenendo bloccata la palla o passare la palla a un compagno con le mani o prendere la palla con le mani mentre essa è in gioco"; "non è consentito ostacolare, abbracciare, spingere o colpire un avversario; portare protezioni in ferro o legacci di cuoio sulla superficie delle scarpe").
Negli anni seguenti l'applicazione delle regole non fu univoca, in quanto inizialmente aderirono alla Football Association soprattutto le squadre studentesche e una parte dei 'club calcistici' che erano considerati dei circoli al pari di quelli culturali o del bridge. Un momento decisivo fu rappresentato nel 1886 dalla creazione dell'IFAB (International football association board), costituito da due membri per ciascuna delle quattro Federazioni britanniche (Inghilterra, Scozia, Galles, Irlanda) e finalizzato all'armonizzazione e all'univoca interpretazione delle regole del gioco. Le tappe principali dell'evoluzione subi-ta negli anni da tali regole sono riportate in tab. 1.
Tabella 1
Terreno di gioco. Nel 1897 vennero precisate le dimensioni del campo: lunghezza da 90 a 120 m, larghezza da 45 a 90 m; per gli incontri internazionali lunghezza da 100 a 110 m, larghezza da 64 a 75 m. Nel 1875 sui pali comparve la traversa e le misure delle porte vennero fissate in 7,32×2,44 m. Nel 1891 furono installate le reti e fu abolito il giudice di porta.
Il numero dei componenti di ogni squadra inizialmente non era codificato. Trattandosi il più delle volte di contese scolastiche, classe contro classe, ci si accordava sul campo: in gare ancora giocate sia con le mani sia con i piedi si affrontavano 10 o 20 giocatori per parte. Si racconta che, nel calcio pionieristico, le squadre fossero formate per lo più da 10 giocatori, più il giudice di porta, collocato all'interno dei pali. Poiché accadeva spesso che questi respingesse il pallone, accendendo feroci discussioni, si decise di autorizzarlo a intervenire, dapprima solo con i piedi, poi anche con le mani: nacque così il goal keeper, il portiere. La composizione delle squadre di 11 calciatori fu comunque codificata da una direttiva del 1877. Riguardo alle sostituzioni, nel 1965 è ammessa quella del portiere infortunato; nel 1967 (1969 in Italia) ne sono previste due (una deve riguardare il portiere); nel 1994 le sostituzioni diventano tre (una deve riguardare il portiere); dal 1995 le tre sostituzioni prescindono dai ruoli.
Anche da questo punto di vista, inizialmente ci si rimetteva alle intese raggiunte sul campo. Per lo più si dava luogo a sfide interminabili la cui conclusione dipendeva dalla segnatura di un certo numero di gol. La durata dell'incontro venne fissata in 90 minuti, secondo alcune fonti, nel 1877, secondo altre nel 1896. Dal 1995, in Italia, è prevista, allo scadere dei due tempi di gara, la segnalazione da parte del 'quarto uomo' dei tempi di recupero. L'innovazione è stata adottata dalla FIFA in occasione del Mondiale del 1998.
Nel 1881 si decise di assegnare due punti per la vittoria e un punto per il pareggio. Nel 1994, seguendo l'esempio dell'Inghilterra e di numerosi altri paesi, anche in Italia la vittoria viene premiata con tre punti (rimane un punto per il pareggio).
Il regolamento del 1863 prevedeva il fuorigioco totale: si trovava in tale posizione il giocatore che, in qualsiasi zona del campo, fosse più vicino al limite di fondo campo avversario rispetto alla palla nel momento in cui questa veniva calciata in avanti da un compagno. Successivamente la regola ha subito tre variazioni: nel 1866 era ritenuto in fuorigioco, in qualunque zona del campo, chi non avesse davanti a sé almeno tre giocatori avversari; nel 1907 si considerava in fuorigioco chi, nella sola metà campo avversa, non avesse davanti a sé almeno tre giocatori avversari; nel 1925 era in posizione di fuorigioco chi, sempre nella sola metà campo avversa, non avesse davanti a sé almeno due giocatori avversari. Questa ultima regola è tuttora in vigore con una sola variante introdotta nel 1990: non è considerato in fuorigioco il calciatore in linea con il penultimo avversario (in genere l'ultimo è il portiere). Le decisioni del 1925 comportarono rilevanti conseguenze tattiche che, inizialmente, furono avvertite solo in Inghilterra dove l'allenatore Herbert Chapman rivoluzionò lo schema di gioco con l'adozione del cosiddetto 'sistema'. Nel continente si dette importanza alla nuova regola molti anni più tardi.
Ai primordi del calcio anglosassone l'etica del fair play riteneva superflua la figura dell'arbitro e per dirimere le situazioni di gioco controverse intervenivano i capitani delle due squadre. Tuttavia, il gentlemen's agreement, non fu più in grado di governare l'andamento degli incontri quando essi si fecero altamente competitivi e il pubblico divenne più numeroso e sovente tumultuoso. Emerse quindi l'esigenza di affidare la conduzione della gara a soggetti terzi. Dagli atti risulta che nel 1871 il controllo della gara venne affidato a due giudici di campo (umpires) scelti dalle parti e a un terzo giudice (referee) seduto fuori campo con compiti di appello. Il fischietto non esisteva ancora e pertanto i giudici di campo erano muniti di bandierina per sospendere il gioco. Nel 1891 il referee ebbe in dotazione fischietto e taccuino e fece il suo ingresso in campo; gli umpires furono dislocati lungo le linee laterali con il solo compito di segnalare il punto in cui il pallone usciva dal campo. Nel 1894 le decisioni dell'arbitro sono diventate inappellabili. Nel 1989 in Italia, limitatamente alle serie A e B e alla Coppa Italia, viene ammesso un quarto ufficiale di gara che si colloca all'altezza della linea mediana del campo. Nel 1996 i guardalinee diventano assistenti dell'arbitro.
Le sanzioni, integrazioni e modifiche alle regole del gioco furono introdotte a partire dagli ultimi decenni dell'Ottocento. Si fa risalire agli anni 1872-73 l'istituzione dei calci liberi o di punizione, mentre nel 1903 compare il calcio di punizione diretto. Nel 1951 viene punito il fallo di ostruzione intenzionale. Nel 1992 viene sanzionato con un calcio di punizione indiretto il retropassaggio di piede al portiere che tocchi la palla con le mani.
Il calcio di rigore compare nel 1891 (v. tab. 2). Inizialmente si poteva calciare da qualsiasi punto del terreno di gioco purché a distanza di 11 m dalla porta (si tracciava un semicerchio dal centro della porta con un raggio di 12 yard e il pallone poteva essere posto su un punto qualsiasi del semicerchio). La porta era difesa solo dal guardiano (così veniva chiamato a quei tempi il portiere). Successivamente (1902) vennero delimitate con le attuali misure le aree di porta e di rigore e si stabilì che il calcio di rigore dovesse essere battuto sempre dallo stesso punto, a 11 m dalla porta sulla linea perpendicolare di questa (la cosiddetta 'lunetta'). Nel 1931 si decretò che il portiere non potesse muoversi prima che la palla fosse calciata dal dischetto. Una disposizione del 1997 consente al portiere di muoversi solo lungo la linea di porta.
Il calcio d'angolo fu introdotto nel 1873. Nel 1913 fu deciso che il calciatore che batteva il corner non potesse toccare il pallone una seconda volta prima che esso fosse stato giocato da un compagno o da un avversario. Nel 1924 (secondo alcune fonti nel 1927) divenne regolare il gol realizzato direttamente dal calcio d'angolo.
La rimessa laterale con entrambe le mani è una regola risalente al 1882.
Le espulsioni vennero regolamentate per la prima volta nel 1874, concedendo ai giudici di gara di espellere un giocatore recidivo nell'inosservanza delle regole di gioco. Nel 1927 è riconosciuta all'arbitro la facoltà di espellere un giocatore che usi nei suoi confronti un linguaggio grossolano o ingiurioso. Nel 1990 viene sancita l'espulsione del difensore che commette fallo sull'attaccante che si trovi in una chiara azione da rete; nel 1991 l'espulsione del giocatore che interrompe con la mano un'azione da gol e del portiere che interviene con le mani fuori dell'area di rigore; in occasione del Mondiale 1994, la FIFA raccomanda di sanzionare con l'espulsione il fallo commesso da tergo (la decisione viene codificata nel 1998).
Tabella 2
Attualmente assicurano solide fondamenta e assoluta precisione al gioco del calcio 17 Regole, promulgate per la prima volta nel 1939. I loro contenuti essenziali possono essere così sintetizzati:
1. Terreno di gioco
Deve essere rettangolare, lungo almeno 90 m (100 m per le gare internazionali) e largo almeno 45 m (64 m per le gare internazionali), e delimitato da linee. Ciascun lato del campo comprende un'area di rigore all'interno della quale è segnato il punto, posto a 11 m dalla linea di porta ed equidistante dai pali, da cui tirare il calcio di rigore. A ciascun angolo del terreno deve essere infissa un'asta con bandierina. Le porte consistono di due pali verticali infissi a uguale distanza dalle bandierine d'angolo e congiunti alla sommità da una sbarra trasversale. La distanza che separa i due pali è di 7,32 m e il bordo inferiore della sbarra trasversale è situato a 2,44 m dal suolo.
2. Pallone
Deve essere di forma sferica, di cuoio o altro materiale approvato, con una circonferenza minima di 68 cm e massima di 70 cm. Il suo peso all'inizio della gara deve essere compreso fra i 410 e i 450 g.
3. Numero dei calciatori
Ogni gara è disputata da due squadre composte ciascuna da 11 calciatori al massimo, uno dei quali giocherà da portiere. Nessuna gara potrà aver luogo se l'una o l'altra squadra dispone di meno di sette calciatori. In panchina potranno sedere altri calciatori: secondo il tipo di competizione, da un minimo di tre a un massimo di sette. Nelle gare ufficiali è consentita la sostituzione di non più di tre calciatori. Nelle altre gare si può superare questo limite, se c'è accordo fra le parti.
4. Equipaggiamento dei calciatori
L'equipaggiamento e l'abbigliamento dei calciatori non devono in alcun caso risultare pericolosi. Ciò vale anche per i monili di qualsiasi genere. L'equipaggiamento completo di un calciatore comprende: maglia, calzoncini (gli eventuali scaldamuscoli devono essere dello stesso colore di quello dominante dei calzoncini), calzettoni, parastinchi, scarpe. Il portiere deve indossare una maglia di colore diverso da quello di tutti gli altri calciatori, dell'arbitro e degli assistenti dell'arbitro.
5. Arbitro
Ogni gara si disputa sotto il controllo di un arbitro, le cui decisioni sui fatti relativi al gioco sono inappellabili. L'arbitro può ritornare su una sua decisione soltanto se ritiene che essa sia errata o, a sua discrezione, su segnalazione di un assistente, sempre che nel frattempo il gioco non sia stato ripreso.
6. Assistenti dell'arbitro
È prevista la designazione di due assistenti dell'arbitro, che avranno il compito di coadiuvarlo nel vigilare sul rispetto delle regole del gioco durante la gara. Il regolamento attuale prevede anche la figura del 'quarto ufficiale' (o 'quarto uomo'), che può sostituire uno dei tre ufficiali di gara (arbitro e suoi assistenti) che fosse impossibilitato a svolgere le sue funzioni. Inoltre il 'quarto ufficiale' coadiuva l'arbitro, su richiesta dello stesso, in tutte le funzioni burocratiche prima, durante e dopo la gara, e infine lo assiste nella procedura delle sostituzioni dei calciatori durante la partita.
7. Durata della gara
Salvo diversi accordi, la gara si compone di due periodi di gioco di 45 minuti ciascuno, intervallati da una sosta che non deve superare i 15 minuti. Ciascun periodo deve essere prolungato per recuperare tutto il tempo perduto per le sostituzioni, l'accertamento degli infortuni dei calciatori e il loro trasporto al di fuori dal terreno di gioco, le manovre tendenti a perdere deliberatamente tempo, ecc. La durata del recupero per interruzioni è a discrezione dell'arbitro. Per le gare che terminano con il risultato di parità, i regolamenti delle competizioni possono prevedere disposizioni relative ai tempi supplementari o ad altre procedure accettate dall'IFAB, che consentono di determinare la squadra vincitrice della gara. Una gara sospesa definitivamente prima del suo termine deve essere rigiocata, salvo disposizioni contrarie previste nel regolamento della competizione.
8. Calcio d'inizio e ripresa del gioco
La scelta della parte del campo viene stabilita con sorteggio per mezzo di una moneta. La squadra che vince il sorteggio sceglie la porta contro cui attaccherà nel primo perio--do di gioco. All'altra squadra verrà assegnato il calcio d'inizio della gara. Nel secondo tempo le squadre invertono le rispettive metà del campo.
9. Pallone in gioco e non in gioco
Il pallone non è in gioco quando ha interamente superato la linea di porta o la linea laterale, sia a terra sia in aria, o quando il gioco è stato interrotto dall'arbitro.
10. Segnatura di una rete
Una rete è considerata valida quando il pallone ha interamente superato la linea di porta tra i pali e sotto la sbarra trasversale, sempre che nessuna infrazione alle regole sia stata precedentemente commessa dalla squadra in favore della quale la rete è concessa.
11. Fuorigioco
Un calciatore si trova in posizione di fuorigioco quando è più vicino alla linea di porta avversaria sia rispetto al pallone sia al penultimo avversario. La posizione di fuorigioco di un calciatore deve essere punita solo se, nel momento in cui il pallone è toccato o giocato da uno dei suoi compagni, il calciatore, a giudizio dell'arbitro, prende parte attiva al gioco, intervenendo nel gioco stesso, oppure influenzando un avversario, oppure traendo vantaggio da tale posizione. Non vi è infrazione di fuorigioco quando un calciatore si trova nella propria metà del terreno di gioco; si trova in linea con il penultimo avversario; riceve direttamente il pallone su calcio di rinvio oppure su rimessa dalla linea laterale, oppure su calcio d'angolo. Per tutte le infrazioni alla regola del fuorigioco, l'arbitro accorda alla squadra avversaria un calcio di punizione indiretto, che deve essere eseguito nel punto in cui l'infrazione è stata commessa.
12. Falli e comportamenti antisportivi
I falli e i comportamenti antisportivi devono essere sanzionati con: a) calcio di punizione diretto, accordato alla squadra avversaria del calciatore che, a giudizio dell'arbitro, commetta per negligenza, imprudenza o vigoria sproporzionata uno dei falli seguenti: dare o tentare di dare un calcio a un avversario, fare o tentare di fare uno sgambetto a un avversario, saltare su un avversario, caricare un avversario, colpire o tentare di colpire un avversario, spingere un avversario. Viene accordato calcio di punizione diretto anche per le seguenti altre azioni fallose: contrastare un avversario per il possesso del pallone, venendo in contatto con lui prima di raggiungere il pallone, trattenere un avversario, sputare contro un avversario, giocare volontariamente il pallone con le mani (a eccezione del portiere quando si trova nella propria area di rigore); b) calcio di rigore, accordato quando uno dei suddetti falli sia commesso da un calciatore entro la propria area di rigore, indipendentemente dalla posizione del pallone, purché lo stesso sia in gioco; c) calcio di punizione indiretto, accordato alla squadra avversaria quando il portiere, trovandosi nella propria area di rigore, trattenga per più di sei secondi il pallone con le mani, o tocchi nuovamente il pallone con le mani, dopo esserne entrato in possesso, prima che lo stesso sia stato toccato da un altro calciatore, o tocchi con le mani il pallone passatogli deliberatamente con il piede da un calciatore della propria squadra, o tocchi con le mani il pallone passatogli direttamente da un compagno su rimessa dalla linea laterale, o compia manovre che, a giudizio dell'arbitro, siano dettate unicamente dal proposito di perdere tempo. Un calcio di punizione indiretto è parimenti accordato quando un calciatore giochi in modo pericoloso, o impedisca la progressione a un avversario (senza contatto fisico), od ostacoli il portiere nell'atto di liberarsi del pallone che ha tra le mani, o commetta altri falli, per i quali la gara è stata interrotta per ammonire o espellere un calciatore.
Per quanto riguarda le sanzioni disciplinari, un calciatore deve essere ammonito (cartellino giallo) quando si renda colpevole di uno dei falli seguenti: comportamento antisportivo, esplicita disapprovazione con parole o gesti, trasgressione ripetuta delle regole del gioco, ritardo nella ripresa del gioco, disattesa della distanza prescritta nei calci d'angolo e nei calci di punizione, entrata o rientro nel terreno di gioco senza il preventivo assenso dell'arbitro, abbandono deliberato del terreno di gioco senza il preventivo assenso dell'arbitro. Un calciatore deve essere espulso (cartellino rosso) dal terreno di gioco nel caso in cui si renda colpevole di un fallo violento di gioco o di condotta violenta (l'IFAB ha assimilato al fallo violento il tackle da dietro che metta in pericolo l'integrità fisica di un avversario), nel caso in cui sputi contro un avversario o qualsiasi altra persona, quando impedisca alla squadra avversaria di segnare una rete o la privi di una chiara occasione da rete toccando volontariamente il pallone con le mani, quando annulli una chiara occasione da rete a un calciatore diretto verso la porta avversaria commettendo su di lui un fallo punibile con un calcio di punizione o di rigore, nel caso in cui usi un linguaggio offensivo, ingiurioso o minaccioso, nel caso in cui riceva una seconda ammonizione nel corso della stessa gara. Gli Organi di giustizia sportiva possono utilizzare quale mezzo di prova, al solo fine dell'irrogazione di sanzioni disciplinari, riprese televisive o filmati sia per correggere errori di persona sia per punire episodi di condotta violenta avvenuti a gioco fermo o estranei all'azione di gioco, sfuggiti al controllo degli ufficiali di gara. Contro le sanzioni irrogate le parti possono produrre immagini televisive che dimostrino che il tesserato non ha commesso l'infrazione.
13. Calci di punizione
Nel calcio di punizione indiretto la rete viene convalidata soltanto se il pallone entra in porta dopo aver toccato un altro calciatore; nel calcio di punizione diretto il calciatore può tirare direttamente nella porta avversaria.
14. Calcio di rigore
Un calcio di rigore è assegnato contro la squadra che commette, nella propria area di rigore e con il pallone in gioco, uno dei falli punibili con un calcio di punizione diretto. Il pallone deve essere posizionato sul punto contrassegnato all'interno dell'area di rigore. Il portiere deve restare sulla propria linea di porta fino a quando il pallone è stato calciato. Il calciatore incaricato di battere il calcio di rigore non può giocare o toccare una seconda volta il pallone prima che lo stesso sia stato giocato o toccato da un altro calciatore
15. Rimessa dalla linea laterale
È accordata quando il pallone ha interamente superato la linea laterale sia a terra sia in aria. Il calciatore incaricato di eseguirla deve fare fronte al terreno di gioco, avere, almeno parzialmente, i due piedi sulla linea laterale, tenere il pallone con le mani e lanciarlo da dietro la nuca e al di sopra della testa. Una rete non può essere segnata direttamente su rimessa dalla linea laterale.
16. Calcio di rinvio
È accordato quando il pallone, giocato per ultimo da un calciatore della squadra attaccante, ha interamente superato la linea di porta, sia a terra sia in aria, senza peraltro entrare in porta.
17. Calcio d'angolo
È accordato quando il pallone, giocato per ultimo da un calciatore della squadra difendente, ha interamente superato la linea di porta, sia a terra sia in aria, senza peraltro entrare in porta.
Oltre a queste norme fondamentali, fanno altresì parte integrante del regolamento altre istruzioni supplementari dell'IFAB che si riferiscono alle modalità di esecuzione dei tiri di rigore per la determinazione della squadra vincente; alla definizione dell'area tecnica (che si estende lateralmente 1 m per parte oltre le panchine e in avanti fino a 1 m dalla linea di fondo) e al 'quarto ufficiale' di gara. Un'altra norma introdotta nelle competizioni ufficiali organizzate dalla FIFA (Campionati Mondiali) e dalla UEFA (Campionati Europei) è quella del 'golden gol', in base alla quale la squadra che segna per prima una rete nei tempi supplementari vince la partita. Tale regola ha trovato applicazione anche nei Mondiali del 2002, ma se ne studiano modifiche.
di Angelo Pesciaroli
La figura dell'arbitro è nata insieme al gioco del calcio del quale garantisce il regolare svolgimento in tutti i paesi e a tutti i livelli, dai settori giovanili sino ai campionati di vertice nazionali e mondiali. In Italia, gli arbitri in attività per i campionati delle varie serie sono circa 24.000 (oltre 10.000 gli anziani tesserati in altri ruoli), nel mondo sono oltre due milioni.
L'AIA (Associazione italiana arbitri) ha un'organizzazione piramidale: le strutture di base sono costituite dalle sezioni, circa 200, che ogni anno organizzano corsi di formazione e curano l'aggiornamento tecnico. Al di sopra delle sezioni vi sono i comitati regionali che ne controllano e coordinano l'attività. La CAN (Commissione arbitri nazionale) D organizza e designa gli arbitri per i campionati nazionali di dilettanti, maschile e femminile, e del calcio a cinque; la CAN C per le serie C1 e C2; la CAN per le serie A e B.
Ogni federazione nazionale, in proporzione alla propria popolazione calcistica, ha il diritto di scegliere ogni anno un gruppo di arbitri che assumono la qualifica di 'internazionali'. Per l'Italia gli arbitri internazionali sono attualmente dieci, il numero massimo consentito dal regolamento. Esiste anche un ruolo internazionale di assistenti internazionali (i guardalinee), di arbitri del calcio a cinque e del calcio femminile. I nomi sono segnalati all'inizio di ogni anno solare alla FIFA che designa questi arbitri per le manifestazioni da essa organizzate, ovvero i Campionati Mondiali di tutti i livelli. Lo stesso gruppo di arbitri internazionali è utilizzato anche dalle confederazioni continentali, nelle quali si articola la FIFA, per le proprie manifestazioni (di nazionale e di club, come i Campionati Europei e la Champions League).
La FIFA è la depositaria del regolamento del gioco che aggiorna ogni anno attraverso un proprio organo tecnico, l'IFAB (International football association board). Esso è composto da otto membri che si riuniscono ogni anno in una località britannica, in omaggio al paese dove furono gettate le basi del calcio moderno. Storicamente, infatti, l'IFAB è nato prima della FIFA: fu costituito nel 1886 quando le quattro Federazioni britanniche (di Inghilterra, Galles, Scozia e Repubblica d'Irlanda), si associarono per dar vita a un organo incaricato dell'emanazione e dell'armonizzazione dei regolamenti. La FIFA entrò a far parte dell'IFAB solo nel 1913. La composizione dell'organo rispecchia ancora questa tradizione: degli otto componenti, quattro (tra cui il presidente e il segretario generale) sono rappresentanti della FIFA; gli altri quattro sono i segretari delle Federazioni britanniche.
Mentre in Inghilterra gli arbitri, che cominciarono a essere utilizzati con una certa regolarità a partire dal 1880, sono restati dilettanti per quasi un secolo, in Italia la loro origine è stata professionistica. Nei primi anni di attività calcistica regolare (la Federazione calcistica italiana venne fondata nel 1898), chi era stato capitano di una squadra diventava automaticamente arbitro. Per le partite del Campionato italiano, appena istituito, i direttori di gara non dipendevano dalla Federazione, ma erano forniti direttamente dalle società che se li scambiavano fra loro.
Le cronache narrano che la prima partita internazionale dell'Italia, vinta per 6-2 contro i francesi all'Arena di Milano, il 15 maggio 1910, fu diretta da un inglese da tempo trasferitosi in Italia, Goodley, che era stipendiato come arbitro dalla Juventus. Insieme a Goodley, gli arbitri più frequentemente impiegati in quell'epoca pionieristica furono Weber e Nasi, soci e giocatori dell'FC Torinese, Allison, socio e giocatore del Milan, e altri tesserati di società. L'AIA si sarebbe costituita solo nel 1911 (il primo presidente fu Umberto Meazza) e da allora in poi avrebbe provveduto alle designazioni.
