CALENDARIO
(dal lat. calendarium; fr. calendrier; sp. calendario; ted. Kalender; ingl. calendar).
Sommario: Generalità, p. 392; Il calendario dei primitivi, p. 393; Calendarî dell'America antica, p. 393; Calendarî dell'Estremo Oriente, p. 394; Il calendario indiano, p. 395; Il calendario iranico, persiano e armeno, p. 395; Calendarî semitici (mesopotamico, ebraico), p. 396; Il calendario egiziano, p. 396; Il calendario greco, p. 397; Il calendario romano antico, p. 397; La riforma giuliana e la correzione gregoriana, p. 399; Il calendario copto e etiopico, p. 403; Il calendario dei Celti, dei Germani e degli Slavi, p. 403; Il calendario ecclesiastico, p. 403; I calendarî delle chiese orientali, p. 404; Il calendario musulmano, p. 404; Il calendario rivoluzionario francese, p. 405; Il calendario perpetuo, p. 406; Il calendario giuridico italiano, p. 406; Il calendario nel folklore italiano, p. 406.
Generalità. - Il nome calendarium designò presso i Romani il libro in cui i banchieri registravano gl'interessi sulle somme date a prestito che maturavano il primo giorno di ogni mese (v. calende); in seguito sostituì la parola fasti nel denotare le tabelle dei giorni, dei mesi e delle fasi lunari; infine nel Medioevo passò a indicare il complesso delle regole in uso presso ciascun popolo per la ripartizione del tempo in periodi più o meno lunghi (giorno, settimana, mese ed anno) e per la fissazione della data rispetto a un determinato punto di partenza, detto era (v.). Il vocabolo calendario è adoperato anche nel senso di almanacco (v.).
Dei varî elementi del calendario il più antico e fondamentale, è, naturalmente, il giorno; gli altri furono introdotti in seguito. Il concetto di mese sorse dall'osservazione del periodico avvicendarsi delle fasi della luna; il concetto di anno deve la sua origine all'alternarsi delle stagioni, che hanno un'importanza grandissima nel ciclo delle colture.
La settimana nell'antichità non fu così universalmente diffusa come le altre divisioni; è un periodo di tempo sui generis, che pur dovendo la sua origine a un fenomeno naturale (le fasi lunari), ha finito col rompere l'originaria connessione e col costituire un piccolo ciclo a sé, che s'intreccia col mese e con l'anno.
Già in uso regolare da oltre tremila anni nella Babilonide e presso varî popoli dell'Asia Anteriore, la settimana si diffuse in tutto il mondo ellenistico prima dell'era volgare, assumendo il nome dei singoli suoi giorni (rimasti inalterati sino ad oggi, eccetto il sabato e la domenica) dall'astrologia greco-egizia; agli inizî dell'età cristiana penetrò a Roma, si estese per tutto l'Impero romano e presso i popoli con esso confinanti e, grazie al cristianesimo, all'islamismo e alla civiltà europea, è divenuta d'uso universale. Fin dall'alto Medioevo la settimana è l'unico elemento cronologico comune a quasi tutti i popoli non selvaggi della terra, qualunque sia il tipo di calendario (solare, lunare, lunisolare, siderale) da essi seguito, sicché il giorno della settimana è anche l'unico elemento sicuro per stabilire la vera data presso quei popoli che ancora oggi, contando i mesi dall'effettiva apparizione della luna nuova, vengono talora a trovarsi in disaccordo con il giorno del mese risultante dal calcolo astronomico. Oltre a questa somma importanza cronologica, la settimana ne ha una altrettanto grande dal punto di vista religioso, essendo basati su di essa molti precetti rituali del cristianesimo, del giudaismo e dell'islamismo.
I calendarî in uso presso i varî popoli possono essere siderali cioè basati su periodici ritorni di stelle fisse o di costellazioni a una determinata posizione celeste (per es. il levare eliaco o il tramonto cosmico); solari, cioè fondati sull'apparente rivoluzione del sole intorno alla terra: lunari, cioè basati sul raggruppamento in anno di parecchi mesi lunari (ossia rivoluzioni della luna intorno alla terra); lunisolari, quando, essendo basati sui mesi lunari, ristabiliscono l'accordo fra anni solari e anni lunari mediante intercalazioni di settimane e di mesi supplementari.
L'anno, sia esso solare, o siderale o lunare, si distingue poi in astronomico e civile: il primo è esattamente la durata del fenomeno celeste preso come base (p. es. l'apparente rivoluzione del sole intorno alla terra), mentre il secondo è un arrotondamento del primo fatto allo scopo di eliminare le frazioni del giorno.
Si chiama anno solare o tropico il periodo di tempo che intercede fra due successivi apparenti ritorni del sole a un medesimo punto equinoziale (equinozio di primavera oppure equinozio d'autunno); esso in media è di 365d 5h 48m 46s, con oscillazioni minime e praticamente insensibili dovute alla nutazione dell'asse terrestre. Lievissimamente più lungo, ossia di 365d 6h 9m 10s, è l'anno sidereo, corrispondente al tempo che occorre al sole per ritornare al medesimo circolo di declinazione d'una data stella fissa, dal quale lo si era immaginato partito. Senza importanza per i calendarî è l'anno anomalistico, di 365g 6h 13m 37s, che è l'intervallo di tempo fra due consecutivi passaggi del sole al perigeo. Anno lunare è la denominazione convenzionale ma impropria della somma di dodici cosiddetti mesi (in realtà anni) lunari sinodici, i quali sono l'intervallo di tempo fra due congiunzioni della luna col sole, ossia fra due novilunî, e sono di 29d 12h 44m 3s, cosicché l'anno risulterebbe di 354d 8h 48m 36s.
Altra denominazione molto importante dal punto di vista del calendario è quella di anno vago, che designa l'anno civile di soli 365 giorni nei sistemi che non fanno uso di bisestili, come era il caso presso gli Egiziani prima della riforma giuliana e presso i Persiani ancora parecchi secoli dopo l'islamismo.
Si può rilevare che i calendarî a base lunare hanno avuto origine presso i popoli a vita essenzialmente nomade o pastorale, mentre i calendarî a base solare nacquero fra le popolazioni agricole; i sistemi siderali sono sorti verosimilmente più tardi e si riscontrano tanto presso nomadi quanto fra sedentarî.
Nei calendarî lunari e lunisolari l'inizio del giorno è posto al tramonto del sole, cosicché la notte è considerata far parte della giornata seguente; tale è il caso ancor oggi dei calendarî ebraico e mussulmano, e tale pure era diffusissima usanza in Italia sino alla metà del secolo scorso. Nei calendari solari il giorno è computato dal sorgere del sole (antichi Egizî e antichi Persiani) o dalla mezzanotte (Cinesi, Romani e moderni popoli europei o europeizzati) o infine del mezzogiorno (astronomi, da Ipparco ai nostri giorni).
Bibl.: J. J. Scaliger, De emendatone temporum, Ginevra 1629; id., Thesaurus temporum, Amsterdam 1658; D. Petau, De doctrina temporum, Anversa 1703; Art de vérifier les dates, 4ª ed., Parigi 1818-1844, voll. 11; L. Ideler, Handbuch der mathematischen und technischen Chronologie, Berlino 1825-26, voll. 2; F. J. Brockmann, System der Chronologie, Stoccarda 1883; E. Mahler, Chronologischen Vergleichungstabellen, Vienna 1889; R. Schram, Chronologische und kalendariographische Tafeln, Lipsia 1908; F. K. Ginzel, Handbuch der mathematischen und technischen Chronologie, Lipsia 1906-14, voll. 3; art. Calendar, di varî, in Hastings, Encycl. of Relig. and Ethics, III, Edimburgo 1910, pp. 61-140.
Il calendario dei primitivi.
L'uomo primitivo si orienta rispetto al tempo per mezzo della osservazione di quei fenomeni della natura, importanti economicamente, che ricompaiono a periodi regolari: maturazione delle piante nutritive, mutamento della direzione del vento, contrasto fra periodi di siccità e di pioggia. Per suddividere e stabilire con maggior precisione il tempo, egli ricorre al moto del sole e della luna, al sorgere e tramontare degli astri. Le unità del suo computo sono i giorni, i mesi e l'anno. Il giorno viene suddiviso di solito a seconda delle differenti posizioni del sole; a Sa'a (Isole Salomone) si contano dal sorgere di Venere fino all'alba cinque periodi, poi fino al crepuscolo altri dodici. In Groenlandia si divide il giorno secondo l'alta e bassa marea; di notte ci si serve delle costellazioni per la precisazione dell'ora. Di solito il computo non viene fatto secondo i giorni, ma in base alle notti; se un Sioux del Dakota vuol dire: tre giorni fa, egli usa la seguente espressione: ho dormito da allora tre volte. Il corso dei giorni fino a una determinata data viene poi sovente fissato con l'aiuto di bastoni o nodi di corda, ecc. L'indiano Maidu che è invitato a una festa, riceve una corda con tanti nodi quanti sono i giorni che intercorrono fra l'invito e la festa; con lo sciogliere ogni giorno un nodo egli si rende conto dell'approssimarsi della data fissata. Una specie di orologio solare conoscono gli Ojibway, i quali piantano un bastone nella neve o nella sabbia e vi segnano l'ombra con una linea: chi poi si reca in quel luogo, può calcolare l'ora in cui si era presentato l'amico. Anche il succedersi delle fasi lunari viene usato universalmente per il computo del tempo: quasi dovunque le parole "mese" e "luna" sono affini o identiche. Presso i Klamath (Oregon) e i Timucua (Florida) la luna si chiama "il misuratore del tempo" oppure "l'astro che indica il tempo". Lo spazio di un mese s'estende solitamente da una luna nuova all'altra, la sua durata si precisa per mezzo dell'osservazione delle fasi; ma difficilmente i popoli primitivi sanno indicare di quanti giorni sia formato un mese. Sulla scorta delle fasi lunari s'imprende la divisione ulteriore del mese in due parti (luna calante e crescente). Gli Zuñi lo dividono in tre parti, i Wyandot-Uroni in quattro, i Maleciti in nove. Ci si deve però guardar bene dal concepire queste divisioni come corrispondenti alla nostra settimana; qui si tratta solo d'una grossolana spartizione del mese secondo l'avvicendarsi delle fasi. Una "settimana" che non ha nulla in comune con le fasi, è la settimana del mercato (per lo più 4 o 5 giorni), diffusa specialmente in Africa, dove, del resto, i singoli giorni della settimana sono posti sotto la protezione di determinati dei (p. es. la "settimana" di cinque giorni dei Yoruba); similmente i Polinesiani usano nomi di giorni, desunti talvolta da quelli delle divinità.
L'anno dei popoli primitivi non è dapprima né un anno solare astronomico né un anno lunare; si tratta semplicemente di un anno naturale, vegetativo, nel quale principio e fine vengono fissati da fenomeni periodici della natura, che hanno importanza per l'uomo. I Klamath, per es., si nutrono specialmente del seme d'un giglio (wokas) che viene raccolto d'estate: l'epoca della raccolta segna quindi il principio dell'anno. Ugualmente, presso gl'indiani Maidu che si nutrono della farina delle ghiande, l'anno incomincia con la caduta di esse. E, in modo analogo, per tutti gli agricoltori primitivi, la coltura di determinate piante alimentari rappresenta anche un "periodo di tempo". Nella regione dei monsoni, il loro avvicendarsi serve dovunque per la divisione dell'anno. Questo, in realtà, è quasi dovunque diviso in alcune stagioni, e per ragioni naturali prevale, su vasti territorî, una divisione duplice (estate e inverno, monsone di NO. e monsone di SE., periodo di siccità e di pioggia). Anzi in molti casi manca la parola per designare l'anno, ma esiste solo la designazione di un periodo semiannuale. Nell'America del Nord il computo si fa di solito secondo "inverni", più raramente secondo "estati". Si può però riscontrare anche un maggior numero di stagioni, di durata non precisata; così i Cree occidentali ne enumerano otto. Le stagioni non vengono fissate in base a osservazioni astronomiche, ma seguendo l'avverarsi di quei dati fenomeni che sono caratteristici dei singoli periodi. I Micmac dicono che è venuta la primavera quando cominciano a germogliare le foglie e ad apparire le anitre selvatiche; l'estate, quando i salmoni risalgono la corrente e le anitre selvatiche perdono le penne; l'autunno, quando gli uccelli acquatici ritornano dal nord al sud; è inverno quando si fa sentire il freddo, la neve ricopre abbondante la terra e gli orsi si ritirano nelle cavità dei tronchi per il sonno invernale. Questa fissazione empirica del tempo si riscontra dovunque. Ma è ovvio che si tenti anche di mettere in relazione gli avvenimenti importanti, ricorrenti periodicamente durante l'anno naturale, con altri fenomeni sincroni della natura, allo scopo di stabilire più esattamente il loro verificarsi; ciò avviene in vasti territorî con l'osservazione di stelle o costellazioni, che a un dato momento sorgono o tramontano. Secondo la posizione delle Pleiadi in molte regioni del Brasile gl'indigeni stabiliscono il tempo della semina; a Mindanao si riconosce il tempo opportuno per la piantagione del riso dall'apparire di Orione e della costellazione Poyo-Poyo (Pleiadi?). Nel linguaggio dei Moanu (Isole dell'Ammiragliato) tjasa e rua, "ho due anni", significa letteralmente "le mie Pleiadi sono due"; perché qui il periodo iniziale del monsone di NO. viene determinato con la prima apparizione delle Pleiadi (tjasa) sull'orizzonte, quando annotta; se invece all'inizio della notte sorgono sull'orizzonte lo Scorpione e Altair, si sa che comincerà a soffiare ben presto il vento di SE. I mesi dei Kiwai (Nuova Guinea ingl.) prendono quasi tutti il nome da una costellazione che durante il mese s'accosta, sull'orizzonte occidentale, al suo tramonto.
Da una subordinazione dei mesi lunari all'anno, da principio ancor molto grossolana, nasce un ciclo di nomi di mesi e il calendario lunare in senso proprio. A seconda che i mesi vengano indicati semplicemente con numeri in base alla loro successione entro l'anno, o i loro nomi si riferiscano a particolari fenomeni della natura o della vita culturale degli uomini, si ha la nomenclatura numerativa o la descrittiva. La prima è più rara, ma è riscontrabile p. es. lungo la costa occidentale dell'America settentrionale; la seconda invece è di gran lunga la più usuale. Così presso i Camciadali l'agosto si chiamava "il mese della luce lunare", perché in questo mese al chiarore della luna si faceva la pesca; l'aprile era detto "mese delle batticode", da questi uccelli annunziatori della primavera. I Sioux del Dakota chiamano gennaio "il mese in cui i feti dei bufali sono buoni da mangiare"; luglio è il mese in cui le ciliegie sono rosse; settembre quello in cui ingialliscono le foglie. Spesso i nomi dei mesi si riferiscono anche a feste o a giuochi che si tengono in quel periodo. Si può verificare anche una subordinazione dei mesi alla bipartizione dell'anno, quando si distingue una serie estiva e invernale, entro cui si ripetono gli stessi nomi dei mesi (Zuñi). Giacché l'anno naturale non contiene mai un numero intero di mesi, ne risulta p. es. il fatto caratteristico per la maggior parte degl'Indiani dell'America del Nord, che non si conosce di solito con esattezza in quale mese ci si trova. A questa manchevolezza viene ovviato, o interpolando di tanto in tanto un tredicesimo mese oppure aggiungendo, a scopo di conguaglio, alla fine dell'anno naturale, un "resto d'anno" di varia lunghezza. Una tale rettificazione può avvenire anche semestralmente. Per liberarsi dalle incertezze della determinazione dell'anno puramente empirica, si tenta variamente di basarla su un fondamento astronomico. A questo scopo servono i solstizî: talvolta (come presso gl'indiani Pueblo) vengono presi in considerazione entrambi, ma di solito non si considera che il solstizio invernale: così i Groenlandesi orientali cominciano il loro anno con la prima luna nuova dopo il giorno più breve.
La riunione di un numero d'anni in unità maggiori (cicli) non si riscontra presso popoli veramente primitivi, essendo ciò anche superfluo per le loro necessità. Se si vogliono determinare particolarmente singoli anni, lo si fa con l'indicazione di speciali avvenimenti che vi si sono avverati; gl'Indiani delle praterie nordamericane usavano a questo scopo di preferenza grandi cadute di meteore; i Mandingo distinguono secondo Mungo Park, i singoli anni per mezzo dell'indicazione di guerre e conquiste che vi ebbero luogo.
Bibl.: Cenni sul computo del tempo presso i popoli primitivi sono sparsi in tutta la letteratura etnologica. V. in particolare: F. K. Ginzel, op. cit.; L. Cope, Calendars of the Indians North of Mexico, nelle Pubbl. dell'Università di California, 1919, n. 16, p. 119 segg.; R. Dangel, Die Zeitrechnung der californischen Indianer, in Anthropos, XXIII (1928).
Calendarî dell'America antica.
Messicani. L'anno civile degli Aztechi era un anno solare di 365 giorni, che si divideva in 18 periodi di 20 giorni ognuno. A queste 18 serie corrispondevano 18 feste annuali, i cui nomi erano i seguenti: 1) Toxcatl; 2) Etzalqualiztli; 3) Tecuilhuitontli; 4) Ueitecuilhuitl, 5) Miccailhuitontli; 6) Ueimiccailhuitl; 7) Ochpaniztli; 8) Teotleco; 9) Tepeilhuitl; 10) Quecholli; 11) Panquetzaliztli; 12) Atemoztli; 13) Tititl; 14) Izcalli; 15) Atlcaualo; 16) Tlacaxipeualiztli; 17) Tozoztontli; 18) Ueitozoztli. Gli ultimi cinque giorni dell'anno erano ritenuti nefasti e inadatti a qualunque lavoro. ll capo d'anno cadeva in maggio; si tentò anche di correggere la durata dell'anno, che risultava troppo breve di circa un quarto di giornata, ricorrendo a interpolazioni periodiche: sul come e quando però le opinioni sono discordi. È evidente che tale anno non ha nulla di primitivo; ad un più antico anno naturale risale però la parola azteca xiuitl che significa "erba verde, novella, succosa". Per il più esatto computo erano impiegate, oltre al sole, anche alcune costellazioni (p. es. le Pleiadi).
