DIFFERENZIALE, CALCOLO
. Lo studio degli enti geometrici e delle leggi che regolano i fenomeni naturali si traducono analiticamente nello studio di determinate funzioni (v. funzione). L'esaminare il modo di comportarsi di tali funzioni, il metterne in rilievo le proprietà essenziali, l'esprimere numericamente certi elementi che ad esse sono connessi, richiedono metodi e strumenti di ricerca che la matematica elementare non pone a nostra disposizione. Questi metodi e questi strumenti sono dati, invece, dal Calcolo infinitesimale (o Analisi infinitesimale). Le concezioni infinitesimali, le cui lontane origini possono farsi risalire alla scuola eleatica, trovano il loro fondamento, da un lato, nella continuità delle grandezze geometriche e nel principio della loro indefinita divisibilità (pienamente accettati e sostenuti da Aristotele), e, dall'altro, nella legge di continuità (che, nel pensiero di Leibniz, regola tutta la natura) secondo cui le cose naturali variano per gradi insensibili, che sfuggono a qualunque misura. Tali concezioni assumono forma di dottrina nel Calcolo differenziale e nel Calcolo integrale, che insieme costituiscono il Calcolo infinitesimale. Nel primo di essi, si apprestano i mezzi analitici necessarî per fissare le condizioni locali delle funzioni, vale a dire, per fissare il comportamento di una determinata curva o superficie nelle vicinanze di un dato punto, oppure il comportamento di un determinato fenomeno in prossimità di un dato istante. Questo scopo viene raggiunto sostituendo, in prossimità del punto o istante considerato, alla funzione data un'altra funzione speciale, estremamente più semplice, la quale ne dà una rappresentazione approssimata di tale natura che l'errore risultante si riduce ad essere piccolo quanto si vuole, sia in senso assoluto, sia in senso relativo, col restringersi indefinito del campo in cui avviene la sostituzione; e ciò che più conta si è che le proprietà della funzione data, che si studiano nel punto considerato, sono fedelmente conservate dalla rappresentazione adottata, la quale, pertanto, per tale studio, può sostituire con tutta esattezza la funzione originaria.
Non è possibile fissare con precisione le origini del calcolo differenziale; tuttavia può affermarsi con sicurezza che il suo sorgere fu preparato dagli studî che si svilupparono, nel sec. XVII, intorno ai problemi della tangente a una curva (Fermat, Descartes, Torricelli, Roberval, Barrow), della velocità di un punto mobile (Torricelli, Roberval), e dei massimi e minimi delle funzioni (Fermat). Vanno indicate in modo speciale le ricerche di Pierie De Fermat sui massimi e minimi (Methodus ad disquirendam maximam et minimam, opera scritta nel 1638 e stampata a Tolosa nel 1679), nelle quali vien data una regola che sostanzialmente non differisce da quella del calcolo differenziale.
Il merito di aver fondato il calcolo differenziale con tutta la sua generalità e di averne messa in evidenza la grande importanza, spetta ad Isacco Newton ed a Goffredo Guglielmo Leibniz.
Newton, in Philosophiae naturalis principia mathematica (Londra 1687), utilizzò il suo metodo delle flussioni, che è una forma di calcolo infinitesimale. Rigettando l'idea che le grandezze geometriche siano costituite di parti infinitamente piccole, egli concepì, invece, tali grandezze come generate da un moto continuo, e, precisamente, le linee come prodotte dal moto continuo di un punto, le superficie dal moto di una linea, e cosi via. Dette fluenti le grandezze generate, chiamò flussioni le velocità con cui esse vengono formate, ed osservò che, considerando intervalli di tempo uguali, ma piccoli quanto si vuole, le flussioni diventano proporzionali agli accrescimenti corrispondenti delle fluenti. Fondandosi, in sostanza, sulla considerazione del limite del rapporto di due quantità evanescenti, insegnò a determinare le flussioni, conosciute che siano le fluenti; e questa parte del suo metodo corrisponde al nostro calcolo differenziale.