All'inizio del 20° secolo, dunque, in Italia i giocatori erano dilettanti e gli arbitri stipendiati. In seguito però il dilettantismo è stato alla base del grande sviluppo dell'organizzazione arbitrale per oltre cinquant'anni. Il primo a lanciare l'idea di fare dell'attività di arbitro una vera e propria professione fu, nel 1958, Diego De Leo, un arbitro vicentino che si dedicò poi alla carriera da professionista in Sud America. Ancora per molti anni, in Italia, si andò avanti con i rimborsi spese e con modesti, anche se sempre crescenti, gettoni di presenza.
Di professionismo arbitrale, anche se non ancora istituzionalizzato, si può parlare solo nell'ultimo decennio del 20° secolo, quando FIFA e UEFA cominciano ad attribuire ai direttori di gara sostanziosi premi di presenza ai Mondiali, agli Europei e alle partite delle Coppe. Alla vigilia dei Campionati di Giappone-Corea del 2002, la convocazione a un Mondiale (un mese tra ritiro preventivo e competizione) viene ricompensata con un appannaggio di circa 20.000 euro. Per le Coppe europee, il gettone di presenza è sui 2500 euro a partita, con aumento progressivo per le ultime partite della Champions League.
In Italia, la necessità di prevedere per gli arbitri allenamenti quasi quotidiani, con congrui rimborsi spese per mancato guadagno, è stata riconosciuta nel 1990, quando il presidente della Federcalcio Antonio Matarrese mise alla guida degli arbitri di serie A l'ex internazionale Paolo Casarin. Si deve però arrivare al 1999 per veder assegnato agli arbitri di vertice (i 35 che dirigono le partite di serie A e B), oltre alle diarie di presenza-gara, un congruo rimborso mensile. Attualmente gli arbitri internazionali più bravi guadagnano all'incirca 100.000 euro netti all'anno, i più giovani, appena entrati nella CAN, superano i 50.000 euro.
Il professionismo di fatto è ormai una realtà anche in altri paesi: gli arbitri spagnoli, per esempio, guadagnano più di quelli italiani e possono anche avere uno sponsor, i cui proventi vengono però in massima parte destinati alla scuola nazionale di formazione. Anche i guadagni degli arbitri tedeschi sono più elevati di quelli dei loro colleghi italiani.
di Fino Fini
Le prime norme sulle attrezzature e sugli impianti utilizzati per il gioco del calcio risalgono al 1863, quando in Inghilterra, per salvaguardare l'incolumità dei giocatori, la Football Association ‒ all'atto della sua costituzione ‒ vietò l'uso di calzature che avessero suole con chiodi sporgenti, piastre metalliche o materiali di guttaperca indurita. D'altra parte, al fine di garantire una maggiore stabilità ai giocatori, sia nei movimenti sia nel controllo della palla, sugli sdrucciolevoli terreni erbosi inglesi, resi ancora più infidi dalle frequenti piogge, nel 1891 fu autorizzato l'uso di scarpe fornite di tacchetti (o bulloni) e di strisce da applicare alle suole, purché tali supporti fossero di cuoio. L'altezza dei tacchetti e delle strisce non doveva essere superiore a 12,7 mm. La stessa misura costituiva il diametro minimo consentito per i tacchetti. Nel 1951, l'altezza massima delle strisce e dei tacchetti venne portata a 19 mm. All'inizio, la tomaia era interamente di cuoio, molto rigida, con un rinforzo anteriore (spuntergo) a protezione delle dita. Nel tempo, l'utilizzo di materiali più duttili e meno pesanti ha modificato notevolmente le caratteristiche delle scarpe da calcio, che sono divenute sempre più leggere e pratiche; i tacchetti, di cuoio o di gomma, consentono una presa sempre migliore sul terreno di gioco e una più efficace torsione della calzatura. Le scarpe che si producono attualmente assicurano il massimo comfort e la migliore protezione del piede su qualsiasi tipo di campo. Dotate di ammortizzatori capaci di esaltare la reattività e la potenza degli atleti, hanno tomaie di pelle sintetica, più leggera ed elastica rispetto al cuoio naturale. Le stringhe sono studiate per consentire insieme la massima aderenza al terreno e la flessibilità del collo del piede, essenziale per un buon controllo del pallone.
Nelle prime regole dettate dalla Football Association non vi era alcuna indicazione né sul peso né sulla circonferenza del pallone. Soltanto nel 1872 vennero stabiliti i valori minimi e massimi (rispettivamente 68 e 71 cm) consentiti per la misura della circonferenza dell'attrezzo, valori rimasti tuttora pressoché immutati (68-70 cm). Quanto al peso, all'inizio di ogni partita esso non doveva essere inferiore a 340 g e superiore a 425; nel 1900, per gli incontri internazionali, il peso minimo fu portato a 368 g. Con il tempo, ci si rese però conto dell'eccessiva leggerezza del pallone, il cui peso venne quindi fissato, nel 1937, a un minimo di 396 g e un massimo di 453, poi arrotondati a 410 e 450. Per la confezione dello strato esterno del pallone furono utilizzate a lungo pezze rettangolari di cuoio grezzo, cucite all'interno l'una con l'altra. Dentro questo involucro era inserita una sfera di gomma, la camera d'aria, gonfiabile per mezzo di un piccolo budello di gomma telata, poi ripiegato e coperto con una stringa che fungeva da chiusura dell'involucro esterno. La ruvidezza del materiale utilizzato e la non perfetta sfericità del pallone, che inoltre, in caso di pioggia, assorbiva una grande quantità di acqua e quindi aumentava notevolmente di peso, costringeva i giocatori, per attutire la violenza dell'impatto con l'attrezzo, ad annodarsi un fazzoletto attorno alla fronte o a utilizzare delle bende. In Inghilterra, era frequente l'uso di un cap a protezione della testa. Il miglioramento delle tecnologie e dei materiali e l'eliminazione della camera d'aria interna hanno reso possibili non solo la perfetta sfericità, ma anche una fattura molto più funzionale e sofisticata del pallone, grazie all'uso di cuoi sempre meno ruvidi e di materiali sintetici uniti a pelli leggerissime; inoltre l'applicazione di apposite vernici sulla superficie esterna consente ormai la completa impermeabilizzazione del pallone. Questo inizialmente era di colore marrone, tipico del cuoio; poi, anche per esigenze di riprese televisive, ha subito alcune varianti: è diventato a spicchi bianchi e neri nel 1970, tricolore in occasione dei Mondiali di Francia 1998. Per il Mondiale 2002 è stato presentato un pallone dorato, con l'inserimento di disegni e di colori legati alla tradizione dei due paesi ospitanti, la Corea e il Giappone.
Quanto al terreno di gioco, secondo le prime regole del 1863 esso era costituito da uno spazio delimitato soltanto da bandierine. La lunghezza massima del campo era fissata in 200 yard (182 m), la larghezza massima in 100 yard (91 m). Da quando, nel 1897, furono sostituite da linee sia laterali sia di fondo campo, le bandierine si utilizzarono solo per indicare i quattro angoli del terreno di gioco. La porta era inizialmente costituita da due pali posti a una distanza (misurata dal loro interno) di 7,32 m, senza nessuna delimitazione in altezza; in seguito, venne aggiunta una fettuccia posta in orizzontale fra i due pali, a 2,44 m di altezza, misura rimasta tuttora immutata. Nel 1875 era stato introdotto l'uso, all'inizio facoltativo, di una traversa fissa, che fu resa obbligatoria nel 1882; nel 1891 venne ufficialmente disposto l'uso di reti a chiusura posteriore delle porte. Nel 1897, l'IFAB stabilì le nuove dimensioni del terreno di gioco: lunghezza massima 120 m, minima 90 m, larghezza massima 90 m, minima 45 m. Per quanto riguarda gli incontri internazionali la lunghezza massima venne fissata a 110 m, la minima a 100 m, la larghezza -massima a 75 m, la minima a 64 m. Il perimetro del terreno di gioco deve essere perfettamente rettangolare e tracciato con una linea continua. L'altezza delle bandierine nei quattro angoli non deve essere superiore a 150 cm; la larghezza massima delle linee di delimitazione del campo è fissata a 12 cm.
di Marco Brunelli
Nel mondo vi sono 11 impianti in grado di ospitare incontri di calcio con una cornice di pubblico di almeno 100.000 spettatori (capienza ufficialmente riconosciuta dalle istituzioni calcistiche internazionali). È singolare, però, che solo due di questi impianti appartengano a un paese che occupa uno dei primi dieci posti della classifica FIFA per nazioni: si tratta dei brasiliani Maracaná e Mineirão. Tra i 32 stadi con più di 80.000 posti, solo dieci si trovano in paesi calcisticamente all'avanguardia.
Lo stadio più grande del mondo è il May Day Stadium di Pyongyang (Corea del Nord), inaugurato nel 1989, con una capienza di 150.000 spettatori; l'impianto, che era stato inizialmente progettato per ospitare i Giochi Olimpici, speranza poi risultata vana, viene utilizzato per le partite della nazionale, ma anche per numerose manifestazioni e raduni extrasportivi. Seguono, in questa classifica, dopo il Salt Lake Stadium di Calcutta (120.000), due stadi di grandissime tradizioni calcistiche, come il Maracaná di Rio de Janeiro (ufficialmente in grado di ospitare 122.000 spettatori, ma che in alcuni casi è arrivato a contenerne oltre 200.000) e lo stadio Azteca di Città del Messico (106.000).
I paesi nei quali vi è almeno uno stadio da 70.000 posti sono: Algeria, Arabia Saudita, Argentina, Armenia, Australia, Brasile, Cile, Cina, Colombia, Congo, Corea del Nord, Corea del Sud, Ecuador, Egitto, Francia, Galles, Georgia, Germania, Giappone, Grecia, India, Indonesia, Inghilterra, Iran, Italia, Libia, Malaysia, Marocco, Messico, Pakistan, Portogallo, Russia, Spagna, Stati Uniti, Sudafrica, Turchia, Ucraina e Uruguay. Una simile graduatoria, tuttavia, non coincide se non in minima parte con quella degli impianti che hanno lasciato una traccia significativa nella storia del calcio. In molti casi, infatti, si tratta solo di monumenti che rispondono più alla volontà autocelebrativa o propagandistica di un regime politico che non alle tradizioni calcistiche e ai risultati sportivi delle squadre nazionali. In altre circostanze l'imponenza degli stadi è direttamente proporzionale al numero di abitanti della città o della regione nella quale sono ubicati, indipendentemente dalla storia calcistica locale. È significativo notare come quasi nessuno degli stadi più grandi sia stato costruito negli ultimi dieci anni. Anzi, per lo più gli impianti progettati e realizzati di recente hanno una capienza inferiore ai 70.000 posti e spesso non raggiungono i 60.000. La capienza media degli impianti costruiti o rinnovati per i Campionati del Mondo di Giap-pone e Corea 2002 è di 49.700 spettatori (il più grande ne ha 70.500, il più piccolo 41.800); quella degli stadi degli Europei 2004 è di 41.300 spettatori (75.000 il più grande, 31.500 il più piccolo). Infine, la capienza media degli impianti che saranno realizzati per i Mondiali di Germania 2006 è di 50.000 spettatori (76.000 il più grande, 22.500 il più piccolo).
In generale, i lavori di adeguamento degli stadi alle nuove norme di sicurezza o ai criteri di maggiore comfort che si sono affermati in tutto il mondo a partire dagli anni Ottanta, parallelamente alla definitiva affermazione del calcio televisivo, hanno comportato significative riduzioni delle capienze massime degli impianti che avevano ospitato i più importanti incontri di calcio negli anni Cinquanta e Sessanta. Nell'anno della sua inaugurazione, oltre 200.000 spettatori assistettero dalle gradinate del Maracaná alla finalissima dei Mondiali del 1950 tra Brasile e Uruguay. Le cronache riferiscono di 130.000 persone stipate nello stadio Azadi di Teheran, o dell'Estádio da Luz di Lisbona stracolmo di 120.000 appassionati. Oltre 124.000 spettatori celebrarono la vittoria del Real Madrid nella finale di Coppa dei Campioni del 1957 disputatasi al Chamartín/Santiago Bernabéu. I successivi trionfi della squadra di Di Stefano, Puskas e Gento allo stadio Heysel di Bruxelles (1958) e all'Hampden Park di Glasgow (1960) furono salutati rispettivamente da 67.000 e 128.000 spettatori. All'epoca della finale di Coppa dei Campioni vinta dall'Inter sul Real Madrid (1964), il Prater di Vienna poteva contenere 71.000 persone. In occasione delle Olimpiadi del 1936, l'Olympiastadion di Berlino arrivò a ospitare 120.000 spettatori.
Nella stagione 1999-2000 la capienza media degli stadi di prima divisione in Europa è stata di 49.900 spettatori in Italia, 33.700 in Inghilterra, 39.800 in Spagna, 29.800 in Francia e 42.400 in Germania. Negli Stati Uniti, la Lega professionistica (Major league soccer) richiede stadi con un minimo di 25.000 e un massimo di 40.000 posti a sedere.
Molto più suggestivo è classificare gli stadi in base al significato da essi assunto per avere ospitato partite memorabili della storia del calcio. In qualche caso, lo stadio viene ricordato proprio per la partita che vi si è giocata: lo Stadio Azteca di Città del Messico sarà sempre, non solo per gli italiani, lo stadio di Italia-Germania Ovest 4-3. Così il Maracaná di Rio de Janeiro non si separerà mai dal ricordo della finale dei Mondiali del 1950, persa dal Brasile contro l'Uruguay, e il Centenario di Montevideo vivrà della memoria del trionfo della nazionale di casa contro l'Argentina nella prima Coppa del Mondo del 1930.
Tabella 1
In molti altri casi, l'intensità del ricordo è direttamente proporzionale al grado di coinvolgimento emotivo di un paese (o di una tifoseria) in un successo sportivo: Wembley rappresenta per gli inglesi lo stadio della vittoria mondiale del 1966 sui tedeschi. Al Santiago Bernabéu tutti gli italiani hanno idealmente alzato con gli azzurri la terza Coppa del Mondo della loro storia, ma lo stadio spagnolo entrato nella leggenda è il Sarriá di Barcellona, teatro della sensazionale vittoria dell'Italia sul Brasile. Il Camp Nou di Barcellona è, per i tifosi del Manchester United, il luogo dove i Red Devils hanno vinto la loro seconda Coppa dei Campioni dopo trent'anni di astinenza, sconfiggendo il Bayern Monaco nella più rocambolesca finale che si ricordi. Allo Stadio Wankdorf di Berna e al Monumental di Buenos Aires sono legate le prime Coppe del Mondo di Germania e Argentina. Il punto più alto della storia calcistica della Danimarca coincide con l'inaspettata conquista del Campionato d'Europa del 1992, celebratasi allo Stadio Nye Ullevi di Göteborg a spese della favoritissima Germania. Uno stadio privo di qualsiasi tradizione calcistica come il Sanford di Athens, nello Stato americano della Georgia, è diventato un punto di riferimento per l'intero continente africano, dopo che la nazionale nigeriana vi ha conquistato il titolo olimpico nel 1996, superando il Brasile e l'Argentina in due emozionantissime partite.
La fama di alcuni stadi deriva dal significato simbolico che essi hanno storicamente assunto nel loro paese, generalmente per essere la sede degli incontri ufficiali della rappresentativa nazionale: Wembley per gli inglesi, lo stadio FNB di Johannesburg per i sudafricani, El Monumental per gli argentini, El Centenario per gli uruguayani, lo stadio Azadi per gli iraniani, lo Stadio Olimpico di Atene per i greci, il Népstadion per gli ungheresi, lo stadio Lia Manoilu per i rumeni, lo stadio Re Baldovino per i belgi, l'Hampden Park per gli scozzesi, il Lansdowne Road per gli irlandesi, lo Stadio Olimpico per i finlandesi, lo Stadium Australia per gli australiani; in prospettiva, lo Stade de France per i francesi e il Millennium Stadium per i gallesi.
Fino al 2001, anno in cui gli è succeduto il Millennium Stadium di Cardiff, Wembley ha anche rappresentato la sede naturale di quella che gli inglesi definiscono da sempre "la partita più importante del mondo", ovvero la finale della Coppa d'Inghilterra. Nell'elenco delle partite indimenticabili della storia del calcio non possono mancare alcune finali di questo torneo: il 4-3 con il quale il Blackpool, trascinato da Stanley Matthews, sconfisse il Bolton nel 1953 ribaltando negli ultimi tre minuti un risultato che aveva visto il Bolton in vantaggio per 3-1 sino a 20 minuti dal termine; la prima vittoria di un club di seconda divisione (il Sunderland nel 1973); il trionfo del Tottenham nel 1981, propiziato dall'argentino Ricardo Villa con una doppietta; il successo ai supplementari del Coventry City nella finale del 1987, dopo la rimonta di un doppio svantaggio.
In altri casi, l'importanza di uno stadio deriva dall'identificazione che se ne fa con la squadra che vi disputa le partite casalinghe. Ciò accade tipicamente in Inghilterra, dove il legame tra il club e lo stadio, proprio perché esclusivo, è molto più stretto di quanto non sia, per esempio, in Italia: così l'Old Trafford è, inequivocabilmente, lo stadio del Manchester United, Anfield Road quello del Liverpool e Highbury la casa dell'Arsenal.
Per molti innamorati del calcio, l'unica classifica che renda giustizia al valore reale degli stadi è quella basata sulla 'atmosfera' che vi si respira: Estádio da Luz (teatro delle imprese del Benfica), San Siro (Milan e Inter), La Bombonera (Boca Juniors), Camp Nou (Barcellona), Old Trafford (Manchester United), Anfield Road (Liverpool), Maracaná (Botafogo, Flamengo, Fluminense e Vasco da Gama), Monumental (River Plate), Centenario (Peñarol), Ibrox Park (Rangers), Celtic Park (Celtic), San Mamés (Athletic Bilbao) rientrano, di diritto, in questa categoria.
In almeno una decina di casi, poi, gli stadi devono la loro fama al verificarsi di un evento tragico in occasione di una partita di calcio: Ibrox Park di Glasgow (94 morti e 700 feriti in tre distinti incidenti nel 1902, 1961 e 1971); Hillsborough di Sheffield (96 morti e 500 feriti nel 1989, provocati dalla calca dei tifosi senza biglietto: da questa sciagura ha preso il via il processo di ammodernamento degli stadi inglesi); Estádio Nacional di Lima (318 morti e 1000 feriti nel 1964); Stadio Lenin di Mosca (340 morti e 1000 feriti nel 1982); Bradford (56 morti nell'incendio del 1985); Heysel (39 morti e oltre 240 feriti in occasione della finale di Coppa dei Campioni del 1985); Furiani di Bastia (15 morti e più di 2000 feriti per il crollo di una tribuna nel 1992); Mateo Flores di Città del Guatemala (84 morti nel 1996); Ellis Park di Johannesburg (47 morti nel 2001); stadio di Accra (126 morti nel 2001).
La lista degli stadi da ricordare non può chiudersi senza menzionare quelli che hanno lasciato o promettono di lasciare una traccia sul piano architettonico o delle soluzioni tecnologiche innovative introdotte: Stadio Olimpico di Monaco, Amsterdam ArenA, Gelredome di Arnheim, Philips Stadion di Eindhoven, Millennium Stadium di Cardiff, Stadium Australia di Sydney, Ashburton Grove di Londra (nuovo stadio dell'Arsenal), May Day Stadium di Pyongyang, Stade de France di Saint-Denis, Sapporo Dome, nuovo Wembley, Atatürk Olympic Stadium di Istanbul, Arena auf Shalke di Gelsenkirchen, Stadium of Light di Sunderland, Parken di Copenaghen, nuovo stadio di Seul, Invesco Field at Mile High di Denver (ma l'elenco è certamente soggettivo e non esaurisce gli esempi possibili).
di Salvatore Lo Presti
FIFA (Fédération internationale de football association)
Data di fondazione: 21 maggio 1904
Presidenti: 1904-06: Robert Guérin (Francia); 1906-18: Daniel Burley Woolfall (Inghilterra); 1921-54: Jules Rimet (Francia); 1954-55: William Seeldrayers (Belgio); 1955-61: Arthur Drewry (Inghilterra); 1961-74: Stanley Rous (Inghilterra); 1974-98: João Havelange (Brasile); 1998-: Joseph Sepp Blatter (Svizzera)
Federazioni affiliate: 204
Giocatori tesserati: 12.978.000
Arbitri tesserati: 720.000
Club affiliati: 305.000
Il progetto di dar vita a un ente che sovrintendesse all'attività calcistica mondiale prese corpo, attraverso una serie di incontri e colloqui, nei primissimi anni del 20° secolo, quando si cominciarono a di-sputare le prime partite internazionali nel continente. L'intenzione iniziale era quella di riconoscere il ruolo predominante della Federazione inglese, la Football Association, costituitasi fin dal 1863 e che aveva avuto il merito di regolamentare il gioco del calcio tramite l'International football association board, coin-volgendo nell'attività e nell'organizzazione le Federazioni di Scozia, Galles e Irlanda. Tuttavia quando, dal loro atteggiamento passivo, apparve chiaro che gli inglesi erano riluttanti a contribuire alla fondazione di un organismo internazionale, i segretari delle Federazioni di Francia e Belgio, Robert Guérin e Louis Muhlinghaus, decisero di muoversi autonomamente e, incontratisi il 1° maggio 1904 a Bruxelles in occasione della partita Belgio-Francia, diramarono gli inviti per una riunione da svolgersi tre settimane dopo a Parigi, destinata a diventare l'assemblea costitutiva della FIFA.
La Federazione internazionale delle associazioni calcistiche fu dunque costituita a Parigi, nella sede dell'Unione francese degli sport atletici, al 229 di rue Saint-Honoré, il 21 maggio 1904, al termine di una riunione cui presero parte i francesi Robert Guérin e André Espir, i belgi Louis Muhlinghaus e Max Khan, il danese Ludvig Sylow, l'olandese Carl A. Wilhelm Hirschmann, lo svizzero Victor E. Schneider. Presenti, per delega, i rappresentanti della Svezia e del Madrid FBC. Due giorni dopo, il primo congresso della FIFA procedeva all'elezione di Guérin alla presidenza, affidando a Muhlinghaus la carica di segretario. L'anno successivo, grazie alla sottile diplomazia del barone Edouard de Laveleye, la Federazione inglese aderì alla FIFA, riconoscendo le Federazioni che ne avevano promosso la nascita.
Oggi, a quasi cento anni dalla sua fondazione, la -FIFA ha la sua sede a Zurigo, raggruppa 204 Federazioni affiliate a sei Confederazioni continentali (l'America ne ha due) e amministra un movimento di 305.000 club e 1.548.000 squadre, 242.378.000 giocatori tesserati (il 4,1% della popolazione mondiale) e 720.000 arbitri.
