INTEGRALE, CALCOLO
. Sviluppo storico. - Nella geometria, nella meccanica, e, in generale, nelle applicazioni delle matematiche allo studio dei fenomeni naturali e sociali, si presentano sovente problemi (calcolo di aree, di lunghezze, di volumi; determinazione di centri di gravità, di momenti d'inerzia, ecc.), per risolvere i quali i metodi della matematica elementare risultano insufficienti, e occorrono procedimenti di natura più elevata. Due figure piane poligonali, aventi la stessa area, sono decomponibili in egual numero (finito) di parti rispettivamente uguali. Non altrettanto però può dirsi d'un quadrato e d'un cerchio di uguale area, oppure di due piramidi aventi basi uguali e uguali altezze, e quindi lo stesso volume; e l'impossibilità della decomposizione indicata si presenta ancor più manifesta quando si considerino figure piane o solide equiestese di forma meno elementare (v. geometria: nn. 6, 7). In questi casi, la decomposizione in parti rispettivamente uguali si può, in generale, ottenere soltanto con la suddivisione delle due figure considerate in un numero infinito d'elementi, alcuni dei quali dovranno risultare infinitamente piccoli. Ne viene, perciò, che il calcolo delle aree e dei volumi non si può fare, generalmente, se non mediante decomposizioni in infinite parti, o con procedimenti equivalenti a tali decomposizioni, e quindi facendo ricorso, direttamente o indirettamente, all'infinito e all'infinitesimo. Si esce così dal dominio della matematica elementare, per entrare in quello dell'analisi infinitesimale (o calcolo infinitesimale), in cui, col sussidio dell'infinito e dell'infinitesimo, si giunge alla valutazione delle grandezze finite.
I due grandi capitoli dell'analisi infinitesimale sono costituiti dal calcolo differenziale (v. differenziale, calcolo) e dal calcolo integrale, nel secondo dei quali si risolvono i problemi sopra accennati e quelli d'analoga natura, e si dànno i mezzi per dedurre dalla conoscenza delle condizioni locali o istantanee d'un dato fenomeno, la legge integrale del fenomeno stesso, ossia la legge che ne permette la completa valutazione. E mentre le origini del calcolo differenziale si possono riconoscere negli studî del sec. XVII intorno ai problemi della tangente a una curva, della velocità di un punto mobile, e dei massimi e minimi delle funzioni, per rintracciare quelle del calcolo integrale bisogna risalire fino ai geometri greci, i quali, nella risoluzione del problema delle aree e dei volumi seppero ottenere risultati ammirevoli, specialmente per opera di Eudosso di Cnido e di Archimede.
Il primo passo, verso le concezioni e i procedimenti infinitesimali, mosse dalla critica dei principî della geometria, la quale, a traverso la polemica della scuola d'Elea, con Parmenide e Zenone (sec. V a. C.), giunse al concetto razionale degli enti geometrici (che porta a considerarli quali enti astratti e che nega, perciò, al punto ogni dimensione, alla linea ogni larghezza, alla superficie ogni spessore), e giunse anche ad affermare la continuità di tali enti e dello spazio, e la loro indefinita divisibilità. La critica eleatica diede la prima battaglia alle difficoltà sollevate dall'uso dell'infinito; e i paradossi di Zenone, fra i quali quello di Achille piè veloce che non può raggiungere la tartaruga (paradossi che vanno considerati, non già come semplici sofismi, ma come argomenti per la riduzione all'assurdo dell'ipotesi monadica dei Pitagorici), condussero alla prima conquista nel campo dell'analisi infinitesimale, cioè alla scoperta della somma della progressione geometrica (v. serie).
Il germe delle nuove idee, per quanto gettato sul terreno fertile della geometria greca, tardò qualche tempo a dare i suoi frutti; ma nella lunga attesa non mancarono i tentativi d'impiego di considerazioni infinitesimali. Antifonte (sec. V a. C.), sofista ateniese, inscrivendo, in un dato cerchio, un poligono regolare di 4 lati, poi uno di 8 lati, poi uno di 16, e così via, riteneva di poter ricoprire tutta l'area del cerchio e di giungere, in tal modo, a un poligono inscritto coincidente, per la piccolezza dei suoi lati, con la circonferenza. E siccome i poligoni via via costruiti si possono facilmente trasformare in quadrati, egli riteneva così di poter ottenere un quadrato avente la stessa area del cerchio, vale a dire, riteneva di poter risolvere per questa via il già famoso problema della quadratura del cerchio. Un contemporaneo di Antifonte, Brisone d'Eraclea, tentò la risoluzione dello stesso problema inscrivendo e circoscrivendo simultaneamente al cerchio poligoni regolari di 4, 8, 16, ... lati; e sembra che egli pensasse di poter giungere così a due poligoni, uno inscritto e uno circoscritto, tali che, con la costruzione d'un terzo di area media, si avesse la quadratura del cerchio. A ragionamenti di questo genere Aristotele (sec. IV a. C.) negò qualsiasi valore. Alcuni critici moderni, ritenendo che Antifonte e Brisone movessero soltanto da preconcetti empirici, non riconoscono a essi nessun avviamento verso procedimenti infinitesimali. Altri, osservando che alle concezioni razionalistiche si giunge sempre dopo faticoso cammino, che talvolta può aver inizio da un opposto atteggiamento di pensiero, ritengono che, in una rappresentazione dello sviluppo storico dell'analisi infinitesimale, anche i tentativi di Antifonte e di Brisone debbano essere convenientemente valutati.
D'ordine più elevato sembra il contributo d'Ippocrate di Chio (sec. V a. C.) alla risoluzione del problema della quadratura del cerchio; indubbiamente poi, dal punto di vista infinitesimale, maggior importanza va riconosciuta all'opera di Democrito d'Abdera, filosofo atomista, vissuto fra il sec. V e il IV a. C., al quale, come affermò Archimede, vanno attribuiti i due teoremi sul volume della piramide e del cono, volumi dati, rispettivamente, dalla terza parte di quelli del prisma e del cilindro di basi e altezze uguali. È da ritenersi che Democrito concepisse i solidi come somme d'un numero infinito di piani paralleli o di strati infinitamente sottili, e che, per stabilire, p. es., l'uguaglianza dei volumi di due piramidi di basi e altezze uguali, considerasse per una di esse le infinite sezioni parallele alla base e le confrontasse con le corrispondenti sezioni dell'altra piramide. Secondo quanto fu riferito da Plutarco, Democrito si era posto la questione di sapere se due sezioni parallele d'un cono, infinitamente vicine, devono essere ritenute fra loro uguali o diverse, osservando che, se fossero disuguali, la superficie del cono dovrebbe possedere delle scabrosità, e se, invece, fossero uguali, il cono dovrebbe apparire come un cilindro. Non si sa come Democrito risolvesse questo dubbio; comunque è certo che egli, nelle sue ricerche, deve aver proceduto con considerazioni infinitesimali, anticipando, in qualche guisa, il modo di pensare che condusse poi Archimede al suo "Metodo", che molto più tardi si ritrova nel "Metodo degli indivisibili" di B. Cavalieri e che è, in sostanza, alla base del moderno calcolo integrale.