L'unità di tempo dei sacerdoti e dei dotti, a scopo rituale-astrologico, era però il tonalamatl, parola che si può tradurre "il libro dei segni del giorno". Constava di 260 giorni questo spazio di tempo, entro il quale i numeri dall'i al 13 erano combinati con la serie dei 20 "segni del giorno" (tonalli) e precisamente: 1) cipactli (pesce palla o coccodrillo); 2) eecatl (vento); 3) calli (casa); 4) cuetzpalin (lucertola); 5) couatl (serpente); 6) miquiztli (morte); 7) mazatl (cervo); 8) tochtli (coniglio); 9) atl (acqua); 10) itzcuintli (cane); 11) ozomatli (scimmia); 12) malinalli (ciuffo d'erba); 13) acatl (canna); 14) ocelotl (giaguaro), 15) quauhtli (aquila); 16) cozcaquauhtli (avvoltoio); 17) olin (moto rotatorio); 18) tecpatl (coltello di selce); 19) quiauitl (pioggia); 20) xochitl (fiore). La combinazione della serie dei simboli con le cifre, avveniva nel modo seguente: il primo giorno del tonalamatl si chiamava "i pesce palla", il seguente "2 vento", il prossimo "3 casa" ecc. fino al 13° giorno che si chiamava "13 canna"; il 14° giorno era poi l'"i giaguaro"; il 15°, il "2 aquila"; il 16°, il "3 avvoltoio", ecc. Entro lo spazio di 260 giorni una determinata combinazione di cifre e segni non poteva comparire che una sola volta e quindi il giorno, entro il tonalamatl, risultava in questo modo determinato senza possibilità di equivoco: così, p. es., entro un periodo di 260 giorni, il 98° giorno era il "7 coltello di selce"; il 199° il "4 pioggia".
Gli Aztechi avevano grande rispetto per questo tonalamatl. Vi erano divinità dei 20 segni del giorno, delle 20 "settimane" di 13 giorni, delle 13 ore del giorno. Sia l'avvenimento più grande, sia il minimo, veniva messo in relazione con il tonalamatl; chi era intelligente si comportava precisamente secondo i singoli giorni, perché l'influenza dei loro segni era ora favorevole ora sfavorevole. Esisteva una vera "scelta del giorno"; i bambini venivano chiamati spesso col nome del giorno di nascita, gli dèi secondo una data che era connessa con i loro miti.
Il pareggio dell'anno solare col tonalamatl portò alla scoperta del "grande periodo" di 52 anni (xiuhmolpilli "anni congiunti, nodo d'anni"), diviso in quattro periodi di 13 anni (tlalpilli "legato, annodato"). È questa un'allusione all'uso delle corde a nodi. Perché se p. es. un anno cominciava col giorno "i canna", il secondo principiava con "2 coltello di selce", il terzo con "3 casa" il quarto con "4 coniglio", il quinto con "5 canna", ecc.; il quattordicesimo con "1 coltello di selce" il ventisettesimo con "i casa", il quarantesimo con "i coniglio"; soltanto il 53° anno cominciava di nuovo con "i canna": cioè dopo 52 anni tutto ricominciava da capo. In realtà si concepiva il periodo di 52 anni come un periodo di tempo conchiuso, con lo spirare del quale era da aspettarsi una fine del mondo; la solenne accensione di fuoco sul petto di un prigioniero condannato al sacrifizio iniziava il nuovo periodo.
Gli anni entro il ciclo sono determinati esattamente dall'indicazione della data dell'inizio. Se risulta che il re Quetzalcouatl morì in un anno i canna" e il suo successore nell'anno "10 coniglio", si può facilmente calcolare che la seconda data è di 35 anni posteriore alla prima. La concezione astrologica del mondo risultante dal tonalamatl, il sistema di riporto delle due serie e più di tutto i simboli usati (segni del giorno, ecc.) sono stati di recente oggetto del più profondo esame, specialmente da parte di Fr. Rock, esame che sulla scorta di ricco materiale di confronto stabilisce, senza possibilità di dubbio, punti di contatto con calendarî del mondo antico e pone fra l'altro su base del tutto nuova anche il problema dell'origine del periodo tonalamatl dall'anno di Venere.
Maya. - Al calendario tolteco-azteco sono essenzialmente somiglianti i calendarî degli Zapotechi, Mixtechi e Maya. Questi ultimi conoscevano a loro volta l'anno solare di 365 giorni, che cominciava in luglio e si divideva in 18 periodi di 20 giorni; gli ultimi cinque giorni dell'anno si chiamavano xma qaba qin (giorni senza nome). La serie dei 18 periodi era la seguente: Pop, Uo, Zip, Zotz, Tzec, Xul, Yaxkin, Mol, Chen, Yax, Zac, Ceh, Mac, Kankin, Muan, Pax, Kayab, Cumku. I venti segni del giorno del loro tonalamatl erano: Imix, Ik, Akbal, Kan, Chicchan, Cimi, Manik, Lamat, Muluc, Oc, Chuen, Eb, Ben, Ix, Men, Cib, Caban, Eznab, Cauac, Ahau. Le unità di tempo erano: 20 giorni = 1 uinal; 18 uinal = 1 tun (360 giorni); 20 tun = I katun (7200 giorni); 20 katun = 1 ciclo (144.000 giorni); 13 oppure 20 cicli costituivano il grande ciclo con 1.872.000 oppure 2.800.000 giorni. Numerose stele della regione dei Maya portano delle date espresse con grandi cifre: evidentemente esse sono calcolate partendo da un punto d'inizio, naturalmente mitico, assai remoto. Non ci si può qui soffermare sui varî tentativi di determinare quest'era e di metterla in relazione col nostro calcolo del tempo.
Peruviani. - L'anno di questo popolo era un anno vegetativo, più esattamente determinato per mezzo dell'osservazione di solstizî ed equinozî; pare fosse suddiviso in 12 mesi di 30 giorni, con 5 giorni aggiunti alla fine d'anno; ogni quattro anni dovrebbe essere stato interpolato un giorno. È evidente che è riscontrabile anche qui la credenza dell'influsso benigno o malefico di certe costellazioni sulle azioni umane; così p. es. stavano sotto l'influenza del maman mircuc coyllur "stella divoratrice della madre") le tribù selvagge che divoravano il padre o la madre. Non vi è tuttavia alcuna traccia di qualche cosa di somigliante al tonalamatl dell'America centrale. L'originaria composizione dell'anno viene confermata dai nomi dei mesi tramandatici, che si riferiscono ai fenomeni della natura e della coltivazione: p. es. il nome del mese di maggio, aymura-y, significa "l'ammucchiare il grano". L'osservazione degli astri, particolarmente del sole, era compito dei dotti (amauta); essi osservavano equinozî e solstizî con l'aiuto di pilastri di pietra, di cui otto si trovavano all'estremità orientale e occidentale di Cuzco. Ma anche in altri luoghi esistevano pilastri simili per l'osservazione della posizione del sole, chiamati inti-huatana ("strumento per legare il sole"). L'osservazione del sole si chiamava inticta huatay e il nome dell'anno, huata, significa probabilmente null'altro che "legamento o osservazione del sole", accenno appunto a un principio d'anno fissato mediante l'osservazione del sole.
Bibl.: E. Seler, Gesammelte Abhandlungen zur amerikanischen Sprach- und Altertumskunde, I-V, Berlino 1920-23; C. Thomas, The Maya year, in Bur. Amer. Ethnol., Bull. XVIII, Washington 1894; Ch. Pickering Bowditch, The numeration, calendar systems and astronomical Knowledge of the Mayas, Cambridge 1910; F. Graebner, Alt-und neuweltliche Kalender, in Zeitschrift f. Ethnol., 1921; Fr. Röck, Kalender, Sternglaube und Weltbilder der Tolteken als Zeugen verschollener Kulturbeziehungen zur alten Welt, in Mitteil. der anthrop. Ges., LII, Vienna 1922; id., Kalenderkreise und Kalenderschichten im alten Mexico und Mittelamerika, in Festschrift f. P. W. Schmidt, Vienna 1928.
Il calendario cinese. - Gli antichi Cinesi (contrariamente ad affermazioni molte volte ripetute in libri europei) prima del IV secolo a. C. non avevano chiare nozioni del movimento celeste; sembra che conoscessero approssimativamente la durata dell'anno solare, che stimavano di 366 interi, e avevano forse anche fatto dei tentativi per la costruzione di un rozzo calendario lunare.
Venute dall'Occidente le prime nozioni scientifiche di astronomia, i Cinesi verso il 300 a. C. conobbero l'anno di 365 giorni e un quarto, appresero a cominciare l'anno con l'equinozio di primavera e ad applicare il ciclo di Metone (v. oltre: calendario greco). Un nuovo calendario fu adottato a partire dal 265 a. C. e restò in uso fino alla riforma del 104 a. C., alla quale collaborò il celebre storico Ssu-ma Ch'ien.
Nel 196 d. C. il matematico e astronomo Liu Hung scoperse che i solstizî non sono fissi e che l'anno tropico non è esattamente di 365 giorni e ¼. Si ebbe perciò una riforma nel 265 d. C., corretta nel 274 e più tardi nel 385.
Altre riforme si ebbero nel 600, nel 1065, e nel 1286: quest'ultima sotto i Mongoli, alla corte di Qubilai. Durante la dinastia mongola e la seguente dinastia Ming la compilazione del calendario rimase affidata ai musulmani, i quali, nel 1395, pubblicarono un trattato di cronologia e un calendario perpetuo.
Il gesuita italiano Matteo Riccí, giunto a Pechino nel 1601, insistette presso le autorità cinesi sulla necessità di riformare il loro calendario; la riforma venne affidata nel 1629 ai gesuiti Sabatino de Ursis, e Terenzio, Schreck. Nel 1645 fu dichiarato ufficiale il calendario pubblicato dai gesuiti. Soppresso nel 1668 l'ufficio dei musulmani, dal 1669 in poi i soli gesuiti furono incaricati della compilazione del calendario; nel 1683 ne pubblicarono uno per gli anni dal 1624 al 2021, base dei calendarî annuali ufficiali, fino al 1911. Queste tavole non corrispondono però esattamente ai calendarî pubblicati ogni anno.
Questo calendario è regolato sui movimenti veri del sole e della luna, riferiti al meridiano di Pechino, e dedotti dalle tavole di Tycho Brahe. L'anno ha 12 lune; s'intercala talvolta una tredicesima luna per ristabilire l'accordo fra i movimenti della luna e del sole. Gli anni comuni di dodici lune hanno 354, ovvero 355 giorni, e gli anni pieni di 13 lune hanno 383 ovvero 384 giorni. Il mese intercalare degli anni pieni ha luogo allorquando il sole resta sempre nello stesso segno dello zodiaco durante un'intera lunazione. Il capo d'anno cade tra il 20 gennaio ed il 19 febbraio, cioè col principio della lunazione durante la quale il sole entra nel segno zodiacale dei Pesci.
I mesi non hanno nome particolare, ma sono indicati soltanto col numero d'ordine. I mesi, o lune, hanno 29 o 30 giorni, i primi si chiamano corti e gli altri lunghi. Il principio del mese cade nel giorno della nuova luna vera per il meridiano di Pechino.
Gli anni sono denominati dal nome assunto da ogni nuovo imperatore, contando generalmente come anno I, l'anno successivo all'accessione al trono. Questo nome di regno (nien hao) fino a tutta la dinastia mongola (1368 d. C.) veniva altresì cambiato, una o più volte, durante il regno dell'imperatore, per ragioni astrologiche. La numerazione degli anni ricominciava in tal caso col nuovo nome (v. era).
Il giorno civile cominciava a mezzanotte ed era diviso in dodici parti uguali, corrispondenti ciascuna a due delle nostre ore.
Il 20 novembre 1911 il governo repubblicano ha adottato il calendario gregoriano; rimase però nell'uso comune il vecchio calendario dei gesuiti, finché il governo di Nanking stabilì che, col 1° gennaio 1930, il solo calendario gregoriano sia riconosciuto dallo stato, per tutti gli usi civili. Quindi l'anno gregoriano 1930 coincide con l'anno 19 della Repubblica cinese.
Bibl.: Date le complicazioni di questa riforma è difficile accertare con precisione le date dei documenti cinesi. Per stabilire la corrispondenza delle date cinesi è pressoché indispensabile adoperare opere speciali, tra cui le più importanti sono: M. Tchang, Synchronismes Chinois, in Var. Sin., n. 24, Shanghai 1905; P. Hoang, Concordance des chronologies néméniques chinoises et europennes, ibid., n. 29 (calendario puramente teorico, da adoperarsi con precauzione); Havret e Chambeau, Notes concernant la chron. chinoise, ibid., n. 25, 1920.
Il calendario giapponese. - Nell'antico Giappone le stagioni e le fasi della luna formavano la base di un calendario intorno al quale si hanno idee molto vaghe. Nel 604 d. C. il religioso buddhista Kwanroku, coreano, introdusse il calendario lunisolare cinese. Questo calendario, con alcune modificazioni effettuate nel 763, nel 856, ecc., fu adoperato fino al 1684, nel quale anno il giapponese Shibukawa Shunkai adattò al Giappone il calendario cinese riformato dai gesuiti. Quest'ultimo fu modificato nel 1754, nel 1798, e nel 1842, e soppresso nel 1872. Un decreto imperiale fissò l'inizio del nuovo anno al 1° gennaio 1873. Il calendario gregoriano fu allora adottato per i giorni e per i mesi. Gli anni sono però computati, come già in Cina, ricominciando la numerazione nell'anno successivo a quello in cui sale al trono un nuovo imperatore. I Giapponesi contano altresì con continuità gli anni dal 660 a. C., supposto primo anno di regno dell'imperatore leggendario Jimmutennü (v. era). Come per la Cina, per confrontare le date giapponesi con quelle europee occorre adoperare tavole speciali. Sono utili quelle di W. Bramsen, Japanese Chronological Tables, che dànno la corrispondenza dal 645 d. C. in poi. L'Annam, il Tonchino, la Corea, hanno pure adottato il calendario cinese seguendone le riforme.
Il calendario indiano.
Nell'India non musulmana il calendario risulta dalla sovrapposizione o giustapposizione dell'anno sidereo all'anno lunisolare. Accanto ai mesi solari si hanno i mesi lunari di 29 e 30 giorni, risultanti dal calcolo dei novilunî. I nomi sanscriti, usati in forma corrotta nelle varie località, la durata dei mesi lunisolari e i segni dello zodiaco in ognuno dei quali i singoli mesi rispettivamente entrano sono i seguenti:
Il mese (māsa) veniva diviso in due quindicine (pakṣa): śuklapaksa, la metà chiara (śukla) o il periodo del crescer della luna: kṛṣṇapakṣa, la metà oscura (kṛṣṇa), o il periodo del calar della luna.
Ogni quindicina aveva quindici tithi o giorni lunari di durata un po' inferiore a quella del giorno solare (così che la 62a tithi si aveva nello stesso momento della 61a solare). Ogni giorno veniva indicato, col suo numero progressivo, come appunto appartenente alla quindicina chiara o scura del mese. I mesi venivano raggruppati a due a due in stagioni (ṛtu).
Il giorno civile solare (ahoratra: giorno e notte), che si inizia al levar del sole, comprendeva, secondo Manu (I, 64), 30 muhūrta; i muhūrta, 30 kalā; 1 kalā, 30 kaṣṭha e una kaṣṭhā; 18 nimeṣa.
Gl'Indiani solevano inoltre raccogliere, teoricamente, il tempo in grandi età o yuga. Fra tutti gli yuga, il Kali, l'ultimo, il più breve, quello nel quale attualmente viviamo e che di tutti è il peggiore, è spesso usato a fini astronomici, non mai civili. Esso è della durata di 432.000 anni. Tutti gli yuga principali costituiscono insieme un mahāyuga ("grande yuga"); 71 mahāyuga formano un manvantara; 14 manvantara (compresi gl'intervalli fra ciascuno di essi, ammontanti a 6 mahāyuga) dànno luogo a un kalpa, che consta, così, di 1000 mahayuga, misura di tempo rappresentata dal "giorno di Brahma", che è preceduto da una nuova creazione (sṛṣṭi) e finisce in una dissoluzione cosmica (pralahya).
Oggi vigono in India ere vere e proprie, principalissime tra le quali sono la Vikrama e la Śakha o Śālivāhana. La prima, in uso in tutta l'India settentrionale, ha il suo punto di partenza dal 58 a. C.: dal primo giorno della quindicina chiara di Kārttika (ottobre); l'altra, usata nell'India meridionale, muove dal 78 d. C. e s'inizia col primo giorno della quindicina chiara di Caitra (marzo).
Bibl.: Thibaut, Astronomie, Astrologie und Mathematik, in Grundriss der indo-arischen Philologie und Altertumskunde, III, ix, Lipsia 1899.
Il calendario iranico, persiano e armeno.
Il calendario iranico. - Il calendario seguito nell'Avestā e nei testi religiosi dell'età di mezzo e sul quale oggi si fonda il calendario dei Pārsi in India è diverso da quello che è seguito nelle iscrizioni cuneiformi degli Achemenidi. Qui l'anno è composto di dodici mesi, i cui nomi, per quanto si può giudicare da quelli che sono documentati (garmapada, forse "inizio della caldura", ϑūravāhara "la primavera rigogliosa", ϑāigarčay "la raccolta dell'aglio", adukanay "lo scavo dei canali", bāghayāday "l'adorazione degli dei", aäiyādiyā "la celebrazione del fuoco", anāmaka "il senza nome", viyaχna), non tradiscono alcun carattere propriamente zoroastriano. Dal confronto della redazione persiana con la elamita e la babilonese risulta chiaro che il calendario degli Achemenidi, fatta astrazione dei nomi, concordava con il calendario babilonese.
Il calendario avestico invece ha carattere spiccatamente religioso. L'anno è pur esso composto di dodici mesi di trenta giorni ciascuno; alla fine vengono aggiunti cinque giorni, cosicché l'anno consta invariabilmente di 365 giorni. I nomi dei mesi e quelli dei giorni sono nomi di divinità del pantheon mazdaico. L'inizio dell'anno cade all'equinozio di primavera (21 marzo) e i nomi dei mesi si susseguono senza riguardo all'ordine tradizionale con cui sono elencati Ahuramazdā e le sue divinità. Nella forma pahlawī (o medio-persiana) essi suonano: Fravartīn, Artavahièt, Horvadat, Awurdat, Èatvar, Mihr, Āvān, Ātar, Dīn, Vohuman, Spendarmat. Invece nei nomi dei giorni l'ordine tradizionale delle divinità è rispettato: Ührmazd, Vohuman, Artavahièt, Èatvar, Spendarmat, Horvadat, Amurdat, Dīn pa Ātar, Ātar, Avān, Xūrèēt, Māh, Tīr, Güè, Dīn pa Mihr, Mihr, Sroè, Raèn, Fravartīn, Vahrām, Rām, Vāt, Dīn pa Dīn, Art, Āètāt, Āsmān, Zamyat, Mahraspand, Anērān. Il primo, l'ottavo, il quindicesimo e il ventiquattresimo giorno erano consacrati ad Ahuramazdä. Ciò ha indotto qualcuno a ritenere che il mese zoroastriano fosse diviso in quattro settimane; ma in realtà esso era diviso in 14+16 e i giorni consacrati al dio supremo erano in ciascuna parte il primo (quindi il primo e il quindicesimo giorno del mese) e quello mediano (quindi l'ottavo e il ventiquattresimo). I cinque giorni aggiunti alla fine dell'anno erano i cosiddetti giorni delle Gāthā: Aḫunavaiti, Uètavaiti, Spenta Mainyu, Vohuχèaϑra, Vahiètaièti. Per rimediare alla perdita annuale di un quarto di giorno, ogni centoventi anni veniva inserito un mese. Ma questa necessaria aggiunta fu trascurata nel primo periodo della dominazione musulmana; e quando nel 1745 i Pārsi, che avevano preso già da tempo dimora in India, cercarono di rimediarvi, sorsero polemiche e scissioni tuttora vive. L'anno zoroastriano è oggi in ritardo di un mese rispetto al persiano.