UEFA (Union des associations européennes de football)
Data di fondazione: 2 marzo 1955
Presidenti: 1955-62: Ebbe Schwarz (Danimarca); 1962-73: Gustav Wiederkehr (Svizzera); 1973-83: Artemio Franchi (Italia); 1984-90: Jacques George (Francia); 1990-: Lennarth Johansson (Svezia)
Federazioni affiliate: 51
Giocatori tesserati: 8.839.000
Arbitri tesserati: 417.000
Club affiliati: 224.000
L'idea di costituire un'Associazione che riunisse le Federazioni calcistiche europee fu avanzata fin dall'inizio degli anni Cinquanta ‒ parallelamente all'intento di creare, anche in Europa, una competizione fra squadre nazionali come quella che, col nome di Coppa America, veniva organizzata dal 1916 in Sud America ‒ da alcuni dirigenti d'avanguardia, come il presidente della Federazione italiana Ottorino Barassi, il segretario generale della Federazione francese Henry Delaunay, il suo collega belga José Crahay. L'idea fu accolta con favore e sostenuta dallo svizzero Ernst Stommen e da Stanley Rous, all'epoca segretario della Federazione inglese. Dopo che nel 1953 la FIFA aveva provveduto alle necessarie modifiche al proprio statuto, il 15 giugno 1954, a Basilea, durante i Mondiali, fu deciso di costituire una Confederazione europea, con un comitato esecutivo provvisorio formato, oltre che da Crahay e da Delaunay, dall'austriaco Josef Gero, dallo scozzese George Graham, dal danese Ebbe Schwarz e dall'ungherese Gustav Sebes. La settimana successiva, a Berna, il comitato elesse presidente Schwarz. Il 2 marzo 1955 ‒ data di nascita ufficiale ‒ le 29 Federazioni europee aderenti all'UEFA ne approvarono lo statuto, confermarono il danese Schwarz alla presidenza e completarono l'esecutivo con l'ingresso del tedesco Peco Bauwens, del greco Constantin Constantaras e dell'austriaco Alfred Frey (che sostituì il compatriota Gero, nel frattempo scomparso). La prima sede dell'UEFA fu in rue de Londres, a Parigi, ma già nel 1959 venne trasferita a Berna, dapprima in un ufficio in affitto, successivamente alla Maison des Sport, infine, nel 1974, nel periodo di presidenza di Artemio Franchi, in un edificio acquistato al 33 di Jupiterstrasse. Ultimo trasferimento (nel 1999), a Nyon, presso Ginevra, in una modernissima sede sul lago.
CSF (Confederación sudamericana de fútbol)
Data di fondazione: 9 luglio 1916
Presidenti: 1916-20: Hector Rivadavia Gomez (Uruguay); 1920-21: Leon Peyrou (Uruguay); 1921-36: Alfredo V. Viera (Uruguay); 1936-39: Luis O. Salessi (Argentina); 1939-55: Luis A. Valenzuela (Cile); 1955-57: Carlos Dittborn Pinto (Cile); 1957-59: José Ramos de Freitas (Brasile); 1959-61: Fermin Sorhueta (Uruguay); 1961-66: Raúl H. Colombo (Argentina); 1966-86: Teófilo Salinas Fuller (Perù); 1986-: Nicolas Leoz (Paraguay)
Federazioni affiliate: 10
Giocatori tesserati: 1.632.000
Arbitri tesserati: 17.000
Club affiliati: 23.000
La Confederazione sudamericana di calcio ‒ nota anche come Conmebol ‒ fu fondata a Buenos Aires il 9 luglio 1916, giorno della festa nazionale argentina, grazie all'impulso di un dirigente uruguayano, Hector Rivadavia Gomez, che da tempo era un acceso sostenitore dell'idea. Quel giorno l'assemblea straordinaria della Federazione argentina, allargata ai delegati di Brasile, Cile e Uruguay, decise all'unanimità di dar vita alla Confederazione, costituendo una Commissione per la realizzazione pratica del progetto. Il 15 luglio venne approvato lo statuto. Fu aperta una sede a Montevideo, e Rivadavia Gomez, che aveva formalizzato la proposta in assemblea, fu nominato director honorario, mentre la segreteria fu affidata a Celestino Mibelli. Nel 1921 si affiliò il Paraguay, seguito dal Perù (1925), dalla Bolivia (1926), dall'Ecuador (1927), dalla Colombia (1936) e dal Venezuela (1952). Nel 1987 la sede della Conmebol, che era stata a lungo itinerante in dipendenza dalla nazionalità del presidente, è stata trasferita ad Asunción, in Paraguay (la scelta è stata confermata in via definitiva nel 1990).
CONCACAF (Confederación norte, centroamericana y del Caribe de fútbol)
Anno di fondazione: 1961
Presidente: 1961-68: Ramon Coll Jaumet (Costa Rica); 1968-90: Joaquin Soria Terrazaz (Messico); 1990-: Jack Austin Warner (Trinidad e Tobago)
Federazioni affiliate: 40
Giocatori tesserati: 773.000
Arbitri tesserati: 126.000
Club affiliati: 13.000
La CONCACAF nacque nel 1961 dalla fusione della CCCF (Confederación centroamericana y del Caribe de fútbol) e della NAFC (North American football confederation). Soci fondatori erano il Messico, la sola nazione calcisticamente importante dell'area, insieme con Cuba, Guatemala, Honduras e Antille Olandesi. Attualmente alla CONCACAF risultano affiliate 40 Federazioni, dal Canada al Suriname.
CAF (Confédération africaine de football)
Data di fondazione: 8 febbraio 1957
Presidenti: 1957-58: Abdelaziz Abdallah Salem (Egitto); 1958-68: Abdelaziz Mostafa (Egitto); 1968-72: Abdelhalim Mohamed (Sudan); 1972-87: Ydnekatchev Tessema (Etiopia); 1988-: Issa Hayatou (Camerun)
Federazioni affiliate: 52
Giocatori tesserati: 625.000
Arbitri tesserati: 27.000
Club affiliati: 13.124
La CAF fu fondata l'8 febbraio 1957 in un salone del Grand Hotel di Karthoum, in Sudan, dai delegati di Egitto, Etiopia, Sudan e Repubblica Sudafricana, dopo che l'esigenza, ormai indifferibile, di un organismo che disciplinasse l'attività calcistica africana e ne portasse avanti le istanze era stata evidenziata nel corso del 30° Congresso della FIFA, svoltosi nel giugno del 1956 a Lisbona. Primo presidente fu l'ingegnere egiziano Abdelaziz Abdallah Salem e, secondo lo statuto, la prima sede fu fissata al Cairo, al 3 della via El Hadiqa, nel quartiere di Città Giardino. Dopo aver cambiato sede in base alla nazionalità dei suoi presidenti, la CAF ha poi fissato definitivamente il proprio quartier generale nella capitale egiziana.
AFC (Asian football confederation)
Data di fondazione: 8 maggio 1954
Presidenti: 1954-55: Sri Man-Kam Lo (Hong Kong); 1955-56: Kwok Chan (Hong Kong); 1957: T. Louvey (Hong Kong); 1958: Kwok Chan (Hong Kong); 1958-77: Tunku Abdul Rahman Putra Al-Haj (Malaysia); 1977-78: Khamiz Atali (Iran); 1978-94: Tan Sri Datuk Seri Raja Haji Hamzan (Malaysia); 1994-: Sultan Haji Ahmad Shah (Malaysia)
Federazioni affiliate: 40
Giocatori tesserati: 989.000
Arbitri tesserati: 128.000
Club affiliati: 29.000
La Confederazione asiatica di calcio fu fondata a Manila (Filippine) l'8 maggio 1954 da 12 Federazioni nazionali (Afghanistan, Birmania, Cina, Hong Kong, India, Indonesia, Giappone, Corea del Sud, Pakistan, Filippine, Singapore e Vietnam). La sede, fissata per molti anni a Hong Kong, si è poi spostata in Malaysia, prima a Penang e infine a Kuala Lumpur. Le nazioni affiliate sono attualmente 40.
OFC (Oceania football confederation)
Anno di fondazione: 1966
Presidenti: 1968-70: William Walkley (Australia); 1970-78: Jack Cowie (Nuova Zelanda); 1978-82: Arthur George (Australia); 1982-2000: Charles Dempsey (Nuova Zelanda); 2000-: Basil Scarsella (Australia)
Federazioni affiliate: 11 (+ 1 provvisoria, + 2 aggregate)
Giocatori tesserati: 120.000
Arbitri tesserati: 5000
Club affiliati: 3000
La Confederazione calcistica dell'Oceania, destinata a riunire i movimenti calcistici delle nazioni affacciate sull'Oceano Pacifico, nacque per iniziativa del presidente della FIFA Stanley Rous e dei presidenti delle Federazioni australiana Jim Bayutti e neozelandese Sid Guppy, dopo che la Confederazione asiatica si era rifiutata di affiliare Australia e Nuova Zelanda. La nascita fu approvata dal congresso della FIFA del 1966. Fra i fondatori, oltre ad Australia e Nuova Zelanda, figuravano anche Figi e Papua Nuova Guinea (la Nuova Caledonia fu accettata come membro provvisorio essendo le sue strutture sportive inquadrate in quelle francesi). Nel 1972 l'Australia uscì dall'OFC per legarsi all'AFC; rientrò nel 1978, dopo l'affiliazione di Taipei alla Confederazione asiatica. Nel 1990 l'OFC ha ottenuto lo status pieno di Confederazione e un posto nel Comitato Esecutivo della FIFA.
Nel 1998 è stata aperta una nuova sede ad Auckland. Due anni dopo, il presidente dell'OFC, Charles J. Dempsey, è stato travolto dallo scandalo seguito alla sua votazione a favore della Germania (dopo che l'assemblea gli aveva dato mandato di sostenere il Sudafrica) per l'assegnazione del Campionato del Mondo del 2006, e ha rassegnato le proprie dimissioni.
di Marco Brunelli
Tutti i passaggi fondamentali in oltre cento anni di storia del calcio mondiale sono stati accompagnati da importanti innovazioni regolamentari introdotte dalle istituzioni sportive. È questo il caso, per limitarsi al calcio italiano del secondo dopoguerra, delle decisioni riguardanti: la struttura dei Campionati (che hanno assunto la forma attuale nel 1988); la creazione delle diverse Leghe (la Lega di serie A e B nel 1946, quella di serie C e la Lega dilettanti nel 1959); la possibilità di tesserare calciatori stranieri (introdotta con varie limitazioni dal 1946 al 1966 e reintrodotta a partire dal 1980); l'adozione di misure volte a risanare i conti dei club (tetto massimo per la rosa calciatori; blocco degli ingaggi e obbligo di regolare la campagna trasferimenti attraverso la FIGC nel 1953; norme di controllo dei costi e dell'indebitamento nel 1967; limitazione degli acquisti dei calciatori secondo le reali possibilità economiche dei club nel 1976; istituzione, all'interno della FIGC, della CoViSoC ‒ Commissione di vigilanza sulle società di calcio professionistiche ‒ nel 1987; obbligo di certificazione dei bilanci nel 1988); l'istituzione dello status ufficiale di calciatore professionista nel 1957; la trasformazione delle associazioni calcistiche di serie A e B in società per azioni nel 1967; l'introduzione dell'obbligo della 'firma contestuale' del calciatore in caso di trasferimento nel 1978.
In Inghilterra, la Federazione impose il primo tetto salariale (salary cap) nel 1900 (mantenuto con aggiustamenti fino al 1961) e il primo limite agli importi dei trasferimenti nel 1908. L'introduzione del professionismo risale al 1885. La regola che fissava un limite massimo al pagamento di dividendi è stata imposta nel 1896 e successivamente, nel 1920, 1974 e 1983, il limite è stato alzato. L'abolizione del vincolo, anticipata da una decisione dell'Alta Corte di Giustizia, è del 1978.
Solo in epoca più recente, tuttavia, a riprova della crescente complessità dei problemi e della rilevanza degli interessi in gioco, il funzionamento dei mercati calcistici è divenuto oggetto sistematico di attenzione da parte del legislatore e ha ispirato innovative sentenze giurisprudenziali. Nessuna legge nazionale ha avuto sull'organizzazione calcistica, il mercato del lavoro sportivo e i bilanci dei club l'impatto della 'sentenza Bosman' (sentenza della Corte di Giustizia europea del 15 dicembre 1995, caso C-415/93), preceduta da una sentenza della Corte di giustizia europea del 1976 (sentenza della Corte di Giustizia europea del 14 luglio 1976, caso 13/76), che ha, di fatto, avviato il processo di liberalizzazione del mercato dei calciatori. Nella stessa direzione è indirizzato il nuovo Regolamen-to dei trasferimenti, imposto nel 2001 dalla Commissione Europea alla FIFA.
Con la 'sentenza Bosman' è comparso sulla scena dello sport un nuovo regolatore sopranazionale, l'Unione Europea, che è ripetutamente intervenuto a dettare le regole di funzionamento dei mercati calcistici o a verificare quelle che i suoi membri si erano dati autonomamente. La Direzione Generale responsabile per la concorrenza si è occupata di oltre 60 casi che interessano lo sport, dalla libertà di circolazione dei calciatori sotto contratto, alla titolarità dei diritti televisivi, alla durata dei contratti di esclusiva, all'acquisto di club sportivi da parte di gruppi dell'entertainment, alla natura monopolistica delle Federazioni, alla negoziazione centralizzata dei contratti di sponsorizzazione, alla libertà di movimento delle società sportive nello spazio europeo, all'ammissibilità degli aiuti di Stato allo sport, alla multiproprietà dei club, alla vendita dei biglietti degli eventi, ai criteri di selezione degli atleti per le squadre nazionali.
A livello nazionale, nel 1984 in Francia (l. 16 luglio 1984, nr. 610, e successive modifiche), nel 1990 in Spagna (l. 15 ottobre 1990, nr. 10) e nel 1998 in Brasile (l. 24 marzo 1998, nr. 9615) sono state approvate importanti leggi-quadro sullo sport che hanno disciplinato i ruoli e le funzioni delle Federazioni e delle Leghe professionistiche.
I rapporti tra società sportive e atleti professionisti (diritti e doveri di entrambe le parti; abolizione del vincolo) sono stati regolati nel 1981 in Italia (l. 23 marzo 1981, nr. 91), nel 1978 in Belgio (l. 24 febbraio 1978), nel 1985 in Spagna (r.d. 26 giugno 1985, nr. 1006), nel 1991 in Grecia (l. 5 agosto 1991, nr. 1958) e nel 1998 in Brasile (l. 24 marzo 1998, nr. 9615). Nell'estate del 1963 una decisione dell'Alta Corte britannica aveva già dichiarato illegittimo il vincolo, presente nel regolamento della Football League sin dal 1888, stabilendo che un calciatore è libero a scadenza di contratto se il club non esercita l'opzione di rinnovo. Un documento di emanazione governativa, il 'rapporto Taylor' del 1990, ha cambiato la storia del calcio inglese. Le misure suggerite dal giudice Taylor per garantire la sicurezza negli stadi dopo la tragedia di Hillsborough, infatti, hanno portato alla trasformazione degli stadi inglesi in moderne strutture polifunzionali, alla nascita della Premier League e all'impennata dei fatturati dei club inglesi.
Oltre che in Inghilterra (Public order act 1986, Football spectators act 1989, Football offences and disorder act 1999, Football disorder act 2000), anche in Francia (l. 16 luglio 1984, nr. 610, e successive modifiche) e in Spagna (l. 15 ottobre 1990, nr. 10, e R.D. 21 maggio 1993, nr. 769) lo sviluppo recente del calcio sarebbe stato impensabile senza precise leggi a tutela dell'incolumità degli spettatori e del miglioramento delle condizioni degli stadi. La stessa logica ha ispirato, in Italia, la recente approvazione di nuove misure anti-violenza (l. 19 ottobre 2001, nr. 377).
Dal 1996 in Italia (l. 18 novembre 1996, nr. 586) e dal 1998 in Spagna (l. 30 dicembre 1998, nr. 50), le società di calcio possono quotarsi in Borsa, così come avveniva già da tempo in Inghilterra. In Francia, il legi-slatore ha ugualmente inteso aprire il capitale delle società professionistiche agli investitori esterni, ma ha ritenuto la specificità dell'attività sportiva incompatibile con l'ammissione dei club al listino (l. 28 dicembre 1999, nr. 1124).
L'intensificarsi dei rapporti tra sport e televisione ha prodotto leggi e sentenze che hanno fortemente inciso sull'operato delle organizzazioni calcistiche. In Francia (l. 16 luglio 1984, nr. 610, e successive modifiche), Inghilterra (sentenza della Restrictive practice court del 28 luglio 1999), Germania (art. 31 della legge antitrust nr. 1081 del 1957, così come emendato nel maggio 1998), Danimarca (sentenza antitrust del novembre 1997) e Spagna (disposizione transitoria della l. 15 ottobre 1990, nr. 10, contestata e disattesa dai club a partire dal 1996) è stata autorizzata la vendita collettiva dei diritti da parte delle Leghe o delle Federazioni. La stessa prerogativa è stata riconosciuta alle Leghe professionistiche americane sin dal 1961 (Sports broadcasting act 1961). Viceversa, in Italia (l. 29 marzo 1999, nr. 78, e provvedimento dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato del 1° luglio 1999, nr. 7340), Grecia (l. 17 giugno 1999, nr. 2527), Olanda (sentenza del Tribunale di Rotterdam del 9 settembre 1999) e Germania (per le Coppe europee: sentenza della Suprema Corte Federale dell'11 dicembre 1997) si è stabilito che i diritti appartengono ai club. Altri casi sono tuttora pendenti: i più importanti riguardano la vendita collettiva dei diritti televisivi della Champions League e del Campionato tedesco e i diritti per la telefonia mobile del Campionato francese.
Molti paesi, come Francia (l. 16 luglio 1984, nr. 610, e successive modifiche), Belgio (Decreto Ministeriale della Comunità fiamminga 17 marzo 1998), Spagna (l. 3 luglio 1997, nr. 21), Germania (Rundfunkstaatsvertrag 31 agosto 1991, art. 5), Grecia (l. 5 agosto 1991, nr. 1958), Portogallo (l. 14 luglio 1998, nr. 31/A) hanno regolamentato per legge il cosiddetto 'diritto di cronaca', definendo con precisione le condizioni alle quali è consentito l'accesso agli stadi delle emittenti che non hanno acquistato i diritti, ma svolgono ugualmente una funzione informativa.
Un'innovativa direttiva dell'Unione Europea (direttiva 552/89, Televisione senza frontiere) ha imposto ai paesi membri di predisporre l'elenco dei programmi che, per il loro rilevante interesse sociale, non possono essere trasmessi a pagamento. In Italia (decisione dell'Autorità per le comunicazioni del 28 luglio 1999, nr. 172) gli eventi sportivi da diffondere in chiaro sono, oltre al Giro d'Italia di ciclismo, al Gran Premio d'Italia di Formula 1 e alle Olimpiadi, le partite ufficiali della nazionale, le finali dei Mondiali e degli Europei, la finale e le semifinali della Champions League e della Coppa UEFA se coinvolgono una squadra italiana.
Caso pressoché unico al mondo, il governo francese ha fatto inserire nella legge finanziaria del 1999 una tassa del 5% sui ricavi televisivi di tutte le organizzazioni sportive, da destinare alla promozione dello sport di base. Più spesso, però, la valenza sociale del calcio ha giustificato interventi di sostegno da parte del legislatore, come nel caso delle risorse destinate al piano di risanamento economico dei club dalla 'legge dello sport' spagnola del 1990, o le agevolazioni fiscali concesse alle società di calcio in molti paesi.
di Leonardo Vecchiet, Luca Gatteschi, Maria Grazia Rubenni
L'atleta ha spesso cercato di aumentare le proprie prestazioni in maniera artificiale. Nei tempi antichi, secondo le notizie che abbiamo a disposizione, in Cina si utilizzavano estratti di efedra, pianta che contiene l'alcaloide efedrina. In Europa i racconti della mitologia nordica narrano che i guerrieri -accrescevano le loro forze bevendo pozioni di amanita muscaria, che contiene l'alcaloide bufoteina. In Grecia venivano somministrate miscele di piante e di funghi per aumentare la capacità nelle corse di fondo. In America del Sud si utilizzavano foglie di coca per sostenere delle corse che potevano durare tre giorni e tre notti con scarsissimi periodi di riposo. Allo stesso modo in America del Nord veniva assunto il peyotl, contenente l'alcaloide mescalina, che permetteva di correre fino a 72 ore consecutive.
Negli ultimi decenni si è progressivamente ricorso a mezzi proposti dalla moderna farmacologia. Questa ha messo a punto sostanze che sono estremamente attive per curare malattie importanti, ma che, per quanto riguarda alcuni composti, hanno anche un effetto positivo sulle prestazioni fisiche dei soggetti sani. L'elevato grado di specializzazione e di allenamento richiesto oggi in tutte le attività sportive ha portato molti a credere che l'uso di sostanze farmacologiche o di altre procedure dopanti sia indispensabile per potere avere successo nelle competizioni. Tuttavia, l'assunzione di farmaci per aumentare la prestazione è un atto grave contro la morale sportiva, in quanto contravviene al principio che ciascuno deve gareggiare secondo le proprie capacità, acquisite attraverso i sacrifici imposti da un corretto allenamento e da un adatto stile di vita. L'inosservanza di tali norme è punita con sanzioni molto severe ma, soprattutto, l'uso indiscriminato di farmaci può determinare un grave danno alla salute in tempi più o meno brevi.
Il primo caso mortale legato a uso di sostanze dopanti risale al 1886 in Francia, durante una competizione di ciclismo. In quei tempi si utilizzavano nitroglicerina, cocaina, eroina, trimetilene, ossigeno, stricnina, come pure zollette di zucchero imbevute di etere o di bevande alcoliche.
Intorno al 1950, la diffusione e la popolarità raggiunte dallo sport agonistico, in particolare calcio e ciclismo, spingono la medicina dello sport a occuparsi con sempre maggiore interesse dei principali aspetti di tipo fisiologico e fisiopatologico legati a tali attività, e dell'uso e abuso di farmaci in generale e di sostanze ad azione ergogenica in particolare.
Nel 1954, in occasione dei Campionati del Mondo disputati in Svizzera, si registra il primo caso di sospetto intervento farmacologico nel calcio: nei giorni successivi alla finale vinta contro l'Ungheria, infatti, i giocatori della Germania Occidentale vengono colpiti da un ittero attribuito a un'intossicazione di natura non determinata. L'ipotesi di doping rimane tuttavia a livello di semplice congettura.
Nel 1955 la Federazione medico sportiva italiana (FMSI), di fronte al dilagare dell'uso di farmaci ad attività ergogenica, cerca di intervenire con informative alle varie Federazioni e istituisce specifici accordi con l'Unione velocipedistica italiana per indagini ed eventuali esami clinici e di laboratorio sui corridori. Sempre nel 1955 iniziano in Francia i primi controlli antidoping nel ciclismo, che portano al riscontro di circa il 20% di casi di positività. Nello stesso periodo anche la Federazione internazionale di atletica leggera manifesta analoghe preoccupazioni e la medesima volontà di opporsi al doping emanando un regolamento che "condanna il drogaggio quando venga attuato con sostanze che non sono di uso comune e che hanno il potere di aumentare il rendimento fisiologico dell'atleta".
La Federazione italiana giuoco calcio (FIGC), pur non apparendo il calcio in Italia particolarmente colpito dal problema doping, mostra un costante interessamento e inizia a operare in merito fin dal 1960. Inizialmente viene svolta un'indagine conoscitiva tesa a raccogliere informazioni sui prodotti farmaceutici usati dagli atleti al fine di accelerare il recupero della fatica o di potenziare la prestazione e sull'eventuale somministrazione di farmaci nei periodi antecedenti la partita o durante l'intervallo della stessa. Tali rilievi vengono eseguiti inviando due medici sui campi di gioco della serie A e della serie B. Nella stagione 1960-61 vengono eseguite 102 ispezioni all'interno delle squadre di serie A (con un minimo di tre e un massimo di otto per squadra), mentre 88 riguardano quelle di serie B (con un minimo di due e un massimo di sette per squadra). L'indagine rileva che i medicamenti che ricorrono con maggior frequenza possono essere riuniti nei seguenti gruppi: amine psicotoniche, glucosio e simili (per via orale o endovena), analettici, ormoni ed estratti d'organo, farmaci cosiddetti dinamogeni, sedativi-tranquillanti, vitaminici e, episodicamente, a seconda delle necessità, anche antireumatici, antipiretici, miorilassanti, antibiotici e chemioterapici. Nella stessa stagione, a scopo sperimentale, vengono effettuati 36 esami delle urine su giocatori della serie A e 20 su giocatori della serie B. Gli esami condotti evidenziano una percentuale di circa il 20% di positività alle amfetamine e lo stesso per quanto riguarda gli alcaloidi. Tra coloro trovati positivi vi sono giocatori delle più importanti società del Campionato di serie A.