L'introduzione dell'infinito, nei ragionamenti matematici, presenta delle difficoltà gravi, sulle quali gli argomenti di Zenone avevano contribuito a richiamare l'attenzione di matematici e filosofi. Aristotele tuonava contro l'infinito attuale; e nessuno, al suo tempo, avrebbe osato di riconoscere come logicamente rigorosa una dimostrazione imperniata sull'infinito; donde la necessità, per i geometri greci, di possedere un metodo di ragionamento da poter utilizzare nelle questioni relative alle aree e ai volumi e che evitasse o per lo meno mascherasse l'uso dell'infinito. Il merito di aver formato questo schema di ragionamento, o almeno d'averne mostrato il grande valore, è universalmente riconosciuto a Eudosso di Cnido (sec. IV a. C.), con il quale i risultati delle prime ricerche infinitesimali furono definitivamente acquisiti alla scienza.
Per dare un'idea del metodo d'Eudosso, riassumiamo brevemente la dimostrazione (che si trova negli Elementi di Euclide) della proprietà che le aree dei cerchi stanno fra loro come i quadrati dei loro diametri. Siano C1 e C2 le aree dei due cerchi, e D1 e D2 i loro diametri. Inscrivendo p. es. nel cerchio C1, via via, i poligoni regolari di 4, 8, 16,. . . lati, la differenza fra l'area C1 e quella di questi poligoni si può rendere più piccola di qualsiasi numero. Allora, se non fosse C1/C2 = D12/D22, detto E un numero tale che sia E/C2 = D12/D22, sarebbe C1 > E oppure C1 〈 E. Nel primo caso, si potrebbe scegliere uno degl'indicati poligoni inscritti in C1, in modo che la sua area P1 risultasse maggiore di E. Costruito il poligono simile inscritto in C2, e detta P2 la sua area, si avrebbe (poiché poligoni simili, inscritti in cerchi, stanno fra loro come i quadrati dei diametri) P1/P2 = D12/D22, e quindi P2 > C2, disuguaglianza assurda per essere il poligono di area P2 contenuto nel cerchio di area C2. Analogamente si proverebbe assurda l'ipotesi C1 〈 E. È dunque C1 = E, donde la proprietà da dimostrarsi.
Siccome con l'iscrizione, nel primo cerchio, dei poligoni regolari di lati in numero continuamente crescente, si viene man mano a esaurire tutta l'area C1, a questo modo di dimostrazione fu dato, nel 1647, da G. de Saint-Vincent, il nome di metodo di esaustione. Tale metodo, come appare da quanto abbiamo detto or ora, è essenzialmente fondato sulla riduzione all'assurdo della tesi contraria a quella che si deve provare, e, come tutti i ragionamenti per assurdo, ha il torto di convincere ma non d'illuminare. Esso, inoltre, richiede che il risultato, al quale si vuol pervenire, sia già conosciuto, e manca di quell'agilità e di quella possibilità di larghissime applicazioni che sono il vanto dei procedimenti schiettamente infinitesimali di cui oggi dispone l'analisi. Nonostante ciò, l'uso del metodo d'esaustione condusse i geometri greci, e specialmente Archimede (sec. III a. C.), a risultati notevolissimi e rese possibile la dimostrazione rigorosa di fatti acquisiti per vie non geometriche.
Il genio d'Archimede non poteva però accontentarsi completamente di un metodo che, pur essendo impeccabile come procedimento di dimostrazione, non apriva la via alla scoperta di nuove verità; e, superando ogni esitazione, affrontò liberamente l'infinito, per servirsene nelle sue ricerche. E così si foggiò un procedimento di natura infinitesimale, il quale risultò fondato su concetti che, molti secoli dopo, nel Rinascimento, dovevano ripresentarsi alle menti dei così detti precursori del calcolo infinitesimale. Questo metodo, della cui esistenza, fino a pochi anni fa, non si avevano prove sicure, traspariva da alcune dimostrazioni d'Archimede, che erano rimaste in dominio della scienza; e d'altra parte, certi risultati del Siracusano, che apparivano delle vere divinazioni (ad esempio, i teoremi sul volume e sulla superficie della sfera), inducevano a ritenere ch'egli si fosse servito realmente di mezzi di ricerca molto superiori a quelli che, dopo di lui, erano rimasti in possesso dei geometri. A confermare pienamente queste induzioni venne, nel 1906, la scoperta, fatta da J. L. Heiberg in un palinsesto della biblioteca del Metochion di Costantinopoli, d'uno scritto d'Archimede indirizzato a Eratostene, e intitolato Metodo sui teoremi meccanici, in cui è esposto un metodo che, secondo lo stesso autore, serve a scoprire certe verità col mezzo della meccanica; metodo, dunque, di scoperta e non di dimostrazione, giacché il grande geometra non avendo raggiunto una sistemazione critica della sua analisi infinitesimale, sentiva la necessità di chiedere al ragionamento per esaustione la sicura conferma dei risultati che, sulle aree, sui volumi, sui centri di gravità, ecc., egli andava conquistando. Come risulta dal "Metodo", Archimede riguardava ogni superficie come composta di tante rette, parallele a una data direzione, che la riempiono tutta; e ognuna di tali rette era pertanto, per lui, l'elemento infinitesimale costitutivo della figura. Analogamente, un solido era considerato composto da tante superficie piane, fra loro parallele, riempienti tutto il volume, e costituenti gli elementi infinitesimali del solido. Le superficie e i volumi erano così pensati come somme di tanti elementi infinitamente piccoli; e le linee e le superficie, di cui Archimede riempiva le superficie e i volumi, dovevano poi corrispondere a quegl'indivisibili sui quali il Cavalieri, nel sec. XVII, costruì la sua geometria.