Il calendario persiano. - Nell'era di Jazdkirt (v. era), che incomincia il 16 giugno 632 d. C., data dell'avvento al trono di Jazdkirt III, l'anno è pure costituito di dodici mesi di 30 giorni, che nei primi secoli dell'Islām si inserivano dopo l'ottavo mese (Ābānmāh) mentre in precedenza si ponevano alla fine dell'ultimo mese (Asfendārmet).
Bibl.: Oltre l'opera di F. K. Ginzel, I, p. 238 seg., si veda per il calendario achemenide F. H. Weissbach, Die Keilinschriften der Achämeniden, Lipsia 1911, p. lxx segg.; per l'avestico, L. H. Gray, in Grundriss der iranischen Philologie, II, Strasburgo 1896-1904, p. 675 segg.
Il calendario armeno. - Secondo ogni probabilità, gli Armeni derivarono dai Persiani il loro calendario, come appare anche dai nomi di alcuni mesi. Tale passaggio del calendario iranico dovette avvenire in epoca achemenide, forse ai tempi di Dario. Ecco i nomi dei dodici mesi. Nawasard, Hori, Sahmi, Trē, Khalats, Araths, Mehekan, Areg, Arekan, Mareri, Margach, Hrotich. Tutti i mesi sono di 30 giorni; a compiere i 365 giorni dell'anno, alla fine di Hrotich si aggiungono cinque giorni addizionali, detti Aveleach. Il giorno comincia alla levata del sole e si divide in 12 ore.
Col cristianesimo, penetrò in Armenia il calendario giuliano.
Calendarî semitici.
Il calendario mesopotamico. - La base del calendario paleomesopotamico è il giorno che ha il principio alla sera, al calar del sole. La giornata intera era divisa in sei parti, ossia nelle tre vigilie (maṣṣartu), cioè il "tempo dell'alzata delle stelle", la "vigilia mediana" e il "tempo dello schiarimento", della notte e del giorno. La giornata era divisa poi in dodici ore doppie (sumero danna, accado bēru) delle quali ciascuna era divisa in trenta minuti (emdu). Gli antichi mesopotamici misuravano il tempo con orologi ad acqua e solari. Il mese, chiamato dai Sumeri itu e dagli Accadi arkhu, consisteva di 29 o 30 giorni, essendo che esso rappresentava il periodo di rotazione della luna attorno alla terra. Il nuovo mese cominciava quando gli astronomi vedevano nel cielo riapparire la luna. Il mese era diviso in settimane: il 1°, il 7, il 15, il 21 e il 28 erano giorni di festa in cui si facevano sacrifici speciali agli dei. Durante la colonizzazione della Cappadocia da parte di commercianti assiri, la settimana del loro calendario consisteva non di sette ma di cinque giorni soltanto: sei cinquine formavano un mese. Dodici mesi lunari formavano un anno (sumero mu; accado shattu). Nei tempi antichi, quando la Mesopotamia consisteva di piccole città-stati, ogni capoluogo aveva il proprio calendario, basato per i nomi dei varî mesi specialmente sui lavori agricoli e sulle feste religiose che vi si celebravano. Ḫammurabi fece del calendario di Nippur quello di tutto l'impero: i nomi dei mesi, Nisānu, Ayaru, Simānu, Du'ūzu, Abu, Ulūiu, Tishrītu, Arakhsamna, Kislīmu, Ṭebētu, Shabāṭu e Adāru da allora in poi si diffusero in tutta la Mesopotamia e penetrarono altresì nel calendario di altri popoli. Il primo mese, il Nisānu, coincideva più o meno esattamente con l'equinozio di primavera. Ma sembra che anche il settimo mese abbia indicato in un certo periodo il principio dell'anno. Siccome l'anno di dodici mesi lunari non risultava che di 354 giorni, si rese necessaria l'eliminazione della differenza fra l'anno lunare e quello solare. Si ricorse all'intercalazione di un mese, detto in sumero dirig e in accado dirigū: questo fu il secondo Adaru e dopo Ḫammurabi anche il secondo Ulūlu. Nei tempi più antichi non si ebbe nessuna norma fissa per il mese intercalare, ma ogni qual volta l'intercalazione si rendeva necessaria per il calcolo degli astronomi, il re stesso la ordinava. Sembra che appena nel 534 a. C. si sia introdotto un periodo regolare intercalare di otto anni, il quale più tardi fu sostituito da un periodo di ventisette.
Il calendario ebraico. - Sul calendario dell'antico Israele abbiamo scarse informazioni. L'inizio del giorno si computava, secondo l'antico uso dei nomadi, dalla sera. La settimana sembra essere stata una divisione del tempo continuativa indipendente dal mese, come nel nostro calendario, e non, come presso i Babilonesi, una suddivisione di questo in quattro parti. I mesi, di 29 o di 30 giorni, erano fissati volta per volta in base all'osservazione della luna nuova, e designati per lo più con numeri ordinali, ma talvolta anche con i nomi cananei; il primo mese, Ābīb, cadeva in primavera, ma esistono tracce anche di un sistema secondo cui l'anno cominciava in autunno. Come si procedesse per accordare il calendario lunare con l'anno solare non sappiamo. Per determinati effetti giuridici si teneva conto anche di unità di tempo superiori all'anno; il settennio, cioè, e il gruppo di settennî o giubileo (non è sicuro se con o senza il cinquantesimo anno giubilare).
Dal periodo della cattività babilonese, gli Ebrei accolsero i nomi babilonesi dei mesi, lievemente aramaicizzati, cioè (cominciando dalla primavera): Nisān, Iyyār, Sīwān, Tammūz, Āb, Ĕlūl, Tishrī, (Mar)heshwan, Kislēw, Ṭēbēt, Shĕbāt, Ădār; accanto a questi nomi rimasero ancora per qualche tempo i numeri ordinali. L'inizio dell'anno in autunno, col Tishrī, venne a poco a poco a prevalere. Come presso i Babilonesi, l'accordo con l'anno solare si conseguiva aggiungendo ogni tanto un secondo Ădār dopo il primo. Regole fisse per la determinazione del calendario, basate sul calcolo, non si avevano (nonostante l'oppinione contraria di qualche studioso); per l'inizio dei mesi si continuava a basarsi sull'osservazione della nuova luna, e il secondo Ădār si aggiungeva quando alla fine dell'anno si notava che la stagione era ancora arretrata. Questo metodo empirico durò a lungo, anche dopo che i Greci e i Babilonesi avevano già adottato regole fisse; probabilmente perché il carattere religioso del calendario distoglieva dal seguire per questo l'esempio dei pagani. Tuttavia, le necessità della vita religiosa e l'esperienza indussero man mano a formulare alcune norme più o meno vaghe; le quali, con il loro moltiplicarsi e precisarsi, vennero gradatamente a diminuire l'importanza dell'osservazione diretta. Infine si giunse al calendario costante, la cui fissazione è inesattamente attribuita già a Rabbī Hillēl II (sec. IV d. C.). In realtà questi sembra aver codificato e promulgato alcune norme nuove; ma altri perfezionamenti pratici o scientifici sembrano essere stati introdotti assai più tardi. Sicché il calendario ebraico è da considerare definitivamente fissato soltanto dalla metà del sec. X.
Tale calendario costante, che vige ancor oggi, è un calendario lunisolare. In esso il giorno si divide in 24 ore uguali, che si cominciano a contare da 18h di tempo civile. L'ora si divide in 1080 ḥălāqīm, ciascuno di 76 rĕgāīm. Il mese ha per base la durata di una lunazione, calcolata in 29d 12h 793hal. Di regola si susseguono alternativamente un mese di 30 giorni e uno di 29, cominciando da Tishrī, che ne ha 30 (anno normale); però talvolta i mesi di Marḥeshwān e Kislēw ne hanno entrambi 29 (anno difettivo) o entrambi 30 (anno abbondante). Sono embolismici, ossia hanno il secondo Ădār, gli anni 3, 6, 8, 11, 14, 17, 19 del ciclo diciannovennale di Metone; in esso il primo Ădār ha 30 giorni, il secondo 29. Pertanto gli anni comuni possono avere da 353 a 355 giorni e gli anni embolismici da 383 a 385. La durata media dell'anno ebraico viene ad essere di 365d 5h 997hal 48v, quindi maggiore del vero di circa 7 minuti, mentre il giulian0 è maggiore del vero di 11 minuti.
Bibl.: Schwarz, Der jüdische Kalender, Breslavia 1872; Mahler, Handbuch der jüdischen Chronologie, Lipsia 1916; Bornstein, 'Ibbūrīm u-Maḥzürim, in ha-Tĕqūfāh, XX (1923), p. 285 segg.; id., Ha-Tĕqūfüt we-hitpattĕḥutān, in Livre d'hommage à la mémoire du Dr. S. Poznański, Varsavia 1927, p. 33 segg.
Il calendario egiziano.
Risale senza dubbio al periodo preistorico; ma non hanno fondamento le ipotesi che fosse istituito in un regno del Basso Egitto avente Eliopoli per capitale e che la sua introduzione coincidesse con l'unità egiziana sotto il faraone Mēnes. Il sorgere del sole e il suo tramonto segnarono i limiti del giorno e della notte; poi, in tempo storico, questi furono suddivisi in ventiquattro ore per ciascuno, di varia lunghezza secondo le stagioni. Con strumenti ad acqua e con l'ombra solare gli Egiziani furono in grado di misurarle. Le fasi lunari suggerirono il mese; ma invece che di 29 giorni, 12h 44m 3s fu fissato a 30 giorni, raggruppati in tre decadi. Ognuno ebbe un nome in relazione alle fasi, e il 15° fu il plenilunio. L'anno trasse origine in Egitto da due avvenimenti periodici. L'uno è il massimo dell'inondazione del Nilo, che soleva accadere tre giorni dopo il solstizio estivo; in quei tempi, fra i primi di agosto (giuliano) e la fine di luglio. L'altro è il sorgere eliaco della stella Sirio (Sothis), che ad una latitudine come quella di Menfi era visibile nel crepuscolo mattutino del 19 luglio (giuliano), cioè poco prima dell'inondazione e quasi suo preannuncio. Questo giorno fu stimato l'inizio del rinnovarsi delle stagioni. La durata dell'anno siderale di Sothis allora era di 365 giorni circa e un quarto; fu dunque accolto un anno civile di 365 giorni, il cosiddetto anno vago. Il numero dei mesi non poteva essere che dodici, di 30 giorni ciascuno (totale 360); i cinque giorni che sopravanzarono furono considerati come un piccolo mese a parte. L'inondazione e i lavori agricoli diedero la denominazione alle stagioni che erano tre: l'"inondazione" ('éḫe); l'"uscita" della terra dalle acque, ovvero della vegetazione dalla terra (prüje); la "raccolta" o la "mancanza di acqua" (èüme), come possono interpretarsi i loro nomi. Ognuna ebbe quattro mesi distinti con l'ordinale da I a IV. Nell'anno sotiaco, almeno nel 2000 a. C., i nomi sono tolti, per lo più, da feste sacre in esse celebrate; forse sulla fine della XVIII dinastia furono presi a designare quelli dell'anno civile in quel tempo a loro corrispondenti; onde si trovano abbassati di un mese. Come nella pratica civile si trascurò di seguire le fasi lunari, così non si studiò il modo di fissare il capodanno col sorgere eliaco di Sirio; si sapeva che dopo un quadriennio la stella si mostrava nel giorno successivo e bastò. Anche nel 238 a. C., quando Tolomeo III Evergete I promulgó l'intercalazione di un giorno, e più tardi, sotto Augusto, quando s'introdusse il cosiddetto calendario alessandrino, la riforma trovò grandi ostacoli.
Gli Egiziani hanno personificato come dei tutti gli elementi del calendario. Anch'essi, come moltissimi altri popoli, distinguevano i giorni di buono da quelli di cattivo augurio.
Bibl.: La più esatta trattazione è K. Sethe, Die Zeitecrechnung der alten Ägypter, in Nachr. d. Gesellsch. d. Wissensch. zu Göttingen, Phil.-hist. Kl., 1919, p. 287 segg., 1920, pp. 28 segg., 97 segg.; si veda anche A. Erman e O. Ranke, Ägypten u. ägypt. Leben, Tubinga 1923, p. 398 segg.; A. Wiedemann, Das alte Ägypten, Heidelberg 1920, p. 402 segg.; H. Brugsch, Die Ägyptologie, Lipsia 1891, p. 347 segg. (con cautela!). Sui giorni fasti e nefasti cfr.: Wrezinski, Tagewählerei im alten Ägypten, in Arch. f. Religionswissensch., XVI, p. 86 segg.
Il calendario greco.
L'anno greco constava, fin dai tempi più antichi, di 12 mesi lunari, distinti in mesi "cavi" (κοῖλοι), di 29 giorni, e mesi "pieni" (πλήρεις), di 30. Si aveva così un anno lunare di 354 giorni, più breve di 11 giorni e ¼ dell'anno solare: in conseguenza di tale stato di cose, il principio dell'anno risultava di continuo spostato, con gravi inconvenienti, specialmente d'ordine religioso, per essere le feste e i riti dei Greci legati, al tempo stesso, ai singoli mesi e alle stagioni. Per rimediare a questo stato di cose, per raggiungere e mantenere, cioè, l'accordo dell'anno lunare con l'anno solare, si ricorse alla determinazione di uno spazio di tempo comprendente una somma di giorni tale che, da un lato, corrispondesse a un certo numero di anni solari esatti, e, dall'altro, offrisse la possibilità di venir comodamente divisa in un numero eguale di anni lunari. Fu calcolato allora (e lo si attribuì all'astronomo Cleostrato di Tenedo, della seconda metà del sec. VI) un ciclo siffatto, la cosiddetta octaeteride (ὀκταετηρίς); vale a dire, un periodo di otto anni, il più breve, cioè, capace di dare una somma di giorni supplementari divisibile in mesi completi di trenta giorni (11 ¼ × 8 = 90; 90 : 30 = 3). I tre mesi supplementari, detti intercalari (ἐμβόλιμοι), furono disposti rispettivamente nel terzo, nel quinto e nell'ottavo anno dell'octaeteride; nella più gran parte dei calendarî greci il mese intercalare fu collocato dopo il sesto mese, del quale prendeva il nomeseguito dall'aggettivo "secondo" (δεύτερος).
Ma l'octaeteride non era stata calcolata astronomicamente esatta: risultò troppo corta di circa un giorno e ½. Per ovviare agl'inconvenienti di questo errore, fu introdotto ufficialmente in Atene, nell'anno 432 a. C., un nuovo ciclo di 19 anni, calcolato dall'astronomo Metone, ma già noto ai Babilonesi fin dal sec. VIII (19 anni solari = 235 mesi lunari; i 235 mesi dànno 19 anni lunari di 12 mesi ciascuno, più 7 mesi intercalari, la cui ripartizione fu fatta in vario modo). Tuttavia la maggior parte dei Greci preferirono attenersi, fino a tarda epoca, agli antichi cicli, benché assai più imperfetti.
Così pure non fu mai possibile ottenere che fosse adottato in tutti gli stati greci un calendario uniforme: il primo mese dell'anno era diverso nelle varie città; e neppure il mese intercalare occupò dappertutto lo stesso posto, per quanto nella maggior parte dei calendarî lo si trovi, come abbiamo detto, collocato dopo il sesto mese. Per tener conto soltanto dei due calendarî greci storicamente più importanti, ricorderemo che l'anno attico cominciava - come anche quello olimpico - nell'estate; l'anno macedonico, invece, nell'autunno. Per un pronto conguaglio fra i due calendarî diamo la seguente tabella (dove i numeri romani indicano il posto dei mesi nelle rispettive serie):
Presso i Greci più antichi, la divisione dell'anno (ἔτος, ἑνιαυτός) in stagioni (ὧραι) fu assai rudimentale; se ne distinguevano soltanto due; l'estate (ϑέρος) e l'inverno (χειμών). In seguito, si aggiunsero a queste i due periodi intermedî, cioè la primavera (ἔαρ) e l'autunno (ὀπώρα); e anche si adottarono altre suddivisioni corrispondenti ai lavori agricoli proprî di ciascuna stagione. La divisione dell'anno in due parti, l'estate e l'inverno, fu ordinariamente usata dagli scrittori (per esempio dallo storico Tucidide) nel racconto dei fatti di guerra.
Bibl.: Ch. E. Ruelle, art. Calendarium, in Daremberg e Saglio, Dictionnaire les antiq. grecq. et rom., I, ii, p. 822 segg.; Bischoff, art. Kalender, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., X (1919), col. 1568 segg.; H. Grotefend, Taschenbuch ler Zeitrechnung, 2ª ed., Hannover e Lipsia 1910; Gercke-Norden, Einleitung n die Altertumswiss., 3ª ed., III, Lipsia e Berlino 1914; W. Kubitschek, Grundriss der antik. Zeitrechnung, Monaco 1927.
Il calendario romano antico.
Il più antico calendario romano è quello che trae il nome dal fondatore di Roma. L'anno romuleo sarebbe stato di 10 mesi (4 mesi di 31 giorni e 6 di 30, complessivamente 304 giorni); ma, dalla critica più recente, è relegato fra le leggende come assurdo. Anche presso gli antichi non mancarono autori che lo misero in dubbio, attribuendo l'anno di 12 mesi anche ai tempi di Romolo (Macrob., Saturn., I, 13, 20). Ammesso che l'anno di dieci mesi sia esistito, è ovvio immaginare che con l'andare del tempo il freddo avrebbe finito col coincidere con i mesi ritenuti estivi e il caldo con gl'invernali. Si sarebbe provveduto alla meglio a tale inconveniente con un'aggiunta di giorni, intercalati tra la fine di dicembre, ultimo dei dieci mesi, e il principio del nuovo anno al 1° marzo.