Nelle stagioni successive i controlli diventano progressivamente più approfonditi. Alcuni atleti di ogni squadra, estratti a sorte, vengono sottoposti a prelievo delle urine nelle quali è ricercata una serie di sostanze che comprendono in particolare gli stimolanti psicomotori e altri farmaci agenti sul sistema nervoso centrale. Nella stagione 1962-63 vengono controllati 875 giocatori, con una positività pari all'1,14%; nella stagione successiva sono effettuati 964 controlli, con nessuna positività. Il crollo delle positività nei riguardi degli stimolanti psicomotori (prevalentemente amfetamine) viene giudicato come un successo della campagna intrapresa. Va precisato però che, all'epoca, l'elenco delle sostanze proibite dalla normativa antidoping della FIGC non risultava adeguato all'enorme sviluppo della farmacopea, che aveva messo a disposizione successivamente numerosi composti in grado di incrementare la prestazione.
In Italia il primo caso di sanzioni conseguenti a doping riguarda il Napoli, con quattro giocatori squalificati per un mese in seguito ai risultati dei prelievi effettuati dopo la partita Napoli-Milan del 27 gennaio 1963. L'episodio più clamoroso avviene però nella stagione 1963-64, quando cinque calciatori del Bologna vengono accusati di avere fatto uso di amfetamine nella partita Bologna-Torino. I giocatori vengono inizialmente sospesi, ma la Commissione giudicante con la sentenza del 20 marzo decreta la loro assoluzione, in quanto li ritiene implicati a loro insaputa; viene invece sanzionata la società, con perdita della partita e penalizzazione di un punto, e sono squalificati per diciotto mesi l'allenatore e il medico sociale. In seguito a un'iniziativa personale di tre avvocati bolognesi viene però interessata la magistratura ordinaria, che con un'operazione a sorpresa procede al sequestro delle provette per le controanalisi. In tali provette non viene trovata traccia di amfetamine, e ulteriori accertamenti effettuati sui campioni di liquido organico precedentemente analizzati mostrano che le amfetamine riscontrate non risultano metabolizzate, quindi mai passate per l'organismo umano. In conseguenza di tali riscontri, nel maggio, la Commissione di appello federale assolve società, allenatore e medico sociale ritenendo i campioni esaminati manomessi da personaggi esterni, non identificati.
Nel 1964 il Consiglio federale della FIGC decide una serie di innovazioni, tra cui il sorteggio al termine della gara, in presenza dell'arbitro, per stabilire l'effettuazione o meno del controllo antidoping, e il deferimento alle Commissioni disciplinari solo dopo il risultato delle seconde analisi.
Nel 1966 vengono effettuati i primi controlli antidoping in occasione dei Mondiali di calcio. Nel 1967 il Comitato olimpico internazionale (CIO) pubblica la prima lista di sostanze vietate.
Nel 1971 viene promulgata in Italia la legge nr. 1099 sulla 'Tutela sanitaria delle attività sportive', comprensiva anche di interventi diretti alla repressione del doping. In realtà il disegno di legge inizialmente presentato dal governo appariva finalizzato esclusivamente alla repressione del doping, ma alla Camera viene approvato con emendamenti che lo modificano profondamente, facendolo divenire una legge organica riguardante l'intero settore della tutela sanitaria delle attività sportive.
Nel 1975 viene promulgata una Carta europea dello sport per tutti nella quale si prende in considerazione e si condanna l'abuso di farmaci. Nel 1978, durante la Seconda conferenza europea, il Consiglio dei ministri adotta una risoluzione su 'Doping e salute' che enfatizza sia i danni impliciti nell'uso di farmaci sia l'importanza di trovare efficienti strade per evidenziare l'uso illegale delle sostanze dopanti. Nel 1981, in Italia viene fondata la Libera associazione dei medici italiani del calcio (LAMICA) tra i cui compiti rientra anche quello della lotta al doping.
Nel 1984 il Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa redige una Carta europea contro il doping nello sport che invia come raccomandazione a tutti i governi degli Stati membri. Nel luglio 1988 il Consiglio nazionale del Comitato olimpico nazionale italiano (CONI) emana la direttiva alle Federazioni sportive nazionali di adottare lo stesso elenco di sostanze e metodi doping previsto dal CIO, e le stesse sanzioni stabilite dalla Commissione medica del CIO per i casi di positività. Da allora tale elenco viene annualmente aggiornato dal CIO e conseguentemente recepito dal CONI e dalla FIGC. Nel 1989 lo Stato italiano emana la legge nr. 401 sulla frode sportiva, legge che riguarda solo marginalmente il doping intendendolo come mezzo che altera il risultato.
Negli anni successivi il dibattito sul doping prosegue, senza provvedimenti significativi, se non il progressivo ampliamento, da parte del CIO, della lista di sostanze vietate, alla luce dei sempre nuovi composti messi a disposizione dalla farmacopea. In tutto questo periodo, malgrado i numerosi controlli effettuati, i casi di positività nel calcio sono del tutto sporadici; gli eventi più eclatanti riguardano l'uso di sostanze amfetaminiche oppure, più che veri casi di doping sportivo, l'uso di sostanze voluttuarie quali i cannabinoidi e la cocaina.
Nel novembre 1997, nel continuo sforzo di adottare misure tese alla protezione della salute dell'atleta e alla luce del diffondersi dell'uso di eritropoietina, non riscontrabile agli esami antidoping, il CONI attiva la campagna 'Io non rischio la salute'. Tale progetto prevede di sottoporre a controlli ematici e urinari atleti praticanti specialità sportive a rischio di assunzione di eritropoietina e sostanze simili. Il riscontro di valori di ematocrito superiori a 50, nell'uomo, e 48, nella donna, comporta la sospensione dall'attività per un periodo di quindici giorni, al termine dei quali viene effettuata una nuova valutazione ai fini della riammissione alle gare. A tale progetto aderisce anche la FIGC, a partire dalla stagione 1998-99.
Nel luglio del 1998, l'allenatore della Roma, che allora era Zdenek Zeman, rilascia un'intervista in cui dichiara che nell'ambiente del calcio circolano troppi farmaci. La dichiarazione suscita grande scalpore e determina l'apertura sia di una inchiesta conoscitiva da parte del CONI sia di vari procedimenti giudiziari. Un'indagine in relazione a presunte irregolarità nei test antidoping condotti nel calcio porta fra l'altro alle dimissioni del presidente del CONI, al commissariamento della FMSI e alla sospensione per tre mesi dell'attività del laboratorio antidoping dell'Acqua Acetosa a Roma. Le inchieste svolte dalla magistratura successivamente scagionano da ogni accusa i responsabili della FMSI al riguardo di irregolarità nel laboratorio antidoping, che viene riaccreditato dal CIO e riprende la sua attività a pieno ritmo. Parallelamente al procedere delle inchieste della magistratura, le istituzioni sportive mettono in atto iniziative tese a divulgare la conoscenza del pericolo doping e a combatterne la diffusione. Tra quelle promosse dalla FIGC figurano l'istituzione di apposite commissioni e inoltre, a opera della Sezione medica del Settore tecnico di Coverciano, l'organizzazione di convegni e seminari e la pubblicazione di materiale scientifico e divulgativo in merito ai pericoli del doping.
In ambito internazionale, in occasione della Conferenza mondiale sul doping nello sport, tenuta a Losanna nel febbraio 1999, si definisce l'istituzione di un'Agenzia internazionale antidoping (WADA, World anti-doping agency), con lo scopo di promuovere e coordinare la lotta contro il doping nello sport internazionale. Istituita nel novembre dello stesso anno e costituita da rappresentanti del Movimento olimpico e dell'Autorità pubblica in parti uguali, l'Agenzia diviene pienamente operativa in occasione delle Olimpiadi di Sydney del 2000. La WADA, cui spetta il compito di emanare e aggiornare l'elenco delle sostanze vietate, rilascia la prima lista, in collaborazione con il CIO, il 1° giugno 2001, con validità dal 1° settembre 2001 al 31 dicembre 2002 (v. tab.).
Lo Stato italiano, oltre alle già citate leggi nr. 1099 del 1971 e nr. 401 del 1989, nel dicembre 2000 promulga la legge nr. 376 in merito alla 'Disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta contro il doping', che stabilisce principi innovativi nel settore, infatti con questa legge "la somministrazione o l'assunzione di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e l'adozione o la sottoposizione a pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche ed idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell'organismo al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti" diventa reato penale. Le sanzioni prevedono multe fino a 100 milioni di lire e reclusione da tre mesi a tre anni per chi fornisca sostanze dopanti ad atleti sia professionisti sia dilettanti; le pene aumentano se il reato è compiuto da un medico, un farmacista o un dipendente di società sportive e se la somministrazione riguarda atleti minorenni. Altro punto cardine della riforma è la decisione di sottrarre i controlli antidoping al CONI e affidarli a un'apposita commissione di vigilanza istituita presso il Ministero della Salute, commissione a cui viene affidato anche il compito di stilare l'elenco dei farmaci dopanti e determinare i criteri per i controlli. Il doping diventa così reato punibile anche penalmente come chiesto da numerose componenti dello sport e della società civile, considerata l'importanza sociale del problema.
Nella stagione 2000-01 il calcio viene interessato da un nuovo caso: l'improvviso aumento delle positività a un agente anabolizzante, il nandrolone. Risultano coinvolti nove giocatori di serie A e B che sono prima sospesi e successivamente squalificati. Sul fenomeno vengono aperte numerose indagini, a opera della Commissione antidoping del CONI, per valutare la possibilità di un'eventuale contaminazione di integratori assunti dagli atleti.
Alla luce degli ultimi eventi e allo scopo di indicare le linee di comportamento e controllare l'assunzione di ogni sostanza, integratori compresi, agli inizi della stagione sportiva 2001-02 viene redatto un 'Codice di comportamento in materia di lotta al doping', sottoscritto da tutte le componenti del mondo del calcio rappresentate dalla Federazione italiana giuoco calcio, dalla Lega nazionale professionisti, dalla Lega professionisti di serie C, dalla Lega nazionale dilettanti, dalla Associazione italiana calciatori, dalla Associazione italiana allenatori di calcio, dalla Libera associazione medici del calcio e dalla Associazione preparatori atletici del calcio. Tale codice individua nel medico sociale il soggetto responsabile dei trattamenti prescritti ai calciatori, trattamenti che devono essere documentati utilizzando uno specifico diario clinico ed effettuati solo con il consenso informato esplicito da parte del giocatore; il medico è tenuto inoltre a indicare tutti gli integratori che intende utilizzare nell'arco della stagione. Le società appaiono responsabili delle eventuali violazioni delle norme di tale codice imputabili ai medici sociali. Allo stesso tempo il calciatore è tenuto a comunicare al medico sociale ogni prescrizione avvenuta da parte di altro medico, producendo un'idonea liberatoria. Infine, il calciatore è tenuto a sottoporsi a qualsiasi analisi che il medico sociale ritenga utile ai fini preventivi nella lotta al doping.
Tabella 1
di Marco Brunelli
Il calcio, oltre a rappresentare senza dubbio uno straordinario fenomeno sociale, culturale e di costume nella maggior parte dei paesi del mondo, si è affermato anche come una realtà economica di enormi proporzioni in almeno tre continenti (Europa, Sud America e Asia), al punto che attualmente costituisce senza dubbio una delle poche 'industrie globali' del pianeta. All'inizio del 3° millennio, è giocato da 240 milioni di persone in 204 paesi. Non è certamente un caso che proprio una partita di calcio sia stato il programma televisivo più visto nel 2000 in 19 paesi europei su 23, oltre che in Argentina, Brasile, Cile e Perù.
Il Campionato del Mondo giocato in Francia nel 1998 è stato trasmesso in 196 paesi del mondo (per 29.700 ore), totalizzando nel complesso 33,4 miliardi di spettatori. La sola finale tra Francia e Brasile è stata vista da 1 miliardo di persone. In 153 nazioni si seguono in TV gli incontri del Campionato inglese. D'altra parte, nei principali 20 Campionati europei giocano calciatori di 102 paesi diversi.
Dei quasi 16 miliardi di dollari che sono stati spesi nel 2000 per sponsorizzare lo sport nel mondo, più della metà sono andati al calcio, ai suoi club, eventi e campioni. Il diritto di trasmettere il Campionato nazionale costa ogni anno 2830 milioni di euro alle televisioni di Inghilterra, Italia, Spagna, Francia, Germania, Brasile, Grecia, Giappone, Olanda, Scozia, Portogallo, Belgio, Danimarca, Austria, Svizzera e Svezia. Questo dato è evidente prova del fatto che l'attuale dimensione economica del calcio è strettamente legata alla scoperta del suo valore mediatico e promozionale, scoperta di fatto piuttosto recente.
In realtà, il calcio si è caratterizzato come un fenomeno economico sin dalle sue primissime origini, se è vero che già nel 1876, nove anni prima che la Football Association riconoscesse ufficialmente il professionismo, i club inglesi e scozzesi recintavano il terreno di gioco per far pagare un biglietto agli spettatori e corrispondevano salari, sotto forma di rimborsi, ai propri giocatori. Quasi altrettanto antica è l'abitudine di scambiarsi calciatori a cifre elevatissime: 30.000 lire per Renzo De Vecchi nel 1913; 45.000 per Virginio Rosetta nel 1925; 100.000 lire più una FIAT 509 per Mumo Orsi nel 1929; 625.000 per Valentino Mazzola nel 1942; 2 milioni per Silvio Piola nel 1945. Tuttavia, fino ai primi anni Ottanta, il giro d'affari del calcio mondiale è stato alimentato soprattutto dai consumi diretti dei suoi numerosissimi appassionati (biglietti e, in minor misura, scommesse) e dall'apporto diretto dei soci finanziatori, chiamati spesso a ripianare con mezzi propri bilanci in perdita. In ogni caso, niente a che vedere con le dimensioni attuali del business.
Il gradimento del pubblico è stato evidente sin dall'inizio: tra il 1905 e il 1914 la finale di Coppa d'Inghilterra ebbe una media di 79.300 spettatori paganti (con la cifra record di 120.000 nel 1913). Centomila persone assistettero sia alla finale della prima Coppa Rimet a Montevideo sia a quella delle Olimpiadi di Berlino nel 1936. In Inghilterra, nella stagione 1948-49, le quattro divisioni professionistiche totalizzarono 41,3 milioni di presenze negli stadi.
In paesi come l'Inghilterra, l'Italia e la Spagna il calcio ha storicamente alimentato la crescita dell'industria delle scommesse e dei concorsi pronostici. In Svezia i concorsi pronostici sul calcio esistono dal 1926, in Inghilterra le scommesse dal 1927, il Totocalcio svizzero nasce nel 1938, quelli spagnolo e italiano nel 1946. Vi sono concorsi pronostici sul calcio in una trentina di paesi del mondo, quasi tutti in Europa e Sud America. In Italia, la crescita dei giochi è stata pressoché ininterrotta tra il 1970 e il 1997, quando le giocate lorde hanno raggiunto i 3831 miliardi di lire, per poi precipitare in una crisi che prosegue tuttora (1550 miliardi di lire raccolti complessivamente da Totocalcio, Totogol e Totosei nel 2000, oltre a circa 1200 miliardi di scommesse sportive). In oltre cinquant'anni di vita, i concorsi pronostici hanno assicurato al calcio italiano quasi 2500 miliardi di lire di entrate.
Ciononostante, l'assenza di legami significativi tra lo sviluppo del calcio e quello di un settore produttivo specifico spiega perché, fino agli anni Sessanta, l'impatto di questo gioco sull'economia non sia stato neanche lontanamente paragonabile a quello di sport come il ciclismo o l'automobilismo, le cui grandi manifestazioni svolgevano una precisa funzione promozionale per le rispettive industrie. Anche le sponsorizzazioni sono arrivate, nel calcio, molto più tardi rispetto ad altri sport come il ciclismo, l'automobilismo, il basket o il tennis. La consacrazione moderna del calcio in quanto industria è, quindi, strettamente legata alla sua affermazione come straordinario veicolo di comunicazione per le aziende e come contenuto insostituibile per i media di concezione vecchia (radio, televisione) e nuova (Internet, UMTS). In entrambi i casi, decisivi sono stati gli eccezionali livelli di ascolto raggiunti. Non solo: nel calcio, tale audience è trasversale e fedele come in nessun'altra forma di spettacolo, cosa che costituisce un'opportunità irrinunciabile per inserzionisti pubblicitari e acquirenti di diritti televisivi. In Italia, nella stagione 1996-97 le entrate da diritti televisivi hanno superato per la prima volta quelle da vendita di biglietti, che attualmente rappresentano meno del 20% del totale.
Tabella 1
Nella stagione 2000-01, emittenti e sponsor hanno garantito il 66% delle entrate complessive dei club inglesi di Premier League, e tale percentuale è aumentata ulteriormente, in maniera significativa, con l'entrata in vigore del nuovo contratto televisivo a partire dal Campionato 2001-02. In Francia, l'84% del fatturato delle società di prima divisione proviene da televisioni e partner commerciali, che rappresentano l'83% dei ricavi in Germania, l'81% in Giappone, il 69% in Portogallo, il 68% in Spagna e il 63% in Olanda.
Tabella 2
I soli diritti televisivi generano oltre il 60% del giro d'affari del Campionato nazionale brasiliano. Per un club come l'Arsenal, il peso del botteghino è passato dal 93% del fatturato nel 1974 al 42% nel 1994. Nel caso della Roma, l'incidenza dei ricavi da gare è scesa dal 63% del valore della produzione nel 1988 al 21% nel 2001.
Tabella 3
In meno di vent'anni, il calcio è risultato decisivo per l'affermazione di alcune delle industrie più dinamiche della comunicazione e del tempo libero: sponsorizzazioni, pubblicità, merchandising, televisione commerciale e a pagamento, Internet. Questo, come è ovvio, si è tradotto in un notevole ritorno economico: se tra il 1946 e il 1988 il fatturato dei club inglesi era cresciuto del 3% all'anno, nel decennio successivo l'incremento medio è stato del 18%. Negli ultimi cinque anni del decennio scorso, il giro d'affari dei club è aumentato del 22% a stagione in Inghilterra, del 24% in Italia, del 28% in Spagna, del 15% in Germania e del 22% in Francia. Attualmente nei paesi dell'Unione Europea, in Brasile e in Giappone il calcio di prima divisione fattura oltre 6400 milioni di euro, provenienti per il 40% dalla televisione, per il 24% dalla biglietteria e per il 36% da sponsorizzazioni e altre attività commerciali. Considerando anche l'indotto, il giro d'affari totale del calcio è di 5200 milioni di euro in Italia e di 3200 in Spagna.
L'aumento delle entrate si è accompagnato, com'era inevitabile, a quello della remunerazione del principale fattore produttivo: i calciatori. Già nel 1913 un calciatore inglese (i professionisti erano 7000) guadagnava più del doppio di un impiegato. Nel 1929, tre anni dopo che la Carta di Viareggio, lo statuto emanato dal CONI contenente i punti fondamentali dell'Ente calcio, aveva sancito la distinzione tra dilettanti e non, Orsi guadagnava 8000 lire al mese (8 volte di più rispetto a un magistrato). Ma anche in questo caso, è solo dopo il 1960 che il fenomeno si espande e diventa generalizzato. Gli ingaggi dei calciatori inglesi di prima divisione sono aumentati del 61% tra il 1960 e il 1964 e triplicati tra il 1977 e il 1983, in coincidenza con l'abolizione del tetto salariale e del vincolo. Tra il 1992 e il 2000, gli anni del boom televisivo, la crescita è stata di oltre sei volte. Nel 1998 il calciatore medio della Premier League aveva uno stipendio superiore a quello del Governatore della Banca di Inghilterra e del Primo Ministro. In Italia, nel 1983, lo stipendio medio lordo annuo di un calciatore di serie A era di 130 milioni di lire, di 782 nel 1994 e di 2150 nel 2001.
Le entrate dei club sono sempre più inadeguate a pagare gli ingaggi dei calciatori: nel 1984, in Italia, gli stipendi assorbivano il 34% dei ricavi, oggi, il 75%. In Inghilterra il 60% (il 38% negli anni Sessanta), in Scozia il 72%, in Germania il 46%, in Spagna il 55%, in Francia il 64%. Anche la campagna trasferimenti dei giocatori è andata crescendo di importanza con l'avvento dell'era televisiva. Da un lato, perché le maggiori risorse a disposizione dei club sono state investite nell'acquisto di nuovi calciatori: 105 milioni di lire per Jeppson nel 1950; più di un miliardo per Savoldi nel 1975; 13 miliardi nel 1984 per Maradona; 51 miliardi per Ronaldo nel 1997; 90 miliardi per Vieri nel 1999; 110 miliardi per Crespo nel 2000; 150 miliardi per Zidane nel 2001. Dall'altro, perché le società hanno fatto sempre più ricorso alle plusvalenze del calcio-mercato per attenuare i pesanti deficit operativi causati dall'aumento degli ingaggi dei calciatori e dei procuratori. Nella sola Europa, i trasferimenti alimentano un mercato da 6700 milioni di euro l'anno.
Questo vorticoso giro di passaggi di calciatori da una società all'altra produce, come inevitabile conseguenza, l'aumento degli ammortamenti dei diritti pluriennali alle prestazioni dei calciatori iscritti all'attivo del bilancio dei club, che gravano in maniera sempre più pesante sui conti degli stessi. Addirittura, nel caso della serie A italiana, il costo totale dei giocatori, determinato dalla somma degli stipendi e delle quote di ammortamento, ha toccato nella stagione 2000-01 il 124% del valore della produzione, generando una perdita operativa totale (ovvero prima delle plusvalenze) di oltre 740 milioni di euro. Altrove, la difficoltà di produrre bilanci in utile si è tradotta nella crescita esponenziale dell'indebitamento delle società di calcio professionistiche: 931 milioni di euro per i 20 club della Liga spagnola al termine della stagione 1999-2000; 290 milioni per le società di prima divisione francese nel 2000-01; 230 milioni per quelle del Campionato argentino. Attualmente, nei paesi dell'Unione Europea, oltre un club su due registra una perdita prima dei trasferimenti dei giocatori: l'83% delle società in Scozia, il 77% in Portogallo, il 72% in Italia, il 71% in Svezia, il 61% in Francia. Per far fronte a una situazione tanto preoccupante, quasi tutte le Federazioni e le Leghe europee hanno varato negli ultimi anni, o si apprestano a farlo nel prossimo futuro, rigorose misure di controllo dei costi dei club: fissazione del numero massimo di giocatori che possono essere utilizzati da parte di una società; ammissione al Campionato condizionata al rispetto di determinati parametri di liquidità o solvibilità economico-finanziaria; imposizione di un salary cap ("tetto salariale"). In alternativa, i club stanno cercando di aumentare le proprie entrate, specie attraverso lo sviluppo in chiave 'globale' di alcuni aspetti del business calcistico che appaiono ancora marginali, o quantomeno riservati a un numero esiguo di club: lo sfruttamento commerciale degli stadi, la valorizzazione dei marchi dei club, la quotazione in Borsa, l'integrazione con aziende dell'entertainment. Tra il 1990 e il 2000 i club inglesi hanno investito 1070 milioni di sterline nel miglioramento degli stadi, che sono diventati per molte società fonti di reddito assai importanti. Il Manchester United, per esempio, ricava 30 milioni di euro dall'affitto alle aziende di palchi e altri posti di rappresentanza all'interno dell'Old Trafford, oltre a 13 milioni di euro dalle attività di ristorazione e dall'affitto delle sale convegni presenti nello stadio, su un fatturato complessivo di 210 milioni (2000-01). Ancora più ampia è la diversificazione delle entrate del Chelsea, che si estende ben al di là della sola gestione polifunzionale dello stadio: la squadra di calcio produce 81 dei quasi 151 milioni di euro che costituiscono il giro d'affari complessivo del club; il resto proviene dall'attività di un'agenzia viaggi (42 milioni di euro), da servizi alberghieri e di ristorazione (19), dalla vendita di prodotti col marchio della società (7,6), dalla gestione di parcheggi e attività editoriali (0,6), dall'amministrazione di proprietà immobiliari (0,2).
