CALDORA
. Nobile famiglia abruzzese, salita in grande fama e potenza, fra le prime del regno di Napoli, sulla fine del sec. XIV e nella prima metà del sec. XV, per merito specialmente di Giacomo, celebre capitano. Addestrato alle armi nella famosa compagnia di Braccio da Montone; ricco per l'estensione dei possessi famigliari specialmente nella valle del Sangro e in altre parti d'Abruzzo e, nei momenti di maggior splendore, anche in Terra di Bari, costituì una compagnia sua, composta quasi esclusivamente di forti montanari delle sue terre, non per vendersi, per avidità di lucro, al primo potentato, ma per rendersi temuto a tutti, per formare entro il reame uno stato suo. Con grande abilità ed energia riuscì nell'intento; i suoi familiari e aderenti formarono il solo partito veramente saldo fra le case baronali, e il C. ricevette lauti stipendî dai potenti vicini, semplicemente perché le sue bande non li molestassero. Quando s'imparentò con Sergianni Caracciolo, corse voce che i due e il principe di Taranto volessero dividersi il regno come vicarî della Chiesa. Il C. prese parte attiva nella guerra fra Angioini ed Aragonesi, militando a favore di questi ultimi; rinchiuso in Napoli con Don Pietro d'Aragona (1424), privo di mezzi per pagare gli stipendî alle truppe, venne a trattative con gli Angioini, aprì loro le porte della città e passò alla loro parte, col grado di connestabile, a fianco di Francesco Sforza. Marciò sull'Aquila, assediata da Braccio da Montone, e in battaglia campale e col concorso di fortunate circostanze vinse completamente il suo antico maestro d'armi (2 giugno 1424). Si mantenne da allora fedele al servizio di Renato d'Angiò, spesso resistendo, quasi con le sue sole forze, all'impeto degli Aragonesi. Morì improvvisamente il 18 dicembre 1439, mentre stava assediando un castello. Uomo di tempra eccezionale, lasciava una scuola di condottieri che da lui prendeva il nome, e gran fama come capitano ardito e geniale, idolatrato dai suoi soldati, acceso di sì alto orgoglio di sé, da rifiutare sdegnosamente ogni altro titolo che quello, semplice, di sua famiglia e da assumere il motto: Coelum coeli Domino, terram dedit filiis hominum.
Il figlio Antonio, non ereditò le virtù paterne. Egli tenne un contegno ambiguo fra Angioini e Aragonesi, passando con disinvoltura dagli uni agli altri. Vinse gli Aragonesi al ponte della Tufara, ma non valle sfruttare la vittoria: di qui le recriminazioni dell'Angiò, che lo spinsero verso Alfonso d'Aragona. Ma questi lo accolse freddamente, lasciò che i suoi aderenti si appropriassero delle terre del C.; onde costui tornò agli Angioini, sotto agli ordini dello Sforza, ma fu sconfitto a Sessano (28 giugno 1442) e dovette subire il gesto, un po' teatrale, del generoso perdono dell'Aragonese. Continuò a tramare contro il re, finché Alfonso I nel 1464 ruppe gli indugi, lo assediò a Civitaluparella e lo fece prigioniero. Per intercessione dello Sforza, poté riparare a Napoli, dopo aver perduto tutte le sue terre; di qui passò ramingando a Iesi, dove morì in povertà presso un veterano di suo padre. La fortuna della famiglia non si risollevò più.
Bibl.: E. Ricotti, Storia delle compagnie di ventura in Italia, voll. 2, Torino 1893, passim: per Giacomo, v. il bellissimo ritratto che ne fa E. Gothein, Il Rinascimento nell'Italia meridionale, trad. ital., Firenze 1915.