Con Archimede si ebbe la prima applicazione sistematica dei metodi infinitesimali; e i risultati brillantissimi da lui ottenuti sembrano avere quasi esaurita, nel suo tempo, la potenza di tali metodi. I suoi continuatori immediati e i suoi primi commentatori non aggiunsero, infatti, nulla d'importante alle sue scoperte; e questo mostra che essi, molto probabilmente, non avevano compreso tutta la profondità del pensiero del celebre Siracusano. Per ritrovare lo spirito dei procedimenti archimedei e per vedere rifiorire le idee infinitesimali, occorre scendere sino al Rinascimento, e precisamente fino a N. Tartaglia, F. Maurolico, F. Commandino e Luca Valerio, che introdusse per la prima volta il concetto di limite, e, meglio ancora, fino al Galilei e a Giovanni Keplero. Gli studiosi del Rinascimento non conobbero certamente il "Metodo" d'Archimede; ma, attraverso le altre sue opere, intravvidero le idee direttrici delle sue ricerche, e, sfruttando tali idee, poterono assicurare al metodo infinitesimale nuovi allori. Galileo, decomponendo il tempo di caduta d'un grave in piccoli intervalli, e immaginando, in ciascuno di essi, il moto come uniforme, giunse alla legge che regola quel fenomeno; e Keplero, spezzando la curva meridiana d'un solido di rivoluzione in piccoli archi, sostituendo a essi dei segmenti rettilinei o degli archi di cerchio, e scomponendo poi il solido in piccoli cilindri, tronchi di cono e segmenti sferici, riuscì a calcolare il volume di molte figure di rotazione. Nel rinnovato fervore degli studî matematici, tale era la fiducia che riscuotevano i metodi infinitesimali, che né Keplero né i suoi seguaci si attardarono a chiedere, al metodo d'esaustione, la giustificazione logica dei loro risultati, discostandosi in ciò da quanto aveva fatto Archimede venti secoli innanzi. E quando B. Cavalieri raggiunse la prima sistemazione del nuovo calcolo infinitesimale, mediante la sua Geometria degli indivisibili, non si preoccupò di definire esattamente quegl'indivisibili che costituivano gli elementi fondamentali sui quali operava; ma reputò che a lui non convenisse consumare il proprio tempo in questioni e dispute che gli sembravano più filosofiche che geometriche.
Il Cavalieri, dopo aver immaginato le superficie e i corpi come generati dal moto continuo e uniforme rispettivamente d'una linea e d'una superficie, era giunto a concepire una figura piana come un tessuto formato di fili o segmenti rettilinei, tutti fra loro paralleli, e una figura solida come un libro, vale a dire, come costituita dalla sovrapposizione di tanti fogli paralleli. Quei fili e questi fogli sono precisamente gl'indivisibili della figura piana e della figura solida. Nella Geometria indivisibilibus continuorum nova quadam ratione promota (Bologna 1635), il Cavalieri calcolò aree e volumi, mostrando che l'indivisibile della figura da misurare era in rapporto costante con l'indivisibile corrispondente di un'altra figura opportunamente scelta, di misura nota; nelle Exercitationes geometricae sex (Bologna 1647), invece, egli, seguendo una via diversa, confrontò, non più singolarmente gl'indivisibili corrispondenti delle due figure, ma la somma degl'indivisibili della prima figura con la somma di quelli della seconda. Questo ultimo metodo è quello che più si accosta all'uso del moderno integrale definito. Le opere del Cavalieri, nelle quali egli fornì la chiave per eseguire le integrazioni più semplici, raccolsero larghi consensi ed ebbero grande diffusione in Italia e all'estero; ma non mancarono a esse neppure le più aspre critiche, alle quali l'autore oppose la sua profonda persuasione che il suo metodo si ricollegasse completamente a quello archimedeo e più precisamente a quello d'esaustione. Tale convinzione era condivisa anche da Biagio Pascal, che scriveva: "tout ce qui est démontré par la véritable règle des indivisibles se démontre aussi à la rigueur, et à la manière des anciens".
Fra gl'immediati continuatori del metodo degl'indivisibili, vanno citati E. Torricelli, G. Wallis e I. Barrow. Il Torricelli (Opere, voll. 3, Faenza 1919) introdusse gl'indivisibili curvi, completò alcuni risultati del Cavalieri, altri ne aggiunse di nuovi (quali, ad es., la prima rettificazione di curve piane e le formule per la determinazione dei baricentri); arrivò alla considerazione di quelli che oggi si chiamano integrali definiti generalizzati o improprî, e, attraverso riflessioni cinematiche, oltre a pervenire al concetto d'integrale indefinito, percepì la stretta relazione esistente fra il problema della quadratura (calcolo delle aree) e quello delle tangenti.
La mancanza d'un assetto logico della teoria degl'indivisibili, che, se non preoccupò troppo il Cavalieri, fornì ai suoi oppositori un valido argomento di critica, costituì il tormento d'un suo allievo, P. Mengoli, che, nella sua Geometria speciosa (Bologna 1659), iniziò (contemporaneamente a J. Gregory) lo sviluppo di quella teoria dei limiti che è il fondamento indispensabile della moderna analisi infinitesimale, e, per mezzo di essa, pervenne a una rigorosa definizione d'integrale definito, per le funzioni continue, la quale coincide con quella data, un secolo e mezzo più tardi, da A. L. Cauchy (A. Agostini, in Periodico di matematiche, V, 1925).
Mentre per questa via si gettavano le basi del calcolo integrale, altri problemi, di natura diversa da quello del calcolo delle aree e dei volumi, venivano affrontati con procedimenti infinitesimali. Descartes, Fermat, Torricelli, Barrow, Roberval, riattaccavano alla nozione d'infinitesimo il problema delle tangenti a una curva, quello della velocità d'un punto mobile e quello dei massimi e minimi d'una funzione. Il calcolo differenziale (v. differenziale, calcolo) dava così i suoi primi bagliori con l'introduzione di quella operazione di derivazione che Torricelli prima, e il Fermat e il Barrow poi, videro essere in intima relazione con quella d'integrazione, le due operazioni risultando inverse l'una dell'altra. In tal modo, il calcolo delle aree e dei volumi poteva giovarsi dei risultati relativi alle derivate, senza ricorrere alla ricerca diretta d'un limite; e il calcolo integrale e quello differenziale potevano segnare la loro data di nascita, la quale è indissolubilmente unita ai nomi d'Isaac Newton e di Gottfried Wilhelm Leibniz. Newton (Philosophiae naturalis principia mathematica, Londra 1687; De analysi per aequationes numero terminorum infinitas, scritto nel 1666, stampato nel 1711; Methodus fluxionum et serierum infinitarum, scritto nel 1671, stampato nel 1736; De quadratura curvarum, scritto nel 1676, stampato nel 1704) col suo calcolo delle flussioni e delle fluenti (v. differenziale, calcolo), e Leibniz (Nova methodus pro maximis et minimis, itemque tangentibus, quae nec fractas nec irrationales quantitates moratur, et singulare pro illis calculi genus, in Acta Eruditorum, 1684) col suo calcolo differenziale e integrale (v. differenziale, calcolo), fondavano l'analisi moderna, che dai metodi infinitesimali traeva tutta la sua forza e che con essi assurgeva in breve ai più alti fastigi. La polemica sulla priorità delle scoperte dell'uno o dell'altro dei due sommi scienziati non tocca il loro grande valore, e la scienza è a entrambi debitrice per essere stata dotata d'uno degli strumenti più poderosi d'indagine. Tuttavia la forma del nuovo calcolo è quella assegnatale da Leibniz, il quale, con una scelta dei simboli più che felice, e con un insieme di regole facili e generali, seppe abilitare il ricercatore a ricondurre il calcolo di una qualunque derivata a quello delle derivate di poche funzioni semplici, dando così anche il modo di sfruttare opportunamente, nel calcolo degl'integrali, il teorema di Torricelli-Barrow. Questo stesso procedimento fece passare in seconda linea il problema delle quadrature, conferendo maggiore importanza alla ricerca dei così detti integrali indefiniti; e lo sviluppo algoritmico di tale ricerca occupò i matematici di tutto il sec. XVIII. Fra coloro che portarono maggiori contributi e che applicarono il calcolo integrale alle questioni più varie, vanno ricordati i fratelli Giacomo e Giovanni Bernoulli, Giulio Carlo Fagnano, Leonardo Euler, Vincenzo Riccati, Gregorio Fontana, Lorenzo Mascheroni, Giovanni D'Alembert, Giuseppe Luigi Lagrange.