Leibniz, in Nova methodus pro maximis et minimis, itemque tangentibus..., pubblicata negli Acta Eruditorum del 1684, espose un metodo generale per trovare i massimi e minimi e per tracciare le tangenti alle curve. Ammesso esplicitamente il principio di continuità, egli procedette, non mediante flussioni di linee, ma per differenze di numeri, introducendo le differenze infinitesimali dx e dy rispettivamente fra le coordinate x ed y di due punti vicinissimi di una curva. Ciò che noi ora chiamiamo derivata non è altro che il rapporto dy/dx di Leibniz, e corrisponde alla flussione di Newton. L'elemento fondamentale del metodo di Leibniz è secondo una locuzione adoperata dallo stesso Leibniz, la differentia (dx o dy), che con ora, con Giovanni Bernoulli e Leonardo Euler, chiamiamo diffenziale, e che è un infinitesimo. Che cosa fosse precisamente, nel pensiero di Leibniz, l'infinitesimo, non è facile comprendere dalla lettura delle sue opere; sembra che egli ammettesse l'esistenza degli infinitamente piccoli come infinitesimi attuali, ma qualche volta si ha la impressione che egli considerasse questi infinitesimi semplicemente come quantità finite indefinitamente decrescenti. Comunque sia, l'algoritmo differenziale da lui creato trionfò completamente su quello delle flussioni di Newton; ed a tale trionfo contribuì in larga parte la felice scelta dei simboli, alla quale il Leibniz stesso attribuì una grandissima importanza.
Nonostante che la pubblicazione dei Principia di Newton sia avvenuta tre anni dopo di quella della Nova methodus di Leibniz, è certo che l'invenzione del metodo delle flussioni precedette quella del metodo differenziale. Leibniz inventò il suo calcolo, molto probabilmente, nel 1675; ma Newton si servi del suo fin dal 1666, e lo comunicò per lettera ad amici e scolari nel 1669 e negli anni seguenti. Al principio del sec. XVIII, fu rivolta a Leibniz l'accusa di aver derivato il concetto fondamentale del suo metodo da quello di Newton, di cui si ritenne da taluni che egli fosse venuto a conoscenza attraverso le lettere inviate da Newton ai propri amici. Leibniz respinse sdegnosamente l'accusa; ma la controversia continuò, e in forma aspra, e non cessò neppure con la morte dei maggiori interessati. Sulla dibattuta questione non è detta neppure oggi la parola decisiva. Però l'opinione prevalente è quella di ritenere vere le dichiarazioni di Leibniz e di considerare perciò come fra loro indipendenti le invenzioni del calcolo delle flussioni e del calcolo differenziale. Sia o non sia tale opinione la giusta, non può essere in nessun modo contestata a Leibniz la gloria di aver dato al calcolo differenziale una forma tale, con denominazioni e segni perfettamente appropriati, che da essa può ben dirsi essere derivata direttamente l'Analisi matematica moderna.
Il primo volgarizzatore delle idee e dei metodi di Leibniz fu il marchese de l'Hôpital, che pubblicò, nel 1696, la sua Analyse des infiniment petits pour l'intelligence des lignes courbes (Parigi); ma il rapido affermarsi e svilupparsi dell'analisi infinitesimale di Leibniz fu dovuto soprattutto all'opera dei fratelli Giacomo e Giovanni Bernoulli, di L. Euler e di J.L. Lagrange.
Nonostante i brillanti risultati ottenuti nell'applicazione dei procedimenti di Leibniz ai più svariati problemi della matematica, restava alla base della teoria una grande incertezza ed oscurità, e le menti più acute erano assillate dal desiderio di precisare i principî fondamentali, liberandoli da ogni considerazione metafisica. Nella prima metà del sec. XIX Agostino Luigi Cauchy, dopo di aver precisata e parzialmente sistemata la teoria dei limiti, i cui fondamenti erano già stati posti nel sec. XVII da Pietro Mengoli (1625-1686) e da Jacopo Gregory (1638-1675), definì (in accordo col Mengoli) l'infinitesimo come una grandezza variabile avente per limite zero (Analyse Algébrique, Parigi 1821, p. 26). Così il calcolo differenziale veniva finalmente a trovare la sua base sicura e ad esser messo al riparo dagli attacchi che da varie parti gli erano stati mossi.
