CALLIMACO di Cirene
È il più tipico e il più famoso rappresentante della poesia e della filologia dell'età alessandrina: vale a dire di quella tendenza letteraria nella quale l'esercizio della poesia era deliberatamente congiunto con i faticosi studî dell'erudizione. Appartiene al primo e più florido periodo dell'alessandrinismo: poiché la maggior parte della sua attività si svolse in Alessandria d'Egitto sotto il regno di Tolomeo II Filadelfo (283-247 a. C.), pur estendendosi sino agl'inizî del regno di Tolomeo III Evergete (247 e segg.). La tradizione biografica degli antichi e le indicazioni che noi stessi ricaviamo dai residui delle opere di C., concorrono a farci collocare i termini estremi della sua vita, approssimativamente, fra il 320 e il 240 a. C. L'azione distruggitrice del tempo è stata molto severa con Callimaco: ha sepolto in grandissima parte le sue opere, specialmente le maggiori, come l'Ecale e gli Aitia, ed ha accumulato intorno alla sua persona, così importante per lo studio di tutta l'età alessandrina, un groviglio d'incertezze, di punti oscuri e di difficoltà storiche, biografiche ed esegetiche. Le scoperte papirologiche degli ultimi decennî ci hanno però restituito parecchi frammenti nuovi, di varia lunghezza e valore, che però per le loro condizioni lacunose, fanno sorgere altri problemi di difficile soluzione. E poiché inoltre tali scoperte continuano, il terreno su cui oggi i critici lavorano è tuttora esposto a mutamenti, a smentite, a sorprese svariate.
Nato a Cirene, colonia di stirpe dorica, che dal 322 a. C., salvo brevi interruzioni, apparteneva all'impero dei Tolomei, C. portò sempre in sé qualche cosa della sua terra d'origine. Figlio di Batto e di Megatima, egli discendeva dall'aristocratica famiglia dei Battiadi, che vantavano come loro capostipite il fondatore stesso della città. In un epigramma per la tomba del padre Batto (Epigr., 35; cfr. 21) egli menziona, oltre al padre, anche il nonno, suo omonimo, Callimaco, che era stato stratego in Cirene, e al quale il poeta si sentiva un poco somigliante, per aver combattuto e vinto le proprie battaglie - battaglie di letterato - contro gl'invidiosi.
Sembra che il giovane C. abbia formato la sua istruzione ad Atene, fra il 300 e il 290 circa, quando ancora non era del tutto costituito il nuovo centro di studî ad Alessandria d'Egitto, che infatti cominciò ad attirare su di sé l'attenzione soltanto alcuni anni più tardi, sotto Tolomeo II Filadelfo. Ad Atene C. s'incontrò col poeta Arato, un poco più anziano di lui; e insieme frequentarono la scuola del grammatico Prassifane, un noto peripatetico, discepolo di Teofrasto. Del soggiorno ateniese (attestatoci in qualche modo dall'anonima Vita Arati, III) era ricordo in opere perdute del nostro scrittore: anzitutto in un'opera di critica letteraria indirizzata al maestro, A Prassifane; poi nel poemetto Ecale (per es., fr. 141 Schn.); e nel prologo degli Aitia (Pap. Ox., 2079: se veramente questo papiro è da identificare come prologo degli Aitia), in cui C. dichiarava di essere stato iniziato alla poesia, con speciali insegnamenti, da Apollo Liceo: cioè probabilmente dal dio venerato nel Liceo, la scuola di Aristotele e dei peripatetici. Certo la scuola peripatetica era allora la principale coltivatrice di quegli studî storici, letterarî, grammaticali, che stavano per diventare il patrimonio della filologia alessandrina: il cui passaggio da Atene ad Alessandria è nettamente indicato. L'impronta peripatetica in C. si riconosce poi da molti segni: non solo dal genere di opere storico-letterarie ch'egli coltivò (una delle quali era destinata a completare e perfezionare gli studî di Aristotele sulle Didascalie del teatro ateniese), ma anche dai principî critici a cui s'inspirava il gusto e l'attività sua di poeta: l'avversione verso la poesia ciclica, l'antipatia per poeti come Antimaco di Colofone, l'abitudine e il proposito di attingere la materia del canto dalle fonti della più rigorosa erudizione (fr. 442 Schn., ἀμάρτυρον οὐδέν ἀείδω: cfr. i precetti peripatetici di Neottolemo di Pario).