Calendario numano. - La tradizione attribuisce a Numa Pompilio la prima riforma del calendario romano. Si potrebbe ritenere che, sopravvenuta la supremazia dei Sabini sull'elemento albano, quelli abbiano imposto, fra le altre loro usanze, anche il sistema da essi adottato di computo del tempo, sostituendolo a quello degli Albani. Comunque, gli autori ci tramandano che Numa Pompilio, edotto del sistema dei Greci, avrebbe riformato il calendario riferendolo al completo ciclo lunare, diviso in 12 mesi.
L'imitazione non fu però completa, poiché, mentre l'anno greco era di 354 giorni, l'anno romano ne ebbe 355, e ciò, credesi, per la superstizione dei Romani che ritenevano fausto il numero dispari e infausto il pari.
Inoltre i mesi dell'anno greco erano alterni di 30 e di 29 giorni; l'anno numano fu invece disposto altrimenti. Secondo la tradizione, i quattro mesi romulei di 31 giorni (marzo, maggio, luglio, ottobre) mantennero tale numero dispari; ai sei mesi di 30 giorni fu tolto un giorno per ciascuno, riducendoli a 29 giorni. Furono per contro aggiunti ai 304 dell'anno romuleo 51 giorni, più i 6 tolti ai mesi di 30 giorni; in complesso 57, distribuiti in due mesi, l'uno di 29 l'altro di 28 giorni (gennaio e febbraio). Entrambi i nuovi mesi vennero inseriti tra la fine del decimo e ultimo mese romuleo, il dicembre, e il primo mese, il marzo. In seguito si volle far cominciare l'anno non più dal marzo, ma dal gennaio, e cioè con la bruma, quando il nuovo sole inizia il suo corso e la durata del giorno comincia di nuovo a crescere.
Con l'anno numano furono introdotte le kalendae (primo giorno di ciascun mese; v. calende), le nonae (il 5 dei mesi di 29 giorni, il 7 dei mesi di 31), e le idus (il 13 dei mesi di 29 giorni, il 15 dei mesi di 31).
Nel calendario numano era inoltre stabilito che un anno sì ed uno no s'intercalasse, subito dopo il giorno delle Terminalia (23 febbraio), un periodo alternato di 22 o di 23 giorni, atto a ristabilire l'equilibrio dell'anno lunare. Negli anni nei quali cadeva l'intercalazione, il mese di febbraio veniva ridotto a 23 o a 24 giorni; i restanti giorni (5 nel primo caso, 4 nel secondo) erano aggiunti rispettivamente ai 22 o ai 23 da intercalare, così che il mese intercalare o mercedonio (merkedonius) veniva ad avere 27 giorni.
Con questo sistema ciascun anno aveva in media giorni 366 ½, ossia 4 giorni in più del dovere per ogni quadriennio. L'inevitabile confusione che tale eccesso doveva ingenerare col tempo offrì il destro al collegio dei pontefici di intervenire a correggerlo arbitrariamente ed empiricamente, spesso anche per ragioni politiche, omettendo di tanto in tanto uno degl'intercalari. Vi furono tentativi di fissare norme precise relative alle intercalazioni e di ovviare agl'inconvenienti prodotti dall'empirismo arbitrario dei pontefici. Le ultime due delle XII tavole dettarono norme concernenti l'intercalazione. Nel 304, l'edile curule Cn. Flavio fece esporre per la prima volta, in un albo presso il Foro, un esemplare del calendario rimasto fino allora, per così dire, segreto in mano dei pontefici e Fulvio Nobiliore, il primo illustratore dei fasti romani, fece esporre, nel 189 a. C., nel templum Herculis Musarum un celebre tipo di calendario.
Con tutto ciò nel calendario romano continuò la confusione determinata dall'arbitrio sempre più grande dei pontefici che variavano a loro beneplacito, per ragioni religiose e politiche, la distribuzione dei mesi intercalari, sui quali s'imperniava tutto l'equilibrio del calendario. Per ciò la riforma del calendario ordinata da Giulio Cesare e suggerita dal celebre astronomo e matematico alessandrino Sosigene, si era resa veramente necessaria (v. oltre).
Forma del calendario romano. - Gli antichi calendarî romani in una prima colonna portavano l'indicazione delle lettere nundinali, e cioè vi si succedevano, ripetendosi, le prime otto lettere dell'alfabeto A-B-C-D-E-F-G-H. Queste lettere indicavano un periodo di 8 giorni detto nundinae (v.).
Il primo giorno dell'anno aveva, come è naturale, la lettera A; l'ultimo giorno del calendario numano aveva la lettera nundinale C, mentre l'anno giuliano terminava con la lettera E.
Le lettere nundinali non avevano nessuna pratica applicazione. Lungo il corso del sec. II dell'impero s'introdusse presso i Romani, con tante altre pratiche proprie dei popoli e dei culti orientali, la settimana (v.).
Tuttavia il sistema classico di designare i giorni era numerandoli a ritroso rispetto ai capisaldi costituiti dalle calende, dalle none e dalle idi. Per esempio il 3 di gennaio, che precedeva di 2 giorni le none di quel mese (5 gennaio), dicevasi tertio (III) nonas ianuarias, terzo e non secondo, dato il sistema di computare romano che includeva tanto il giorno da cui si partiva quanto quello a cui si arrivava; il giorno successivo 4 gennaio, che precedeva immediatamente le none, dicevasi pridie nonas ianuarias. Così il 6 febbraio era detto VIII idus februarias. I giorni dopo le idi si computavano ugualmente a ritroso, prendendo per base le calende del mese successivo; così il 24 febbraio, che precedeva le calende di marzo di 5 giorni, era detto sexto (VI) kalendas martias.
Feste pubbliche. - Nella seconda colonna, per ciascun mese, erano indicati i giorni aventi una propria denominazione che bastava a determinarli senz'altra indicazione, e corrispondenti ad altrettante feste pubbliche. Oltre alle calende, alle none ed alle idi dei singoli mesi dell'anno il calendario romano contava altri 45 giorni in cui cadevano feste pubbliche fisse. Un 46° giorno festivo fu aggiunto per decreto del senato agli altri antichissimi nel 19 a. C.: esso cadeva il 12 ottobre, e vi si celebravano le feste dette Augustalia, in onore di Augusto (v. ferie).
Qualità dei giorni. - Ciascun giorno dell'anno era poi distinto nel calendario da una sigla indicante la sua qualità nei rispetti della vita civile. Queste notae dierum sono di diversa specie. Con la sigla F (dies fastus) si designavano quei giorni nei quali il magistrato poteva emettere decisioni giudiziarie solenni e pronunziare le formule legali, poteva cioè fari ("parlare; pronunziare sentenza"), donde la voce fastus. Dalla serie dei giorni fasti notati nel calendario prese il nome di fasti il calendario stesso, e poi per amplificazione si dissero fasti anche gli elenchi dei consoli e dei magistrati, uniti per lo più al calendario civile. Si dissero inoltre fasti anche gli albi dei trionfatori, e la parola stessa finì per designare le imprese gloriose dei popoli e dei grandi personaggi.
La sigla N (dies nefasts) indicava invece quei giorni nei quali, per ragioni religiose, il magistrato non poteva rendere giustizia. Vi erano poi alcuni giorni designati con la sigla EN (dies endotercisus), nei quali si rendeva giustizia soltanto nella parte media della giornata, e cioè fra le due fasi del sacrificio. L'hostia veniva uccisa al mattino e le exta (interiora) erano offerte la sera; il giorno veniva così diviso in tre parti ed era nefasto nella prima e nella terza parte, fasto invece fra l'uccisione della vittima e l'offerta delle exta.
Per il 24 marzo e il 24 maggio si ha la sigla Q.R.C.F. che così leggevasi: quando rex comitiavit fas; quei due giorni in origine erano stati fasti soltanto nella loro ultima parte, e cioè nefasti finché il rex non avesse dichiarato sciolti i comitia calata che presiedeva, fasti per tutto il resto della giornata.
Il 15 giugno poi ha sigle del tutto speciali Q.S.D.F., che vanno così sciolte: quando stercus delatum fas: quel giorno era nefasto finché non si fosse compiuta l'annua pulitura del tempio di Vesta e non si fossero trasportate le immondizie al luogo stabilito presso il Clivo capitolino, e fasto per il resto della giornata.
Un'altra sigla, che ricorre per quasi tutti i giorni feriali festivi, è una N con un apice nella seconda asta verticale che si piega a forma di P. Si può supporre che essa fosse una semplice distinzione della sigla N dei giorni nefasti. Infatti i giorni feriali erano bensì nefasti, non solo per ragioni esclusivamente religiose, ma anche civili, in quanto alle feste religiose si univa il tripudio e l'astensione dal lavoro. Fu perciò la sigla dichiarata dal Mommsen in dies nefastus hilaris (cfr. Corpus Inscriptionum Latinarum, I, 2, p. 290). In sostanza i giorni notati con tale sigla erano nefasti per motivi di letizia, mentre quelli notati con la semplice N erano nefasti a causa di tristezza e di sventura.
Un'altra sigla che ricorre più spesso delle altre è quella formata da una C (dies comitialis); nei giorni da essa designati era lecito convocare il popolo a comizio, e in essi potevasi impartire ugualmente la giustizia, essendo per questo riguardo fasti (Varr., De lingua latina, VI, 29; Ovid., Fasti, I, 53; Festo, p. 38; Fasti Praenestini, ad. d. ian. 3).
Ferie. - Negli antichi calendarî si riscontrano infine in caratteri più minuti numerose indicazioni delle feriae sacre alle varie divinità, commemorazioni della fondazione dei varî templi di Roma, dei ludi o giuochi; più di rado si hanno dati astronomici o meteorologici. Le indicazioni delle feriae sono limitate generalmente al solo nome, in dativo, della divinità alla quale si faceva sacrificio sottintendendosi feriae o sacra. Così per esempio si ha: Quirino, Veneri, intendendosi feriae Quirini o sacra Veneris. Spesso i nomi delle divinità sono seguiti da indicazioni topografiche. Così, per esempio, al 25 maggio si ha Fortunae primigeniae in colle, intendendosi la dedicazione del tempio della Fortuna primigenia sul Quirinale; al 2 giugno: Bellonae in campo, e cioè la sagra del tempio di Bellona che si trovava nel Campo Marzio a E. del Circo Flaminio.
Calendarî superstiti. - I calendarî romani finora pervenutici, più o meno frammentarî, sono circa 20, per lo più incisi su lastre marmoree.
Il più antico è il calendario anziate precesareo (edito da G. Mancini, in Notizie degli scavi, 1921, p. 73 segg.), rinvenuto su minuti frammenti d'intonaco con lettere dipinte in nero e in rosso, in una delle piccole camere formanti le cripte neroniane di Anzio, presso l'Arco Muto. È l'unico calendario che possediamo anteriore alla riforma di Giulio Cesare. Esso va specialmente segnalato perchè, come anteriore alla riforma, registra ancora il decimoterzo mese intercalare (mercedonio) e la somma alternata (di XXIX e XXXI) dei giorni di ciascun mese in calce alla rispettiva colonna, come si scorge dalla figura. Tutti gli altri fasti sono posteriori alla riforma, e cioè all'anno 44 a. C. La maggior parte sono del tempo di Augusto, e cioè i Fasti Ceretani (Cerveteri), i Tusculani, gli Allifani (Alife), i Pinciani, i Sabini, i Venusini, i Maffeiani (rinvenuti in Roma nel 1547, già in proprietà del vescovo Girolamo Maffei), gli Esquilini, gli Arvalici, i Prenestini (compilati ed annotati dal grammatico M. Verrio Flacco tra gli anni 3 e 10 d. C.), i Vallensi (dai della Valle), i Paulini (rinvenuti presso S. Paolo fuori le mura in Roma). Altri calendarî, come i Fasti Amiternini (da S. Vittorino presso Aquila), i Pighiani, gli Anziati (rinvenuti nel 1712, presso l'antico teatro di Anzio), i Verulani (di recente scoperti a Veroli) e i Farnesiani, sono posteriori ad Augusto e scendono fino al tempo di Claudio. I più recenti, sicuramente databili, sono gli Anziati postcesarei dell'anno 50 d. C. Altri sono d'incerta datazione, come gli Esquilini minori, i Suburani minori, gli Oppiani, gli Ostiensi, e i frammenti della via Graziosa (Roma). Gli Anziati precesarei, i Prenestini, e gli Arvalici sono conservati in Roma, nel Museo Nazionale delle Terme Diocleziane; il Museo Capitolino possiede i Suburani maggiori, i Ceretani, i Maffeiani (frammenti), gli Oppiani maggiori. Gli Allifani nel Museo campano di Capua, i Vallensi e i Farnesiani nel Museo Nazionale di Napoli, i Vaticani nel Museo Vaticano, gli Amiternini nel Museo di Aquila, i Verulani nella Biblioteca comunale di Veroli.
Bibl.: Th. Mommsen, Römische Chronologie bis auf Caesar, Berlino 1858; Ph. E. Hüschke, Das alte römische Jahr und seine Tage, Breslavia 1869; Christ, in Act. Acad. Monac. minor., 1876, p. 18; J. Beloch, Das römische Kalendär, Berlino 1880; O. E. Hartmann, Römisches Kalendär, Lipsia 1882; H. Matzat, Römische Chronologie, Berlino 1883-1884; J. Marquardt, Le culte chez les Romaines, Parigi 1889-90, I, p. 345 segg.; W. Warde Fowler, The roman festivals of the period of the Republic, Londra 1899; G. De Sanctis, Storia dei Romani, II, Torino 1907, p. 519 segg.; A. Leuze, Römische Jahreszählung, Tubinga 1909; E. Pais, Storia critica di Roma, I, Roma 1913, p. 393 segg.; G. Mancini, in Notizie degli scavi, 1921, p. 73 segg.; G. Vaccai, Le feste di Roma antica, Torino 1927.
La riforma giuliana e la correzione gregoriana.
La riforma giuliana. - Sulla riforma del calendario che Cesare nel suo terzo consolato (708 di Roma = 46 a. C.) promulgò quale pontefice massimo si hanno poche e non concordi notizie. Semplici accenni ne dànno Ovidio, Plinio il Vecchio, Svetonio, Plutarco e Dione Cassio; indicazioni più diffuse sono fornite dai grammatici Censorino, Solino e Macrobio. Né l'editto con cui Cesare la promulgò, né il tenore delle tavole di bronzo sulle quali Augusto, un mezzo secolo dopo, a perpetua memoria ne avrebbe fatto incidere le norme, ci sono pervenuti. Tranne Ovidio, che fu quasi contemporaneo alla riforma, gli altri scrittori sono posteriori da uno a cinque secoli, ma proprio Ovidio parla di una tradizione raccolta (cfr. Fasti, III, 161-162), almeno per quello che riguarda la collaborazione scientifica che Cesare avrebbe messa nell'ordinamento. Su queste fonti i cronologisti hanno, con una critica più o meno congetturale, ricostruito le fasi della riforma. Essa mirava a togliere di mezzo l'arbitrio e l'incostanza del calendario fino allora vigente e s'ispirò al criterio di portare l'anno civile a coincidere quanto più strettamente era possibile con l'anno tropico che riconduce le stagioni e che si riteneva di pochissimo differente da 365 giorni e un quarto. Ammettendo questo valore come lunghezza media dell'anno civile, Cesare istituì dei cicli quadriennali, composti ciascuno di tre anni di 365 giorni e di un anno di 366 giorni.
Gli anni giuliani. - Al tempo della riforma, per omesse intercalazioni, l'anno ufficiale si trovava in anticipo di una novantina di giorni sull'anno compensato. Pertanto Cesare nel mese di febbraio dell'anno 708 di Roma, intercalò il consueto mese mercedonio di 23 giorni, e i rimanenti giorni, ripartiti in due mesi, li interpose fra novembre e dicembre; sicché quell'anno ebbe 15 mesi e risultò di 445 giorni secondo Censorino, di 444 secondo Solino, di 443 secondo Macrobio e fu detto anno di confusione. Ristabilita la coincidenza Cesare, lasciati inalterati i mesi di marzo, maggio, luglio, ottobre e il mese di febbraio, aggiunse due giorni a ciascuno dei mesi di gennaio, agosto e dicembre, portandoli a 31 giorni, e un giorno aggiunse a ciascuno dei mesi di aprile, giugno, settembre e dicembre, portandoli a 30 giorni, superando così la superstizione del numero pari; inoltre dispose che ogni quattro anni, fra il 23 e il 24 febbraio, cioè nel luogo dove prima s'intercalava il mese mercedonio, s'intercalasse un giorno, il quale, secondo la maniera di numerare le date dei Romani, si disse bis sexto kalendas Martias, donde il nome rimasto di "bisesto". L'anno di 366 giorni che così venne a formarsi, si disse "bisestile", mentre gli anni di 365 giorni si dissero comuni. Quando invalse l'uso di contare le date con numeri successivi a partire dal primo giorno di ciascun mese, il giorno aggiunto a febbraio prese il numero 29, e si continuò a chiamare bisesto e l'anno conservò il nome di bisestile.
Gli anni così ordinati si dissero "giuliani" e si contarono con numeri progressivi. Il primo anno giuliano cominciò col 1° gennaio dell'anno 709 di Roma in giorno di novilunio.
La corrispondenza fra la numerazione degli anni giuliani e di quelli ab urbe condita è espressa dall'equazione:
Il sito effettivo del bisesto. - I cronologisti disputano sull'effettiva collocazione del bisesto. Secondo l'indicazione fornita da Censorino e da Macrobio, il bis sexto kalendas Martias cadrebbe tra il VII kalendas e il VI kalendas, e nell'ordine di tempo verrebbe prima del VI kalendas. Ma il Mommsen sostenne che il bis sexto kalendas fosse inserito tra il VI e il V kalendas, perché un'iscrizione scoperta nel tempio di Cirta è datata V kalendas Martias, e porta l'aggiunta qui dies post bis VI kalendas fuit. L'iscrizione si riferisce all'anno 168 d. C. Da qualche altro documento si conchiuderebbe nello stesso senso. La Chiesa latina ha sempre ritenuto il 24 febbraio come giorno intercalato, perché il nome di S. Mattia - che negli anni comuni cade il 24 febbraio - negli anni bisestili cade il 25, e i nomi che negli anni comuni occupano le date 25-28, negli anni bisestili passano alle date 26-29. Forse entrambe le maniere furono in uso promiscuo.