Frattanto veniva sempre più a sentirsi la necessità d' una sistemazione critica del calcolo integrale, nonché di tutta l'analisi infinitesimale. Quest'opera, poderosamente iniziata da Agostino Luigi Cauchy, venne proseguita, sino alla fine del sec. XIX, per merito soprattutto (specialmente per quanto riguarda il calcolo integrale) di P. G. L. Dirichlet, B. Riemann, P. Du Bois-Reymond, A. Harnack, G. Darboux, U. Dini, V. Volterra, G. Peano, C. Jordan, C. Hermite, T. J. Stieltjes, ecc.; e da essa, sul principio del secolo attuale, sbocciarono nuove e più generali definizioni d'integrale (H. Lebesgue, A. Denjoy, O. Perron, B. Hellinger, ecc.).
Terminando questi cenni storici, giova rilevare che, mentre per i geometri greci era evidente che ogni figura avesse la sua area e il suo volume, la critica moderna ha messo in luce la necessità di definire tale area o tale volume; e a questa definizione è giunta mediante una proposizione esistenziale, che è geometricamente fondata sul principio di continuità. Così, dopo aver dimostrato, p. es., che le aree dei poligoni regolari iscritti in un cerchio e quelle dei poligoni regolari circoscritti ammettono un unico elemento di separazione, questo elemento viene definito come l'area del cerchio. Ora è da rilevarsi che il primo a preoccuparsi di definire l'area racchiusa da una curva piana, fu Pietro Mengoli, come risulta chiaramente dalla sua Geometria speciosa.
Integrali definiti e indefiniti. - 1. Sia f (x) una funzione a un valore, reale, della variabile reale x, definita in un intervallo (a, b) (v. funzione). Si divida l'intervallo (a, b) in un numero arbitrario n di parti, mediante i punti a0 = a 〈 a1 〈 a2 〈 . . . 〈 an = b; s'indichi con xr un punto comunque scelto nella parte (ar, ar+1), si moltiplichi l'ampiezza ar+1 − ar della parte (ar, ar+1) per il valore f (xr) e si consideri la somma
Se esiste un numero (finito) I, tale che tutte le somme S ne differiscano tanto poco quanto si vuole, quando tutte le differenze ar+1 − ar siano sufficientemente piccole, si dice che la funzione f x) considerata è integrabile, secondo Mengoli-Cauchy (alcuni dicono, erroneamente, secondo Riemann), nell'intervallo (a, b), e il numero I è l'integrale definito (sempre secondo Mengoli-Cauchy) della f (x) nell'intervallo indicato (P. Mengoli, Geometria speciosa, Bologna 1659; A. L. Cauchy, Résumé des leåons sur le Calcul infinitésimal, Parigi 1823). Questo integrale, che è dunque, quando esiste, il limite finito (v. limite) della somma S, al tendere allo zero di tutte le differenze ar-1 s'indica con la scrittura
e si legge: integrale da a a b di f (x). La f (x) dicesi funzione integranda; a e b sono i limiti o estremi dell'integrale, e, precisamente, a è il primo estremo, b il secondo. Il vocabolo integrale fu usato, per la prima volta, da Giacomo Bernoulli (1690); il segno ∉ che è un modo particolare di scrivere la lettera S, iniziale di "Somma", fu introdotto da Leibniz (1675); la notazione
fu proposta da G. B. Fourier (1822).
Non tutte le funzioni f (x) sono integrabili in (a, b), secondo la definizione data più sopra. Affinché una funzione lo sia, devono essere soddisfatte certe condizioni; e una condizione sufficiente è la continuità (Mengoli-Cauchy) (v. funzione). Sono integrabili anche le funzioni limitate (cioè che restano sempre comprese fra limiti finiti) e generalmente continue (vale a dire, continue in tutto (a, b) a eccezione d'un numero finito di punti). Pertanto, tutte le funzioni più semplici e tutte quelle che si presentano ordinariamente nelle applicazioni della matematica, risultano integrabili in ogni intervallo in cui siano limitate. Una condizione necessaria per l'integrabilità è che la f (x) sia limitata in (a, b). Come condizione necessaria e sufficiente si ha che la somma Σ (ar+1 − ar) wr, dove wr rappresenta l'oscillazione della f (x) in (ar, ar+1) (v. funzione), tenda allo zero al tendere allo zero di tutte le differenze ar+1 − ar; la stessa condizione può anche esprimersi dicendo che, preso ad arbitrio un numero σ > o, deve essere possibile di suddividere (a, b) in parti (in numero finito) in modo che la somma di quelle in cui l'oscillazione della f (x) è maggiore di σ risulti piccola quanto si vuole. In questa forma la condizione fu determinata da B. Riemann e chiamasi condizione d'integrabilità di Riemann; altre forme furono date da V. Volterra, P. Du Bois-Reymond, H. Lebesgue e G. Vitali.
Sotto la condizione che la f (x) sia limitata in (a, b), si possono considerare, con G. Darboux, G. Ascoli, J. Thomae, V. Volterra, M. Pasch, G. Peano, C. Jordan, due limiti particolari, chiamati integrale inferiore e integrale superiore della f (x) in (a, b). Essi coincidono con l'integrale quando questo esiste.