Secondo una recente indagine della società FutureBrand, 15 club calcistici (4 inglesi, 3 italiani e brasiliani, 2 spagnoli, uno tedesco, scozzese e olandese) figurano tra i 40 marchi sportivi più importanti del mondo, in termini di notorietà, palmarès, seguito internazionale di tifosi e sfruttamento commerciale del proprio nome. Solo tre di questi, tuttavia, Manchester United, Real Madrid e Bayern Monaco, occupano uno dei primi 15 posti, a riprova di come, soprattutto per i club italiani, le potenzialità di valorizzazione del marchio a livello mondiale siano ancora largamente inesplorate, specie se paragonate a quelle di molti team professionistici americani.
Per 23 club inglesi (il primo è stato il Tottenham nel 1983, seguito dal Manchester United nel 1992), 6 danesi, 4 scozzesi, 3 italiani, 2 portoghesi, uno olandese e uno tedesco la quotazione in Borsa ha rappresentato negli ultimi anni una valida alternativa all'autofinanziamento o all'indebitamento bancario, tradizionali fonti di approvvigionamento finanziario delle società di calcio. Nel 2001, la capitalizzazione complessiva dei club europei in Borsa è di 4360 miliardi di lire. Nel 2001, importanti aziende della comunicazione e dell'entertainment figuravano tra gli azionisti di club calcistici di Inghilterra, Italia, Francia, Germania, Grecia, Svizzera, Scozia, Brasile, Austria, Svezia e Repubblica Ceca. In qualche caso, tali imprese hanno visto nel calcio il veicolo decisivo per incrementare le proprie entrate tradizionali (abbonamenti televisivi e pubblicità), come BSkyB in Inghilterra, o per sviluppare congiuntamente con i club nuovi prodotti e servizi (canali tematici, portali Internet, servizi new media), come Granada e NTL sempre in Inghilterra. Altre aziende hanno puntato su squadre minori nella speranza di ottenere un ritorno futuro in caso di promozione nelle serie superiori, come Kinowelt in Germania. Altre ancora sono state spinte dal desiderio di diversificare le proprie attività, originariamente confinate nell'ambito dello sport marketing, come IMG e Octagon. In tutti i casi, le società calcistiche ne hanno tratto significativi vantaggi, in termini di apporto di capitali, competenze e possibili sinergie operative. La quotazione in Borsa, insieme all'integrazione dei club con aziende televisive o dell'entertainment, costituisce secondo molti osservatori una prova evidente del processo di trasformazione in atto delle società calcistiche in vere e proprie imprese.
di Franco Ordine
"Il passaggio di un calciatore da una società all'altra è consentito per imprescindibili motivi di famiglia o di lavoro": datata 1911 e redatta in un italiano asciutto che non indulge a doppiezze né a equivoci, questa è la prima norma che introduce negli scarni regolamenti dell'epoca il complesso e spettacolare fenomeno poi passato sotto la definizione di calcio-mercato. È quindi possibile affermare che il mercato esiste sin dalle origini del calcio italiano. Le trattative, su cui si è sempre appuntato l'interesse delle cronache, un tempo si svolgevano in pochi giorni o settimane, avvenivano in un albergo e più avanti in complessi residenziali, mentre adesso risultano estese all'intero anno e si moltiplicano attraverso circuiti di moderna comunicazione, come Internet e telefoni cellulari.
Varata la norma, fu subito trovato il modo di aggirarla, con opportune variazioni dei posti di lavoro. Tra i primi a far ricorso a simili escamotage, vi fu un esperto dirigente del Genoa, deciso a reclutare rinforzi per la propria squadra in modo di metterla al passo della Pro Vercelli, a quel tempo al vertice delle classifiche. Aristodemo Santamaria e Renzo De Vecchi erano i due calciatori oggetto delle mire genoane. Per il primo, mezzala dell'Andrea Doria, bisognò sfidare l'ira dei tifosi doriani e i veleni di un'inchiesta nata dal sospetto di un compenso (300 lire) illecito; per il secondo, terzino del Milan ed esponente della nazionale, chiamato 'figlio di Dio' per la sua classe, si trovò un'occupazione a Genova quale fattorino presso un istituto bancario. Il risultato premiò gli sforzi dell'anonimo dirigente ligure: il Genoa vinse lo scudetto, De Vecchi incassò una promozione a fattorino di direzione dal suo datore di lavoro e, quel che più conta, un premio speciale, 3 marenghi d'oro del valore di 100 lire ciascuno, dal club. Nel 1925 ad aggirare la norma fu la Juventus, decisa ad arruolare Virginio Rosetta, terzino anche della nazionale, impiegato a Vercelli come contabile presso le manifatture Lane, con uno stipendio di 1050 lire al mese. Il passaggio di Rosetta fu effettuato seguendo un percorso analogo a quello di De Vecchi: un trasferimento alla conceria Aimone-Marsan di Torino con l'identico stipendio e la promessa di un sostanzioso contributo spese, integrato da ricchi premi. L'affare si trasformò in un caso e finì con l'occupare le scarne cronache dei giornali, quando il reclamo di una squadra concorrente, il Genoa stavolta, segnalò il passaggio durante lo svolgimento della stagione in cui Rosetta stesso risultava tesserato della Pro Vercelli. Appena fu possibile ‒ con lo scudetto al Genoa e la Juventus penalizzata ‒ ristabilire l'ordine nel Campionato, Rosetta raggiunse Torino senza più proteste: in cambio la Pro Vercelli incassò ufficialmente il pagamento, tutt'altro che modesto, di 45.000 lire. La cifra fu superata, sul finire degli anni Venti, dalle 200.000 lire pretese dalla Lazio per cedere all'Inter il suo centromediano Fulvio Bernardini, già ragioniere presso la Banca nazionale di Credito.
Dopo l'istituzione del girone unico di serie A (1929), grazie alla quale il calcio, divenuto oggetto dell'interesse propagandistico del regime fascista, varcò i confini regionali, furono prese due decisioni di segno opposto, ambedue a opera del presidente della Federazione Leandro Arpinati. Da un lato si procedette alla chiusura delle frontiere, dall'altro si decise d'incrementare l'arrivo degli oriundi, giocatori provenienti da altre nazioni ma dalle scontate origini italiane. I controlli furono severi: Orsi, destinato alla Juventus, restò fermo per un anno, nonostante la spesa sopportata (100.000 lire il contratto, 5000 lire mensili lo stipendio a lui riconosciuto). A inaugurare la serie degli oriundi fu l'argentino Julio Libonatti, idolo dei tifosi del Rosario, che fu scelto dal presidente del Torino, il conte Marone Cinzano, nel corso di uno dei suoi viaggi d'affari in Sud America. Nella sua scia giunsero successivamente Monti, Orsi e Guaita, che fecero addirittura parte della nazionale azzurra campione del Mondo nel 1934.
Fu a quei tempi che cominciò ad affacciarsi alla ribalta internazionale una figura tipica del calcio-mercato: il faccendiere, chiamato a seconda dei periodi e delle occasioni sensale o mediatore, e poi consulente e infine procuratore, ma comunque caratterizzato dal fatto di riscuotere ricche percentuali sugli affari conclusi. I primi esponenti della categoria furono attivi lungo le rotte calcistiche che collegavano l'Europa al Sud America, in particolare all'Argentina e al Brasile: si trattava di avventurieri capaci di ricorrere a qualsiasi trucco, pur di dirottare un calciatore da una società all'altra. Avvenne, per esempio, che un argentino acquistato dalla Juventus, Sernagiotto, sbarcasse a Genova con in tasca il contratto per il Napoli, propostogli durante il viaggio da tale Schettini, in seguito smascherato. Una beffa ancora peggiore fu operata dall'Ambrosiana ai danni della Juventus nel marzo del 1940, alla vigilia della Seconda guerra mondiale: il presidente dell'Ambrosiana, Pozzani, dopo aver ricevuto da Roma una 'soffiata' sull'imminente entrata in guerra dell'Italia, offrì al collega bianconero De Divonne tre forti giocatori, Locatelli, Olmi e Perucchetti, in cambio della considerevole cifra di 600.000 lire; l'affare fu concluso rapidamente, ma fu reso inefficace dalla successiva sospensione del Campionato.
Anche la politica ha esercitato la sua influenza sul calcio-mercato. Un caso tipico fu il colpo di mano che riguardò Silvio Piola: centravanti della Pro Vercelli, 51 gol in quattro Campionati, venne d'ufficio convocato in una caserma romana, sicché il suo trasferimento alla Lazio, preparato da un presidente in ottime relazioni con Mussolini, poté avvenire "per obblighi militari". A guerra finita, un episodio analogo accadde in Spagna, quando due società storicamente rivali, il Real Madrid e il Barcellona, si ritrovarono a disputarsi i servigi del fuoriclasse argentino Alfredo Di Stefano, allora venticinquenne, che era stato appena ceduto da un club considerato fuori legge dalla FIFA, i Millonarios di Bogotá al River Plate di Buenos Aires. I dirigenti di Madrid trattarono con i colombiani, i rappresentanti di Barcellona con gli argentini. Il braccio di ferro si risolse con una proposta ambigua della Federazione spagnola: Di Stefano avrebbe potuto giocare un anno a Madrid e uno a Barcellona. I catalani respinsero la mediazione e fu la fortuna del Real.
Tabella 1
Due episodi ancora più clamorosi nella storia del calcio-mercato risalgono a tempi più recenti. Nel 1981, un attaccante slavo di discreta fama, Safet Susic, riuscì a firmare, nella stessa sezione di calcio-mercato, ben tre contratti: uno con l'Inter di Fraizzoli, uno con il Torino di Sergio Rossi, uno con la Roma di Viola. Il presidente della Lega professionisti dell'epoca, Antonio Matarrese, ne decretò immediatamente l'espulsione. Nel 1995 Luis Figo, 23 anni, promettente portoghese dello Sporting di Lisbona, finì nelle mani di un procuratore senza scrupoli e vide svanire le intese sottoscritte prima con la Juventus e poi con il Parma. Non poté venire in Italia e si fermò a Barcellona, il che peraltro non gli ha danneggiato la carriera.
Quando il calcio-mercato, da affare episodico riservato a pochi addetti, si trasformò in un fenomeno di costume, in un appuntamento atteso e seguito da giornali e tifosi, la rassegna ebbe la necessità di eleggere una città a sua sede stabile e di modificare abitudini e regolamenti per adeguarli alla statura dei personaggi nel frattempo saliti alla presidenza di molte società di calcio. Fra i nomi più illustri, oltre agli Agnelli, la cui supremazia nella Torino bianconera rimaneva indiscussa, basti ricordare i Rizzoli per il Milan, il petroliere Angelo Moratti per l'Inter, il comandante Achille Lauro, sindaco di Napoli e patron della squadra, il conte Marini Dettina, presidente della Roma, Renato Dall'Ara, padrone del Bologna, Paolo Mazza, presidente della Spal salita in serie A. Nella loro scia, lungo i saloni dell'albergo Gallia, nei pressi della stazione Centrale di Milano (il calcio-mercato avrà qui la sua sede fino al 1976, quando sarà trasferito all'hotel Hilton, a 50 metri di distanza), nel mese di giugno una folla di curiosi poteva seguire da vicino le schermaglie e le trattative imbastite da dirigenti competenti, come Gipo Viani e Bruno Passalacqua del Milan, Italo Allodi dell'Inter, e Andrea Arrica del Cagliari, oltre che da personaggi minori. Nasceva così la leggenda del calcio-mercato. Su invito di uno stravagante principe siciliano, Raimondo Lanza di Trabìa, i presidenti si incontravano per cena in un paio di ristoranti milanesi dalle parti di piazza Missori, e passavano poi la notte in albergo a discutere di gol e di rigori parati, di terzini e mediani da distribuire nelle varie squadre d'Italia. Accanto ai resoconti veritieri, fiorivano gli aneddoti, i pettegolezzi e le cronache fantasiose, incentrate soprattutto sulle imprese di Lanza di Trabìa, proprietario terriero in Sicilia, presidente del Palermo ma residente a Roma, sposato con l'attrice Olga Villi. Quando morì suicida, a soli 39 anni, il principe lasciò in eredità alla moglie la proprietà del cartellino di Enrique Martegani, giocatore argentino passato dal Padova al Palermo e poi alla Lazio, abile nel palleggiare ma di scarso valore. L'episodio diede a Garinei e Giovannini lo spunto per un musical dal titolo La padrona di Raggio di luna.
L'Italia intanto si avviava alla completa ricostruzione e sembrava anzi galvanizzata dal boom economico: mentre venivano riaperte le frontiere per i giocatori stranieri e i club si andavano trasformando in società per azioni senza scopo di lucro (riforma del presidente della Federazione, Giuseppe Pasquale), gli ingaggi diventarono milionari. A sfatare il tabù del milione, aveva provveduto, già nel 1942, Ferruccio Novo, presidente del Grande Torino, grazie all'assegno versato al Venezia per ottenere Loik e Valentino Mazzola, decisivi per completare la fortissima formazione granata. Nel 1950, nell'intento di strappare alla concorrenza della Roma lo svedese Hasse Jeppson, centravanti messosi in luce nell'Atalanta, Lauro arrivò a versare la cifra record di 105 milioni. La firma dell'accordo tra l'armatore napoletano e il senatore Turani, presidente dell'Atalanta, avvenne al termine di una cena in un ristorante napoletano.
Il vincolo, cioè l'obbligo di rispettare la volontà della società, e spesso qualche suo capriccio, rendeva vulnerabile la figura del calciatore, mentre risultava decisivo il ruolo del dirigente. Agli inizi degli anni Cinquanta vennero introdotte, a questo proposito, due importanti innovazioni regolamentari: l'opzione, cioè la possibilità di prenotare in anticipo l'acquisto di un calciatore, e la comproprietà, cioè l'acquisto del 50% del cartellino, per la quale il tesserato veniva a trovarsi al servizio di due padroni.
Negli anni Settanta i debiti delle società e le cifre spese per gli ingaggi crebbero a dismisura. Dopo la sconfitta della nazionale di Fabbri ai Mondiali inglesi del 1966, le frontiere erano state nuovamente chiuse e tali sarebbero rimaste fino al 1980: restavano tesserabili solo gli oriundi, mentre le valutazioni dei pochi campioni italiani salivano alle stelle. A rendere meno complicate le trattative, ma più oneroso il loro costo, provvedevano i mediatori, chiamati 'mister 5%' per indicare l'ammontare richiesto per ciascun affare concluso. Tra i più famosi furono Walter Crociani e Romeo Anconetani, poi diventato presidente del Pisa.
Il muro del miliardo fu sfiorato per la prima volta dalla Juventus, passata sotto la guida di Giampiero Boniperti, che nel 1974 acquistò dal Como per 950 milioni il terzino Marco Tardelli, per altro già promesso all'Inter di Fraizzoli. Presto anche gli altri presidenti si adeguarono. Nel 1975 il costruttore napoletano Corrado Ferlaino, erede di Lauro, annunciò l'acquisto dal Bologna del centravanti Savoldi, per una cifra superiore al miliardo, che fece gridare allo scandalo. Nel 1984, riaperte le frontiere, lo stesso Ferlaino, grazie a un prestito del Banco di Napoli, avrebbe versato 13 miliardi al Barcellona per assicurarsi Maradona.
Il calcio era ormai diventato una vera industria dello spettacolo, alla quale una serie di nuovi regolamenti tentava di dare una disciplina. Al vincolo fu sostituita la firma contestuale, voluta dall'avvocato Sergio Campana, battagliero presidente dell'Associazione italiana calciatori (il sindacato di categoria fondato nel 1968), in virtù della quale senza il consenso del tesserato non si poteva procedere al suo trasferimento. Il primo a imporre la propria volontà fu Gigi Riva, mai uscito dalla Sardegna, nonostante gli affari conclusi una volta con la Juventus e un'altra con il Milan. In seguito, però, i giocatori si mostreranno meno determinati nei loro rifiuti, e pronti a cambiare idea e destinazione di fronte a offerte più remunerative. Per combattere in modo efficace la figura del mediatore, Campana nell'estate del 1978 presentò un esposto al pretore di Milano Costagliola, il quale dispose la perquisizione della sede del calcio-mercato. Negli stessi giorni Juventus e Vicenza si contendevano un promettente centravanti, Paolo Rossi. L'ebbe vinta il presidente del Vicenza, Giuseppe Farina, che pagò 2,6 miliardi per la comproprietà. Franco Carraro, allora presidente della Lega professionisti, si dimise per protesta.
La possibilità di ingaggiare prima uno, poi due, quindi tre stranieri per squadra ha interamente modificato il calcio-mercato, dando vita a una sua nuova formulazione sulla quale hanno poi influito altri importanti fattori, primi fra tutti la quotazione in Borsa delle società (inaugurata dalla Lazio, seguita dalla Roma e dalla Juventus) e la cosiddetta 'sentenza Bosman'. Quest'ultima è stata emessa nel dicembre 1995 dall'Alta Corte di Giustizia europea, dopo il ricorso di Jean-Marc Bosman, calciatore belga di modesta fama, e ha decretato la libertà di circolazione dei calciatori nell'ambito dell'Unione Europea. Nel frattempo le società sono andate riconoscendo ai loro tesserati stipendi sempre più alti e contratti di durata sempre più lunga, e per gli ingaggi si sono susseguite sempre più vertiginose cifre-record: Zidane pagato 150 miliardi, Figo valutato 143 miliardi, Crespo acquistato per 110 miliardi.
Infine, nel settembre 2001, l'ultima riforma, ottenuta dopo una mediazione tra Unione Europea e Federazione mondiale. Si tratta di una svolta epocale, in quanto consente al calciatore di rescindere un contratto in atto. Il giocatore è quindi libero di guadagnare sempre più, insieme con i suoi procuratori, diventati a tutti gli effetti i nuovi padroni del mercato. In Italia spiccano i nomi di figli d'arte, come Alessandro Moggi, figlio di Luciano, il potente direttore generale della Juventus, di qualche calciatore dal passato importante, come Oscar Damiani, o di manager di solida fama, come Giovanni Branchini, proveniente dalla boxe. Del Gallia non c'è più traccia nelle cronache, ma il calcio-mercato continua a occupare i titoli dei giornali e dei telegiornali.
di Marco Brunelli
L'affermazione della televisione ha avuto sullo sviluppo del calcio moderno un impatto stupefacente, arrivando a rivoluzionare le basi economiche dell'attività dei club. Fino ai ricchissimi contratti televisivi degli anni Novanta, infatti, l'industria del calcio era ben diversa da oggi, tanto in Italia quanto all'estero. Addirittura, in alcuni periodi, è sembrato che il calcio non fosse in grado di reggere la sfida competitiva con altre attività del tempo libero, che attiravano pubblico e consumi in misura maggiore. Negli anni 1993-2002, i ricavi dalla cessione dei diritti televisivi del Campionato, nel frattempo estesisi anche ai diritti Internet, UMTS e altri nuovi media, sono passati da 190 miliardi di lire a 1880 in Inghilterra, da 108 a 995 in Italia, da 75 a 460 in Spagna, da 180 a 750 in Germania e da 63 a 770 in Francia, e sono diventati di gran lunga la prima voce di entrata dei club. In complesso, nel periodo 1991-2001, le cinque principali Leghe calcistiche europee hanno visto aumentare il valore dei loro diritti televisivi, Internet e UMTS in media del 993%. Il 'valore' televisivo della UEFA Champions League è aumentato in misura enorme, facendo passare le entrate complessive dei club partecipanti da 38 milioni di franchi svizzeri (1993) a 730 (2001). Ancora più impressionante è l'impennata dei diritti televisivi della Coppa del Mondo: la FIFA ha ceduto quelli relativi alle edizioni 2002 e 2006 per 2,8 miliardi di franchi svizzeri, contro i 95 milioni del 1990, i 110 del 1994 e i 135 del 1998.
Tabella 1
Alla base di questi aumenti vi sono la crescita della concorrenza tra emittenti televisive, la comparsa di nuovi mercati e di nuove tecnologie (televisione a pagamento, televisione digitale, banda larga, integrazione tra televisione, Internet e telefoni cellulari), ma soprattutto l'affermazione dello sport, e del calcio in particolare, come un contenuto irrinunciabile per qualsiasi programmazione televisiva. Tutti i dati confermano la natura di killer content del calcio: 28 dei 30 programmi più seguiti di tutti i tempi della TV italiana sono state partite della nazionale o finali di Champions League con squadre italiane; 19 delle 20 trasmissioni sportive complessivamente più viste in Europa nel 2000 sono stati incontri di calcio.
La convergenza fra TV, Internet e nuovi media intensificherà ulteriormente il fenomeno: l'UEFA ha recentemente stimato in un miliardo di franchi svizzeri le entrate aggiuntive che i club europei potrebbero ricavare nei prossimi dieci anni dalla vendita dei diritti Internet. La disponibilità delle immagini delle partite di calcio viene ritenuta un elemento decisivo per il decollo dei servizi UMTS, come dimostrano i ricchi contratti sottoscritti da Hutchison 3G con una decina di società italiane e con la Premier League inglese, e da Orange con i club francesi. Lo stesso contratto di sponsorizzazione siglato dal Manchester United con Vodafone, il più caro della storia, risponde a questa logica.
Paradossalmente, però, l'aumento delle entrate TV, avendo portato con sé quello degli stipendi dei calciatori, ha finito per penalizzare la redditività dei club. I calciatori inglesi sono addirittura arrivati a codificare questo principio, minacciando di non giocare se i loro guadagni non fossero stati legati ai nuovi contratti televisivi della Lega. La TV ha comunque mutato le prospettive delle grandi organizzazioni calcistiche mondiali. Da quando è lievitato il valore dei diritti televisivi, FIFA e UEFA hanno smesso di essere semplici istituzioni che amministrano le competizioni internazionali, per trasformarsi in agenzie di commercializzazione delle stesse, sul modello delle Leghe professionistiche americane o della Premier League inglese. Inoltre, è stato proprio il mezzo televisivo a ideare nuove manifestazioni. È infatti naturale, dal momento che il calcio costituisce un fenomeno così importante per le emittenti, che queste pensino a costruirsi avvenimenti su misura: dal Mundialito clubs proposto dalle reti Fininvest nel 1981 alla Superlega Europea progettata da altri grandi gruppi televisivi e agenzie mediatiche.
La TV ha poi ridefinito le gerarchie e, in qualche misura, la geografia del calcio: il bacino di utenza televisivo è diventato la vera misura del valore di mercato di un club, persino al di là dei suoi risultati sportivi. Inevitabilmente, la ripartizione sempre più squilibrata delle maggiori risorse televisive ha accresciuto il divario tra grandi e piccole società.
Sul modo stesso di giocare a calcio il mezzo televisivo ha esercitato una notevole influenza: per sfruttare o accontentare la TV si sono cambiati i formati (la Champions League), i calendari (gli anticipi e i posticipi), gli orari (le partite giocate a mezzogiorno durante il Mondiale americano), le regole delle competizioni (i tre punti a vittoria, il golden gol). D'altra parte, la presenza di tante telecamere ha certamente assicurato incontri più regolari e in alcuni paesi, come la Germania e l'Inghilterra, la prova televisiva ha addirittura consentito, in alcuni casi, di ripetere gare viziate da errori tecnici.