L'effettiva disposizione degli anni bisestili. - Una questione anche più grave si agita fra i cronologisti sulla disposizione degli anni che secondo l'intenzione di Cesare dovevano essere fatti bisestili, e su quelli che effettivamente furono fatti tali. Solino e Macrobio riferiscono che, dopo la morte di Cesare, i pontefici invece d'intercalare il bisesto ogni quattro anni, cioè dopo trascorsi tre anni comuni, lo intercalarono ogni tre anni, cioè dopo trascorsi due soli anni comuni, e che ciò fecero per 36 anni, durante il quale periodo furono intercalati 12 bisesti, mentre se ne sarebbero dovuti intercalare soltanto 9, e che Augusto, avvisato dell'errore, fece decorrere 12 anni senza alcuna intercalazione affinché fossero riassorbiti i tre bisesti intercalati in eccesso; indi fece ripigliare l'intercalazione secondo le norme stabilite da Cesare, che, a perpetua memoria, egli fece incidere su tavole di bronzo. Plinio, in un passo molto confuso, accenna anch'egli a 12 anni lasciati decorrere senza intercalazione, ma lascia intendere che ciò si fece per correggere un errore riconosciuto nella stessa riforma, errore dovuto a Sosigene, il quale in tre dissertazioni non cessò di emettere dubbî correggendo sé stesso. A un errore accenna anche Svetonio nella Vita di Augusto. Nessuno dice in quali anni si fece l'intercalazione triennale, né in quale anno si ripigliò l'intercalazione quadriennale.
D'altra parte Dione Cassio (Rom. Hist., XLVIII, 83) narra che nell'anno 713 di Roma, dopo i giuochi Apollinari (che avevano luogo il 5 luglio), fu intercalato un giorno oltre il consueto per evitare che il 1° gennaio del seguente anno 714 coincidesse col giomo di mercato, e che dopo fu ritolto un giorno affinché non rimanesse alterata la disposizione di Cesare. Questa notizia escluderebbe l'intercalazione triennale. Si aggiunga che Ovidio, il quale passò la sua giovinezza nel periodo in cui avrebbe avuto luogo tale intercalazione, parlando della riforma, non ne fa alcun cenno; egli dice che Cesare riunendo 365 giorni e un quarto formò la misura dell'anno, e che in ogni "lustro" si aggiunge il giorno che si forma dalla somma delle parti.
Sulla quistione può gettar lume il comportamento delle nundine nell'intercalazione quadriennale e nell'intercalazione triennale, se ebbe luogo.
Le nundine e il loro ciclo nell'intercalazione quadriennale. - Le nundine costituivano un ciclo di otto giorni, formato da un giorno di mercato, o nundine, seguito da sette giorni lavorativi, dopo dei quali, al nono giorno, ritornava il giorno di mercato. Questo ciclo, non subì mai interruzione fino a quando venne sostituito dalla settimana.
Con la riforma giuliana, ogni 32 anni ciascun giorno dell'anno diventa quattro volte giorno di mercato, tranne il bisesto che si presenta solo una volta. Le date delle prime nundine di gennaio si ripetono nello stesso ordine ogni 32 anni, formando il ciclo seguente:
Il ciclo comincia da un anno bisestile avente le nundine al primo di gennaio. La data delle prime nundine di gennaio di un anno si deduce da quella dell'anno precedente aggiungendo 2 se questo è bisestile, 3 se comune, e sottraendo 8 ogni volta che questo numero è superato.
È storicamente accertato che nell'anno 711 di Roma le nundine caddero il 1° di gennaio, e dalla notizia sopra riferita di Dione Cassio si sa che dovevano cadere al 1° di gennaio anche nell'anno 714. D'altra parte il Ginzel ha dimostrato che nell'anno 709 le nundine caddero il 4 di gennaio. Con questi dati si vede che nello specchio precedente l'anno 709 si colloca bene al 5° posto, il 711 al 7° e il 714 al 100, e che nessun'altra disposizione è compatibile. L'anno 709 dunque fu bisestile. L'anno 713 anch'esso risultò bisestile, e si deve inferire che oltre al bisesto intercalato in febbraio fu intercalato un altro giorno dopo i giuochi di Apollo. E se dopo il gennaio del 714 venne soppresso un giorno, si restituì l'ordine dei bisesti secondo l'intenzione di Cesare, la quale così avrebbe fatto bisestili tutti gli anni ab urbe condita (e tutti gli anni giuliani) denotati da numeri che divisi per 4 dànno per resto l'unità.
Il ciclo delle nundine nell'intercalazione triennale. - Se l'intercalazione triennale ebbe luogo, in essa il ciclo delle prime nundine di gennaio si doveva presentare assai diversamente. Poiché il numero dei giorni del triennio risulta multiplo di 8, ad ogni triennio le date delle prime nundine di gennaio ritornano sempre le stesse, e tre soli fra i primi otto giorni di gennaio si presentano come giorni di mercato, restando per sempre esclusi i rimanenti cinque. Prendendo come primo anno del triennio l'anno bisestile, a seconda della data che in esso si attribuisce alle prime nundine di gennaio, risultano le seguenti otto disposizioni:
Con le disposizioni 1ª, 4ª e 7ª ad ogni triennio le nundine cadono una volta al 1° di gennaio; con le altre disposizioni questa coincidenza viene evitata in perpetuo.
Il probabile motivo dell'intercalazione triennale. - I cronologisti, in generale, non si sono soffermati sul passo di Dione Cassio, e accogliendo la tradizione dell'intercalazione triennale, l'attribuiscono ad ignoranza dei pontefici che non avrebbero compreso l'ordinamento di Cesare. Il Ginzel suppone che nell'editto fosse adoperata la frase quarto quoque anno, la quale veramente ai tempi di Cesare si applicava a un avvenimento che si verifica un anno sì e due no, e al quarto anno ritorna a verificarsi come nel primo. Ma è logico supporre che nell'editto fosse piuttosto detto quinto quoque anno. T. Mommsen ritiene che l'equivoco poteva nascere dal doppio significato che si dava alla parola lustrum, che indicava o lo spazio di cinque anni o quello di quattro; ma in tal caso il dubbio poteva nascere fra un'intercalazione quinquennale e una quadriennale. Ma quale che sia stata la formula dell'editto, l'intenzione di Cesare risulta dalla lunghezza assegnata all'anno, e non è credibile che in un collegio di 15 pontefici maggiori e altrettanti minori nessuno l'avesse compresa.
Lo specchietto precedente suggerisce un probabile motivo dell'eventuale intercalazione triennale, con la quale si poteva evitare in perpetuo l'infausta coincidenza delle nundine col primo giorno dell'anno. Questa si era verificata nell'anno 711 di Roma; intercalando un giorno oltre il consueto, si poteva pervenire in diversi modi a un'intercalazione triennale che l'avesse evitata. Se, per esempio, si suppone che fosse stato intercalato il bisesto negli anni 709 e 713, e che nel 713 fosse stato intercalato un altro giorno, con l'intercalazione fatta di poi ogni tre anni si sarebbe presentata la disposizione 6, 8, 3 per le date delle prime nundine di gennaio, che si sarebbe ripetuta in perpetuo, a patto però di non ritogliere il giorno, perché allora si sarebbe ricaduti in una delle combinazioni infauste. Ma con l'intercalazione triennale si inseriva un bisesto in più ogni 12 anni: l'errore si sarebbe potuto compensare sopprimendo 8 giorni al 96° anno, il che non avrebbe alterata la combinazione delle date; anzi, se si fosse adottata la combinazione 6, 8, 3, l'errore si sarebbe potuto correggere al 48° anno, con la soppressione di 4 giorni, la quale avrebbe condotto all'altra combinazione 2, 4, 7, e questa con una nuova soppressione di 4 giorni dopo altri 48 anni avrebbe ricondotto alla prima. Con questa ipotesi, l'errore, chiamiamolo così, sarebbe stato scoperto nell'anno 744 che era il 36° dalla riforma; furono soppressi i bisesti per 12 anni negli anni 745, 749 e 753 che dovevano essere bisestili secondo l'intenzione di Cesare, e si ripigliò l'intercalazione del bisesto nell'anno 757, ossia nell'anno giuliano 49.
Fra i cronologisti antichi citati dal Riccioli solo Paolo di Middelburg, vescovo di Fossombrone, giunge alla conclusione che il bisesto fosse stato ripreso nell'anno giuliano 49: egli tuttavia ritiene che secondo l'intenzione di Cesare dovevano farsi bisestili gli anni giuliani 4, 8, 12,..., 36, 40, 44, 48, 52, ecc., e che i pontefici fecero bisestili gli anni 3, 6, 9, ecc., fino all'anno 36; onde Augusto avrebbe ordinato di sopprimere il bisesto per 12 anni, dall'anno 37 all'anno 48, l'uno e l'altro compreso, e avrebbe ripigliato il bisesto nell'anno 49. Giuseppe Scaligero e Giovanni Keplero, citati anche dal Riccioli, ammettono che l'anno 1 giuliano fu bisestile e che nell'intenzione di Cesare tali dovevano essere gli anni 5, 9 13, ecc., ma i pontefici fecero bisestili gli anni 4, 7, 10, ecc. fino all'anno 37 incluso, onde Augusto soppresse il bisesto negli anni successivi e non lo ripigliò se non nell'anno 53; pertanto il bisesto risulterebbe effettivamente soppresso per 15 anni e non per 12, come concordemente affermano Plinio, Solino e Macrobio. Fra i cronologisti moderni citati dal Ginzel la maggior parte ritengono che l'anno giuliano 1 non fu bisestile; tutti sembrano concordi nel ritenere che il bisesto fu ripigliato da Augusto nell'anno giuliano 53. Ad ogni modo, quali che siano state effettivamente le vicende dell'intercalazione del bisesto nei primi tempi della riforma giuliana, è certo storicamente che dall'anno giuliano 53 in poi, ossia dal 761 di Roma in poi, furono fatti bisestili tutti quelli denotati da un numero che diviso per 4 dia per resto l'unità.
Il moto della luna nel calendario romano. - Nella riforma giuliana nessun riguardo si era avuto ai moti della luna. La coincidenza segnalata dagli storici della luna nuova col primo giorno del primo anno giuliano era stata fortuita. Ma, col cristianesimo, nel calendario entrò in giuoco il movimento della luna connesso col ciclo settimanale, giacché con l'uno e con l'altra era legata la data della Pasqua. Il concilio di Nicea (325) aveva stabilito che la Pasqua dovesse celebrarsi la prima domenica dopo la decimaquarta luna del primo mese cioè quella che o cadesse nel giorno dell'equinozio di primavera, o immediatamente lo seguisse; e l'equinozio di primavera fu fissato il 21 marzo. Per determinare la data della decimaquarta luna del primo mese, detta anche termine pasquale, il concilio aveva ritenuto come sufficientemente esatto il ciclo diciannovennale di Metone, secondo il quale le fasi lunari dopo 19 anni ritornerebbero alle stesse date dell'anno (v. anche pasqua).
Ritenuta di giorni 29,53 la durata di una lunazione e di giorni 10,88 l'eccesso dell'anno giuliano su 12 lunazioni, il termine pasquale di un anno si poteva dedurre togliendo giorni 10,80 da quello dell'anno precedente, con l'avvertenza di aggiungere giorni 29,53 se il risultato fosse minore di 21. In un certo anno designato da un numero multiplo di 19 il termine pasquale era caduto il 36 marzo (= 5 aprile); preso quest'anno come iniziale, si potevano dedurre i termini pasquali dei susseguenti 19 anni con la regola ora enunciata, ma, per operare con numeri interi, il termine pasquale di un anno del ciclo si otteneva diminuendo di 11 quello dell'anno precedente, e al risultato si aggiungeva 30 se era minore di 21; ma nel passare dall'ultimo anno del ciclo al primo del ciclo seguente, si toglieva 12 invece di 11 per compensare gli errori. Il numero che denotava l'anno nel ciclo, detto numero d'oro, era il resto della divisione per 19 del numero che denotava l'anno nell'era cristiana aumentato di un'unità. Si trovò così che ai numeri d'oro.
corrispondono per termini pasquali le date di marzo
e l'ultimo numero diminuito di dodici dà di nuovo il 36 marzo come termine pasquale del primo anno del ciclo successivo.
Più direttamente, il numero d'oro, diminuito di 1, o aumentato di 9, o aumentato di 19, secondoché, diviso per 3, desse per resto 1, o 2, o zero, sottratto da 36 dava il termine pasquale, con l'avvertenza di aggiungere 30 al risultato se fosse minore di 21.
Esempio. - Si voglia il termine pasquale dell'anno 1301. Il numero d'oro è 10, resto della divisione di 1302 per 19, e dalla precedente tabella si ha il 27 marzo come termine pasquale. Più direttamente, il numero d'oro 10, dando per resto 1 nella divisione per 3, si diminuisce di 1 e dà 9, che sottratto dal 36 marzo dà pure il 27 marzo.
La data della prima domenica di marzo. - Ottenuto il termine pasquale, per determinare la data della Pasqua, basta conoscere le date delle successive domeniche di marzo.
La data della prima domenica di marzo ritorna nello stesso ordine dopo un periodo di 28 anni, che costituisce il cosiddetto ciclo solare; e dalla data di un anno si deduce quella dell'anno successivo togliendo 2 se questo è bisestile, 1 se è comune, e aggiungendo 7 se il resto è nullo o negativo.
Nell'anno 1 la prima domenica di marzo cadde il giorno 6; da questo dato si norma la seguente tabella che dà le date della prima domenica di marzo per i primi 28 anni dell'èra volgare.
Per ottenere la data della prima domenica di marzo di un anno qualsiasi si divide per 28 il numero dell'anno espresso alla maniera astronomica, e il resto (positivo) indicherà l'anno del primo ciclo che vi corrisponde e dallo specchietto precedente si avrà la data.
Esempio. - Trovare la data della prima domenica di marzo dell'anno 1301. Questo numero diviso per 28 dà per resto 13; quindi la prima domenica di marzo fu il 5, e le domeniche successive caddero il 12, 19, 26, 33 ecc. di marzo. E la Pasqua cadde il 33 marzo = 2 aprile.
V. sotto la formula del Gauss che dà direttamente la data della Pasqua.
Giorno della settimana rispondente a una data assegnata. - Tra le molte regole date per questo problema, la seguente è semplicissima.
Sia n il numero che denota l'anno alla maniera astronomica. Si trovi il quoziente approssimato per difetto a meno di un'unità di n − 1 per 4 e si denoti con a; si calcoli il numero dei giorni decorsi dal principio dell'anno fino al giorno assegnato, compreso, e si denoti con b. Il resto della divisione di n + a + b + 5 per 7 (aumentato di 7 se risulta nullo o negativo) indicherà il giorno della settimana a cominciare dalla domenica.
Esempî. - 1° Trovare il giorno della settimana rispondente alla data 8 maggio 1300.
Si ha n = 1300, a = 324, b = 129, n + a + b + 5 = 1758, il quale numero diviso per 7 dà per resto 1, quindi il giorno cercato fu domenica.
2° Trovare il giorno della settimana rispondente al 16 maggio dell'anno 5199 a. C.
Si ha n = − 5198, n − 1 = − 5199, a = − 1300, b = 136, n + a + b + 5 = − 6357, il quale numero diviso per 7 dà per resto − 1, che aumentato di 7 dà 6; quindi il giorno cercato fu venerdì.
La correzione gregoriana. - Ai tempi della riforma giuliana l'equinozio di primavera si riteneva cadesse fra il 25 e il 26 marzo e la lunghezza dell'anno tropico si stimava un poco superiore a 365 giorni e un quarto, per modo che la data dell'equinozio in progresso di tempo avrebbe ritardato nel calendario e dopo 1461 anni sarebbe stato necessario intercalare un giorno per ricondurla alla sede primitiva. I padri del concilio di Nicea, fissando l'equinozio al 21 marzo, avevano ritenuta la lunghezza dell'anno tropico esattamente uguale all'anno giuliano. Ma determinazioni più accurate la mostrarono alquanto inferiore, e l'equinozio si vide anticipare la sua data nel calendario. La determinazione fatta da Tolomeo nell'anno 130 dava l'anno tropico di giorni 365,247, quella fatta da Albatenio nell'830 lo dava di 365,2405; e quella fatta dagli Alfonsini nel 1250 di giorni 365, 2425. Inoltre Copernico aveva conchiuso che la lunghezza dell'anno tropico variasse fra un massimo di giorni 365,2472 e un minimo di 365,2381. L'equinozio verso la fine del secolo decimoterzo cadeva intorno al 13 e verso la fine del decimosesto intorno all'11 marzo.
Quanto alla luna, si vide che il termine pasquale anticipava di un giorno ogni 312 anni e mezzo sulla data calcolata in base al numero d'oro; e nell'ultimo quarto del secolo decimosesto l'anticipazione era già di 3 giorni, e sarebbe giunta a 4 giorni nel 1800.
Nel 1582 papa Gregorio XIII, secondo un piano elaborato da Luigi Lilio, sottoposto all'approvazione di matematici di tutto il mondo, promulgò la correzione del calendario.
Ritenuto che l'equinozio in quel tempo cadesse l'11 marzo, e che anticipasse di 3 giorni ogni 400 anni, secondo la determinazione dell'anno tropico fatta dagli Alfonsini, Gregorio XIII, per ricondurlo alla data 21 marzo fissata dal concilio di Nicea, ordinò che si sopprimessero 10 giorni passando dalla data 4 ottobre 1582 alla data 15 ottobre; e per non farlo più allontanare dal 21 marzo ordinò che si sopprimesse il bisesto a tutti gli anni centenarî non multipli di 400. La soppressione del bisesto negli anni centenarî suddetti si disse equazione solare, e la soppressione di dieci giorni si disse grande equazione solare.
Il termine pasquale, ritenuta esatta per l'epoca 550 la sua determinazione per mezzo del numero d'oro innanzi riferito, doveva dapprima essere corretto nel calendario giuliano con la diminuzione di un giorno ogni 312 anni e mezzo, correzione che fu detta equazione lunare. Pertanto a partire dal 15 ottobre 1582 fu diminuito di 3 giorni e si prescrisse che di un altro giorno ancora fosse diminuito nel passare per l'anno 1800, nel quale si compivano 4 periodi di 312 anni e mezzo. Indi, per distribuire le correzioni successive nella maniera più semplice, si ordinò fosse diminuito ancora di un giorno ogni 300 anni nel passaggio per gli anni 2100, 2400, 2700, 3000, 3300, 3600, 3900, e poi ancora di un giorno dopo 400 anni nel passare per l'anno 4300 nel quale si compivano altri 8 periodi, e con la stessa norma si proseguisse nell'avvenire. Stabilito così il termine pasquale nel calendario giuliano, lo si doveva trasportare nel calendario gregoriano aumentandolo di 10 giorni a partire dal 15 ottobre 1582, e ancora di un giorno ogni volta nel passaggio per gli anni centenarî non multipli di 400. Così, per l'effetto combinato delle due equazioni, il termine pasquale a partire dal 15 ottobre 1582 subì un effettivo aumento di 7 giorni, il quale nel passare per il 1600 si mantenne inalterato per l'assenza di entrambe le equazioni, divenne di 8 giorni nel passare per il 1700 per l'intervento dell'equazione solare, si mantenne inalterato nel passaggio per il 1800 per l'intervento di entrambe le equazioni, divenne di 9 giorni per il 1900 e tale si manterrà nel passare per l'anno 2000 per l'assenza e nel passaggio per l'anno 2100 per l'intervento di entrambe le equazioni, fino all'anno 2199, e così di seguito. Si deve poi ricondurre il termine pasquale tra i limiti 21 marzo e 18 aprile con l'aggiunta o la soppressione di 30 giorni.