2. Un'importante interpretazione geometrica dell'integrale definito è data dall'area d'una curva piana. Sia f (x) una funzione continua in (a, b) e sempre positiva. La sua rappresentazione geometrica, in un piano in cui siano fissati due assi ortogonali Ox e Oy, è data da una curva A???B (v. funzione), che si proietta ortogonalmente sull'asse Ox nel segmento di estremi a e b (fig. 1). Suddiviso il segmento ab in parti (ar, ar+1) il prodotto (ar+1 − ar) f (xr), dove xr è un punto qualunque di (ar, ar+1) rappresenta l'area di un rettangolo la cui base è data dal segmento (ar, ar+1) e la cui altezza è l'ordinata f (x,) della curva A???B. Se le differenze ar+1 − ar sono tutte molto piccole, quest'area differisce di ben poco dall'area del trapezoide ar Ar Ar+1 ar+1, e la somma S dei prodotti (ar+1 − ar) f (xr) differisce anch'essa di poco dall'area di tutto il trapezoide aABb; e quando si facciano tendere a zero tutte le differenze ar+1 − ar, la somma S tende all'area del trapezoide indicato. Perciò, l'integrale definito della f (x), su (a, b), esprime numericamente l'area racchiusa dall'arco di curva AB, dalla sua proiezione ortogonale ab sull'asse Ox, e dai due segmenti rettilinei aA, bB.
Un'altra interessante interpretazione dell'integrale definito si ha considerando il moto d'un punto M su una retta. Supponiamo di conoscere la velocità f (x) di M per ogni tempo x compreso fra a e b. Suddiviso l'intervallo di tempo (a, b) in parti, mediante i tempi intermedi a1, a2, a3,. . ., nell'intervallo di tempo (ar, ar+1) lo spazio percorso sarà dato approssimativamente da (ar+1 − ar) f (xr), dove xr è un tempo qualunque compreso fra ar e ar+1; e lo spazio totale, percorso nell'intervallo (a, b), sarà approssimativamente dato dalla somma S di tutti i prodotti come quello indicato. Il limite di questa somma, quando tutte le differenze ar+1 − ar tendono a zero, vale a dire, l'integrale definito della f (x), su (a, b), darà con esattezza lo spazio percorso nell'intervallo totale (a, b). Altre notevoli interpretazioni dell'integrale definito si hanno dagli svariati problemi nei quali l'integrale si applica utilmente.
3. Posto, per definizione,
le prime proprietà dell'integrale definito sono espresse da:
e quest'ultima uguaglianza si estende al caso della somma d'un numero qualunque (finito) di addendi e anche, sotto opportune condizioni, alle serie di funzioni (v. serie);
Se è sempre g (x) ≥ 0, si ha
dove θ è un valore opportunamente scelto fra i limiti inferiore e superiore della f (x) in (a, b). Ciò costituisce il primo teorema della media e dà, in particolare,
Se f (x) è sempre ≥ 0 e non crescente, oppure non decrescente, si ha
oppure rispettivamente
ξ essendo un valore opportunamente scelto fra a e b. Più generalmente, se la f (x) è supposta soltanto non crescente oppure non decrescente, vale l'uguaglianza
per ξ scelto opportunamente fra a e b. Le ultime tre formule esprimono il secondo teorema della media (O. Bonnet, 1849).
4. La funzione
per ogni x dell'intervallo (a, b) in cui la f (x) si suppone integrabile, dicesi funzione integrale della f (x). Per ogni x di (a, b) in cui la f (x) è continua, la F (x) è derivabile e si ha F′ (x) = f (x). Se Φ (x) è una qualsiasi funzione primitiva della f (x), vale a dire, se Φ (x) è una qualsiasi funzione avente come derivata la f (x), sussiste, per tutti gli x di (a, b), l'uguaglianza
la quale costituisce la formula fondamentale del calcolo integrale (teorema di Torricelli-Barrow); da essa risulta che le operazioni di integrazione e di derivazione sono inverse l'una dell'altra, e che l'integrale definito della f (x) si calcola immediatamente, senza eseguire operazioni di passaggio al limite, quando si conosce, della f (x), una primitiva. Così, il problema dell'integrazione è ricondotto a quello della ricerca delle funzioni primitive.
Se Φ (x) è una primitiva della f (x), tutte le primitive di questa funzione sono contenute nella espressione Φ (x) + c, c essendo una costante arbitraria. L'espressione ora scritta si chiama integrale indefinito della f (x) e si rappresenta con la notazione
Valgono le proprietà espresse dalle uguaglianze seguenti:
le due ultime (che sussistono se f (x), g (x), e ϕ (t) sono continue insieme con le loro derivate del primo ordine f′ (x), g′ (x), e ϕ′ (t) dànno le regole d'integrazione per parti e per sostituzione.
5. Gl'integrali indefiniti delle funzioni più semplici sono dati dalle formule che qui si riportano, nelle quali c rappresenta sempre una costante arbitraria (e, al solito, log x rappresenta il logaritmo naturale di x):
6. Anche l'integrale indefinito di una funzione razionale fratta si può sempre esprimere mediante le funzioni semplici. Così, si ha.
Nel caso generale d'una funzione razionale fratta qualunque
che si può sempre supporre irriducibile e col polinomio P (x) di grado inferiore a quello del polinomio Q (x), si ha una regola d'integrazione basata sulla decomposizione della funzione in frazioni semplici. Se α1, α2, . . ., αn sono le radici distinte dell'equazione Q (x) = 0, e se r1, r2, . . ., rn, sono i loro rispettivi ordini di multeplicità (v. algebra), vale l'uguaglianza (Leibniz, 1703)
dove le ai1, ai2, . . ., airi indicano delle costanti, che possono essere determinate secondo varî metodi. L'integrazione della P (x)/Q (x) si ottiene, pertanto, facendo la somma di un certo numero d'integrali, che figurano fra quelli più sopra indicati. Qualora nella decomposizione precedente intervenissero degli elementi immaginarî (dati da radici α complesse) si può evitare d'uscire dal campo reale usando un'altra decomposizione di P (x)/Q (x), indicata da L. Euler (1781), la quale dà questa frazione come somma di tanti termini del tipo
(p, q, λ e μ numeri reali), termini che s'integrano facilmente.
È da rilevare che l'integrale indefinito d'una qualsiasi funzione razionale è sempre composto d'un numero finito di termini, fra i quali figurano soltanto delle funzioni razionali e le trascendenti elementari logaritmo e arcotangente.