La TV ha modificato anche le abitudini degli spettatori. Le partite trasmesse in televisione sono ormai in maggioranza a pagamento: nella stagione 2000-01 il Campionato è stato trasmesso in chiaro solo in Spagna, Portogallo, Austria e Svizzera, e anche gli incontri della Champions League sono per la maggior parte criptati. Lo spettatore si è abituato, dunque, a tecnologie di ripresa sofisticate, pluralità di punti di osservazione, grafica virtuale, statistiche, replay, moviola, interviste pre- e post-partita, regia personalizzata (TV interattiva), e non è più disposto a rinunciarvi. Il calcio televisivo è diventato un succedaneo di quello allo stadio, al punto che è prevedibile che non sono pochi i tifosi che hanno smesso di seguire le loro squadre in trasferta, come accadeva frequentemente un tempo, potendo vedere meglio la partita in televisione. Secondo alcuni, anzi, il calcio diventerà quasi gratuito allo stadio perché lo si farà pagare soprattutto in televisione.
La dimensione del fenomeno è tale che per regolamentare il rapporto fra calcio e televisione sono state necessarie nuove leggi. In molti paesi, è stato tutelato il diritto del pubblico a vedere in TV brevi estratti degli incontri indipendentemente da chi ha acquistato in esclusiva i diritti (diritto di cronaca). Per contrastare la formazione di posizioni anticompetitive sul mercato, sono state disciplinate sia la titolarità dei diritti sia le modalità di negoziazione degli stessi (collettiva o individuale). Una direttiva dell'Unione Europea ha imposto ai paesi membri di definire gli eventi di rilevanza generale, la cui visione deve essere accessibile a tutti: partite della nazionale; fasi finali delle maggiori competizioni mondiali; eventi simbolo a livello nazionale come, per es., la finale della Coppa di Inghilterra.
Infine, la TV ha cambiato l'organizzazione e la struttura dei club: la figura dell'addetto stampa ha lasciato il posto a quella del responsabile dell'area comunicazione. Nuove figure professionali, specializzate nella vendita dei diritti, sono entrate negli organigrammi. Grandi gruppi televisivi o agenzie specializzate nella commercializzazione dei diritti sono diventati azionisti di riferimento di club in Italia, Inghilterra, Scozia, Francia, Germania, Svezia, Grecia, Svizzera, Brasile.
Inevitabilmente, però, anche il calcio ha trasformato la televisione. Dal primo incontro trasmesso in TV (Everton-Arsenal dalla BBC), nel 1936, vi sono stati molti cambiamenti. In particolare in Italia sono legate al calcio alcune tappe fondamentali della storia della televisione: il palinsesto del primo giorno di trasmissioni (3 gennaio 1954), che aveva il suo pezzo forte nella Domenica Sportiva; la diffusione al Sud (30.000 apparecchi venduti in pochi giorni prima di un Napoli-Fiorentina del 1955); l'avvento del colore (in occasione dei Mondiali del 1978); il boom delle emittenti locali; la rottura del monopolio RAI all'inizio degli anni Ottanta; la comparsa della pay-tv e della pay-per-view; la sperimentazione di nuovi linguaggi, tecnologie e modalità di ripresa.
Il futuro del calcio in televisione è legato alle opportunità offerte dalle nuove tecnologie e, in particolare, al grado di complementarità, piuttosto che di sostituibilità, che queste presenteranno rispetto al mezzo televisivo tradizionale. Non c'è alcun dubbio che il calcio continuerà a rappresentare, per tutti gli operatori della comunicazione, un contenuto insostituibile, e dunque preziosissimo, per l'affermazione di qualsiasi nuovo media. L'acquisto, nel giugno 2001, da parte di Hutchison 3G UK dei diritti per la telefonia mobile di terza generazione del Campionato inglese di Premier League, valutati circa 60 milioni di euro per tre stagioni (l'accordo più caro negoziato fino a oggi in Europa), è stato motivato dall'azienda con la possibilità di differenziare nettamente i contenuti del proprio servizio di telefonia cellulare da quelli dei principali concorrenti, offrendo in esclusiva risultati, notizie, resoconti di partite, immagini statiche e in movimento e materiale di archivio di uno dei tornei più importanti del mondo, praticamente in tempo reale.
La novità più rilevante, rispetto alla televisione attuale, consisterà nella personalizzazione sempre più marcata dei contenuti, per rispondere alle esigenze di un'audience molto più frammentata di un tempo, e nella ricerca continua dell'interazione con il pubblico. Forme di comunicazione che oggi appaiono residuali o di nicchia acquisteranno una rilevanza precisa, anche in termini di redditività, proprio perché consentiranno di raggiungere gruppi di utenti che, per quanto poco numerosi, si caratterizzano tuttavia per un'omogeneità di gusti, una fedeltà di ascolto e una predisposizione all'interazione del tutto sconosciute al pubblico televisivo attuale. Molti nuovi media consentono, inoltre, una gestione diretta della comunicazione, a costi moderati e con ritorni potenzialmente molto interessanti dal punto di vista sia economico sia della possibilità di interagire senza intermediari con la propria base di utenti/tifosi. Si spiega così, per esempio, il moltiplicarsi dei canali televisivi tematici offerti direttamente dai club calcistici in partnership con primari gruppi media, su piattaforme digitali (Olympique Marsiglia, Lione, Roma, Milan, Inter, Barcellona, Real Madrid, Chelsea, Manchester United), via cavo (Middlesbrough, partito per primo nel febbraio 1998) o attraverso Internet (Arsenal, Chelsea, Liverpool, Leeds United). Alle prospettive dell'autoproduzione televisiva guardano con interesse anche alcune Leghe professionistiche europee: Inghilterra, Germania, Scozia, Belgio, Danimarca. Il palinsesto standard dei canali autoprodotti è costituito dalle telecronache integrali delle partite (attualmente in differita per tutelare l'esclusiva delle emittenti che hanno acquistato i primi diritti del Campionato), da brevi estratti riassuntivi (highlights), notiziari, interviste, immagini di archivio, cronache degli allenamenti, partite delle squadre giovanili, che consentono agevolmente di coprire 6-12 ore di programmazione giornaliera. In prospettiva, con la definitiva affermazione delle modalità di trasmissione a banda larga, l'utilizzo di Internet da parte di Leghe e club calcistici come canale di diffusione delle immagini diventerà preponderante. Secondo un'inchiesta realizzata nel 1999 da GlobeCast, il 68% degli operatori della televisione e dei dirigenti delle grandi organizzazioni sportive ritiene che, entro il 2009, Internet diventerà la principale piattaforma di distribuzione dei contenuti sportivi, prendendo progressivamente il posto della televisione a pagamento. I grandi vantaggi di Internet sono rappresentati dalla sua utenza mondiale, dal carattere non mediato e fortemente interattivo della comunicazione e dai costi di avviamento, sviluppo e gestione notevolmente inferiori a quelli di una piattaforma televisiva, che lo rendono un canale di comunicazione facilmente accessibile a club, Federazioni e Leghe sportive.
di Marco Brunelli
Se il calcio è, in Europa e nel mondo, lo sport più diffuso, più praticato, più seguito in televisione e più letto sui giornali, appare naturale che a esso si rivolgano con sempre maggiore insistenza le aziende che hanno bisogno di promuovere la propria immagine o i propri prodotti. Tutte le ricerche di mercato più recenti sono, tuttavia, d'accordo nell'affermare che la straordinaria forza del calcio come veicolo di comunicazione non dipende solo dall'ampiezza della sua audience, ma soprattutto dalla qualità del pubblico che esso riesce ad attirare. Gli appassionati di calcio sono fedeli come nessun altro consumatore, assidui, attenti, partecipi fino in fondo di ciò che vedono e sentono, passionali, inclini a lasciarsi coinvolgere emotivamente.
Il pubblico del calcio è, per definizione, il più trasversale che esista: ne fanno parte uomini e donne, giovani e anziani, persone di tutte le professioni, fasce di reddito e categorie sociali, abitanti di ogni regione del paese. Tuttavia, come sanno da sempre gli appassionati, i tifosi non sono tutti uguali. Il supporter del Manchester United è quanto mai diverso da quello del Manchester City. La torcida del Palmeiras non ha nulla a che vedere con quelle delle altre squadre di San Paolo: Corinthians, San Paolo, Portuguesa. I fans dell'Arsenal non possono che essere originari di quel quartiere a nord di Londra. I tifosi dell'Athletic di Bilbao non possono essere confusi con quelli di nessuna altra squadra spagnola. Il calcio è, per questo, uno dei canali di collegamento con il territorio più efficaci che le aziende hanno a loro disposizione.
Negli ultimi anni le tecniche di segmentazione del mercato applicate al calcio hanno fatto passi da gigante, consentendo alle aziende di differenziare enormemente il loro approccio a questo canale di marketing, utilizzandolo in maniera personalizzata, flessibile e mirata. Non solo: gli sponsor si sono resi conto che, pur nella trasversalità di fondo che caratterizza la loro composizione, gli appassionati di calcio si concentrano nelle categorie sociodemografiche più ricercate dalle aziende, a cominciare da quelle a più elevato potere di acquisto. Ciò ha indubbiamente accresciuto l'efficacia del calcio come strumento di comunicazione commerciale. Secondo uno studio condotto nel 2001 da Oliver & Ohlbaum Associates, il 43% del mercato europeo delle sponsorizzazioni sportive, pari a 5,5 miliardi di euro nel 2000, è stato destinato al calcio. Tale dato è confermato da una ricerca realizzata in Italia nel 1999 da Forces, secondo la quale il 53% delle aziende che scelgono di utilizzare lo sport come veicolo promozionale optano per il calcio.
Il termine 'sponsorizzazione' viene comunemente usato in senso assai ampio. In realtà, la partnership tra una o più aziende e un club, un'organizzazione calcistica, un testimonial o un evento può assumere forme molto diverse tra loro. Una prima distinzione fondamentale riguarda sponsorizzazione e pubblicità. Secondo la definizione contenuta nel Codice delle sponsorizzazioni della Camera di commercio internazionale (1992) la sponsorizzazione è "ogni forma di comunicazione per mezzo della quale uno sponsor fornisce contrattualmente un finanziamento o un supporto di altro genere, al fine di associare positivamente la sua immagine, la sua identità, i suoi marchi, i suoi prodotti o servizi a un evento, un'attività, un'organizzazione o una persona da lui sponsorizzata". Se si considera una definizione piuttosto comune di pubblicità ("la promozione diretta di un'azienda attraverso l'acquisto di spazio su un mezzo di stampa o di tempo televisivo o radiofonico, avente quello specifico scopo"), non è difficile notare le differenze. La pubblicità consiste nel veicolare un messaggio costruito ad hoc, con una collocazione molto precisa in termini di tempo e di spazio di esposizione (quell'orario televisivo, quella pagina di giornale); inoltre, la natura del messaggio pubblicitario permette di soffermarsi sulle qualità intrinseche del prodotto o servizio reclamizzato, arricchendo la comunicazione di contenuti informativi specifici, ma il messaggio resta chiaramente distinto dal contenitore che lo ospita, al punto che si può leggere il giornale o guardare la trasmissione televisiva ignorando la pubblicità. Al contrario, la sponsorizzazione crea un'associazione molto forte tra azienda e sponsorizzato, che finiscono per identificarsi nella mente dell'appassionato/consumatore.
L'atteggiamento favorevole del tifoso si confonde così con la predisposizione all'acquisto del cliente. Perché ciò accada, l'abbinamento deve essere credibile, ovvero sponsor e sponsorizzato devono esprimere gli stessi valori. L'entrata massiccia della Opel nel calcio europeo a metà degli anni 1980 traeva origine, per esempio, dalla decisione della casa tedesca di lanciare una gamma di auto più moderne e giovanili di quelle prodotte sino a quel momento, puntando sul calcio e sulla sua immagine giovane, dinamica, moderna, eccitante per rinnovare la propria identità, mentre i principali concorrenti di gamma alta sceglievano il golf, la vela o il tennis.
Con la sponsorizzazione, inoltre, le aziende parlano simultaneamente a tutte le categorie di interlocutori istituzionali, mentre la pubblicità si rivolge a un target definito (gli spettatori televisivi, i lettori del giornale). Attraverso un mix molto ampio di soluzioni (esposizione del marchio, utilizzo degli atleti per iniziative sul territorio, uso a fini commerciali o di relazioni pubbliche del sito Internet dello sponsorizzato, aree riservate allo stadio per i propri ospiti o dipendenti), una sponsorizzazione può essere di grande aiuto per migliorare le relazioni dell'azienda con i clienti, i dipendenti, la forza vendita, i media.
Perché dieci grandi aziende accettano di pagare 65 milioni di dollari a testa per diventare per quattro anni Top Partner del Comitato olimpico internazionale, sapendo che il loro nome e il loro logo non verranno visti a bordo campo in nessuna delle gare delle Olimpiadi? La risposta sta nella possibilità di stampare i cinque cerchi olimpici su ogni prodotto e comunicazione dell'azienda, usufruire di spazi pubblicitari dedicati sulla stampa e la televisione olimpica, partecipare con un ruolo di rilievo a promozioni ed eventi speciali, invitare ospiti di riguardo alle gare olimpiche, ma anche utilizzare la partecipazione agli eventi olimpici per motivare e incentivare il personale dell'azienda: in altre parole, associare in esclusiva il proprio nome al simbolo più prestigioso e famoso che ci sia, tutte le volte che un cliente, in qualsiasi parte del mondo, entra in contatto con l'azienda.
Tutto ciò non significa che la pubblicità applicata al calcio sia una forma meno diffusa ed efficace di comunicazione: il costo di uno spot televisivo durante un grande evento calcistico o di una pagina di pubblicità su un quotidiano sportivo del lunedì sono tra i più elevati delle rispettive categorie. Forme di pubblicità tradizionali come quella sui biglietti di ingresso agli stadi, i cartelloni a bordo campo o i programmi e le riviste ufficiali dei club fanno ormai parte di qualsiasi pacchetto di comunicazione proposto agli sponsor. Infine, l'industria specializzata guarda con grande interesse alle nuove opportunità offerte dalla pubblicità su Internet oppure da quella cosiddetta 'virtuale' in televisione.
Una classificazione standard delle sponsorizzazioni, sulla quale sono modellati gran parte dei pacchetti offerti dalle organizzazioni sportive alle aziende, distingue tra sponsor principale, sponsor tecnico (nel caso delle squadre e degli atleti), altre categorie di sponsor di livello inferiore (sponsor istituzionali, partner ufficiali ecc.), fornitori ufficiali e licenziatari.
Per sponsor principale si intende lo sponsor che, in cambio del corrispettivo più elevato, ottiene, in via esclusiva, i maggiori benefici in termini di visibilità, riconoscibilità, sviluppo di iniziative di comunicazione in partnership con il soggetto sponsorizzato: per esempio, il diritto di apporre il proprio nome sulle divise da gioco.
In Europa, la prima Federazione ad autorizzare la comparsa dei marchi pubblicitari sulle maglie da calcio fu quella francese, nel 1968. Di lì a poco seguirono il Belgio e la Germania, mentre l'Inghilterra, l'Italia, la Spagna e l'Olanda si uniformarono solo all'inizio del decennio successivo. In Italia la decisione fu presa nel 1981, sotto la presidenza della Lega nazionale professionisti di Renzo Righetti, in un momento di particolari difficoltà finanziarie per i club. Da allora, in venti stagioni sportive, 313 diversi marchi si sono alternati sulle divise dei club di serie A e B.
L'introduzione ufficiale degli sponsor sulle maglie era stata preceduta dalla comparsa delle inserzioni sui programmi delle partite (segnalata in Inghilterra già nel 1890), dalla sponsorizzazione dei nuovi stadi (White Hart Lane, stadio del Tottenham, nel 1914), dalla pubblicità sui biglietti e sui cartelloni dentro e fuori lo stadio (presenti in Francia nel primo dopoguerra) e dall'utilizzo dei calciatori come testimonial pubblicitari (Meazza e Monzeglio negli anni Trenta in Italia; Compton, Finney e Wright alla fine degli anni Quaranta in Inghilterra). A dire il vero, nel calcio italiano, gli sponsor sulle maglie erano già arrivati nel 1953, con l'abbinamento tra il Vicenza e la ditta Lanerossi. Ma si trattò di una parentesi breve, frutto del vuoto normativo dell'epoca, mentre già da tempo le sponsorizzazioni erano presenti in altre discipline sportive (Reyer Società Scherma e Ginnastica Venezia, dal 1914; Olimpia Borletti Milano, dal 1936) e proprio in quegli anni si affacciavano nel ciclismo.
Negli sport di squadra diversi dal calcio allo sponsor principale viene spesso concesso anche il diritto di abbinare il proprio nome a quello del club, che assume così la denominazione (e sovente anche i colori) dell'azienda. Il fenomeno è molto meno frequente nel calcio, anche se non mancano esempi storici in tal senso: oltre al già citato Lanerossi Vicenza, il Simmenthal Monza, l'Ozo Petroli Mantova, lo Zenith Modena, la Sarom Ravenna, il Talmone Torino tra la seconda metà degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta in Italia; l'Inter Cable Tel di Cardiff, in Galles, qualificatasi per la Coppa UEFA nel 1997-98.
Negli ultimi anni, diversi club calcistici europei hanno invece ceduto agli sponsor la titolazione dei loro stadi, secondo una prassi invalsa da quarant'anni nello sport professionistico statunitense ‒ dove il mercato dei naming rights vale ormai 3 miliardi di dollari, con oltre 200 esempi ‒ e che si è affermata anche in Australia (Victoria, Sydney), Nuova Zelanda (Auckland) e Sudafrica (Johannesburg). Attualmente, vi sono impianti che portano il nome di aziende in Inghilterra (Bolton, Middlesbrough, Stoke City, Southampton), Germania (Amburgo, Leverkusen), Olanda (Eindhoven, Breda, Rotterdam), Austria (Salisburgo) e Finlandia (Helsinki).
Analogamente, molte Leghe e Federazioni hanno tratto significative entrate dalla sponsorizzazione della principale manifestazione calcistica organizzata. Il Campionato assume il nome dello sponsor in Austria, Belgio, Bulgaria, Finlandia, Inghilterra (dal 1983), Irlanda, Islanda, Italia, Norvegia, Olanda, Repubblica Ceca, Scozia, Slovacchia e Slovenia. L'investimento più oneroso è certamente quello sostenuto dal 2001-02 da BarclayCard per dare il proprio nome alla Premier League inglese: 48 milioni di sterline per tre anni.
Lo sponsor tecnico è chi, in cambio di riconoscibilità e visibilità, fornisce a un club, atleta o organizzazione sportiva i materiali strettamente necessari per lo svolgimento della propria attività: nel caso del calcio, abbigliamento da gioco e da allenamento, scarpe, palloni. Naturalmente, tra i privilegi garantiti allo sponsor c'è quello dell'esclusiva merceologica. Da alcuni anni, i contratti di sponsorizzazione tecnica per i top teams europei hanno superato in durata e importo quelli con gli sponsor ufficiali: pochi mesi dopo avere concluso il contratto di sponsorizzazione più ricco della storia del calcio con Vodafone (30 milioni di sterline per quattro anni), il Manchester United ha stretto con Nike un accordo per 13 stagioni, del valore complessivo di 303 milioni di sterline. Nella stagione 1999-2000 le sponsorizzazioni tecniche e gli accordi di licenza e fornitura hanno per la prima volta superato il 50% del totale delle entrate da sponsorizzazioni delle società di serie A (solo due anni prima erano meno del 40%). Alla base di tale sviluppo c'è il ricco giro d'affari del merchandising delle divise ufficiali: nel caso del Manchester United, la Nike potrà ora gestire direttamente un mercato che, nel 2001, ha assicurato al club oltre 35 milioni di euro all'anno, grazie a 50 milioni di tifosi sparsi in tutto il mondo, una presenza commerciale radicata in Asia, un accordo di partnership con i New York Yankees e clienti in oltre 40 paesi.
Gli sponsor istituzionali e i partner ufficiali, a differenza dello sponsor principale, non hanno un'esclusiva assoluta ma solo per settore merceologico e dispongono di una gamma più ristretta di opportunità associate al club o all'evento sponsorizzato.
I fornitori ufficiali sono coloro che forniscono all'organizzazione sportiva determinati beni o servizi, in cambio del riconoscimento ufficiale di tale ruolo, che esercitano in maniera esclusiva all'interno del proprio settore merceologico, e di una gamma di opportunità di comunicazione più limitata rispetto a quelle delle categorie precedenti di sponsor. I licenziatari sono aziende che hanno acquisito il diritto di realizzare e commercializzare prodotti, generalmente di largo consumo, utilizzando il marchio, i colori e il nome del club, dell'evento o dell'organizzazione sportiva, in cambio del pagamento di una royalty.
Da alcuni anni, a quelle appena elencate si è aggiunta la categoria dei media sponsors. Si tratta di emittenti radio e televisive, giornali e aziende Internet che, in cambio di investimenti in denaro o, più spesso, della messa a disposizione di tempo e spazio pubblicitario, ottengono gli stessi riconoscimenti di una delle categorie di sponsor secondari.
Secondo la Lega nazionale professionisti, nel 2000 le società di serie A e B hanno concluso 759 accordi di partnership non classificabili come sponsorizzazioni principali o tecniche, denominandoli in 26 maniere diverse, da 'Gold Partner' a 'Sponsor Sala Vip', per un valore complessivo di 89 miliardi di lire.
Tra le forme più innovative di collaborazione tra aziende e organizzazioni sportive rientrano le attività di hospitality. La possibilità di invitare e intrattenere clienti importanti, ospiti di riguardo, agenti di vendita o personale dell'azienda in occasione di eventi sportivi di richiamo, avendo a disposizione aree riservate allo stadio, servizi di parcheggio, ristorazione e altre attività pre-partita dedicate, viene sempre più spesso utilizzata dalle aziende a fini di pubbliche relazioni. Questa opportunità, che è da molto tempo fonte di ingenti risorse finanziarie per i club professionistici americani, è ampiamente diffusa tra i club inglesi e olandesi, mentre stenta ancora a decollare altrove, soprattutto per le carenze infrastrutturali degli stadi. Nel 2000 in Inghilterra il giro d'affari dell'ospitalità aziendale (non solo legata allo sport) è stato di 1,2 miliardi di euro, quasi sette volte il valore di due anni prima. Il Manchester United ricava il 40% delle sue entrate da stadio dall'affitto alle aziende dell'11% dei 67.000 posti dell'Old Trafford.