Precisati i principî, restava da compiersi una revisione accurata di tutti i procedimenti e di tutte le proposizioni dell'analisi infinitesimale ed a quest'opera critica si dedicarono, nella seconda metà del sec. XIX insigni matematici, fra i quali K. Weierstrass, R. Dedekind, P. Du Bois-Reymond, B. Riemann, G. Cantor, H. E. Heine, H. A. Schwarz, G. Darboux, Ch. Meray e, in Italia, U. Dini, G. Peano, C. Arzelà.
Infinitesimi.
1. Il concetto fondamentale su cui poggia tutta l'analisi infinitesimale è quello di limite (v.), e da esso deriva immediatamente quello di infinitesimo. Chiamasi, infatti (con Mengoli e Cauchy), infinitesimo ogni variabile numerica tendente allo zero, vale a dire, tale che, fissato comunque un numero positivo, piccolo a piacere, da un certo momento in poi, essa resti, in valore assoluto, minore di questo numero. Così, quando n tende all'infinito,1:n è un infinitesimo; e parimenti sono degli infinitesimi x2, x3, senx, quando x tende allo zero. Il confronto fra le rapidità, con cui due infinitesimi tendono allo zero, si fa considerando il limite del loro rapporto α : β. Se α : β tende a un limite finito e diverso da zero, α e β si dicono infinitesimi dello stesso ordine; se α : β tende allo zero, a si dice infinitesimo di ordine superiore a β, e β di ordine inferiore a α.
Quando si devono considerare più infinitesimi α, β, ..., se ne sceglie uno, a per es., come infinitesimo principale e con esso si confrontano tutti gli altri; β si dirà allora di ordine n se è infinitesimo dello stesso ordine di an, vale a dire, se il rapporto β : α tende a un limite l, finito, diverso da zero. In tale caso, può scriversi
dove ε è un altro infinitesimo. Il prodotto lαn dicesi parte principale dell'infinitesimo β; ε αn (che è infinitesimo di ordine superiore rispetto a β e anche rispetto a l αn) dicesi resto o parte complementare. L'ordine più o meno elevato di un infinitesimo corrisponde alla sua maggiore o minore rapidità di tendenza allo zero.
2. È di grande importanza il seguente principio della sostituzione degl'infinitesimi: il limite del rapporto di due infinitesimi non viene alterato se essi si aumentano o diminuiscono d'infinitesimi di ordini rispettivamente superiori. Pertanto, nel calcolare il limite del rapporto di due infinitesimi, questi infinitesimi si possono senza altro sostituire con le rispettive parti principali, ciò che porta una notevole semplificazione.
Derivata.
3. Considerata una funzione f(x), ad un valore, reale, della variabile reale x, definita in un intervallo (a, b) (v. funzione) e dato a x un incremento h (positivo o negativo), la f (x) subisce in corrispondenza, un incremento f(x + h) − f(x). Se per il valore x la f(x) è continua (v. funzione), f(x + h) − f (x) è un infinitesimo al tendere di h allo zero, e il rapporto incrementale {f(x + h) − f(x)}:h rappresenta un rapporto di due infinitesimi. Quando, per h → 0 (vale a dire, per h tendente a zero assumendo valori reali tanto positivi quanto negativi), questo rapporto tende a un limite finito, oppure a + ∞ a − ∞ (v. limite), tale limite
si dice derivata della funzione f (x) nel punto x. La derivata rappresenta perciò la rapidità con cui la funzione f(x) varia al variare della x, e si indica con una qualunque delle notazioni:
dovute, rispettivamente, a Leibniz, Lagrange, Arbogast, Cauchy. La derivata non è che la fiussione di Newton; e, secondo le notazioni di Newton, essa si indicherebbe con f (x). Recentemente alcuni trattatisti hanno ripreso tale modo di rappresentare la derivata.
Una funzione f (x) si dice derivabile in un punto se in esso esiste la derivata f′ (x); derivare la f (x) significa calcolarne la derivata.