7. Quando s'esce dal campo delle funzioni razionali, ben difficilmente si può esprimere l'integrale indefinito mediante un numero finito di funzioni semplici. In generale, l'integrale indefinito è una nuova trascendente, non riducibile a quelle elementari, e perciò l'operazione d'integrazione crea classi di funzioni via via più complesse. Esistono però alcuni tipi di funzioni irrazionali, algebriche e trascendenti, per le quali la riduzione, a cui abbiamo accennato, si presenta possibile; e per queste funzioni si raggiunge, generalmente, lo scopo con un metodo detto della razionalizzazione, che consiste nel trasformare, mediante la regola d'integrazione per sostituzione, l'integrale dato in quello d'una funzione razionale. Tale metodo serve, ad esempio, per il calcolo degl'integrali
dove F è simbolo di funzione razionale; non serve, invece, per
se P (x) è un polinomio di grado superiore al secondo. In questo caso, l'integrale scritto rappresenta generalmente una trascendente non riducibile a quelle elementari. Se P (x) è di 3° o 4° grado, l'integrale dicesi ellittico, perché si presenta nella determinazione della lunghezza d'un arco d'ellisse, e il suo studio è di grande importanza, tanto nelle matematiche pure che in quelle applicate; se P (x) è di grado superiore al 4°, l'integrale dicesi iperellittico (v. funzione: Funzioni notevoli).
8. Quando non si riesce a esprimere l'integrale indefinito con funzioni note, e anche quando ciò, pur essendo possibile, diventa molto complicato, il calcolo approssimato dell'integrale definito si eseguisce sviluppando la funzione integranda in serie di funzioni elementari, conservando di tale serie soltanto un numero sufficiente di termini, in modo da conseguire una prefissata approssimazione, e integrando poi l'espressione così ottenuta. Lo stesso calcolo si eseguisce praticamente anche con altri metodi, secondo formule di cui la più comune è quella di Th. Simpson (1743); oppure con metodi grafici e anche con l'uso di strumenti, quali i planimetri (fra cui il più semplice è quello inventato da J. Amsler nel 1854) e l'integrafo di Abdank-Abakanowicz, costruito per la prima volta, nel 1878.
9. Se la funzione che s'integra dipende, oltre che dalla variabile d'integrazione x, anche da un parametro α (ossia anche da una seconda variabile α), tale funzione si scrive f (x, α), e l'integrale definito
dipende anch'esso da α. Supponendo che la derivata parziale ∂f/∂α sia sempre continua rispetto al complesso delle due variabili x, α, anche l'integrale sopra scritto risulta derivabile rispetto ad α, e la sua derivata si ottiene con la formula
che esprime la cosiddetta regola di derivazione sotto il segno, data per la prima volta dal Leibniz (1745). Questa regola si estende al caso in cui anche i limiti a e b dell'integrale dipendono dal parametro α, e sono delle funzioni, a (α) e b (α), derivabili; si ha infatti, in queste condizioni,
Integrali generalizzati o improprî. - 10. Come abbiamo già rilevato, la definizione d'integrale definito di Mengoli-Cauchy non può applicarsi alle funzioni f (x) che, nell'intervallo in cui vengono considerate, non sono limitate; e poiché si presenta opportuna, sia per la pura teoria, sia per le applicazioni del calcolo integrale, la considerazione di funzioni illimitate, si è esteso il concetto d'integrale definito anche a tali funzioni. Un'altra estensione dello stesso concetto si fa poi alle funzioni definite in intervalli infiniti, come (a, + ∞), (− ∞, b), (− ∞, + ∞). Abbiamo già detto che la prima considerazione degl'integrali definiti, per le funzioni illimitate e per quelle date su intervallo infinito, è dovuta a E. Torricelli; ora vogliamo aggiungere che l'estensione a questi casi più generali, della nozione d'integrale, si può fare in varî modi. Il più comunemente seguito è quello precisato da A.-L. Cauchy (Résumé des leåons sur le Calcul infinitésimal, 1823).
11. Supponiamo che la f (x), data in (a, b), sia illimitata soltanto in prossimità di un punto c, interno ad (a, b), e che, tolto da questo intervallo un piccolo intervallino (c′, c″), tale che a 〈 c′ 〈 c 〈 c″ 〈 b, nella parte rimanente la funzione risulti limitata e integrabile, secondo la definizione di Mengoli-Cauchy. Allora, se, al tendere di c′ e c″ a c, i due integrali
tendono a due limiti finiti, diciamo che la f (x) è integrabile, in senso generalizzato, in (a, b), e assumiamo come valore del suo integrale la somma di quei due limiti. Questo nuovo integrale si dice integrale definito generalizzato oppure improprio, oppure anche singolare, e si indica con la solita notazione di Fourier. È dunque
intendendo che sia sempre a 〈 c′ 〈 c 〈 c″ 〈 b.
12. Se la f (x) è definita in tutto (a, + ∞), e se, per ogni b > a, nello intervallo (a, b) essa è integrabile, si dirà che essa è integrabile, in senso generalizzato, in (a, + ∞), se esiste, finito, il limite
Questo limite si chiama integrale generalizzato (o improprio) della f (x) su (a, + ∞), e si rappresenta con la scrittura
Analogamente si definisce l'integrale definito generalizzato esteso a (− ∞, b). Quello poi relativo all'intervallo (− ∞, + ∞) vien definito come somma degl'integrali estesi ai due intervalli (− ∞, a), (a, + ∞), a essendo un numero comune scelto. I due integrali generalizzati estesi agl'intervalli (b, + ∞) e (− ∞, + ∞) s'indicano con le scritture
Integrali multipli. - 13. Il concetto d'integrale definito si estende alle funzioni di 2, 3 0 più variabili x, y, z, . . ., e, come hanno mostrato C. Arzelà, O. Stolz, C. Jordan, C. de la Vallée Poussin, ecc., si può porre per esse nella stessa forma in cui Mengoli e Cauchy lo hanno introdotto per le funzioni di una variabile sola. Limitiamoci, per semplicità, alle funzioni f (x, y) di due sole variabili, e supponiamo di considerarne una definita in un certo campo C del piano (x, y). Diviso questo campo in un numero finito di parti, e moltipficata l'area di ciascuna parte per il valore della f (x, y) in un punto comunque scelto nella parte stessa, si formi la somma di tutti i prodotti così ottenuti; se, quando le parti della suddivisione crescono indefinitamente di numero e contemporaneamente tendono tutte allo zero con ambedue le loro dimensioni, la somma indicata ha un limite determinato e finito, allora si dice che la funzione f (x, y) è integrabile nel campo C, e quel limite vien chiamato integrale definito della f (x, y) sul campo C, e rappresentato con una delle scritture
Questo integrale si dice anche integrale doppio (per una ragione che risulterà fra poco) o di campo.
Se la funzione f (x, y) è continua nel campo C, essa risulta anche integrabile; e integrabili sono pure le funzioni limitate che hanno soltanto delle discontinuità semplici.