Nell'attuale periodo, dal 1900 al 2199, ai numeri d'oro
il termine pasquale risponde alle seguenti date di marzo:
Al numero d'oro 6 risponderebbe la data marzo 50 = aprile 19, che diminuita di 30 giorni darebbe marzo 20, entrambe fuori dei limiti, quindi si sostituisce con marzo 49. Al numero d'oro 17 risponderebbe la data marzo 49 già impiegata, e poiché in uno stesso ciclo diciannovennale non possono darsi due date uguali, si sostituisce con marzo 48. Così per l'anno 1930, il cui numero d'oro è 12, il termine pasquale è marzo 44 = aprile 13.
Invece dei termini pasquali, Luigi Lilio dà la maniera di determinare le date dei novilunî di tutto l'anno per mezzo di un ciclo di epatte diciannovennali, registrato in una tabella a due argomenti, uno dei quali è il numero d'oro e l'altro si determina per intervalli secolari dall'intervento delle equazioni solare e lunare. Il novilunio risponde al giorno successivo alla congiunzione, e aumentato di 13 dà la decimaquarta luna.
Formula che dà il giorno della settimana rispondente a una data assegnata nel calendario gregoriano. - Ottenuto il termine pasquale nel calendario gregoriano, per determinare la data della Pasqua occorre conoscere le date delle successive domeniche di marzo e aprile. A ciò serve la seguente formula che determina il giorno della settimana rispondente a una data assegnata.
Sia n il numero che denota l'anno. Si calcolino i quozienti approssimati per difetto a meno di un'unità delle divisioni di n − 1 per 4, per 100 e per 400 e si denotino rispettivamente con a, b, c. Si calcoli il numero dei giorni decorsi dal principio dell'anno fino alla data assegnata e si denoti con d. Il resto della divisione di n + a − b + c + d per 7 indica il giorno della settimana.
Esempio. - Determinare il giorno della settimana rispondente al primo marzo 1930.
Si ha n − 1 = 1929, a = 482, b = 19, c = 4, d = 50, n + a + b + c + d = 2457; e poiché questo numero diviso per 7 dà per resto zero, il giorno cercato è sabato. Le date delle domeniche di marzo sono dunque 2, 9, 16, 23, 30, 37, 44, 51. Dunque la Pasqua del 1930 cadde il marzo 51 = aprile 20.
Formula per ottenere la data della Pasqua di un anno qualsiasi. - Per calcolare la data della Pasqua si ha la seguente regola dovuta al Gauss.
Sia n il numero che denota l'anno. Si calcolino i resti delle divisioni di n per 19, per 4 e per 7 e si denotino rispettivamente con a, b, c. Indicati con x e y due numeri interi che saranno precisati fra un momento, si calcoli il resto della divisione di 19 a + x per 30 e si dinoti con d, e anche il resto della divisione di 2 b + 4 c + 6 d + y per 7 e si dinoti con e. La data della Pasqua è marzo (22 + d + e) = aprile (d + e − 9)
I valori di x e y per il calendario giuliano sono x = 15, y = 6, e per il calendario gregoriano sono
Se dalla formula risulta la data 26 aprile, si sostituisce con 19 aprile, e se risulta 25 aprile si sostituisce con 18 aprile solo quando d = 28 e a > 10.
Esempî. - 1° Si vuole la data della Pasqua del 1301. Si ha
La data della Pasqua richiesta è marzo (22 + 6 + 5) = marzo 33 = aprile (6+ 5 − 9) = aprile 2.
2° Si cerca la data della Pasqua del 1930. Si ha
e quindi la data richiesta è marzo (22 + 23 + 6) = marzo 51 = aprile (23 + 6 − 9) = aprile 20.
Sufficienza della correzione gregoriana. - Gli elementi astronomici che servirono di base alla correzione gregoriana sono stati leggermente modificati da ulteriori e più accurate osservazioni.
Secondo la più recente determinazione del Newcomb, attualmente dagli astronomi si ritiene che la lunghezza dell'anno tropico per l'epoca 1900 sia di giorni 365,2422 e che diminuisca di 61 decimilionesimi di giorno ogni 100 anni. Per tal modo, dopo 5000 anni, cioè nel 6900, diventerà di giorni 365, 2419; e questa, che si può ritenere come la lunghezza media per tutto il periodo di 10.000 anni che seguiranno il 1900, è inferiore per 6 decimilionesimi di giorno alla lunghezza degli Alfonsini. Sicché nel detto periodo si dovrebbero ancora sopprimere 6 bisesti. L'anticipazione dei novilunî, o dei termini pasquali, nel calendario giuliano attualmente si ritiene d'un giorno ogni 307 anni, anziché ogni 312 anni e mezzo; sicché aumenterebbe di un giorno soltanto dopo 25.000 anni. Gli astronomi dell'avvenire perfezioneranno ancora questi risultati; ma nessuna correzione è necessaria per altri 2000 anni.
Modificazioni nella lunghezza dei mesi e nella distribuzione delle settimane. - In questi ultimi tempi, parecchi ceti industriali, commerciali e bancarî hanno suscitato un movimento internazionale per una modificazione nel ritorno delle feste, nella lunghezza dei mesi e nella distribuzione delle settimane. I desiderî più caldamente espressi sono: 1. che venga fissata la data della Pasqua, o almeno limitata la sua oscillazione; 2. che almeno i trimestri si facciano eguali e comprendano un numero intero di settimane; e in ogni caso, che in tutti gli anni, in perpetuo, alla stessa data, si faccia corrispondere lo stesso giorno della settimana. Nel 1923 si occupò di tali proposte la Lega delle Nazioni, la quale nominò un'apposita commissione.
Una modificazione nella data della Pasqua si riconosce di competenza delle varie confessioni cristiane e specialmente della Santa Sede; le autorità ecclesiastiche di tutte le confessioni cristiane hanno dichiarato che a ciò nessuna ragione teologica si oppone.
Detratto un giorno agli anni comuni e due agli anni bisestili, rimangono 52 settimane intere, per la distribuzione delle quali si sono presentati varî progetti. Quello proposto da G. Armelin nel 1887 e modificato da L.-A. Grosclaude nel 1900, che meno si discosta dall'uso attuale, consiste nel dividere l'anno in quattro trimestri di 91 giorni ciascuno, assegnando in ciascun trimestre 30 giorni ai primi due mesi e 31 al terzo; con che si consegue pure il vantaggio che, in uno stesso anno, il primo mese di ciascun trimestre comincia con lo stesso giorno della settimana, e così pure il secondo mese e il terzo. Ora, se ai giorni in eccesso sulle 52 settimane si continua ad assegnare il nome che secondo l'ordine di successione ad essi competerebbe nella settimana, il giomo della settimana rispondente al primo dell'anno, varierebbe da un anno all'altro, come attualmente. La corrispondenza perenne dei giorni della settimana alle stesse date dell'anno non si può ottenere se non privando di nome il giorno o i due giormi in eccesso, chiamandoli giorni bianchi.
Un'altra disposizione, caldeggiata specialmente dai banchieri americani, consisterebbe nella divisione dell'anno in 13 mesi di 4 settimane, ossia di 28 giorni ciascuno, qualificando bianchi i giorni in eccesso. Questa proposta, già avanzata da Auguste Comte (1849), è stata ripresa da M. B. Cotsworth (1895).
Ma l'istituzione dei giorni bianchi importerebbe, nel passaggio da un anno al successivo, un'interruzione nel ciclo delle settimane. Ora, la settimana, la cui successione continua ininterrotta da oltre tremila anni, è la sola unità cronologica comune a quasi tutti i popoli della terra, per quanto diversi per razza, lingua, civiltà, governo; la settimana costituisce il solo mezzo di confronto fra i diversi calendarî da essi seguiti, confronto evidentemente necessario nei rapporti scambievoli. Oltre a questo, sulla settimana sono basati i riti del cristianesimo, del giudaismo e dell'islamismo.
Riccioli, Chronologia reformata, I, Bologna 1669; D. Petau, Doctrina temporum, I, Verona 1734; e soprattutto, tra i moderni, Ginzel, op. cit., II, Lipsia 1911; V. Botto, Il calendario unificato, Roma 1919; Société des nations, Classification et résumé des projets de reforme du calendrier, reeçus jusqu'au 1er juillet 1926, Ginevra 1927.
Adozione della riforma gregoriana. - Il calendario gregoriano fu accolto subito, o quasi, nei paesi cattolici; l'adozione di esso non avvenne invece senza vivi contrasti nei paesi protestanti, anche per il mandamus che si trovava nella bolla papale. La Svezia, dopo aver adottato il gregoriano una prima volta sotto Giovanni III, tornò poco dopo al calendario giuliano, per adottare definitivamente il "nuovo stile" nel 1753. In Svizzera, i varî cantoni si condussero diversamente: i cattolici accolsero la riforma nel 1584, i protestanti in varî tempi, ma per lo più nel 1701, salvo i Grigioni, che l'adottarono in parte nel 1784, in parte nel 1798, mentre il comune di Süs (Bassa Engadina) conservò il "vecchio stile" fino al 1811.
Gli stati protestanti della Germania adottarono nel 1700, su proposta del Leibniz, una grande equazione solare di 11 giorni, passando dal 18 febbraio al 1° marzo. Per la determinazione della Pasqua si ricorse invece all'osservazione astronomica, stabilendo l'equinozio vero di primavera e la luna piena in base al meridiano di Uraniborg (Uraniburgo; il celebre osservatorio di Tycho Brahe) e con l'uso delle tavole rodolfine. Ma nel 1724 la Pasqua cadde secondo il calendario gregoriano il 16 aprile, secondo invece questo verbessertes Kalender germanico, il 9; e così nel 1744, dando luogo ciascuna volta a conflitti fra protestanti e cattolici. Perciò, su proposta di Federico II, fu adottato in tutto il calendario gregoriano.
Nella Gran Bretagna l'adozione del calendario gregoriano per gli atti ufficiali fu decisa nel 1750, stabilendo di compiere la grande equazione solare passando dal 2 al 14 settembre 1752 e spostando il Capodanno dal 25 marzo al 1° gennaio, giorno iniziale dell'anno, in Scozia, fin dal 1600. Per fissare la Pasqua la chiesa anglicana ha adottato un sistema che la fa coincidere con quella del calendario gregoriano.
Nei paesi dell'Europa orientale, dove la religione prevalente è la greco-ortodossa, il calendario giuliano, o vecchio stile rimase in vigore più a lungo; ma anche in Russia il governo sovietico ha adottato il calendario gregoriano, che si può ritenere ormai quello di tutti gli stati civili. La chiesa greco-ortodossa ha adottato nel 1923 una riforma, che si avvicina a quella gregoriana, ma secondo la quale sono bisestili gli anni secolari il cui millesimo, diviso per 9, dia per resto 2 o 6; secondo questo sistema d'intercalazione l'anno è di soli 2 secondi più lungo dell'anno tropico. La tabella seguente indica l'anno dell'introduzione della riforma gregoriana nei varî paesi civili, nonché i giorni soppressi per la grande equazione solare. Questa manca per il Giappone, la Cina e la Turchia, che passarono al gregoriano da tipi di calendario affatto diversi.
Per l'inizio dell'anno nel Medioevo, v. cronologia.
Il calendario copto ed etiopico.
Il calendario copto. - In Egitto, dopo l'editto di Augusto dell'anno 10 a. C., in sostituzione dell'antico anno vago di 365 giorni senza intercalazioni, fu introdotto l'anno giuliano, ma conservando i mesi già in uso presso gli Egiziani; cosicché l'anno comprende 12 mesi di 30 giorni ciascuno, ai quali si aggiungono i 5 giorni supplementari (epagomeni) negli anni comuni, 6 negli anni bisestili, avvertendo che i bisestili in questo calendario precedono di un anno i corrispondenti giuliani. Quando il calendario giuliano fu introdotto in Egitto, il primo del mese di Thot (che rimase il primo mese dell'anno come nel calendario egiziano) cadde il 29 agosto, onde ancor oggi il capodanno copto cade il 29 agosto giuliano, corrispondente, per il periodo 1900-2100, all'11 settembre gregoriano. Naturalmente l'anno che segue il bisestile comincia il 30 agosto, ma siccome al 1° gennaio seguente ha inizio l'anno bisestile giuliano, il capodanno copto seguente coincide di nuovo con il 29 agosto giuliano.
I nomi dei mesi copti secondo la forma del dialetto boheirico, da lungo tempo unicamente usato nella liturgia sono: Tüout, Paopi, Athür, Choiak, Tübi, Mechīr, Phamenhüt, Pharmouti, Pachün (Pashons), Paüni, Epīp, Mesüri; i giorni supplementari sono chiamati Pi koug???i en-Avot ("il piccolo mese"). In arabo i detti mesi hanno le forme seguenti: Tūt, Bābah, Hatūr, Kiyahk, Ṭūbah, Amshīr, Barmahāt, Barmūdah, Bashans, Ba'ūnah, Abib, Misrā, Ayyām an-Nasī'. ("giorni intercalari").
L'era adottata più comunemente dai Copti e da essi ancor oggi adoperata è quella di Diocleziano, che ha inizio con il venerdì 29 agosto 284 d. C., anno dell'ascensione al trono dell'imperatore. Più tardi fu detta dei Martiri, sebbene le persecuzioni di Diocleziano cominciassero solo nel 303. L'anno copto è ancora usato nella Chiesa egiziana, e in tutte quelle manifestazioni che sono in diretta relazione con la vita nazionale e religiosa dei Copti; i calendarî e i giornali quotidiani in Egitto dànno sempre la concordanza con la data copta: per es. il 5 luglio 1930 (gregoriano) corrisponde al 18 ba'ūnah 1646.
Per le feste v. copti.
Il calendario etiopico. - La Chiesa e il regno abissino ricevettero dal patriarcato di Alessandria l'anno copto. I nomi dei mesi etiopici sono i seguenti: Maskaram, Teqemt, Khedār, Takhshāsh, Ṭerr, Yakātit, Magābit, Miyāziyā, Genbot, Seniē, Ḥamliē, Naḥasiē; i giorni supplementari, come presso i Copti, sono considerati come un mese, chiamato Paguemēn (corruzione di ἐπαγόμεναι). Gli Abissini adoperano più di un'era; la più comune è quella della creazione del mondo, detta Alessandrina minore, e che fissa la creazione stessa al capodanno del 5493 a. C., e cioè 7 anni dopo il computo dell'altra era seguita anche dalla Chiesa romana (di Giulio Africano, 5500 a. C.; v. era), e, s'intende, 8 anni per il periodo dal gennaio al capodanno abissino in agosto (o settembre per l'anno gregoriano). Assai adoperata è anche l'era di Cristo, che è l'unica usata attualmente, e che naturalmente mostra la stessa differenza di 7-8 anni in meno. Nel passato era anche comune la datazione con i grandi cicli lunari di 532 anni (prodotto di 28 per 19, rispettivamente numero degli anni del ciclo solare e lunare) a partire dall'era di Diocleziano, cioè dal 284 d. C.; è la cosiddetta era della misericordia (Meḥrat). Comune nella letteratura è infine l'era di Diocleziano, o dei Martiri (v. sopra).
Ogni anno ha il nome di un evangelista; il bisestile è detto di Luca, i seguenti rispettivamente di Giovanni, Matteo e Marco.
I popoli cristiani etiopici parlanti le odierne lingue di Abissinia (amarico, tigré, tigrino, ecc.) conservano con lievi mutamenti queste denominazioni, che son proprie dell'antica lingua sacra e letteraria, il ghe'ez. Il sabato è considerato festivo come la domenica fin dal XV secolo. Numerosissime sono le feste; a quelle comuni del mondo cristiano si aggiungono molte altre, della Vergine al 21 di ogni mese, della Croce (Maskal) il 18 Maskaram (nella quale si traggono gli auspici per il nuovo anno). Ancor oggi sono assai solennemente celebrate (v. etiopia).
Bibl.: Oltre ai trattati generali (Ginzel), v.: N. Nille, Kalendarium manuale utriusque Ecclesiae orientalis et occidentalis, Innsbruck 1896-97; M. Chaîne, La chronologie des Chrétiens de l'Égypte et de l'Éthiopie, Parigi 1925 (cfr. tuttavia C. Conti Rossini, in Oriente moderno, V [1925], pp. 557-559); A. Abetti, Nozioni sul calendario dei Cofti e degli Abissini cristiani, in Rendiconti della R. Accademia dei Lincei, classe di scienze morali, 1887; C. Conti Rossini, L'Abissinia, Roma 1929.
Il calendario dei Celti, dei Germani e degli Slavi.
Calendario celtico. - Notizie fornite da Cesare (De bell. gall., VI, 14 e 18) e da Plinio il Vecchio (Nat. hist., XVI, 44) permettono già di stabilire che quello degli antichi abitatori della Gallia fosse un calendario lunisolare: alla stessa conclusione conducono le notizie che si possono ricavare da antichi testi celtici. Nel novembre 1897 a Coligny, presso Lione, vennero trovati frammenti di due tavole di bronzo, contenenti un calendario per la durata di circa 5 anni. Questi hanno permesso di stabilire il carattere lunisolare dell'anno degli antichi Celti: l'anno è diviso in 12 mesi, di 29 e 30 giorni, rispettivamente contrassegnati con mat e anm; fa eccezione il nono mese, equos, che, benché di 30 giorni, è spesso contrassegnato con mat; il mese intercalare appare due volte; una, prima del mese Giamon, cioè alla fine del semestre invernale, la seconda fra Ogron e Cutios, cioè fra il 5° e il 6° mese: dal che si rileva che non avrebbe avuto un posto fisso. L'intercalazione di un mese di 30 giorni ogni due anni e mezzo ha dato luogo a molte discussioni circa la durata precisa dell'anno; l'ipotesi che pare più probabile è che i Celti considerassero l'anno solare di 365 giorni e che avessero anni lunari di 354 o 355 giorni (secondo che equos fosse considerato di 29 o di 30).