4. Un'importante interpretazione geometrica della derivata è data dal coefficiente angolare della tangente a una curva. Consideriamo in un piano riferito a un sistema di assi ortogonali x e y, la curva definita dall'equazione y - f (x), in corrispondenza dell'intervallo (a, b) su cui è data la f (x). Se x e x + h sono due punti di (a, b) e indichiamo con M e N i punti della i10stra curva aventi per ascisse e + h (fig. 1), il coefficiente angolare (v. coordinate, n. 13) della secante MN è dato precisamente dal rapporto incrementale {f (x + h) − f (x)}: h. Il tendere, sulla curva, di N a M, corrisponde al tendere a zero di h; e l'esistenza della tangente in M alla curva (tangente intesa come posizione limite della secante MN all'avvicinarsi indefinito di N a M) corrisponde esattamente all'esistenza della derivata f′ (x), che esprime così il coefficiente angolare di quella tangente.
Un'altra notevolissima interpretazione della derivata è offerta dalla velocità di un punto M, mobile su una retta. Se indichiamo con x il tempo (misurato a partire da un dato istante) e conf(x) la distanza al tempo x del punto M da una data origine fissata sulla retta, il rapporto incrementale {f(x+h) − f(x)}: h rappresenta ciò che si chiama velocità media del punto M nell'intervallo di tempo (x, x + h); e il limite di tale rapporto, per h → 0, vale a dire la derivata f′ (x), è la velocità del punto M nell'istante x (v. cinematica, n. 7).
Molte altre interpretazioni della derivata sorgono spontanee nei più svariati campi di applicazione dell'analisi matematica, e precisamente, dove si presentano concetti analoghi a quelli di velocità, quali intensità, coefficiente di espansione, ecc.
5. La continuità della f (x) in un punto x è condizione necessaria ma non sufficiente per la derivabilità. Le funzioni che ordinariamente si presentano nelle applicazioni della matematica hanno sempre derivata finita o tutt'al più ne mancano soltanto in un numero finito di punti. Si possono però costruire (come, per primo, fece K. Weierstrass, nel 1861) delle funzioni continue prive ovunque di derivata.
Se, in un punto x, esiste finito, oppure uguale a + ∞ od a − ∞, il limite del rapp70rto incrementale per h tendente a zero decrescendo (crescendo) e quindi assumendo soltanto valori positivi (negativi), tale limite dicesi derivata destra (sinistra) della f(x) in x. Le derivate destra e sinistra possono esisteie anche se manca la derivata; ma se esistono e sono fra loro uguali, allora esiste anche la derivata, che risulta uguale al loro comune valore.
U. Dini (p(ondamenti, 1878) generalizzò il concetto di derivata considerando gli estremi oscillatorî del rapporto incrementale {(f (x + h) − f (x)} : h (v. funzione).
6. Una funzione costante (e soltanto una tale funzione) ha derivata sempre nulla. La somma, la differenza, il prodotto di più funzioni, aventi tutte derivata finita per un dato x, ammettono derivate finite per quello stesso x; altrettanto può dirsi del quoziente f(x) : g (x), purché, nel punto considerato, la g (x) sia diversa da zero. Con questa restrizione, per il caso del quoziente, e indicando con c una costante, si hanno queste regole, già stabilite da Leibniz:
Da queste regole segue che una funzione razionale intera ha sempre derivata finita, e che una funzione razionale fratta (v. Funzione) ha derivata finita in tutti i punti che non annullano il suo denominatore.
Se è y = f (x), x = ϕ (t), la derivata della funzione di funzione y = f(ϕ(t)) viene data da
La derivata della fiunzione inversa x = ϕ(y) della y = f (x) (funzione inversa che si ottiene dalla y = f (x) considerando la x come variabile dipendente dalla y) si calcola mediante la formula
7. Le derivate delle funzioni elementari, che si presentano più spesso nelle applicazioni, sono date dalle seguenti formule:
8. Se una funzione f (x) è continua nell'intervallo (a, b) e derivabile, esiste almeno un ξ, tale che a 〈 ξ 〈 b per il quale è
Quest'eguaglianza esprime l'importante teorema del valor medio detto anche degli accrescimenti finiti. Geometricamente, significa che, sull'arco della curva y = f(x) corrispondente all'intervallo (a, b), esiste almeno un punto, distinto dagli estremi, in cui la tangente alla curva risulta parallela alla corda sottesa dall'arco (fig. 2). Sotto questa forma la proposizione fu data da B. Cavalieri in Geometria indivisibilibus continuorum nova quadam ratione promota (Bologna 1635). Il teorema può anche esprimersi con l'uguaglianza
dove è 0 〈 ϑ 〈 1, e ammette, come caso particolare, il teorema di Rolle (1691): se la funzione f(x), continua e derivabile in (a, b), assume valori uguali in a e in b, esiste un ξ, tale che a 〈 ξ 〈 b, in cui è f′ (ξ) = 0. Questa proposizione è particolarmente utile nel problema della separazione delle radici delle equazioni algebriche (v. radice).