L'integrale doppio ammette una facile interpretazione geometrica. Supponiamo che sia sempre, nel campo C, f (x, y) ≥ 0, e consideriamo, riferito ad un sistema cartesiano ortogonale di assi x, y, z, il solido limitato in basso dal campo C, in alto, dalla superficie di equazione z = f (x, y), e lateralmente dalla superficie cilindrica a generatrici parallele all'asse z, avente per direttrice il contorno di C (v. fig. 2, dove il campo C è un rettangolo a lati paralleli agli assi). Il volume di questo solido è dato esattamente dall'integrale doppio sopra definito.
14. Il calcolo di un integrale doppio si riconduce a quello di due integrali semplici successivi, intendendo per integrali semplici quelli delle funzioni di una sola variabile. Se il campo C è un rettangolo a lati paralleli agli assi x e y, e se i lati paralleli all'asse y hanno per equazioni x = a e x = b (a 〈 b), e quelli paralleli all'asse x, y = c e y = d (c 〈 d), si ha
e qui è anche contenuto il teorema sull'invertibilità dell'ordine delle integrazioni. Se il campo C, invece di essere rettangolare a lati paralleli agli assi x e y, è racchiuso da una curva incontrata in due punti al più da ogni parallela all'asse x o all'asse y (fig. 3), indicate con a (y) e b (y) le ascisse dei punti d'incontro, con il contorno di C, della retta parallela all'asse x di ordinata y, con c (x) e d (x) le ordinate dei punti d'incontro, con il contorno di C, della retta parallela all'asse y di ascissa x, e dette a e b la minima e la massima ascissa dei punti di C, e c e d la minima e la massima ordinata degli stessi punti, si ha
Integrali curvilinei. - 15. Sia f (x, y) una funzione data in tutti i punti di un campo C del piano (x, y), e sempre continua, e si consideri una linea continua L, appartenente al campo C e di lunghezza finita, si spezzi la linea L in un numero finito di parti, mediante i punti P0, P1, P2, . . ., Pn, dove P0 e Pn sono gli estremi della curva. Supponendo di aver fissato, sulla linea L, un verso positivo e che i punti P, così come li abbiamo scritti, si susseguano sulla L secondo il verso positivo, si indichino con xr e yr l'ascissa e l'ordinata di Pr e si formino le somme
dove xr′ e yr′ sono l'ascissa e l'ordinata di un punto comunque scelto sull'arco Pr-1, Pr di L, ed lr è la lunghezza di tale arco (n. 17). Immaginando di aumentare via via il numero dei punti Pr, in modo che tutte le lunghezze degli archi Pr-1, Pr diventino piccole quanto si vuole, vale a dire, tendano a zero, le tre somme scritte tendono a tre numeri finiti, ben determinati, che si rappresentano rispettivamente con le scritture
e che si chiamano integrali curvilinei della funzione f (x, y) estesi alla linea L. Se è sempre f (x, y) ≥ 0, e se si considerano la superficie z= f (x, y) riferita a un sistema cartesiano ortogonale di assi x, y, z, e la superficie cilindrica a generatrici parallele all'asse z, avente per direttrice la linea L, la parte di questa seconda superficie compresa fra la linea L e la prima superficie, ha un'area che è data dal terzo degl'integrali curvilinei sopra scritti (fig. 4). La stessa parte ha poi due proiezioni ortogonali, una sul piano (x, z) e l'altra sul piano (y, z), le cui aree (computate con segno conveniente) sono date, rispettivamente, dal primo e dal secondo degli integrali indicati.
16. Sia il campo C limitato da una curva chiusa Γ (di lunghezza finita e non intrecciata), e siano P (x, y) e Q (x, y) due funzioni date in C, e continue insieme con le derivate parziali ∂P/∂y, ∂Q/∂x. Si ha allora
dove s'intende che il verso positivo della curva Γ (secondo il quale viene eseguito l'integrale curvilineo) sia quello che lascia il campo C alla sinistra. Questa è chiamata la formula di Green, perché è in stretto rapporto con un'altra stabilita da G. Green (1828), e permette di trasformare gl'integrali di campo in integrali curvilinei, e viceversa. Da essa si trae la seguente importante conseguenza: se è sempre Qx′ = Py′ (e quindi, se Pdx + Qdy è un differenziale esatto) su ogni linea Γ, chiusa e di lunghezza finita, appartenente al campo C, è sempre
e se Γ è aperta, l'integrale ora scritto dipende soltanto dagli estremi della curva e non dagli altri suoi punti.
Analogamente agl'integrali curvilinei, si definiscono gl'integrali di superficie, estesi cioè a superficie dello spazio a tre dimensioni (x, y, z).
Lunghezze, aree e volumi. - 17. Consideriamo una linea L piana o, più generalmente, dello spazio a tre dimensioni, che immaginiamo riferito a un sistema cartesiano ortogonale di assi x, y, z. Supponiamo, per semplicità, che la curva non ritorni mai su sé stessa, vale a dire che non abbia alcun arco parziale formante da sé una linea chiusa. Fissato, sulla L, un verso positivo, inscriviamo in essa una poligonale (spezzata a lati rettilinei) avente gli stessi estremi e i vertici successivi susseguentisi sulla L secondo il verso positivo fissato. Se i lati di questa poligonale si rendono via via più piccoli, e precisamente si fanno tendere a zero, la lunghezza della poligonale tende a un limite unico, che si chiama lunghezza della curva. La lunghezza, così definita, può essere finita (e la linea si dice allora rettificabile) oppure infinita. Se la linea è rappresentata analiticamente da un sistema di equazioni x = x (t), y = y (t), z = z (t), per t variabile in un intervallo (t1, t2), e se le funzioni x (t), y (t), z (t) sono continue insieme con le loro derivate del primo ordine x′ (t), y′ (t), z′ (t), la curva L ha lunghezza finita, data da
Indicando con ds il differenziale della lunghezza dell'arco, si ha
18. Se L è una linea (continua) piana, chiusa e tale che nessuno dei suoi archi parziali formi per sé stesso una curva chiusa, i punti del piano π di questa linea che sono interni alla linea medesima costituiscono un campo C. Che cosa si intende per area del Campo C? Considerate, nel piano π, due rette r1 e r2, fra loro perpendicolari, suddividiamo il piano in tanti rettangoli, mediante due sistemi di rette, parallele, quelle del primo sistema, alla r1 e, quelle del secondo sistema, alla r2; e facciamo la somma delle aree di tutti i rettangoli che risultano contenuti nel campo C (fig. 5). Se tanto le distanze fra le parallele a r1 quanto quelle fra le parallele a r2, si rendono via via più piccole, facendole tendere allo zero, la somma indicata tende a un limite determinato e finito che è, per definizione, l'area del campo C.