Secondo stime effettuate da SRI (Sponsorship research international), nel 1999 in Europa il 59% delle sponsorizzazioni calcistiche ha avuto per destinatari dei club, il 32% eventi, il 7% accordi di partnership o fornitura ufficiale e il 2% singoli atleti. Nel 1999-2000, secondo le stime della Lega nazionale professionisti, le entrate da sponsorizzazioni, pubblicità e altre attività commerciali (pari a 1350 milioni di euro) hanno rappresentato in Francia, Germania, Inghilterra, Italia, Olanda e Spagna il 32% del fatturato dei club calcistici di prima divisione, dietro i diritti televisivi (42%), ma prima dei biglietti (26%). Il dato aggregato nasconde situazioni molto diverse da paese a paese. La Germania è la nazione nella quale i contratti di sponsorizzazione raggiungono i valori più elevati: complessivamente, le partnership commerciali rappresentano il 44% delle entrate dei club. In Inghilterra questo dato non supera il 35%, ma la diversificazione delle entrate commerciali non ha uguali in Europa, grazie allo sviluppo del merchandising e all'utilizzo polifunzionale degli stadi. Un club non di primissimo piano come l'Aston Villa ha ricavato, nel 2000, 9,2 milioni di euro da sponsorizzazioni e ospitalità, 8,1 milioni da merchandising e 5 da attività di ristorazione e conferenze, contro i 16,6 da diritti televisivi, su un fatturato totale di 57,8. Al contrario la Spagna (anche per la tradizione di alcuni club importanti, come Barcellona e Athletic Bilbao, di non ospitare alcun marchio commerciale sulla divisa da gioco), l'Italia e la Francia sono i paesi dove lo sviluppo delle entrate commerciali è stato, fino a oggi, sopravanzato da quello dei diritti televisivi. Tanti segnali indicano che questa tendenza potrebbe invertirsi nel prossimo futuro: molti mercati televisivi appaiono ormai saturi, mentre le ultime stagioni sono state caratterizzate da una sensibile crescita del valore complessivo dei contratti pubblicitari, che sicuramente riequilibrerà il peso attualmente detenuto dai diritti televisivi nei bilanci di molte società. Secondo un rapporto dell'istituto tedesco Sport+Markt AG, nella stagione 2001-02 le sole entrate da sponsor ufficiali delle 112 società partecipanti ai Campionati di prima divisione di Francia, Germania, Inghilterra, Italia, Olanda e Spagna hanno superato i 301 milioni di euro, con un incremento del 22% rispetto al 2000-01. A trascinare il mercato sono stati soprattutto i club francesi e inglesi, le cui entrate da sponsor principali sono cresciute rispettivamente del 98% (grazie al boom della multisponsorizzazione) e del 67%, mentre la Germania si conferma il mercato più ricco con 4,4 milioni di euro spesi in media per ogni contratto. In Premier League vi sono oggi tre dei cinque contratti di sponsorizzazione più ricchi d'Europa (Manchester United-Vodafone, primo in assoluto; Chelsea-Emirates Airline; Liverpool-Carlsberg).
Alcuni dei recenti rinnovi contrattuali riflettono chiaramente l'accentuazione della natura 'globale' degli investimenti nel calcio: Nike al posto di Umbro (Manchester United); Emirates Airline di Autoglass (Chelsea); Siemens di Cirio (Lazio). Tuttavia, la strategia di penetrazione su più mercati attraverso l'abbinamento del proprio nome con club calcistici di diversi paesi sembra ancora limitata a un numero ristretto di casi: nel 2001, gli unici marchi che comparivano sulle maglie di club di almeno due dei cinque Campionati più importanti d'Europa erano Opel (3 club), Sega/Dreamcast (3) e Siemens (2). Più spesso le sponsorizzazioni rispondono a una logica prettamente nazionale. In qualche caso, addirittura, lo sponsor principale del Campionato è diverso da quello delle Coppe Europee. Molti marchi 'globali' preferiscono non legare il proprio nome a una sola società per paese, ma decidono di sponsorizzare eventi di risonanza nazionale o internazionale o, al limite, diventare partner ufficiali di raggruppamenti molto ampi di club. Aziende come Coca Cola o McDonald's, per esempio, tendono da sempre ad apparire come la bevanda o il ristorante 'del calcio', nell'accezione più ampia del termine, piuttosto che lo sponsor di una singola squadra. Sempre di più queste aziende utilizzano anche grandi campioni, scelti per la loro immagine positiva e la popolarità che si estende oltre il naturale bacino di tifosi della squadra di appartenenza, come propri testimonial. Se il trend di questi ultimi anni verrà confermato (secondo un autorevole quotidiano inglese, i diritti di immagine delle quattro stelle della Premier League, Owen, Beckham, Keane e Giggs, valgono attualmente quasi 40 milioni di euro totali), anche il calcio potrà rapidamente raggiungere le vette già toccate dal mercato dell'endorsement in sport come il tennis, il golf, l'automobilismo o il basket NBA.
Tabella 1
L'approccio multinazionale è più evidente tra gli sponsor tecnici di squadre o atleti: nel 2001, Adidas, Nike e Puma hanno firmato l'abbigliamento di 36 club di prima divisione in Francia, Germania, Inghilterra, Italia e Spagna. Ma si tratta di una scelta quasi obbligata in presenza di un ristretto numero di grandi aziende produttrici che si contendono quote di mercato su scala mondiale. Anche in questo campo, tuttavia, sono numerosi gli esempi di strategie autarchiche, soprattutto in Spagna, Germania e Inghilterra, dove tre società (Coventry, Ipswich e Southampton) producono, e vendono, addirittura in proprio le maglie da gioco.
Allo stesso modo, sembrano connotarsi in maniera 'nazionale' anche i settori di attività economica che si legano più facilmente al calcio: l'industria alimentare in Italia, le banche locali in Spagna, i fabbricanti di birra e le aziende di telecomunicazioni in Inghilterra, le aziende di telefonia e giochi elettronici in Francia.
Giova notare, in conclusione, come la crescita del mercato delle sponsorizzazioni calcistiche non sia stata accompagnata, se non in casi sporadici, da due fenomeni piuttosto frequenti nelle altre discipline di squadra: da un lato, l'identificazione dei club con i nomi e i colori delle aziende che li sostengono; dall'altro, l''effetto marmellata' dato dalla presenza, spesso indistinguibile, di una molteplicità di marchi sulle maglie dei ciclisti o le tute dei piloti di Formula 1.
Pur senza arrivare alla regola degli sport professionistici americani, dove gli sponsor non hanno a disposizione le divise da gioco, le principali Leghe e Federazioni calcistiche europee regolamentano in maniera molto severa gli spazi a disposizione delle aziende. Fanno eccezione le maglie dei club francesi e di alcuni altri paesi, come Austria e Norvegia, dove si è cercato di sopperire alla povertà dei diritti televisivi moltiplicando le opportunità offerte agli sponsor.
di Ruggiero Palombo
L'antropologo Desmond Morris nel volume La tribù del calcio (1981) sostiene che per i tifosi la partita rappresenta un rito antichissimo, il ricordo delle sfide nella piazza del villaggio preistorico, e per questo coinvolge e affascina in modo così profondo. Si può essere o no d'accordo con questa tesi, ma è difficile non riconoscere al calcio la capacità di stabilire un rapporto emotivo particolarissimo con larga parte della popolazione in tutti i paesi del mondo: una febbre così alta ed epidemica da venire paragonata al 'tifo'. Nel legame straordinario fra i fan e la squadra sono implicate motivazioni di ogni tipo: nazionalismo (specie quando è coinvolta la rappresentativa del paese), rapporto con il territorio, orgoglio cittadino, tradizione familiare, stato sociale, identificazione con un modello o un giocatore, amicizia ecc. Nelle città in cui esiste una sola squadra il tifo è quasi monoculturale; dove ce ne sono due di solito la spaccatura vede da una parte il popolo, dall'altra borghesia e immigrati. Nelle metropoli con molte squadre (Londra, Vienna, Buenos Aires, Rio de Janeiro ecc.) in genere la divisione è per quartieri.
Chi vive in città dove il club locale gioca in campionati secondari o addirittura non esiste, tifa per squadre di altre regioni o addirittura di altre nazioni. In questo caso assumono molta importanza l'immagine del club, la sua storia, i campioni che possono accendere la fantasia dei giovani in cerca di un ideale sportivo in cui riconoscersi. In Italia, per esempio, la Juventus ha molti più tifosi fuori del Piemonte che a Torino e lo stesso accade per Milan e Inter. Il seguito delle altre squadre è più strettamente legato al territorio o alle origini (per es. i tifosi di Napoli, Palermo, Cagliari sono sparsi in buona parte dell'Italia e del mondo).
Il tifo è assolutamente trasversale. Capi di Stato, leader politici, artisti, scienziati, intellettuali, imprenditori, professionisti ne soffrono con la stessa intensità della gente comune e dei ragazzi. Tutti indistintamente fanno riferimento allo stesso linguaggio tecnico e quindi a un codice in base al quale anche persone di cultura enormemente diversa possono fraternizzare e intendersi. Non solo convivono allo stadio in piena sintonia, ma traggono la massima gratificazione dal senso di appartenenza alla stessa fede. Cantano, applaudono, fischiano, gioiscono, si infuriano insieme, lieti di annullarsi nel gruppo. Per ribadire questa fratellanza portano come segno di riconoscimento i colori del club: bandiere, sciarpe, cappelli, maglie e gadget di ogni genere su cui prospera un fiorente merchandising. È interessante notare come il calcio, dopo essere stato visto a lungo con disprezzo dagli intellettuali, sia diventato tema di grande interesse: libri, film, saggi e soprattutto una partecipazione sin troppo esibita ai suoi riti testimoniano un vigoroso cambio di tendenza.
Il tifo organizzato lavora durante la settimana per allestire coreografie da stadio talvolta di grande creatività e bellezza: una sorta di murales umani. L'altra faccia della medaglia è costituita dalle caratteristiche sempre più aggressive e violente che la partecipazione dei tifosi è andata assumendo soprattutto a partire dagli anni Settanta, specialmente a livello di giovani, di gruppi in cerca di visibilità, organizzati come bande pronte a usare le mani o manipoli paramilitari, spesso politicamente ideologizzati. Questi ultras hanno come luogo eletto la curva, di cui sono i padroni.
Il fenomeno tifo è mondiale. Basti pensare ai festeggiamenti che in Cina hanno accolto la qualificazione ai Mondiali del 2002, con piazza Tienanmen invasa per ore e centinaia di milioni di persone davanti alla televisione. Naturalmente, però, il tifo cambia da paese a paese. Quello sicuramente più festoso e colorato si trova in Brasile, dove il calcio è abitualmente vissuto con gioia, alla stessa stregua della musica e del carnevale. La torcida (parola che si connette al significato di 'contorcersi') brasiliana è traboccante di colori, balli, canzoni, sostenuta dall'incessante suono di tamburi, trombe e percussioni. Il calcio in Brasile ha un'importanza così abnorme da trasformare una sconfitta in un lutto nazionale, come accadde quando la vittoria dell'Uruguay sul Brasile a Rio de Janeiro nel Mondiale del 1950 spinse diverse persone al suicidio.
Assai più violento il tifo argentino, dove il folclore è coloratissimo e chiassoso ma le rivalità fra club sono esasperate e talvolta sfociano in fatti di sangue. Nel febbraio 2002, per esempio, gli scontri da guerriglia urbana fra gli ultras del Racing e quelli dell'Independiente, i due storici club di Avellaneda, hanno provocato un morto e molti feriti. L'acme dello spettacolo e del tifo spetta alla sfida fra Boca Juniors e River Plate, le due squadre argentine più amate. In tutto il Sudamerica, ogni tanto, la morte sottolinea gli eccessi del calcio. Ci sono state vittime alla fine del 2001 in Ecuador nel corso dei festeggiamenti per la qualificazione al Mondiale. In Colombia è a rischio talvolta anche la vita di calciatori e arbitri.
Il tifo assume connotazioni assai pittoresche anche in Africa. In Europa il comportamento più acceso è registrato fra italiani, turchi, greci, iberici. In Spagna e in Portogallo il calcio viene vissuto con passione ma al tempo stesso con molta civiltà. Lo stesso vale per la Francia dove esistono però alcune situazioni spinose (specie a Parigi e Marsiglia). Più tranquilli i tedeschi, se si escludono gli eccessi legati al consumo di birra. Il tempio del tifo è senza dubbio l'Inghilterra. Uscita dal tunnel della violenza, messi a freno gli hooligans grazie alle leggi del governo Thatcher, frenato l'alcolismo, la cultura sportiva inglese rende la partita uno spettacolo indimenticabile: cori maestosi, un sostegno strenuo alla propria squadra, nessun insulto agli avversari, grande fair-play, la capacità di applaudire i propri campioni anche se sconfitti. Lo stadio, per i fan inglesi, è un luogo dell'anima, in cui far spargere, addirittura, le proprie ceneri. Il romanzo di Nick Hornby Febbre a 90° (1992) e il film che ne è stato tratto offrono un'immagine eloquente di questo rapporto.
Dovunque, sia in Sudamerica sia in Europa cresce il numero delle tifose donne. Nella Premier League in glese rappresentano il 33% dei nuovi spettatori.
Anche in Italia il calcio ha una valenza particolare. Ci sono coppie che in viaggio di nozze vanno a visitare la sede e lo stadio della squadra per cui tifano; migliaia di persone si sottopongono a spostamenti faticosissimi e costosi per seguire la squadra in trasferta, incuranti anche del rischio di essere picchiati. Il calcio provoca infatti enormi fenomeni migratori: quando, nel 1989, il Milan vinse la Coppa dei Campioni, 80.000 tifosi lo seguirono a Barcellona. Inglesi, tedeschi, olandesi sono fra i più fedeli nel seguire i propri club, insieme a italiani e spagnoli. Forte anche il coinvolgimento degli immigrati, quando arriva una squadra del loro paese: in Germania, durante le partite in cui giocano la Turchia o il Galatasaray, lo stadio è diviso a metà.
Non è un caso che una vittoria internazionale nel calcio mobiliti i capi di Stato (sulla falsariga di quanto fece il presidente Pertini nel 1982 in Spagna) e rappresenti per un popolo un eccezionale motivo d'orgoglio. Nel 1998, quando la Francia ha vinto i Mondiali, la festa a Place de la Concorde a Parigi è stata colossale. Studi condotti in merito rivelano che queste vittorie hanno benefici effetti sul commercio e sullo sviluppo economico, perché determinano un aumento del coraggio imprenditoriale. Nessun altro avvenimento influisce come i Mondiali di calcio sull'attività lavorativa planetaria: orari cambiati, assenteismo, ferie, televisioni sui luoghi di lavoro per consentire alle maestranze di seguire le gare della nazionale.
Non esistono studi approfonditi sulla popolazione dei tifosi, ma vale la pena riportare i dati raccolti da UFA nel giugno 2000 sul numero degli appassionati nei cinque principali paesi europei (tab. 1) e sulla loro distribuzione percentuale per club (tab. 2). Sempre secondo questo studio nei cinque paesi vi sarebbe un numero rilevante di tifosi (dai 4,7 milioni della Spagna ai 5,5 della Germania) che simpatizzerebbero anche per una squadra straniera: Juventus, Manchester United, Barcellona, Milan, Real Madrid.
Tabella 1
Tabella 2
Secondo una graduatoria di Footballranking.com, da prendere tuttavia con beneficio d'inventario, le squadre più popolari del mondo sarebbero nell'ordine: Manchester United, Real Madrid, Ajax, Barcellona, Milan, Juventus, Galatasaray, Feyenoord, PSV Eindhoven, Roma, Arsenal, Bayern, Anderlecht, Benfica, Fenerbahce, Lazio, Inter.
Più affidabile un'indagine dell'AC Nielsen del 2001 sull'atteggiamento degli italiani verso il calcio (tab. 3). Secondo la Nielsen la Juventus sarebbe la squadra con il maggior numero di tifosi in Piemonte, Veneto, Trentino, Marche, Abruzzo-Molise, Puglia, Basilicata e Sicilia, e dividerebbe il primato con il Genoa in Liguria e con il Bologna in Emilia-Romagna. L'Inter è al primo posto in Lombardia, l'Udinese in Friuli, la Fiorentina in Toscana, la Roma nel Lazio, il Napoli in Campania, il Cagliari in Sardegna, la Reggina in Calabria, il Milan e il Perugia in Umbria. Tuttavia i sondaggi svolti da tre differenti agenzie sulla distribuzione dei tifosi fra le varie società italiane danno conclusioni molto diverse (tab. 4).
Tabella 3
Tabella 4
Il tifo organizzato prende forma tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta. Il gruppo ultrà più antico è la Fossa dei Leoni del Milan, fondato nel 1968, che adotta il nome del vecchio campo d'allenamento dei rossoneri. Nel 1969 nascono anche gli Ultras Tito Cucchiaroni della Sampdoria (primi a usare la denominazione 'Ultras') e, subito dopo, gli storici Moschettieri che tifavano per l'Inter di Helenio Herrera, i Boys dell'Inter, seguiti qualche anno dopo dagli Ultras neroazzurri. Nascono poi la Fossa Ultrà Cagliari (1970), le Brigate Gialloblu del Verona e, dal nome della piazza in cui si raduna, il Viola Club Vieusseux della Fiorentina (1971); e ancora gli Ultras del Napoli (1972), le Brigate Rossonere del Milan, la Fossa dei Grifoni del Genoa e gli Ultras Granata del Torino (1973), i Forever Ultras del Bologna (1974). Nel 1976 compaiono i duri delle Brigate neroazzurre dell'Atalanta, che avranno sempre rapporti conflittuali con le forze dell'ordine, e gli Ultras del Bari, il cui emblema è un teschio alato in campo biancorosso. I tifosi della Roma occupano la Curva Sud, quelli del Brescia prendono il nome di Commando Ultrà Curva Nord. La Juventus ha due sigle di tradizione anglofona: i Drughi (dal film Arancia Meccanica di Stanley Kubrick) e i Viking, che daranno poi vita ai Fighters. Diversi altri gruppi, hanno una forte colorazione politica: di destra quella degli Irriducibili della Lazio, mentre altri hanno matrice comunista e anarchica.
di Gigi Garanzini
La storia del calcio è costellata da numerose tragedie, alcune dovute alla violenza dei tifosi, altre al cedimento di stadi fatiscenti o sovraccarichi rispetto alle capacità strutturali. La serie si apre all'inizio del 20° secolo con due incidenti di quest'ultimo tipo. All'Ibrox Park di Glasgow il 5 aprile 1902, durante la partita Scozia-Inghilterra, il crollo di una tribuna causa 25 morti e ben 517 feriti. Non ci sono, invece, vittime nel 1914 nello stadio di Sheffield, quando la caduta di un muro travolge 75 persone. In molti casi all'origine di tragedie di questo genere sono la vendita di un numero di biglietti eccessivo rispetto alla capienza dell'impianto, oppure gli scontri fra polizia e tifosi, o ancora il tentativo della folla di forzare gli ingressi.
In assoluto il maggior numero di vittime si registra il 20 ottobre 1982 allo Stadio Lenin di Mosca, in occasione della partita di coppa UEFA fra lo Spartak e gli olandesi dello Haarlem: alla fine dell'incontro una parte degli spettatori, già uscita, cerca di rientrare nello stadio, dopo un gol in extremis, e nella situazione di caos e di panico che viene a crearsi muoiono schiacciate o soffocate 340 persone, i feriti sono più di un migliaio. Di poco inferiore il tragico bilancio di Perù-Argentina a Lima, il 25 maggio 1964: l'arbitro annulla un gol al Perù, mentre la partita si avvia alla fine; scoppiano tumulti fra i tifosi; molti cercano di entrare in campo, contrastati da polizia ed esercito; i morti sono 318, oltre mille i feriti. Nel 1971 luogo della disgrazia è nuovamente l'Ibrox Park di Glasgow, dove migliaia di tifosi premono sui cancelli d'ingresso e 66 vengono calpestati a morte. Nel 1985 a Bradford l'incendio di una tribuna in legno provoca 56 vittime. Nel 1988 a Katmandu nel corso della partita Nepal-Bangla Desh muoiono 93 persone. Nel 1989 a Sheffield, durante Liverpool-Nottingham, una fiumana di tifosi senza biglietto tenta di forzare gli ingressi e nella calca 96 persone restano schiacciate contro le recinzioni. La tragedia di Guatemala City nel 1996 (84 morti) è causata dal panico. Due gravi episodi si verificano nel 2001 in Africa: in aprile, tifosi senza biglietto trasformano in una bolgia l'Ellis Park di Johannesburg, causando 47 vittime; ancora più grave è quanto accade nel maggio ad Accra, la capitale del Ghana, dove i lacrimogeni sparati dalla polizia per sedare tafferugli nati sugli spalti portano gli spettatori a fuggire in massa (126 i morti, calpestati dalla folla). In alcune occasioni la colpa degli incidenti è di chi dovrebbe mantenere l'ordine. Così per esempio nel 1990 a Mogadiscio le guardie del presidente Siad Barre reagiscono in modo spropositato alle intemperanze del pubblico e negli scontri muoiono 62 persone.
Una delle tragedie più agghiaccianti, emblematica delle terribili conseguenze a cui può portare il tifo quando degenera in violenza, è la morte per schiacciamento di 39 tifosi, in gran parte italiani, all'Heysel di Bruxelles prima di Juventus-Liverpool, finale della Coppa dei Campioni del 1985. Una massa di hooligans (il termine proviene dal nome di una famiglia irlandese dell'Ottocento, che aveva fama di attaccabrighe) ubriachi invade la tribuna dove siedono gli italiani e provoca il crollo di una transenna. Si gioca lo stesso per evitare ulteriori scontri. I club inglesi vengono per alcuni anni estromessi dalle competizioni internazionali, fino a quando non avranno messo a freno i loro tifosi. Il governo Thatcher affronta il problema con estrema serietà, promulgando leggi molto severe e promuovendo un attento lavoro d'intelligence di Scotland Yard per infiltrare agenti nelle bande di teppisti e identificarne i capi. Con questi provvedimenti l'Inghilterra arriva a ripulire i suoi stadi, anche se quando vanno in trasferta fuori dal paese gli hooligans continuano a creare guai, come accade in Francia nel 1998, in occasione dei Mondiali, o in Turchia nel 2000, quando in una gigantesca rissa muoiono accoltellati due ragazzi inglesi. Dopo gli inglesi i tifosi più violenti, quando superano i confini, sono gli olandesi e i tedeschi.
In Italia la violenza del tifo calcistico ha causato alcune tragedie che fanno testo. La prima si verifica il 28 ottobre 1979 all'Olimpico di Roma: un'ora prima dell'inizio del derby il tifoso laziale Vincenzo Paparelli viene colpito da un razzo nautico lanciato ad altezza d'uomo dalla curva romanista verso quella laziale. Per l'uccisione di Paparelli viene condannato, per omicidio 'preterintenzionale', un gruppetto di teppisti. Durante il processo emergono particolari inquietanti: l'imputato Giovanni Fiorillo, ultrà romanista, autore del tragico lancio, rivela di aver comprato il razzo da segnalazione nautica senza che gli venisse chiesto alcun documento di riconoscimento e di aver introdotto all'Olimpico il tubo di lancio dell'ordigno, lungo più di un metro, e la carica del razzo, smontati, senza aver avuto problemi con la Polizia. Questa infatti non perquisiva gli ultras e permetteva loro, con la scusa degli striscioni da fissare e della coreografia da allestire, di entrare nello stadio molto prima dell'inizio della partita e di gestire depositi all'interno dell'impianto. Il caso Paparelli desta grande scalpore ma, passato lo sdegno del primo momento, non vi è un seguito istituzionalmente adeguato. Eppure, all'epoca, quando le frange eversive non si erano ancora impadronite delle curve degli stadi e non era ancora nato il razzismo calcistico, per sradicare la malapianta sarebbe bastato molto meno di oggi.
Altri episodi mortali si verificarono nel 1984, nel 1988 e nel 1989. Particolare scalpore suscitò la tragedia avvenuta a Genova il 29 gennaio 1995: vicino allo stadio di Marassi un giovane tifoso genoano, Vincenzo Claudio Spagnolo, viene ucciso a coltellate da un ultrà del Milan, Simone Barbaglia, fiancheggiato da un gruppo di suoi compagni altrettanto violenti. La domenica successiva, il 5 febbraio, il mondo del pallone decreta una giornata di sciopero contro la violenza. Sarebbe l'occasione perfetta per emanare una normativa contro il teppismo ma al Parlamento i capigruppo dei partiti non si accordano su un disegno di legge unitario da approvare con procedura di urgenza. Il 24 gennaio 1996 Barbaglia è condannato a 11 anni e 4 mesi, ma poi la Corte d'Appello annulla la sentenza perché era stata dimenticata l'aggravante dei futili motivi (una partita di calcio) alla base dell'omicidio e l'ultrà milanista esce dal carcere per decorrenza dei termini della carcerazione preventiva. La sentenza definitiva, convalidata dalla prima sezione penale della Cassazione il 26 ottobre 2001, condanna Barbaglia a 16 anni e sei mesi; secondo il verdetto Barbaglia ha agito "per estrema sudditanza verso il suo gruppo di ultras".