Una notevole generalizzazione del teorema del valor medio fu fatta conoscere da Cauchy (Leçons sur le calcul différentiel, Parigi 1829), mediante la formula
dove le f (x), g (x) sono supposte continue e derivabili in (a, b), con g′ (x) ≠ 0 per ogni x dell'intervallo detto, e ξ è un valore opportunamente scelto, maggiore di a e minore di b. Da questa formula si deducono le regole (tra cui quella di de l'Hôpital) per lo studio delle cosiddette espressioni indeterminate, cioè delle espressioni che si presentano nelle forme
9. La derivata della derivata f′ (x) dicesi dermata seconda o derivata del 2° ordine della f(x); la derivata della derivata seconda dicesi derivata terza; così proseguendo, si possono definire le derivate quarta, quinta,..., ennesima. In generale, la derivata ennesima o dell'ennesimo ordine si rappresenta con uno qualunque dei simboli
Le funzioni razionali intere ammettono sempre le derivate di tutti gli ordini. Per m intero positivo, si ha, a seconda che è n ≤ m oppure n > m,
oppure
perciò le derivate di ordine n > m, di una funzione razionale intera di grado m, sono tutte nulle. Anche le funzioni razionali fratte ammettono le derivate di tutti gli ordini, quando si escludano i valori della variabile indipendente che annullano i loro denominatori. Le derivate di tutti gli ordini esistono pure per le funzioni trascendenti (v. funzione) e, sen x, cos x e si ha
Per il calcolo delle derivate successive, sono utili le seguenti regole, dovute al Leibniz:
la seconda delle quali dà uno sviluppo analogo a quello del binomio di Newton (v. binomio).
Come già per la derivata prima, anche per la derivata seconda possono aversi delle importanti interpretazioni geometriche o meccaniche. Per esempio, la derivata seconda, essendo derivata dalla derivata prima, può considerarsi come la derivata di una velocità e quindi può interpretarsi come l'accelerazione di un punto mobile su una retta (v. cinematica n. 11).
Differenziale.
10. Abbiamo già osservato che, se la funzione f (x) è continua nel punto x, l'incremento δy - f (x + h) − f(x), che essa subisce in corrispondenza dell'incremento h dato alla x, è un infinitesimo col tendere di h a zero. Assunto h come infinitesimo principale, è di somma importanza, per l'analisi dell'incremento oy e per la sua utilizzazione nei calcoli, conoscere la sua parte principale. Quando è possibile decomporre δy in due parti
in modo che P sia un numero indipendente da h ed ε (h) risulti un infinitesimo per h → 0 si dice che la funzione y = f (x) è differenziabile nel punto x, ed il prodotto Ph si chiama differenziale di tale funzione nel punto considerato. Questo differenziale viene indicato con la notazione di Leibniz, e cioè con dy o df. La differenziazione corrisponde esattamente all'esistenza della derivata f′ (x), finita, ed il numero P è precisamente uguale a f′ (x). Ne segue l'espressione del differenziale
Differenziare una funzione significa calcolarne il differenziale. Se è f′ (x) ≠ 0, dy è un infinitesimo di primo ordine rispetto all'infinitesimo principale h, e l'eguaglianza
mostra che, in tale caso, dy è la parte principale dell'infinitesimo oy. Di qui risulta tutta l'importanza del differenziale, e come esso nei calcoli possa, in virtù del principio della sostituzione degli infinitesimi, prendere il posto di "y. Geometricamente, tale sostituzione equivale a considerare, nelle vicinanze del punto x, invece della curva y = f (x), la sua tangente nel punto x medesimo. Risultando poi dx = h, ne viene
e così la derivata f′ (x) risulta eguale al quoziente del differenziale della funzione per quello della variabile indipendente. Cio spiega il nome di quoziente differenziale dato da taluni alla derivata.
