CALIGOLA (C. Iulius Caesar Germanicus)
Gaio, figlio di Germanico e di Vipsania Agrippina, pronipote di Tiberio, nato ad Anzio il 31 agosto del 12 d. C., crebbe affatto al di fuori della vita politica romana. Bambino seguì il padre sul Reno, e dalla famigliarità coi soldati, che egli imitava nel vestire, ebbe il soprannome Caligula alludente alle caligae, calzari d'ordinanza. Nel 17 andò in Oriente e vi rimase sino alla morte del padre nell'ottobre del 19. Dal 19 al 31 visse prima con la madre, poi con la nonna Antonia, trascurato da Tiberio. Solo quando Seiano cominciò a cadere in disgrazia, e il vecchio imperatore cominciò a preoccuparsi seriamente della successione, Gaio fu chiamato a Capri e quasi diciannovenne indossò finalmente la toga virile. Per volontà di Tiberio intraprese studî serî di retorica, nel 33 ebbe la questura e nello stesso anno si sposò con Giulia Claudilla, mortagli nel 37. Ma pur in questo periodo egli rimase estraneo all'amministrazione dell'Impero, tanto più poi che Tiberio, per quanto mostrasse di preferire C. al suo diretto nipote Tiberio Gemello, figlio del figlio Druso, non si decise mai a lasciargli apertamente la successione. Anzi alla sua morte (37 d. C.), si trovò che egli aveva nominato suoi eredi così Caligola come Gemello, lasciando implicitamente al Senato di scegliere. E il Senato scelse C., del resto più anziano di Gemello, e annullò il testamento di Tiberio. In fondo la medesima ragione che aveva trattenuto Tiberio dal preferire C., il timore che continuasse la politica di Germanico filo-senatoria ed espansionistica, spinse il Senato a decidere rapidamente la successione.
C. disingannò presto le aspettative. Distaccato dalla tradizione politica romana, egli si sentì sovrano, monarca, non principe come i suoi predecessori, e non ebbe nemmeno coscienza di quel delicato problema di accordare l'autorità dell'imperatore con quella del Senato, che aveva preoccupato Augusto e Tiberio. Mancandogli ogni esperienza politica, gli parve che la sua autorità fosse assoluta, e venne quindi ad urtare contro le classi dirigenti romane. Ma, appunto perché non aveva coscienza di mettersi contro al Senato, cominciò con il cercare di dimostrargli la sua benevolenza concedendo ampie amnistie. Tuttavia il contrasto profondo si venne inevitabilmente maturando, e il Senato si vide sempre più negletto, se non come strumento passivo. La storiografia antica, che, di ispirazione senatoria, odia C., non ha saputo spiegare il suo rapido mutamento, se non supponendo che una malattia nell'ottobre 37 lo avesse fatto impazzire. In realtà non sembra che egli sia mai stato pazzo, e la sua politica ha una coerenza, che non poteva certo essere apprezzata dai senatori: coerenza però di chi si ostinava a seguire una direttiva senza capire quale rinnovamento occorreva per trasformare l'Impero in monarchia assoluta. Nella corte C. si trovò presto isolato. Diffidando, come era naturale, di Gemello, lo fece togliere di mezzo (37). Cercò in compenso sempre di più il favore popolare: compì le elargizioni stabilite nel testamento annullato di Tiberio, restituì al popolo nei comizî la nomina dei magistrati, riordinò l'ordine equestre, immise pure nuovi provinciali nel senato; infine abolì per l'Italia la centesima rerum venalium, che era già stata ridotta al ½ per cento o da lui stesso o da Tiberio. La riduzione di questa tassa e le abbondanti spese straordinarie lo costrinsero d'altra parte a confiscare in varî modi sostanze intere, a imporre di essere lasciato erede nei testamenti, ecc. Ma con l'aumentare delle spese, egli fu costretto a imporre nuove tasse che colpissero il piccolo commercio e a introdurre nei processi una percentuale del 2 ½ sul valore degli oggetti in causa, perdendo in tal modo la popolarità che aveva acquistato prima. Intanto i processi di lesa maestà tralasciati al principio del regno erano ripresi come reazione contro gli avversarî, in ispecie senatori, della sua politica. E un'altra pretesa si aggiunse, affatto conforme al carattere della monarchia assoluta, l'adorazione dell'imperatore quale dio vivente, ancora inusitata in Roma. Questo ordine produsse moti di particolare gravità in Giudea, dove gli Ebrei resistettero. Ad Alessandria poi per il medesimo motivo gli Ebrei si videro annullati i loro diritti di cittadinanza alessandrina tra gravi torbidi (38); ed invano una loro delegazione, capitanata dal neoplatonico Filone, chiese che il provvedimento fosse revocato. Solo Claudio restituì ai Giudei alessandrini il diritto tolto da Caligola.