Se, stabilito nel piano un sistema cartesiano ortogonale di assi x e y, e detto (a, b) il minimo intervallo contenente tutte le ascisse dei punti di C, la linea L si può spezzare, mediante due punti di ascisse a e b, in due archl'aventi per equazioni y =f (x) e y = ϕ (x), f (x) e ϕ (x) essendo funzioni continue, con f (x) ≥ ϕ (x), l'area di C si calcola mediante l'integrale
In ogni caso l'area si può ottenere prendendo il valore assoluto dell'integrale curvilineo
19. Avendosi, sul campo C precedentemente considerato, una funzione f (x, y), che supponiamo continua insieme con le sue derivate parziali del primo ordine fx′ (x, y), fy′ (x, y), l'area della superficie S, rappresentata analiticamente dall'equazione z = f (x, y), per tutti i punti (x, y) di C, si definisce nel modo seguente. Ciascuno dei rettangoli ottenuti con la suddivisione del piano π più sopra indicata e compresi in C, venga spezzato, mediante una sua diagonale, in due triangoli, e in corrispondenza a questi triangoli si costruiscano i triangoli inscritti nella superficie S che in essi si proiettano ortogonalmente (fig. 6). L'insieme di tutti i triangoli, così inscritti nella S, costituisce una superficie poliedrica inscritta, anch'essa, nella S, e l'area di questa superficie poliedrica, quando le distanze fra le parallele alla retta r1 e quelle alla retta r2 tendono allo zero, tende a un limite determinato e finito, che si assume, per definizione, come area della superficie curva S. Tale limite è uguale all'integrale di campo
il quale dà così il modo di calcolare l'area della superficie S. Se questa superficie è di rotazione attorno a una retta parallela all'asse z, la sua area si può ottenere, anziché con un integrale doppio, mediante un integrale semplice.
20. Il volume di un solido si definisce in modo perfettamente analogo all'area di un campo piano. Se, stabilito un sistema cartesiano ortogonale di assi x, y, z, la superficie che racchiude il solido si può spezzare in due parti, rappresentabili analiticamente con le due equazioni z = f (x, y), z = ϕ (x, y), per tutti i punti (x, y) del campo C, proiezione ortogonale, sul piano (x, y), del solido, e se è sempre f (x, y) ≥ ϕ (x, y), il volume considerato è dato dal
Se il solido è di rotazione attorno a una retta parallela all'asse z il volume V si può ottenere con un integrale semplice, anziché con un integrale doppio.
Generalizzazioni del concetto d'integrale. - 21. Una prima generalizzazione del concetto d'integrale definito, per funzioni f (x) limitate e considerate in intervalli finiti, fu data da T.-J. Stieltjes (Annales de la Faculté des Sciences de Toulouse, III, 1889). Siano f (x) e Φ (x) due funzioni limitate nell'intervallo (a, b). Suddiviso questo intervallo in parti, mediante i punti a0 = a 〈 a1 〈 a2 〈 . . . 〈 an = b, e indicato con xr un punto comunque scelto in (ar, ar+1), si formi la somma
Se, al tendere allo zero di tutte le differenze ar+1 − ar, questa somma tende a un limite finito, tale limite si chiama integrale (definito) di Stieltjes della f (x), rispetto alla Φ (x), corrispondente all'intervallo (a, b), e si indica con la scrittura
Se, per esempio, la f (x) è continua e la Φ (x) è non decrescente o, più generalmente, a variazione limitata (v. funzione), l'integrale di Stieltjes esiste finito.
22. Un'altra generalizzazione, in senso diverso, e applicabile anche a funzioni illimitate, è quella dovuta a H. Lebesgue (Annali di matematica pura e applicata, 1902). Considerata, nell'intervallo (a, b), una funzione f (x), misurabile (v. funzione), e indicato con n un qualunque numero intero positivo, si rappresenti con mr la misura del gruppo dei punti x di (a, b) in cui è r : n ≤ f(x) 〈 (r + 1) : n, r essendo un numero intero qualsiasi (positivo, nullo o negativo), e si formi la somma
Se per un valore di n entrambe le serie scritte sono convergenti, esse risultano tali anche per qualsiasi altro valore di n, e, al tendere di n all'infinito, la somma S tende a un limite finito, che chiamasi integrale (definito) di Lebesgue della f (x) in (a, b), e che si indica con
In questo caso, la f (x) è detta, dal Lebesgue, sommabile. Ogni funzione misurabile e limitata è sommabile.
23. All'integrale del Lebesgue si può giungere per via più elementare (L. Tonelli, Annali di matematica pura e applicata, 1923) con la considerazione delle funzioni quasi-continue (v. funzione). Sia f (x) una funzione quasi-continua in (a, b), e, scelto arbitrariamente un numero intero positivo n, si costruisca una successione d'intervalli di (a, b), due a due senza punti comuni, di lunghezza complessiva minore di 1 : n, e tali che, prescindendo dai valori della funzione nei punti interni a essi, la f (x) risulti continua. Si indichi con fn (x) la funzione che coincide con la f (x) nei punti non interni agl'intervalli costruiti e che varia linearmente in ciascuno di tali intervalli. Questa funzione fn (x) risulta ovunque continua e il suo integrale definito (nel senso di Mengoli-Cauchy), esteso ad (a, b), tende per n → ∞, quando la f (x) si supponga limitata, a un numero determinato e finito, che si assume come integrale della f (x) in (a, b) e che coincide con l'integrale del Lebesgue. Dal caso delle funzioni quasi-continue limitate, si passa poi facilmente a quello delle funzioni illimitate.
24. Per le funzioni misurabili (o quasi-continue) non limitate, A. Denjoy (Comptes rendus de l'Acad. des sciences de Paris, 1912) ha dato una definizione d'integrale più generale di quella del Lebesgue e col suo sussidio è riuscito a determinare le primitive delle funzioni derivate, finite in ogni punto. Questa determinazione si può fare (Tonelli, 1920) anche per le funzioni derivate che sono infinite in una infinità numerabile di punti. Pertanto, l'integrale di Denjoy permette di risolvere completamente il problema della ricerca delle funzioni primitive (che è considerato come il problema fondamentale del calcolo integrale), tutte le volte che esso è perfettamente determinato.
Altre estensioni del concetto d'integrale sono dovute a Jordan, Harnack, Borel, Hellinger, Perron, Young, Pierpont, Radon, Burkill, ecc.
Bibl.: Per la bibliografia, rinviamo a quella posta in fine alla voce differenziale, calcolo. Aggiungiamo soltanto: L. Euler, Institutiones calculi integralis, voll. 3, Pietroburgo 1768-1770; G. Loria, Le scienze esatte nell'antica Grecia, Milano, 2ª ed., 1914; E. Rufini, Il "Metodo" di Archimede e le origini dell'Analisi infinitesimale nell'antichità, Roma 1926; P. Nalli, Esposizione e confronto critico delle diverse definizioni proposte per l'integrale definito di una funzione limitata o no, Palermo 1914.