I giorni di ciascun mese sono numerati da 1 a 15 e quindi nuovamente da 1 a 14 (o 15): le due serie sono divise dalla parola atenoux, che probabilmente indica la luna piena; alla fine dei mesi di 29 giorni è l'indicazione divertomu (o divortomu, ecc.) che indica probabilmente la luna nuova. Nel mese intercalare, i giorni hanno, con qualche particolarità ed eccezione, i nomi dei mesi: la qual cosa sembra ci riporti a una credenza, ancora largamente attestata nel folklore, per cui certi giorni particolari fornirebbero il prognostico per i mesi corrispondenti.
Il carattere lunisolare è dimostrato anche dal fatto che il giorno si faceva cominciare col tramonto del sole; v'erano forse dei periodi ritenuti sacri: di 3 e 9 giorni, di due anni e mezzo o tre, sette e trent'anni.
Calendario germanico. - Un vero e proprio calendario non conobbero le popolazioni germaniche innanzi la conversione al cristianesimo, o per lo meno prima del loro contatto coi Romani, dai quali ebbero ogni altro elemento di vita culturale, compresa la scrittura. Le notizie e i documenti linguistici che ci rimangono relativi al computo del tempo sono scarsi e frammentarî, e taluni oscuri e controversi. Che i Germani avessero un loro vago calendario lunare o meglio lunisolare si deduce dal fatto che stabilivano e citavano le date in base al numero delle notti anziché a quello dei giorni (Tacito, Germ., XI; Cesare, De bell. gall., VI, 18), e da argomenti linguistici (ant. alto tedesco manod, anglosassone mon(a) p, ted. Monat, ingl. month "mese"; ted. Mond, ingl. moon " luna" cfr. qualche espressione tuttora vivente, come ingl. sennight "settimana", fortnight quindicina"). È da credere che conoscessero in origine la divisione in periodi di sette giorni, ma che non avessero denominazioni per i singoli giorni, poiché nessuna è pervenuta sino a noi, che non sia la risultante della sostituzione alla divinità latina del nome di una divinità ad essi familiare (p. es., dies Iovis: ant. alto tedesco Donarestag, ant. nordico Thorsdagr; dies Veneris: ant. alto tedesco, Friatag, ant. nordico Frjàdagr, ecc.). Quanto ai nomi dei mesi essi erano tolti dalle pratiche dell'agricoltura o dallo stato delle stagioni, ma i nomi primitivi si sono conservati solo in parte, mentre ci sono noti quelli fissati da Carlo Magno (Eginardo, Vita Karoli, 29), che hanno il medesimo ordine di quelli del calendario romano: Wintermanoth, Hornung, Lenzinmanoth, Ostarmanoth ecc., e quelli che Beda (De temp. ratione, 13) riferisce degli Anglosassoni, parlandoci anche di un loro mese intercalare.
Nessuno di tali nomi si è conservato nell'uso moderno, meno Hornung (febbraio) che sopravvive nell'uso di qualche regione. Tacito (Germ., XXIV) riferisce pure che i Germani non conoscevano che tre stagioni, inverno, primavera ed estate, ma forse, in origine, non ne avevano che due, stando a un noto verso della Canzone d'Ildebrando: ih wallôta sumaro enti wintro sehstig ur lante "io soggiornai sessanta estati ed inverni fuori del paese". Certo è pure ch'essi cominciavano l'anno con l'inverno e che tale avvenimento, specie nel Nord, si celebrava solennemente nella famosa festa di Jul, in origine, forse, al 1° febbraio e in seguito al 1° gennaio o all'epoca del solstizio.
Calendario slavo. - Anche presso gli Slavi antichi il calendario era lunare o lunisolare: infatti anche presso di loro, e ancor oggi, i termini per "mese" e "luna" sono identici presso tutti gli Slavi (paleoslavo měséc, russo mesjac, polacco miesiâc, cèco měsíc, serbocroato mesec). Ma l'anno di dodici mesi è stato introdotto presso gli Slavi solo col cristianesimo e probabilmente in epoca relativamente tarda. Soltanto una piccola parte dei nomi dei mesi è di origine latina (greca), e vi sono delle lingue slave letterarie che evitano completamente queste denominazioni straniere. Sopravvivono, e in parte vengono artificialmente mantenuti, dei nomi che indicano piuttosto periodi speciali dell'anno in rapporto al clima o alle condizioni agricole. Ne deriva che gli stessi nomi designano spesso mesi diversi (p. es. listopad "l'epoca in cui cadono le foglie", ottobre o novembre; e il "mese del tiglio": serbocroato lipanj, ucraino lypen′, polacco lipiec, che nella prima lingua vale "giugno", nelle altre due "luglio"). Del pari non v'è concordanza nei nomi delle stagioni ("primavera" è in serbo proljeće, in russo vesna, ecc.) e manca anche un nome comune alle lingue slave per "anno" (godina, rok, leto). Queste incertezze e oscillazioni sembrano riflessi di uno stato molto primitivo, in cui si contavano forse le lune e al più s'individuavano periodi ricorrenti contrassegnati dalle vicende della vegetazione.
Il calendario ecclesiastico.
Nella Chiesa cattolica, si chiama anno ecclesiastico, o ciclo liturgico, il ricorso annuale delle feste della Chiesa, la maggior parte delle quali dipende dalla data della Pasqua; scopo di esse è "l'adorazione in spirito e verità, la lode, la propiziazione e il ringraziamento verso Dio, uno e trino, a cagione della sua immensa gloria e della bontà sua. Questa gloria e questa bontà si manifestano nell'opera della creazione cosmica e dell'umana redenzione" (Schuster, Liber Sacrammtorum, II, p. 22). Il ricordo dei varî momenti della redenzione ha dato origine alle feste dell'anno ecclesiastico.
La prima festa annuale, che i cristiani subito celebrarono, fu la Pasqua (v.), commemorazione ormai non più dell'esodo degli Ebrei dall'Egitto, ma della Risurrezione del Signore, e del passaggio a una vita nuova mercé la Redenzione operata dal Cristo. Anche la Pentecoste (v.), dopo 50 giomi, solennizzò la discesa dello Spirito Santo (Atti degli Apostoli, II); poco dopo l'era apostolica si aggiunge la memoria dell'ascensione di Cristo in cielo, 40 giorni dopo la Pasqua. La manifestazione di Gesù ai Magi e il battesimo nel Giordano, inizio della sua predicazione, da una parte, e, dall'altra, l'Incarnazione del Verbo, furono anche celebrati, con le due feste del Natale (25 dicembre) e dell'Epifania (6 gennaio), sull'origine delle quali, e sulla loro distinzione, si è disputato a lungo (v. epifania e natale). La data di quest'ultima festa è legata a quella dell'Annunciazione, che fu posta al 25 marzo, seguendo un'antica tradizione secondo cui Gesù morì in quel giorno, anniversario della sua concezione. Mentre in Oriente l'Epifania rimase la festa principale, a Roma essa ricordò solo l'adorazione dei magi e il battesimo: più tardi anche il primo miracolo, secondo il quarto Vangelo, cioè la trasformazione dell'acqua in vino alle nozze di Cana (Giovanni, II, 1-11).
Attorno a queste date solenni, si aggrupparono a poco a poco, sia come preparazione, sia come eco e conclusione, molte altre feste. E prima quel periodo di sei settimane, chiamato poi Quaresima: istituito forse da principio per preparare i neofiti al gran giorno del battesimo, che ricevevano nella vigilia della Pasqua (e di cui si hanno accenni nei secoli III e IV), poi come tempo di penitenza per poter meglio e più santamente festeggiare la Pasqua. Per effetto delle persecuzioni, si ebbero le visite alle tombe dei martiri e la celebrazione dell'anniversario del loro martirio. Le feste dei Santi, che prima erano piuttosto locali, a causa dei pellegrinaggi si propagarono come si propagava il loro culto e si edificavano al loro nome le chiese. A somiglianza della Quaresima si dedicò un altro periodo di quattro o sei settimane in preparazione al Santo Natale, e fu detto (dal lat. adventus "venuta") Avvento (v.) di Gesù Cristo. Per glorificare, contro le eresie dei secoli IV e V, la Madre di Dio, oltre l'Annunziazione, s'istituirono le feste della Purificazione, della Visitazione e dell'Assunzione di Maria SS., la cui data dopo molte oscillazioni fu fissata al 15 di agosto dall'imperatore Maurizio al tempo di S. Gregorio Magno. Questo papa inoltre, nelle angustie dell'assedio di Roma, fatto dai Longobardi, istituì, per chiedere l'aiuto divino, le tre stazioni delle domeniche prima di Quaresima dette della Settuagesima (70 giorni prima di Pasqua), della Sessagesima e della Quinquagesima: può dirsi così che verso il sec. VI era quasi del tutto stabilito il calendario liturgico o anno ecclesiastico, indicandosi le domeniche che non avevano una festa speciale col numero progressivo dalla principale.
Usanze, invalse nei diversi luoghi, furono adottate dalla Chiesa romana, che talvolta le ampliò, le corresse e le armonizzò con quelle già accolte: il Messale e il Breviario romano consacrano così, fuse in un tutto armonico, le splendide antiche tradizioni.
L'anno ecclesiastico liturgico comincia con la 1a Domenica dell'Avvento (la più vicina al 30 novembre, e nel rito ambrosiano dopo la festa di S. Martino, 11 novembre); l'Avvento comprende quattro settimane in preparazione al Natale; poi il ciclo natalizio con la festa della Circoncisione e dell'Epifania; questo finisce il 2 febbraio con la Purificazione di Maria Vergine. Dall'Epifania alla Settuagesima corrono alcune settimane, non meno di due, né più di sei, poi le tre domeniche della Settuagesima, Sessagesima e Quinquagesima, seguite dalle sei di Quaresima, le cui due ultime son chiamate della Passione e delle Palme. Alla Pasqua di Resurrezione seguono cinque settimane, la festa dell'Ascensione e la Pentecoste che con la sua ottava chiude il tempo pasquale. Seguono le feste della SS. Trinità e del Corpus Domini, e poi fino alla fine dell'anno seguono da 23 a 27 domeniche. In senso mistico, l'Avvento può dirsi allegoria dell'aspettativa dei santi dell'Antico Testamento per la venuta del Messia; il ciclo natalizio, delle gioie della promessa divina adempiuta, la Quaresima è tempo di raccoglimento per ben meritare i benefici del battesimo e della redenzione, il tempo pasquale simboleggia la gloria di Gesù, e il tempo dopo la Pentecoste, quando la Chiesa espone gl'insegnamenti di Gesù, la diffusione della buona novella per opera degli Apostoli.
Bibl.: N. Nilles, Kalendar. manuale utriusque Ecclesiae ecc., 2ª ed., Innsbruck 1896-97, voll. 2; I. Schuster, Liber sacrament., Torino 1919-27.
I calendarî delle chiese orientali.
Le chiese di rito bizantino conservano ancora l'antica tradizione di Costantinopoli, facendo cominciare l'anno ecclesiastico al 10 settembre; nel computo degli anni si segue dappertutto l'era cristiana, e soltanto nelle occasioni solenni si aggiunge la data secondo l'era bizantina o dei Settanta. Quando Gregorio XIII riformò il calendario, tentò accordarsi col patriarca di Costantinopoli, ma poiché le trattative non approdavano a nulla, pubblicò ugualmente la bolla di riforma. I Greci condannarono la riforma in due sinodi del 1582 e del 1593. Soltanto dopo la guerra mondiale alcune chiese ortodosse hanno accettato il calendario gregoriano per le feste fisse, non senza qualche difficoltà, dati i pregiudizî del popolo; per le feste mobili continuano ad adoperare il computo giuliano, o sperano di attuare una correzione del calendario più perfetta di quella gregoriana. Oggi regna su questa materia nelle chiese ortodosse la più grande confusione e varietà di osservanze. Le stesse chiese cattoliche di rito bizantino non osservano ancora tutte la riforma di Gregorio XIII, e Roma, dopo aver insistito molto nel passato per introdurla, si è affidata oggi all'inevitabile progresso per introdurla dappertutto. Così mentre gl'Italo-Albanesi la osservano di fatto dal sec. XVII, e i Melkiti dal 1857 (non senza uno scisma parziale sopito con difficoltà), i Greci e i Romeni l'hanno accettata recentemente soltanto per le feste fisse, e gli altri elementi etnici continuano la vecchia osservanza. Nel rito antiocheno (Siri e Maroniti), l'anno ecclesiastico comincia al 1° ottobre; i Maroniti hanno addottato il calendario gregoriano dal 1606 e i Siri dal 1836. Nel rito alessandrino dei Copti, l'anno ecclesiastico comincia il 1° settembre, ha mesi di 30 giorni, e in più 5 giorni complementari; il calendario gregoriano è stato introdotto presso i cattolici nel 1887. Nel rito caldeo, l'anno comincia il 1° ottobre, e il calendario gregoriano, introdotto presso i cattolici dal 1836, è stato ricevuto pian piano senza difficoltà. Presso gli Armeni, che hanno un anno ecclesiastico del tutto speciale, la riforma gregoriana fu accettata da parte dei cattolici nel 1890 e resa obbligatoria nel 1911. Nessuno dei dissidenti di questi quattro riti secondarî ha accettato la riforma. Fra quelli che si sono più adoperati per l'unificazione del calendario presso gli orientali è da ricordare il barnabita italiano Cesare Tondini de' Quarenghi (1839-1907).
Bibl.: Tutti i calendarî ecclesiastici orientali sono esposti diffusamente in N. Nilles, Kalendarium manuale utriusque Ecclesiae orientalis et occidentalis, 2ª ed., Innsbruck 1896-1897, voll. 2; uno studio particolareggiato del calendario armeno in C. Tondini de' Quarenghi, Étude sur le calendrier liturgique de la nation arménienne, Roma 1906 (estratto da Bessarione).
Il calendario musulmano.
Nelle parti dell'Arabia centrale-occidentale (Mecca e Medina) ove nacque l'islamismo, all'inizio di questo vigeva un calendario con anni di dodici mesi lunari ciascuno, ossia un calendario lunare il quale tuttavia veniva reso lunisolare mediante una rozza intercalazione (forse d'un mese intero) che all'ingrosso poneva d'accordo l'anno lunare con le stagioni, ed era di tanto in tanto proclamata in forma solenne da persone che sembra avessero un carattere quasi religioso. Questa intercalazione apparve a Maometto inquinata di paganesimo, sicché l'anno prima della sua morte (10 èg.; 631-632 d. C.), fece intervenire una rivelazione celeste a proibirla (Corano, IX, 36-37); perciò l'anno musulmano divenne prettamente lunare.
Nella sua forma definitiva, forse un po' posteriore a Maometto, il calendario musulmano si fonda su anni lunari astronomici di 354d 8h 48m: ossia di 36 secondi inferiori al vero. Nell'uso civile, dovendosi eliminare le frazioni, l'anno lunare diventa di 354 giorni; ne risulta che in trent'anni la frazione trascurata porterebbe alla mancanza di 11 giomi esatti rispetto al periodo di trent'anni, la cui parte frazionaria non fosse stata negletta. Per eliminare questa grave discordanza, il calendario musulmano stabilisce che ogni trentennio si abbiano 11 anni intercalari, ossia di 355 giorni; sono tali, secondo l'uso prevalso, il 2°, 5°, 7°, 10°, 13°, 16°, 18°, 21°, 24°, 26°, 29° d'ogni trentennio, ossia quelli il cui numero diviso per 30 dia per resto una delle cifre suddette. Il giorno intercalare viene collocato alla fine dell'ultimo mese dell'anno stesso.
I 12 mesi dell'anno hanno alternativamente 30 e 29 giorni e sono:
Il giorno comincia con il tramonto del sole; quindi, p. es., la notte di lunedì per i musulmani è quella fra la domenica e il lunedì, non quella fra il lunedì e il martedì come sarebbe fra noi.
Ancor oggi, come in passato, le popolazioni musulmane non bene europeizzate amano contare i giorni del mese dall'effettiva apparizione della luna nuova nei loro paesi; ciò può portare a discrepanze di uno o due giorni rispetto ai calendarî a stampa. Ma poiché alla data sogliono aggiungere il nome del giorno della settimana, questo permette di riconoscere quale sia il giorno del mese voluto.
Gli anni arabi non erano collegati ad alcuna era. Soltanto nel 16 o nel 17 dell'ègira (637 o 638 d. C.), il califfo ‛Omar stabilì che gli anni si numerassero dall'inizio dell'anno arabo nel corso del quale (nell'autunno del 622) era avvenuta l'ègira (hiǵrah "semigrazione") di Maometto dalla Mecca a Medina; perciò l'inizio dell'era musulmana è il venerdì 16 luglio 622 d. C. secondo l'uso civile, o il giovedì 15 luglio secondo l'uso astronomico musulmano. Il divario fra i due usi è più apparente che reale; infatti, siccome i musulmani cominciano il giorno dal tramonto del sole, per loro il primo anno dell'era cominciò intorno alle 18h 45m (tempo medio locale di Medina) del giovedì 15; d'altro canto gli astronomi arabo-musulmani contano il giorno dal mezzodì, cosicché per loro l'inizio dell'era fu il mezzogiorno del giovedì 15 (v. era).