Alla debolezza della politica interna, in cui ogni giorno perdeva terreno, C. cercò rimedio, ma invano, con la politica estera. Costituì piccoli sovrani vassalli dell'Impero, che fossero creature sue. Così nel 37 concesse una tetrarchia in Palestina ad Agrippa nipote di Erode, già imprigionato da Tiberio, e restituì il regno di Commagene ad Antioco, preferendo evidentemente un loro governo in apparenza autonomo all'amministrazione dei funzionarî romani, della cui potenza sospettò sempre, come si vede dalle condanne capitali del prefetto di Egitto, Avillio Flacco, e del legato di Pannonia, Calvisio Sabino (38 d. C.). Nel 39 cercò di restaurare il suo prestigio con una marcia militare sul Reno, dove nessun pericolo si profilava; ma essa fu turbata dalla scoperta di una congiura di senatori promossa da Cn. Cornelio Lentulo Getulico. Poiché nemmeno la spedizione in Germania serviva a riconsolidare la sua sovranità, C. pensò nel 40 una più ampia intrapresa, la conquista della Britannia, approfittando della discordia tra il re Cunobellino e suo figlio Ammino, che si era rivolto al suo aiuto. Ma alla minaccia dell'invasione romana, i dissensi vennero meno, e C. non ebbe il coraggio di continuare l'impresa, che pertanto cadde nel discredito generale e ci è narrata dalle fonti antiche quale una vera commedia. Dopo queste imprese fallite, C. tornò in Italia affatto esautorato. Anche la brutale sensualità cooperava a creargli odî personali. Una seconda congiura fu scoperta; una terza, di cui era a capo, tra molti senatori e cavalieri, il tribuno Cherea, riuscì a sorprendere l'imperatore che tornava il 24 gennaio 41 dai ludi palatini e lo uccise. C. moriva vittima di una politica che aveva cercato di trasformare il potere imperiale in Roma senza comprendere né le classi dirigenti né i sudditi: politica dunque, più che di un pazzo, di un inesperto, portato a rendere sempre più aspra la sua reazione, quanto maggiori erano le resistenze che incontrava, incapace poi per il suo carattere e i suoi vizî di assicurarsi fedeli collaboratori.
Fonti: Suetonio, Caligula; Dione Cassio, LIX; Giuseppe Flavio, Antiquitates Judaicae XVIII, 166; XIX, 161; Filone, Legatio ad Gaium, In Flaccum.
Bibl.: Vaglieri, in De Ruggiero, Dizion. epigrafico, II, col. 31 segg.; Willrich, in Klio, III (1903), p. 85 segg., 288 segg., 397 segg.; M. Gelzer, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., X, col. 381 segg.; Dessau, Geschichte der römischen Kaiserzeit, II, Berlino 1926, p. 104 segg. Inoltre: C. Jullian, Histoire de la Gaule, IV, Parigi 1914, p. 161 segg.; Riese, Feldzug des Caligula an den Rhein, in Neue Heidelberg. Jahrbücher, VI (1896), p. 152 segg.; Lugand, Suétone et Caligula, in Revue des Études anciennes, XXXII (1930), p. 9 segg.