Sull'onda dello sdegno suscitato dagli incidenti di Genova il governo Prodi si fa promotore di diverse iniziative antiviolenza. Nel 1998 viene presentato il disegno di legge Veltroni-Napolitano-Flick ‒ a firma del vicepresidente del Consiglio, del ministro dell'Interno e del guardasigilli dell'epoca ‒ che prevede l'arresto in flagranza di reato, lo specifico reato di lancio di oggetti in campo e una serie di aggravanti per chi crei tensione e violenza allo stadio. Il disegno non viene convertito in legge ma confluisce in un "Testo unificato recante norme in materia di fenomeni di violenza in occasione di manifestazioni sportive", passato all'esame della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati nel 1999. Ancora una volta a riproporre al Parlamento l'urgenza di specifiche misure è un incidente mortale: il 24 maggio, presso la stazione di Nocera Inferiore, lo scoppio di un fumogeno fa divampare un incendio sul treno speciale che riconduce a casa i tifosi della Salernitana, dopo una partita con il Piacenza, e quattro giovani muoiono carbonizzati. Tuttavia anche questo disegno non viene convertito in legge e decade con la fine della legislatura nella primavera del 2001.
Il 2 luglio 2001 muore, dopo un'agonia di 15 giorni, il giovane Antonino Currò di 24 anni, colpito al volto da un razzo lanciato dal settore dei tifosi avversari del Catania durante la partita di ritorno dei playoff di serie C1 fra Messina e Catania. Viene arrestato un ultrà diciassettenne del Messina, poi rilasciato per mancanza di prove. La tragedia convince il governo Berlusconi e il Parlamento della necessità di varare una legge specifica contro la violenza nel calcio prima della ripresa del Campionato. Un decreto legge contro il teppismo negli stadi viene emanato il 20 agosto e rimane in vigore, dando buoni frutti, fino alla metà di ottobre. Il 17 ottobre viene convertito in legge, ma durante il dibattito in Parlamento una serie di emendamenti ne hanno attenuato la severità. In particolare è prevista la possibilità di commutare in sanzioni pecuniarie le pene detentive ed è sostituita con il "fermo nelle 48 ore, previa autorizzazione del magistrato", la "flagranza di reato allargata", che consentiva di procedere all'arresto nei due giorni successivi gli episodi di violenza, sulla base di prove televisive.
Tabella 1
Tabella 1
di Gigi Garanzini
Oltre alle tragedie legate alla degenerazione in violenza della tifoseria o al cedimento delle strutture degli stadi, la storia del calcio ha conosciuto altri drammatici episodi che hanno comportato la perdita simultanea di numerosi suoi esponenti. Alle 26 persone, tra tecnici e giocatori della squadra sudanese dell'Al Nasr, scomparse in un naufragio sul Nilo Azzurro nel giugno del 1995, si aggiungono le vittime di diverse sciagure aeree. Da ricordare, in particolare, quella del 27 aprile 1993, avvenuta in Gabon, nella quale insieme ad altre nove persone vennero a mancare 17 giocatori della nazionale dello Zambia, e l'incidente all'aeroporto di Monaco di Baviera del 6 febbraio 1958, nel quale morirono otto giocatori del Manchester United, reduci da una partita di Coppa dei Campioni a Belgrado. Ma certamente la tragedia che rimane più viva nel ricordo degli italiani è quella avvenuta la sera del 4 maggio 1949 presso la basilica di Superga, nella quale fu annientato il Grande Torino.
La sera precedente i granata avevano giocato sul campo del Benfica, per onorare l'addio al calcio di Ferreira, amico di Valentino Mazzola. Il presidente Novo era contrario a quella trasferta e non vi aveva preso parte: mancavano quattro giornate alla fine del Campionato e i cinque punti di margine sull'Inter erano rassicuranti ma non davano la certezza matematica della vittoria. Il piano di volo prevedeva l'arrivo alla Malpensa, ma all'improvviso, per ragioni mai chiarite, il trimotore I Elce, un G-212, fece rotta direttamente su Torino, nonostante sulla città le condizioni meteorologiche fossero pessime, con nuvolosità intensa, raffiche di pioggia e visibilità scarsa. Lo schianto contro il basamento della basilica avvenne alle 17.05, quasi certamente dovuto a un guasto all'altimetro. Morirono 31 persone: i giocatori Valerio Bacigalupo, Aldo Ballarin, Dino Ballarin, Emile Bongiorni, Eusebio Castigliano, Rubens Fadini, Guglielmo Gabetto, Roger Grava, Giuseppe Grezar, Ezio Loik, Virgilio Maroso, Danilo Martelli, Valentino Mazzola, Romeo Menti, Pierino Operto, Franco Ossola, Mario Rigamonti, Julius Schubert; i tecnici Egri Erbstein e Leslie Lievesley; il massaggiatore Ottavio Cortina; i dirigenti Rinaldo Agnisetta, Andrea Bonaiuti e Ippolito Civalleri; i giornalisti Renato Casalbore, Luigi Cavallero, Renato Tosatti; e i quattro membri dell'equipaggio.
Anche se l'eco della notizia si diffuse rapidamente in Italia e nel mondo, non tutti in città ne furono subito al corrente. Sauro Tomà, l'unico giocatore granata rimasto a Torino per infortunio, seppe della tragedia dal lattaio sotto casa, mentre rientrava da una seduta di fisioterapia. A Giorgio Tosatti, figlio undicenne di Renato, la notizia fu brutalmente comunicata da un usciere della sede della Gazzetta del Popolo dove si era recato ad aspettare il padre.
Dopo il riconoscimento, del quale furono incaricati il segretario granata Igino Giusti e il commissario tecnico della nazionale Vittorio Pozzo, e la pietosa ricomposizione, le salme furono portate a Palazzo Madama. Due giorni più tardi una folla immensa, probabilmente superiore al mezzo milione di persone, prese parte al funerale. Tutta Torino era schierata al passaggio del corteo, le case erano deserte, in città dalla sera prima non si trovava più un fiore. La radiocronaca della cerimonia fu trasmessa in diretta, con il commento fra gli altri di Nicolò Carosio e di Sergio Zavoli. I giovani del Filadelfia, che per due giorni e due notti avevano vegliato i campioni scomparsi, nove giorni più tardi andarono in campo al loro posto contro il Genoa, che schierò la sua formazione giovanile, imitato poi dalle rimanenti avversarie. Vinsero, in uno stadio gremito di folla commossa, e la domenica successiva divennero, a loro volta, campioni d'Italia, in nome e per conto della grande squadra che non c'era più.
di Franco Ordine
"Il Direttorio federale conferma le precedenti decisioni e squalifica a vita Luigi Allemandi, della cui colpevolezza è stata pienamente raggiunta la prova; richiama il giocatore Munerati a una più esatta comprensione dei suoi doveri in quanto un calciatore tesserato non può accettare doni di qualsiasi entità o natura da iscritti ad altre società; deplora e proibisce il malcostume delle scommesse anche di lieve cifra, specie quelle tenute contro le sorti dei propri colori e ammonisce il calciatore Pastore, lieto di constatare come l'episodio che ha dato luogo alle accennate sanzioni sia circoscritto a un solo giocatore e non possa quindi gettare ombra né onta sulla grande massa dei calciatori italiani". Conservato da un solerte funzionario dell'epoca, questo documento, datato 21 novembre 1927 e pubblicato a Bologna, sede della rudimentale organizzazione allora al governo del Campionato, rappresenta in Italia la prima sentenza disciplinare di qualche rilievo riguardante il calcio. La vicenda dello scudetto del 1927, revocato al Torino e non assegnato, costituisce il primo della lunga serie degli scandali legati al mondo del pallone: un dirigente granata, Nani, per il tramite di uno studente d'ingegneria, Giovanni Gaudioso, promise allo juventino Allemandi un premio di 50.000 lire in cambio di un comportamento che favorisse il successo del Torino. A sconfitta juventina avvenuta, il difensore bianconero reclamò il pagamento della seconda rata nel corso di un concitato colloquio in una pensione torinese di piazza Madonna degli Angeli. Tra i clienti dell'albergo c'era un giornalista romano, Ferminelli, che ascoltò la conversazione e denunciò il fatto su un paio di quotidiani. La conseguenza fu inevitabile: indagine della Federcalcio affidata al segretario dell'epoca, Giuseppe Zanetti, piena confessione degli interessati, Nani e Gaudioso, e condanna. Dei clamorosi provvedimenti previsti, però, restò in vigore solo la revoca al Torino del titolo di campione d'Italia (nonostante i successivi tentativi di ottenerne l'assegnazione 'postuma'), mentre Allemandi venne 'graziato' dopo meno di un anno e nel 1934 vinse addirittura i Mondiali.
Gli scandali, nel mondo del calcio, sono spesso legati all'intervento di 'faccendieri' particolarmente accorti nell'individuare giocatori o dirigenti cui proporre eventuali accordi per 'aggiustare' l'una o l'altra partita. Nel dopoguerra, divenne famoso uno di questi personaggi, Eugenio Gaggiotti, detto 'Gegio', che, intervistato da Indro Montanelli, raccontò i propri commerci in modo del tutto generico, fornendo un unico dato concreto: il numero presunto delle partite da lui 'truccate', ben 64. Nel corso del Campionato 1947-48, suscitò scalpore un episodio scoperto grazie a una lettera anonima, che parlava di un incontro fra Luigi Ganelli, mezzala del Napoli, e Bruno Arcari, interno del Bologna, prossimi a imparentarsi (il secondo stava per sposare la sorella della moglie del primo), incontro avvenuto ai primi di giugno del 1948, nell'imminenza della partita Bologna-Napoli. La sfida era decisiva per la squadra campana, che rischiava la retrocessione, e il fatto che al tavolo dei due giocatori sedessero anche il presidente del Napoli Muscariello, l'ex calciatore Paolo Innocenti e il direttore tecnico del Bologna Hermann Felsner, convinse gli inquirenti che non si trattava di un 'convegno familiare': il Napoli fu retrocesso all'ultimo posto della serie A, Ganelli, Muscariello e Innocenti vennero squalificati a vita, Arcari per tre mesi, Sauro Taiti per due e Gino Cappello per uno.
Proprio per far fronte al fenomeno della corruzione, negli anni Cinquanta la FIGC affidò il compito di allestire una Commissione di controllo, poi ribattezzata Ufficio inchieste, ad Alberto Rognoni, un conte di Cesena. Fondatore della locale società di calcio, grande appassionato e profondo conoscitore del mondo del pallone, Rognoni assolse al suo impegno nell'Ufficio inchieste con determinazione leggendaria, ricorrendo perfino a travestimenti (da frate o da carabiniere, per esempio) per farsi rilasciare confessioni o per pedinare qualche tesserato senza essere riconosciuto. Basterà qui ricordare solo alcuni episodi della sua carriera di inquisitore. Nel 1955 l'Udinese, protagonista del suo miglior Campionato in serie A (era al secondo posto dietro al Milan), scontò duramente un illecito commesso due anni prima: il 31 maggio 1953, a Busto Arsizio, durante l'intervallo della partita Pro Patria-Udinese, sul risultato di 2-0, un emissario dei friulani convinse la squadra di casa a non infierire sugli ospiti in cambio di una somma di circa due milioni. Procuratesi le prove dell'accordo, Rognoni punì l'Udinese con la retrocessione in serie B, mentre Guernieri, Mannucci, Uboldi, Fossati e Martini, calciatori della Pro Patria, conclusero la loro carriera. Sempre nel 1955, un altro scandalo venne portato alla luce e sanzionato dall'Ufficio diretto da Rognoni: un assegno di 200.000 lire firmato da Giulio Sterlini, segretario del Catania, e intestato a Salvatore Berardelli, cognato di Ugo Scaramella, arbitro della sezione romana, fece scattare le meticolose indagini di Rognoni. Fu accertato il pagamento a Scaramella di altre somme, tre assegni da 500.000 lire ciascuno, prima di due partite nelle quali era in gioco la salvezza del Catania. L'arbitro romano fu radiato, il club siciliano venne retrocesso in serie B.
Nonostante la frenetica attività di Rognoni, gli episodi di corruzione divennero sempre più frequenti. Nel 1958, l'indagine su una presunta combine in occasione della partita Padova-Atalanta, pur concludendosi con l'assoluzione da parte della CAF, ebbe vasta eco in quanto coinvolgeva un personaggio noto alle cronache, Eugenio Gaggiotti, e Silveira Marchesini, fidanzata del calciatore del Padova Giovanni Azzin. Nel 1960 il centravanti Gino Cappello, già punito con due mesi di squalifica 12 anni prima, venne radiato. L'Ufficio inchieste dimostrò infatti che, prima della partita Genoa-Atalanta del 17 aprile, finita 2-1 per i bergamaschi, Cappello si era recato a Bergamo per incontrare Cattozzo, suo ex compagno nel Bologna, e offrirgli un milione di lire in cambio del successo sicuro. Il Genoa, retrocesso per responsabilità oggettiva, dovette scontare la punizione anche l'anno successivo, con 10 punti di penalizzazione in serie B. Nel 1961, furono intercettati alcuni colloqui telefonici fra Tagnin, mediano del Bari, e Prini, ala della Lazio. Prini in un primo momento accettò di favorire, in cambio di due milioni, il successo all'Olimpico della squadra pugliese, che in questo modo avrebbe evitato la retrocessione, ma poi disdisse l'impegno. Secondo gli inquirenti, la partita fu regolare, ma il comportamento dei tesserati era censurabile. Tagnin fu squalificato per un anno. La sua carriera peraltro non ne risulterà danneggiata: al termine della squalifica sarà reclutato dall'Inter di Moratti e Allodi e parteciperà alla finale di Coppa dei Campioni a Vienna contro il Real Madrid.
Quando Rognoni lasciò l'Ufficio inchieste per diventare opinionista del Guerin Sportivo, l'incarico di sorvegliare sul regolare svolgimento dei campionati fu affidato a un magistrato fiorentino, Corrado De Biase, amico personale di Artemio Franchi, grande dirigente del calcio italiano. Tra le vicende di corruzione di quel periodo si possono ricordare quella legata alla partita Atalanta-Sampdoria, durante la stagione 1972-73, che vide protagonisti l'ex allenatore bergamasco Paolo Tabanelli e il dirigente Franco Previtali e quella, nella fase finale del torneo di serie A del 1973-74, in cui furono coinvolti Foggia e Verona. I pugliesi scontarono con la retrocessione la leggerezza di un funzionario, che aveva consegnato all'arbitro fiorentino Menicucci un orologio d'oro prima dell'incontro Foggia-Milan (finito 0-0). La squadra veneta fu punita nello stesso modo dopo che Romolo Acampora, inviato de Il Mattino, fornì agli inquirenti la prova di un colloquio telefonico intercorso, subito prima della partita Verona-Napoli, tra il presidente del Verona Garonzi e il suo ex centravanti Clerici, passato al Napoli. Ne trasse vantaggio la Sampdoria che, retrocessa sul campo, fu riqualificata dalla CAF.
Nel marzo 1980 scoppiò lo scandalo del calcio-scommesse, legato all'organizzazione di un giro di scommesse clandestine da parte di un commerciante di frutta romano, Massimo Cruciani, e di Alvaro Trinca, proprietario di un ristorante della capitale, 'La Lampara', frequentato da alcuni calciatori laziali. Cruciani e Trinca offrivano compensi a tesserati in cambio di notizie su risultati sicuri su cui scommettere cifre ragguardevoli, ma l'inganno non sempre riusciva e i due finirono per accumulare debiti per quasi 200 milioni. La pubblicazione in esclusiva sul Corriere dello Sport di un memoriale firmato da Cruciani e Trinca sollevò il velo sull'organizzazione. Le accuse sarebbero poi state confermate dal centrocampista della Lazio Montesi, in un'intervista a la Repubblica. Seguì l'intervento delle forze dell'ordine: il 23 marzo a Pescara, all'Olimpico, a San Siro e in altri stadi di serie B, le forze dell'ordine fecero irruzione negli spogliatoi, arrestarono e accompagnarono nel carcere romano di Regina Coeli i calciatori Giordano, Wilson, Manfredonia e Cacciatori della Lazio, Albertosi e Giorgio Morini del Milan, Della Martira, Zecchini e Casarsa del Perugia, Stefano Pellegrini dell'Avellino, Magherini del Palermo, Merlo del Lecce e Girardi del Genoa. Altri giocatori molto noti furono convocati dagli inquirenti per accertamenti: tra loro Paolo Rossi, Giuseppe Dossena, Giuseppe Savoldi e Oscar Damiani. Anche un dirigente, Felice Colombo, presidente del Milan, risultò coinvolto, mentre Trinca, dopo un'ennesima ritrattazione, fu arrestato con l'accusa di truffa. L'inchiesta della magistratura ordinaria si concluse nel dicembre 1980 con un verdetto di proscioglimento: tutti i giocatori furono assolti per non sussistenza del fatto (per trasformare la scommessa clandestina in reato occorreva una legge apposita) e il solo Cruciani fu condannato a una pena pecuniaria. In parallelo a quella giudiziaria fu condotta l'inchiesta delle autorità sportive, che alla fine sanzionarono la retrocessione in serie B del Milan per responsabilità diretta e della Lazio per responsabilità oggettiva, la radiazione per Felice Colombo, la squalifica per un anno del presidente del Bologna, Tommaso Fabbretti, e diversi periodi di squalifica per 21 calciatori (6 anni per Pellegrini; 5 anni per Cacciatori e Della Martira; 4 anni per Albertosi; 3 anni e mezzo per Petrini, Savoldi, Giordano, Manfredonia e Magherini; 3 anni per Wilson, Zecchini e Massimelli; 2 anni per Rossi; 1 anno e 2 mesi per Cordova; 1 anno per Morini e Merlo; 6 mesi per Chiodi; 5 mesi per Negrisolo; 4 mesi per Montesi; 3 mesi per Colomba e Damiani). La vicenda, comunque, provocò un grande sconvolgimento nel mondo del calcio italiano. Gli stadi si svuotarono, i particolari raccontati da giornali e televisione tolsero credibilità a risultati e vicende agonistiche, una grande società come il Milan subì una profonda crisi di immagine. Sembrava l'inizio di un inevitabile declino dello sport più popolare in Italia, che invece vivrà di lì a poco una memorabile stagione con la conquista del titolo mondiale in Spagna, nel 1982, da parte della nazionale guidata da Enzo Bearzot.
Un nuovo caso di scommesse clandestine su partite di calcio venne scoperto nel 1986 da un magistrato torinese, Marabotto, che avviò le sue indagini in seguito a un'intercettazione telefonica. L'inchiesta coinvolse un faccendiere napoletano, Armando Carbone, e un gruppetto di calciatori dai modesti guadagni e di manager privi di scrupoli. Il Perugia, già retrocesso in C1 per i risultati conseguiti in campo, fu mandato in serie C2. Subirono sanzioni anche Lazio, Udinese, Lanerossi Vicenza, Cagliari, Palermo, Triestina, Foggia e Cavese. Ulivieri, Agroppi, Rozzi, Vinazzani, Cerilli, Vavassori, Chinellato, Cagni e Claudio Pellegrini furono squalificati.
Gli illeciti non sono però esclusivi del calcio italiano. In Francia, suscitò enorme scalpore, nell'autunno del 1990, la scoperta di un traffico che aveva per protagonista Jean-Claude Darmon, accusato di finanziare in nero alcuni club francesi attraverso una serie di società-schermo. Nell'inchiesta, condotta da un magistrato appassionato di calcio, Jean-Pierre Zanoto, risultarono coinvolti Bordeaux, Nantes, Nizza, Paris St.-Germain e, marginalmente, anche l'Olympique Marsiglia di Bernard Tapie. Nel 1993 lo stesso Tapie fu riconosciuto responsabile di un caso di corruzione relativo alla partita Valenciennes-Marsiglia: il calciatore sotto accusa, Robert, dopo l'arresto, confessò e il Marsiglia, vincitore della Coppa dei Campioni sul Milan a Monaco di Baviera, fu punito anche dall'UEFA e non potè disputare Supercoppa Europea e Coppa Intercontinentale.
Un giro di scommesse clandestine emerse anche in Inghilterra, nel 1995: la centrale era a Bangkok e Singapore, ma furono dimostrati legami con i risultati di partite disputate da Manchester United e Liverpool. Il portiere del Liverpool vincitore della Coppa dei Campioni contro la Roma nel 1984, Bruce Grobbelaar, originario dello Zimbabwe, fu arrestato. In precedenza, altri esponenti del mondo del calcio inglese avevano avuto problemi con la giustizia: George Graham nel 1992 per aver intascato una tangente di un miliardo per l'acquisto di due giocatori, Mickey Thomas per spaccio di banconote false, Peter Storey dell'Arsenal per importazione di pornovideo.
L'ultimo scandalo che ha coinvolto il calcio italiano riguarda i passaporti dei giocatori stranieri. Nell'aprile 2000, i quotidiani italiani pubblicano, con molto rilievo, la notizia di un'inchiesta, avviata dalla Procura della Repubblica di Roma, sulla documentazione in base alla quale il calciatore argentino Juan Sebastian Verón ha ottenuto nel settembre 1999 la cittadinanza italiana. La magistratura mette in dubbio che il certificato di nascita di un antenato di Verón (Giuseppe Antonio Porcella, nato nel 1870 nel comune di Fagnano Castello, in provincia di Cosenza, e poi emigrato in Argentina) sia autentico. Dal punto di vista dei regolamenti la notizia ha importanza in quanto la cittadinanza è presupposto indispensabile per poter considerare il centrocampista nel gruppo degli stranieri comunitari, poiché, per gli extracomunitari, è previsto un tetto massimo di cinque in rosa e tre in campo.
Il caso 'passaporti puliti' esplode però in occasione di una trasferta dell'Udinese in Polonia per un incontro di Coppa UEFA: alla frontiera un doganiere solerte scopre che i passaporti di due brasiliani del club friulano, Silva dos Santos Warley e Alberto Do Carmo, sono falsi. Interviene anche la magistratura di Udine e lo scandalo si allarga a macchia d'olio. Il vice-presidente vicario del Milan, Adriano Galliani, allarmato dalla pubblicazione sulla Gazzetta dello Sport della notizia relativa alla firma falsa sui passaporti portoghesi dei due brasiliani dell'Udinese, consegna il documento del portiere Dida al Questore di Milano, dubitando della sua validità. Alvaro Recoba, uruguayano dell'Inter, viene convocato a Udine in Procura e si presenta con un documento dal quale risulta residente a Roma ma che si rivela falso, come la patente: il calciatore è costretto a tornare in patria per munirsi di regolare passaporto. Tra il settembre 2000 e il gennaio 2001 sono resi noti altri episodi, più o meno sconcertanti e pittoreschi. La giustizia sportiva, assediata da ricorsi alla Corte federale e minacce di chiamare in causa la giustizia ordinaria, procede faticosamente ai due gradi di giudizio e, nel luglio, giunge a una soluzione di compromesso: un periodo di squalifica per i calciatori scoperti in flagranza, ammende alle società. Le più coinvolte, Inter, Udinese e Vicenza, riescono comunque a evitare la penalizzazione reclamata da Napoli e Reggina; in sospeso resta l'accertamento sui numerosi extracomunitari della Roma. Nel processo sportivo del caso che ha dato inizio all'inchiesta, Verón e la Lazio vengono assolti.