11. Il differenziale di dy dicesi differenziale secondo della funzione y = f (x), e si indica con d2y o con d2f; il differenziale di d2y si dice differenziale terzo; e così proseguendo, il differenziale nesimo è il differenziale del differenziale (n − 1)esimo, e si rappresenta con dny o con dn f. Convenendo di riguardare il differenziale dx della variabile indipendente come indipendente dal valore x che si considera, cioè convenendo di ritenere dx come costante al variare di x (il che è lecito finché x è effettivamente una variabile indipendente), si ha
12. Le regole per la differenziazione si ottengono da quelle relative alla derivazione, sostituendo la parola differenziale a quella di derivata. Nelle formule corrispondenti, basta sostituire il simbolo d di differenziazione al simbolo D di derivazione.
Funzioni di più variabili.
13. Sia f (x, y, z,..., u) una funzione reale e ad un valore, data in un certo campo C di variabilità per il sistema o punto (x, y, z,..., u), x, y, z,..., u essendo variabili reali (v. funzione). Considerato un punto (x, y, z,..., u) interno al campo C, teniamo fissi i valori di y, z,..., u, e facciamo variare soltanto la x. La f(x, y, z,..., u) dà allora una funzione della sola variabile x, la cui derivata si dice derivata parziale, rispetto a x, della f (x, y, z..., u), considerata come funzione di tutte le variabili x, y, z,..., u. Questa derivata parziale si indica con uno qualunque dei simboli
e, se essa esiste, la funzione f(x, y, z,..., u) si dice derivabile parzialmente rispetto a x nel punto (x, y, z,..., u). In modo analogo si definiscono le derivate parziali della f(x, y, z,..., u), rispetto ad y, z,..., u. La funzione è derivabile in un punto (x, y, z,..., u) se, in esso, è derivabile parzialmente rispetto a tutte le sue variabili.
14. Le derivate parziali delle derivate già considerate si chiamano derivate parziali seconde o del secondo ordine della f (x, y, z,..., u). Per es., dalla af/ax si deducono tante derivate parziali del 2° ordine quante sono le variabili x, y, z,..., u, ed esse si indicano come segue:
Se le variabili x, y, z,..., u, sono in numero di n, si hanno pertanto n2 derivate parziali del 2° ordine. Però, come osservò N. Bernoulli (1721), il numero di tali derivate si riduce generalmente a n (n + 1)/2 perché, sotto condizioni abbastanza larghe, vale il teorema dell'invertibilità delle derivazioni, che si può esprimere con l'uguaglianza
Come dalle derivate parziali del 1° ordine si passa a quelle del 2° ordine, così da queste si passa alle derivate parziali del 3° ordine, e poi, a quelle del 4°, 5°,..., nesimo ordine.
15. La nozione di differenziale, data per le funzioni di una sola variabile, si estende al caso delle funzioni con un numero qualunque di variabili. Così, per la funzione f(x, y, z,..., u), il differenziale totale è dato da
Nel caso di una funzione f(x, y) di due sole variabili, la sostituzione del differenziale totale df all'incremento f (x + h, y + k) − f (x, y), che la funzione subisce quando alle variabili x ed y si dànno gl'incrementi h e k, equivale, geometricamente, a sostituire, in prossimità del punto (x, y), la superficie z = f(x, y) col suo piano tangente nel punto corrispondente a (x, y). I prodotti
sono i differenziali parziali della f(x, y,...) e si indicano, rispettivamente, con dx f, d f, ....
Il differenziale totale di df si dice differenziale totale secondo e si rappresenta con d2 f; in modo analogo si definiscono i differenziali totali d3f, d4f, ..., dn f.
16. Se è ζ = f(x, y, ...) e x = x(t), y = y (t), ..., la derivata e il differenziale della funzione composta
sono dati da
dove dx, dy,... rappresentano i differenziali delle funzioni x (t), y (t), ....
