CALCO (fr. calque; sp. calco; ted. Wachsabdruck; ingl. cast)
È l'impronta di una scultura, e, in genere, di ogni lavoro in rilievo, ricavata con cera, terra molle, gesso o altro, per trarre dalla forma così ottenuta copie dell'oggetto originale (sulla tecnica del calco, v.forma).
Il calco nell'arte antica. - Quattro sono le testimonianze letterarie dell'esistenza di calchi di statue presso gli antichi. La più chiara ed esplicita è quella di un passo di Luciano (Iupp. trag. 33, e commento antico relativo), nel quale si fa comparire la statua in bronzo di Hermes esposta nel Pecile, coperta dalla pece, della quale si servivano per prenderne l'impronta. Un passo di Plinio (Nat. Hist., XXX, 151) attribuisce a Lisistrato, vissuto nella seconda metà del sec. IV a. C., l'introduzione dell'uso di prendere il calco di statue già esistenti. A questa asserzione non contraddice la notizia di Plutarco (De sollertia animalium, p. 984), che Soteles e Dionisio inriati dal re d'Egitto, Tolomeo I Sotere, a Sinope sulle coste del Mar Nero per portarne la statua di Plutone e di Kore, sbattuti dalla tempesta e poi guidati da un delfino a Cirra, porto di Delfi, portarono con sé la sola statua di Plutone, lasciando sul posto quella di Kore, dopo averne preso il calco. Quanto infine avesse preso piede quest'uso in età romana, lo dimostra un passo di Giovenale (Sat., I, 2, 4), nel quale si parla di gessi, dappertutto diffusi, del ritratto di Crisippo. Non altrettanto chiare sono purtroppo le testimonianze archeologiche. L'unico esempio incontrovertibile di due statue in bronzo plasmate con l'aiuto della stessa forma (o per mezzo di forme calcate dallo stesso stampo) è dato dalle due statue dì giovani lottatori nudi, conservati nel Museo Nazionale di Napoli. Però anche qui le parti più difficili a calcare, a causa dei numerosi sottosquadri, come i piedi, le mani e soprattutto i capelli, furono modellate a mano libera. Un'altra prova indiretta dell'esistenza di calchi è data dalle forme di stucco rinvenute a Saqqarāh e a Menfi, datate nei primi due secoli dell'era cristiana, e destinate alle forme in cera dalle quali si ricavavano le singole copie in bronzo. Queste forme di stucco servivano per piccoli oggetti di arte industriale; e infatti l'esame di tali oggetti, come le anse e i piedi di ciste e di vasi metallici, che per la loro stessa natura dovevano essere il più possibile identici, pemette di concludere - almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze - che prima dell'età ellenistica la forma veniva volta a volta rifatta (il che può confermare l'attribuzione a Lisistrato o almeno a qualcuno del suo tempo di tale invenzione); che anche dopo di allora il processo di moltiplicazione meccanica di un oggetto di bronzo, sia a tutto tondo sia a rilievo, si ritrova assai più raramente di quel che ci si attenderebbe; che quasi sempre le parti a sottosquadra erano escluse dal calco ed eseguite a mano libera; che quasi ignorato era l'uso del calco a sezioni, e infine che quasi sempre il calco serviva appena per la forma approssimativa dell'oggetto rappresentato, poiché questo veniva poi rifinito con più o meno abile e accurato lavoro di cesello. Quest'ultima osservazione ci aiuta a spiegare la rarità dei calchi, che ha poi la sua ultima radice nella ripugnanza degli antichi verso ogni processo di moltiplicazione meccanica: il lavoro di rifinitura, che dava solo esso l'impronta artistica all'opera d'arte copiata, era sì lungo e delicato, che il calco era di scarso aiuto. Queste conclusioni negative rendono sempre più problematica la speranza di ricavare dalle molte decine di migliaia di copie romane in marmo, e dalle poche decine di copie in bronzo, gli originali greci perduti, che sarebbero stati trasmessi attraverso modelli di gesso, presi dai modelli originarî d'argilla (v. copia). E infatti, ogniqualvolta un confronto minuto e preciso è possibile, sempre si trova che esistono varianti sia pur minime e involontarie fra due copie in marmo e una copia in marmo e una in bronzo. E forse solo particolari tecnici ci permetteranno un giorno di distinguere se un bronzo è stato fuso da una forma originale o da un calco.