Secondo le varie combinazioni degli anni semplici, degl'intercalari musulmani e dei bisestili giuliani e gregoriani, gli anni civili musulmani risultano più brevi dei nostri di 10 o 11 o 12 giorni; ne consegue che 33 anni musulmani corrispondono quasi esattamente a 32 dei nostri; che i mesi musulmani girano a poco a poco per tutte le stagioni; infine, che per ridurre le date musulmane alle nostre (i due calendarî hanno in comune soltanto i giorni della settimana) occorrono lunghi calcoli (per i quali il metodo migliore fu escogitato da E. Millosevich nel 1913), qualora non si ricorra a tavole di comparazione (v. bibliografia). In mancanza delle tavole, se basta avere un'approssimazione di mezzo anno, si possono usare le due fomule seguenti, nelle quali H designa l'anno musulmano e G il gregoriano o il giuliano:
La mancanza di qualsiasi corrispondenza stabile fra i mesi musulmani e le stagioni dell'anno solare ha fatto sì che agli scopi agricoli si mantenessero, accanto al musulmano, calendarî solari o siderali; p. esempio in Egitto il calendario copto (giuliano) e nel resto dell'Africa settentrionale un calendario giuliano con gli antichi nomi latini dei mesi, ma senza riferimento dell'anno a un'era qualsiasi. Parimenti i governi musulmani nei secoli passati ricorsero a varî tipi di calendarî solari per determinare il loro anno finanziario in diretto rapporto con la riscossione delle imposte sui prodotti del suolo. Soprattutto noto fu l'anno finanziario turco, indicato accanto al musulmano lunare negli atti ufficiali sino a tutto il 1925, ch'ebbe la sua forma definitiva nel 1677 ed era l'anno giuliano computato dal 1° marzo dei Greci e Russi (vecchio stile), così da far coincidere nei bisestili il 29 febbraio con la fine dell'anno precedente; il numero degli anni era computato dall'ègira, ma, a partire dalla definitiva istituzione del sistema, aggiungendo un'unità dopo ogni 330 anno, affine di mantenere la concordanza con il numero degli anni lunari musulmani (dei quali 33 formano 32 solari). Dimenticata quest'aggiunta dopo il 1287 finanziario (1871 d. C.), cominciò e andò aggravandosi la discrepanza di numero tra il finanziario ed il musulmano lunare, talché, a partire dal finanziario 1321 (1905 d. C.), il secondo si venne a trovare di due unità in anticipo sul primo. Con la legge del 2 febbraio 1917 l'anno finanziario suddetto fu proclamato gregoriano; conservato cioè il computo dall'ègira come prima, l'inizio di ciascun anno fu trasportato al 1° marzo gregoriano, ossia con 13 giorni di anticipo rispetto all'anteriore 1° marzo greco-russo o di vecchio stile. Tutto ciò è finito con la legge del 27 dicembre 1925, che sopprime in Vurchia il calendario musulmano e vi sostituisce il gregoriano, con gli anni contati dall'era cristiana, a partire dal 1° gennaio 1926.
Nei paesi musulmani fuori della Turchia il calendario musulmano continua a essere ufficialmente in uso, sia esclusivamente (come negli stati d'Arabia), sia parallelamente al calendario gregoriano (Egitto e paesi sotto protettorato o mandato europeo) o ad altro solare (Persia, Afghānistān); ad ogni modo su di esso sono regolate tutte le feste e pratiche aventi attinenza con il culto islamico.
Bibl.: Oltre alle opere generali di cronologia matematica (Ideler, Ginzel), si veda E. Millosevich, Il calendario arabo, in Bollettino della R. Soc. geog. italiana, 1913 (norme generali di calcolo); F. Wüstenfeld e E. Mahler, Vergleichungstabellen der mohammedanischen und christlichen Zeitrechnung, 2ª ed., Lipsia 1926 (la corrispondenza con le date cristiane è data per l'inizio di ciascun mese musulmano fino a tutto il 1500 èg., 2077 d. C.); R. Campani, Calendario arabo, Modena 1914 (pubbl. del Corpo di stato maggiore; la comparazione è data per gli inizî di ciascun mese musulmano fino a tutto il 1317 èg., 1899-1900 d. C., poi giorno per giorno sino a tutto il 1420 èg., 1999-2000 d. C.: ottime le tabelle; sulla parte introduttiva, cfr. Rivista degli studi orientali, VII [1916], pp. 253-264).
Il calendario rivoluzionario francese.
Una modificazione storicamente importante del calendario fu quella introdotta dalla Rivoluzione francese, soprattutto per romperla definitivamente con l'antico calendario che, con i suoi santi e le altre feste, manteneva, malgrado tutto, vivo nel popolo l'amore per il culto cristiano. Inoltre la Rivoluzione aveva introdotto il sistema metrico decimale, e voleva applicare anche al calendario il suo ideale di livellamento. Preceduto da varie proposte di riforma, il calendario repubblicano, che era stato elaborato da una commissione di cui facevano parte, tra gli altri, il Lagrange e il Lalande, fu approvato dalla Convenzione il 5 ottobre 1793; la nuova era repubblicana si fece cominciare con il 22 settembre 1792, giorno della proclamazione della repubblica, e dell'equinozio vero d'autunno per Parigi. Esso divenne perciò il capodanno dell'anno I e fu deciso che ogni anno avrebbe avuto inizio con l'equinozio vero d'autunno. Quindi gli atti compiuti dal 1° gennaio al 6 ottobre 1793, già assegnati all'anno II, furono datati con l'anno I. Il calendario conservava i dodici mesi, tutti di 30 giorni, divisi in tre decadi, abolendo la settimana. I rimanenti 5 giorni costituirono la mezza decade dei giorni epagomeni e, dal 7 fruttidoro anno III, furono detti sans-culottides, destinati alle feste della Virtù, del Genio, del Lavoro, dell'Opinione, delle Ricompense. Il sesto giorno, che si aggiungeva negli anni bisestili, era il giorno sans-culottide per eccellenza. I mesi, che dapprima si chiamavano semplicemente primo, secondo, terzo e così via, ricevettero su proposta di Fabre d'Églantine nomi derivati dalle occupazioni che si svolgevano in ognuno di essi.
Il calendario repubblicano rimase ufficialmente in vigore sotto il Consolato, benché perdesse terreno. Con il concordato e la legge del I802 sulla riorganizzazione dei culti si ristabilì la domenica, che dal 13 floreale (3 maggio) 1802 fu il giorno stabilito per le pubblicazioni matrimoniali. Il 15 fruttidoro anno XIII (2 settembre 1805) il Regnault de Saint-Jean-d'Angély e il Mounier presentarono al Senato la proposta governativa del ritorno al calendario comune; una commissione, di cui fu relatore il Laplace, ne propose l'approvazione, e col 1 gennaio 1806 il calendario repubblicano venne abolito. Esso era stato applicato anche nei territorî conquistati dalla Repubblica, e quindi nelle varie repubbliche italiane.
Il calendario perpetuo.
Il numero dei giorni di un anno, sia ordinario sia bisestile, non è esattamente divisibile per 7, cioè per il numero dei giorni della settimana; quindi non vi è concordanza tra il nome del giorno e il suo posto nel mese. È facile vedere che tale concordanza si raggiungerebbe ogni sette anni, se non vi fossero gli anni bisestili; mentre col calendario giuliano l'accordo si verifica ogni 28 anni. La riforma gregoriana, col sopprimere tre bisestili secolari in ogni periodo di 400 anni, ha reso anche più difficile la concordanza. Per trovare rapidamente la corrispondenza fra la data del mese e il giorno della settimana si sono costruite delle tabelle speciali, che si chiamano calendarî perpetui e che si riferiscono a un numero più o meno esteso di anni. Nelle opere calendariografiche si trovano anche 35 calendarî completi, quanti sono i giorni in cui può cadere la Pasqua, che indicano non solo i giorni della settimana, ma anche la data delle varie feste mobili e delle altre ricorrenze ecclesiastiche.
Come esempio di calendario perpetuo, si riporta qui sotto quello di F. Berio, uno dei più semplici, che dà con tre letture i giorni della settimana per tutti gli anni dall'i al 2399 dell'era volgare (Periodico di matematiche, serie 4a, IV, 1924, pp. 77-78).
Il calendario giuridico italiano.
Lo stato italiano ha adottato ufficialmente il calendario gregoriano, come è espressamente consacrato dall'art. 285 del cod. di commercio a proposito della scadenza delle cambiali, e segue, naturalmente, l'era cristiana nella numerazione progressiva degli anni e lo stile della Circoncisione. Nondimeno lo stato si è trovato nella necessità di dettare norme proprie per regolare lo svolgimento della complicata attività amministrativa dei varî organi, e pertanto ha stabilito per la funzione giudiziaria, per l'insegnamento e per la contabilità finanziaria uno speciale periodo di tempo della durata di un anno, ehe si svolge indipendentemente dall'inizio e dalla fine dell'anno civile o astronomico. E mentre con questo coincide l'anno giudiziario (per il quale è prevista l'interruzione di un periodo feriale) se ne discosta invece l'anno scolastico, che ha inizio al 1° ottobre, e l'anno finanziario, che va dal 1° luglio di ciascun anno al 30 giugno dell'anno successivo.
Al fine di armonizzare per quanto è possibile le norme del diritto canonico circa le festività religiose con l'obbligo del riposo festivo e con le necessità pratiche del diritto interno, come pure per gl'innumerevoli rapporti giuridici dei cittadini fra loro, il r. decreto 17 ottobre 1869, n. 5342, convertito in legge 23 giugno 1874, n. 1968, determinò quali dovessero considerarsi giorni festivi agli effetti civili: ossia le domeniche e alcune altre feste principali del calendario religioso. Inoltre, con varie leggi speciali furono successivamente riconosciute altre ricorrenze e dichiarate feste nazionali. Fra esse notiamo la festa dello statuto (prima domenica di giugno), il genetliaco del re e della regina, e altre.
Tutta questa materia è stata riorganizzata con successivi decreti, di cui l'ultimo porta la data del 2 novembre 1926, n. 1779, e per effetto di tali riforme si distinguono i giorni festivi a tutti gli effetti civili dalle feste nazionali e dalle solennità civili. Rientrano nel novero dei giorni festivi a tutti gli effetti civili le domeniche e le altre feste religiose di precetto che si trovano elencate nel can. 1247 del codice di diritto canonico, compresa la festa di S. Giuseppe (riconosciuta con legge 6 dicembre 1928, n. 2765) e inoltre le seguenti ricorrenze civili: 21 aprile (Natale di Roma; Festa del lavoro), 20 settembre, 28 ottobre (Marcia su Roma), 4 novembre (battaglia di Vittorio Veneto). Sono considerate quali feste nazionali la prima domenica di giugno e il 4 novembre, e solennità civili, oltre il 21 aprile e il 20 settembre, il 24 maggio (entrata dell'Italia nella guerra mondiale) e il genetliaco del re (11 novembre).
Il riconoscimento dei giorni festivi a tutti gli effetti civili ha notevole importanza riguardo i molteplici rapporti di diritto pubblico, e anche in taluni rapporti di diritto privato aventi speciale attinenza al diritto pubblico: tali sono p. es. le disposizioni del codice di procedura civile che vietano il compimento di determinati atti esecutivi (art. 42, comma 3°), che stabiliscono norme relative al pagamento (art. 288 cod. comm.) o al protesto delle cambiali (art. 296), o che indicano in quali giorni possano validamente eseguirsi le pubblicazioni di matrimonio (art. 72 cod. civ.).
Il calendario nel folklore italiano.
L'anno, per il popolo, è governato da due plenilunî, quello di maggio, che regola il corso dell'estate, e quello di settembre, che domina il corso dell'inverno; onde il proverbio: "La luna settembrina, sette lune a sé avvicina". Nonostante la riforma gregoriana, i contadini hanno conservato proverbî derivati dalle condizioni precedenti e dicono tuttora: "San Barnaba, il più lungo della stà - Santa Lucia, il più corto dì che sia": proverbî che certo nacquero in anni nei quali l'11 giugno, giorno di S. Barnaba, e il 13 dicembre, giorno di Santa Lucia, del calendario giuliano corrispondevano al 20 giugno (S. Silverio), e al 20 dicembre (San Giulio) (cfr. Rubieri, Storia della poesia pop. it., Firenze 1877, p. 291). Per il contadino calabrese il segno dell'equinozio primaverile è dato dal pesco che si copre, a un tempo, di fiori e di frutti: Quandu lu persicu fiure e matura, lu jornu cu la notti sugnu appara; per quello pugliese l'equinozio autunnale cade il 21 settembre: De Sante Mattia, quant'è la notte tant'è la dia.
L'inizio e la fine delle stagioni non seguono termini convenzionali nel calendario del popolo, ma sono resi manifesti da fatti che, per la loro periodicità, son ritenuti segni infallibili. Così alla determinazione del tempo concorrono alcune piante, col mostrare i fiori o i frutti; alcuni uccelli, col loro canto; e varî altri animali notati dal popolo per le loro abitudini.
Il 21 gennaio le lucertole vanno per le fratte (Sant'Agnese - Le lusertole va per le siese - e el fredo passa le sfese: "sta per andarsene"); lo spino mostra i primi fiori (San Valentin - fiorisse 'l spin) e intanto ogni uccello è nel nido a far la cova (Frivaru, Frivarolu - Ogni acellu faci l'ova).
Per la festa della Purificazione (2 febbraio) si può dire che l'inverno è già dileguato, onde il grido di gioia: "Per la Candelora, l'inverno è fuora". Si dice che sull'alba di quel giorno l'orso, ovvero il leone o il lupo, s'affacci dal proprio nascondiglio per osservare il cielo: se questo è nuvoloso, è contento, perché l'inverno non c'è più; se invece è chiaro, rintanandosi, annunzia malinconicamente ai mortali: "ne avremo per altri quaranta giorni".
Il 21 marzo le rondinelle son già ritornate ai vecchi nidi, lasciati nell'autunno: ("Per S. Benedetto, la rondine è sul tetto") e per il 25 dello stesso mese la spiga del grano è già formata ("Dell'Annunziata, la spiga è nata"); mentre, prima e dopo di quella data, l'assiuolo, che i Siciliani chiamano cirrinciò, i Calabresi firringò e i Toscani ghirlindò, avverte il colono che, ove egli non intenda prestare l'opera sua nel nuovo anno agricolo al servizio del vecchio padrone, è quella l'epoca utile di dare o prendere il congedo dal fondo (Quannu canta lu cirrinciò, tintu patruni mutari si pò). Nei paesi settentrionali a tale ufficio è indicato il cuculo, che compare in marzo o in aprile e talvolta in maggio, a seconda dei luoghi; così nelle antiche consuetudini germaniche i contratti rurali scadevano al primo canto del cucco. Al contrario, il fringuello o il merlo avvertono il colono che ormai l'autunno è inoltrato, l'anno agricolo è in corso e non è più il tempo di allontanarsi dal podere (Quannu canta lu cirrincì, o bonu o tintu, cci hai a diri di sì).
Quando si dice volgarmente: "Agosto capo d'inverno", si allude al plenilunio settembrino, che regola il corso dell'inverno: nel linguaggio figurato del popolo, agosto è rappresentato nell'atto di mandare il messaggio a settembre, che lo legge ai mortali, avvertendoli che l'inverno è in cammino ed è necessario apprestare le conserve e le provviste. E difatti per il 25 novembre l'inverno è giunto: "Per santa Caterina, o freddo, o neve, o brina". Questo giorno, che precede di un mese il Natale, ne dà il prognostico; ma l'inverno non si mostra del tutto, se non dopo il 25 dicembre: Prima Natali, nè friddu, nè fami; doppu Natali, c'è friddu e c'è fami. Il ceppo (v.) arde sul focolare e vi rimarrà fino al capodanno e, talvolta, fino all'Epifania, che "ogni festa porta via".
Col nome di calendario i contadini della Romagna significano i primi dodici giorni dell'anno, perché, secondo una pratica molto comune e che pare antichissima, quei giorni, fatti corrispondere ai dodici mesi, dànno il prognostico del tempo buono o cattivo in ciascuno. Son questi i giorni endegari dei Veneti e le calende dei Calabresi. Non di rado sono indicatori i primi venticinque giorni del gennaio, e in tal caso vanno distribuiti in doppio ordine, uno crescente e l'altro decrescente, contando dal gennaio al dicembre (1-12) e dal novembre al gennaio (13-24). Se in tale procedimento il 3 e il 22 di gennaio, che stanno a rappresentare il mese di marzo, sono ambedue piovosi o burrascosi, si argomenta che il mese avrà pioggia e burrasche, e così via. Ma se il 25 gennaio, che è il primo dopo gli endegari, il tempo è incerto, non si tien conto delle calende.
Mezzi tecnico-mnemonici, che possano ritenersi abbozzi di calendarî o lunarî, non mancano nel popolo. Per sapere quanti giorni ha un dato mese, si comincia a contare sul pugno della mano, a partire dall'indice seguendo le nocche e le fossatelle, e, al mignolo, ricominciando. I mesi corrispondenti alle nocche sono di 31 giorni, quelli corrispondenti alle fossatelle di 30, meno febbraio che è di 28 o 29. L'arancia con le dodici penne infilate all'intorno, simboleggianti i dodici mesi, non si vede più negli usi del Capodanno; rimane solamente, con sette penne, in quaresima, per contare le sette settimane di magro o di penitenza.
Il detto napoletano: come cocozza canta, nui pigliammo Pasca, fa pensare che il racconto al quale il detto si riferisce (del parroco che invece di servirsi del lunario pose in una zucca vuota tanti semi, quanti erano i giorni dalle Ceneri alla Pasqua, per trarne uno ogni mattina) altro non sia che il ricordo di lontane età. Non vanno dimenticati i proverbî che hanno per il popolo valore di calendarî, ora di carattere sacro, e ora economico e giuridico; nonché i calendarî in versi, di manifesta origine letteraria, e dei quali un esempio tipico sono le Ottave spirituali sopra i dodici mesi dell'anno, con le loro feste, composte da Giuseppe di Gerusalemme (Macerata 1615 e in Il Folklore italiano, II, 1920, p. 358 segg.): se ne trovano lezioni e varianti in parecchie regioni dell'Italia. Per i calendarî o lunarî a stampa, v. almanacco.
Bibl.: E. Hoffmann-Krayer, Volskündliche Bibliographie, per gli anni dal 1917 in poi, Strasburgo 1919 e Berlino-Lipsia 1920 segg. Sui detti calendaristici v.: R. O. Frick, in Arch. suisse des trad. popul., XXVI (1926), pp. 1-21, 89-100, 171-188, 254-279; L. Chaves, in Rev. Lusitana, XXVI (1925-1927); G. Heblemann, in Deut. Rundschau, 1924. Per la Francia: C. Beauquier, Les mois en Franche-Comté, Parigi 1900; per l'Italia, in mancanza di lavori d'insieme, v. i seguenti scritti di carattere regionale: F. Babudri, in Pagine istriane, XI (1913), XII (1914); id., in Dalmazia, II (1920); id., in Il Folkl. ital., I (1925); id., Fonti vive dei Veneto-Giuliani, Milano 1926, pp. 46-60; F. Fransoni, in La Calabria, VII (1895); S. La Sorsa, La sapienza pop. nei prov. pugliesi, Bari 1923, pp. 351 seg., 373; C. Pasqualigo, Racc. di prov. veneti, Venezia 1857, II, pp. 83-120; G. B. Marzano, Usi e costumi di Laureana di Borrello, Monteleone C. 1912, pp. 60-86; G. Finamore, Credenze, usi e cost. abruzzesi, Palermo 1890, pp. 52-59; M. Placucci, Usi e pregiud. dei cont. della Romagna, ristampato in Arch. trad. pop., III (1886), IV (1887); R. Corso, Proverbi giuridici ital., in Riv. it. sociol., XX (1916). Un calendario igienico del sec. XVII, sul trattamento del corpo nei varî mesi dell'anno, ha pubblicato A. Balladoro in Folklore, XI (1927), p. 5 segg.