Se è ζ = f(x, y, ...) e x = x(t, τ, ...), y = y (t, τ, ...), le derivate parziali e il differenziale totale della funzione composta
sono
dove dx, dy,... rappresentano i differenziali totali delle funzioni x(t, τ, ...), y(t, τ, ...), ....
17. Per una funzione y = y(x), data implicitamente mediante una equazione f(x, y) = 0, la derivata si ottiene con la formula
Di qui, con la regola di derivazione delle funzioni composte, si ottengono le deiivate della y (x) del 2°, 3°, ..., nnesimo ordine. Mediante la stessa regola si ottengono anche le derivate parziali delle funzioni
date implicitamente mediante il sistema di equazioni
Massimi e minimi.
18. La considerazione della derivata f′ (x) permette di studiare il comportamento della funzione f (x). Così, se la derivata è sempre positiva, se ne può dedurre che la f (x) è una funzione sempre crescente al crescere di x; se, invece, la f′ (x) è sempre negativa, si può affermare che la f(x) è sempre decrescente. Ne viene pertanto che esaminando il comportamento della derivata possono trovarsi i massimi e i minimi relativi (detti anche estremi relativi) della funzione. Sia ξ un valore della variabile indipendente a cui corrisponde un massimo (oppure un minimo) relativo della f(x), vale a dire, sia ξ tale che, per tutti gli x vicini, risulti f(x) 〈 f(ξ) (oppure f(x) > f(ξ)). Allora, se in x esiste la derivata f′ (ξ), deve essere
ciò significa, geometricamente, che, nel punto della curva y = f(x) corrispondente a ξ, la tangente alla curva stessa deve risultare parallela all'asse delle x. Si ha così una condizione necessaria per i punti di massimo o minimo relativo. Tale condizione, che risale a Fermat (1638), non è però sufficiente. Se ξ0 annulla la f′ (x) e se, per tutti gli x vicini e minori di esso, la f′(x) risulta positiva (negativa), mentre per tutti quelli vicini e maggiori di ξ0 la f′(x) risulta negativa (positiva), allora ξ0 è certamente un punto di massimo (minimo) relativo, come ebbe ad osservare Cauchy (1829). Un'altra regola importante, per riconoscere se effettivamente un valore ξ0 che annulli la f(x) corrisponda a un massimo o a un minimo relativo della f(x), è dovuta a Maclaurin (1742). Essa consiste nel cercare la derivata di minimo ordine n non nulla in ξ0; allora, se n è dispari, f(ξ0) non dà né un massimo né un minimo, mentre, invece, se n è pari con f(n) (ξ0) 〈 0, f ξ0) dà un massimo, e se n è pari con f(n)(ξ0) > 0, f(ξ0) dà un minimo.
19. Fermat considerò anche il problema dei massimi e minimi relativi delle funzioni di più variabili. Questo caso si presenta assai più complicato di quello delle funzioni di una variabile sola. La condizione necessaria (che si stabilisce facilmente) affinché una funzione f (x, y, z,..., u) ammetta, in un determinato punto (in cui sia derivabile), un massimo o un minimo relativo, è espressa dall'annullamento, in tale punto, di tutte le sue derivate parziali del 1° ordine. Tale condizione non è però sufficiente. Lo studio delle condizioni sufficienti si fa prendendo in considerazione certe forme omogenee (v. algebra), date dai terrnini della formula di Taylor per le funzioni di più variabili (v. funzione) che contengono tutte le derivate di un dato ordine. Tale studio, iniziato da J. L. Lagrange (1759), fu ripreso e proseguito da G. Peano (1884), L. Scheeffer (1890), O. Stolz (1890-93), V. von Dantscher (1893), G. Vivanti (1898), J. Lüroth (1906), F. Severi (1930).
20. Se le variabili x, y, z,..., u non sono del tutto indipendenti, ma legate fra loro dalle relazioni
in numero inferiore a quello delle variabili stesse, allora i massimi e i minimi della funzione f(x, y, z,..., u) prendono il nome di massimi e minimi condizionati. Per la ricerca di questi estremi, Lagrange (1797) ideò un metodo, detto metodo dei moltiplicatori, che si è mostrato molto utile anche in questioni di meccanica analitica. Alla questione ora indicata dedicò importanti lavori A. Mayer (1889).
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