Il calco nell'arte medievale e moderna. - Nel Medioevo non si perdette interamente la pratica del formare e di trarre calchi almeno per piccoli oggetti - come i segnacoli di piombo per i pellegrini e per i mercanti - non disgiunta da quella dell'improntare ch'è attestata dagli ornamenti e dai rilievi figurati ripetuti in modo uniforme nelle porte bronzee di Barisano di Trani (v.). Poi divenne più comune e complessa, se il Cennini (secoli XIV-XV) descrive come trarre forme dal vivo, e dall'intero corpo umano, e farne calchi: uso frequente per le maschere funerarie e per figure, o parti di membra, destinate a ex voto. Già nel Quattrocento fu adoperata largamente per riprodurre opere d'arte: le moltiplicò in modo economico dando sovente originalità ai suoi prodotti mediante la policromia, così che non hanno piccolo pregio, pur a paragone degli originali di Donatello, di Desiderio da Settignano, del Rossellino, i loro calchi in stucco o in cartapesta vivamente colorati, e non di rado con varianti di ornamenti e di particolari che facilmente s'introducevano in tal genere di lavoro. Gli artisti si procurarono calchi delle sculture preferite, specialmente antiche, ma senza escludere le contemporanee (il Ghiberti rammenta di aver veduto moltissime figure formate dalle opere del misterioso scultore nordico Gusmin); e nei loro inventarî, allora, come poi sempre, ne è frequente il ricordo.
Nel Cinquecento, e in seguito, la ricerca degli amatori d'arte e degli artisti promosse ognor più la produzione di calchi, sia in gesso sia in bronzo. Per Francesco I il Vignola e altri trassero forme dal Laocoonte, dal cavallo del Marco Aurelio, dalla colonna Traiana e da altri celebri marmi di Roma (mentre si riproducevano anche la Pietà e il Cristo della Minerva, di Michelangelo): in parte il Primaticcio le gettò in bronzo per la galleria di Fontainebleau, e alcuni di quei calchi sono ancora nel museo del Louvre, e mostrano l'uso di varianti e di ritocchi per correggere i guasti delle forme o della fusione. Per Filippo IV il Velázquez procurò da Roma forme, gessi, bronzi gettati dall'antico, e il Finelli da Napoli. Lo scultore Leone Leoni, ansioso di avere da Parigi le forme adoperate dal Primaticcio, aveva popolato la sua casa milanese di calchi in gesso e in bronzo, tra cui grandeggiava, nel mezzo del cortile, la statua equestre di Marco Aurelio; e nella biblioteca ambrosiana il cardinale Federico Borromeo per gli artisti adunò grandi e rari calchi, ancora conservati in parte.
Sarebbe inutile seguire più oltre l'universale uso dei calchi favorito specialmente dagli studî degli artisti e degli storici. Giova soltanto avvertire che nei tempi più recenti lo studio dei calchi è assai meno consigliato nell'educazione artistica, poiché non bene rivela le qualità degli originali e qualche volta le deforma; d'altra parte, se pur con gli stessi difetti, esso è di grande aiuto alla storia dell'arte, consentendo immediati confronti di opere lontane: e perciò esistono, o si vanno formando, grandi collezioni di calchi - o gipsoteche - in genere ordinate sistematicamente se pur limitate a parziali periodi della storia dell'arte, come quelle del museo del Trocadero, a Parigi, per l'arte medievale e moderna specialmente francese.
Bibl.: E. Plon, Leone Leoni, Parigi 1887, p. 189; L. Dimier, Le Primatice, Parigi 1900, pp. 328-332; E. Pernice, in Österreichische Jahreshefte, VII (1904), pp. 154-180; K. Kluge e K. Lehmann-Hartleben, Die antiken Grossbronzen, Berlino 1927; R. Hallo, Bronzeabgüsse antiker Statuen, in Jahrbuch des deutschen archäologischen Instituts, 1928, pp. 193-99.
Calchi d'iscrizione. - I calchi d'iscrizione sono utilissimi soprattutto quando l'incomoda ubicazione della lapide non permette lo studio accurato ed esauriente dei particolari. Essi sono poi indispensabili se della lapide si vuole avere un'immagine fotografica, giacché non sempre le condizioni di luce (oltre che quelle di ubicazione) permettono di ottenerne una soddisfacente. Per prendere un calco si pulisce accuratamente la pietra, la si bagna, vi si applica un foglio di carta sottile e resistente, sul tipo della carta da filtro, e la si fa aderire alla pietra con l'aiuto di una spugna o di una spazzola, sino a che gl'incavi delle lettere si riproducano sulla carta; indi si attende che l'aria o il sole l'abbiano asciugato e di nuovo indurito. Se la pietra è assai rugosa, si adopera della carta più grossa, come quella adoperata dai macellai.
Bibl.: W. Larfeld, Griechische Epigraphik, 3ª edizione, Monaco 1914, pp. 157-158.