Frattanto la famiglia di C. si era impoverita, forse negli sconvolgimenti politici che turbarono Cirene durante i primi decennî dell'annessione all'impero dei Tolomei. Infatti, noi troviamo il giovane studioso stabilito nel sobborgo alessandrino di Eleusi e occupato a procacciarsi umilmente la vita come maestro elementare. L'eco di questo periodo transitorio risuona specialmente negli Epigrammi, che hanno per motivo dominante la povertà, e, con la povertà congiunto, l'amore.
Gli Epigrammi a noi pervenuti, quasi tutti trasmessi per mezzo della Antologia Palatina, sono in numero di 63 e appartengono, per la maggior parte, alla giovinezza dell'autore. La povertà induce il poeta a comporre epigrammi di commissione (epitafî, dediche, ecc.); ma la povertà stessa e le vicende dell'amore (o dei facili amori) gl'inspirano anche altri epigrammi, personali: non sentimenti profondi, ma arguzie, impressioni di facili avventure e di sensualità raffinata, cose garbate sebbene un po' convenzionali (sul tipo degli epigrammi di Asclepiade Samio).
A trarre C. da questa condizione venne l'invito di Tolomeo II Filadelfo; il quale stava radunando intorno alla sua corte un grande stuolo di poeti, di letterati e di scienziati. Le principali istituzioni con cui il monarca dell'Egitto intendeva favorire gli studî, erano il Museo (una specie di Accademia) e la famosa Biblioteca. A queste istituzioni C. rimase legato per tutta la vita: con quale titolo, con quale precisa incombenza non è ben chiaro. Quand'egli entrò per la prima volta negli ambienti di corte, la direzione della Biblioteca, allora costituita, era affidata a Zenodoto di Efeso, filologo più noto e più anziano. Che poi, dopo qualche decennio, morendo Zenodoto, proprio C. abbia occupato l'ufficio di bibliotecario, è creduto da molti, ma è poco probabile: anzi sembra che successore di Zenodoto sia stato il rivale di C., con C. ormai riconciliato e tornato dall'esilio, Apollonio Rodio.
C. ha, più di ogni altro alessandrino, la fisionomia di poeta ufficiale della corte. Gli avvenimenti pubblici, e specialmente gli avvenimenti privati della dinastia regnante, offrono occasione continua al suo canto. A lui spetta, anzitutto, di cantare - poco dopo il 280 a. C. - le nozze del giovane re Tolomeo II con la sorella Arsinoe Filadelfo: la quale, com'ebbe grande influenza nelle cose dello stato, così divenne anche speciale protettrice del nostro poeta (fr. 196, 538 Schn.). E quando nel luglio 270 Arsinoe Filadelfo muore, C. non manca d'innalzare un carme delicatissimo di funebre compianto e di apoteosi (fr. 1 Pfeiffer). Talvolta serve la semplice forma dell'epigramma, in cui il poeta si era specialmente sperimentato da giovane, a celebrare i fatti della vita di corte: così ad es. un epigramma è dedicato alla fondazione del tempio di Afrodite-Arsinoe Zefiritide, che l'ammiraglio Callicrate Samio aveva fatto costruire sul promontorio Zefirio; tra Alessandria e Canopo, in onore della regina Arsinoe ancora vivente, identificata e assimilata con Afrodite (Epigr., 5). Più spesso la celebrazione cortigiana s'inserisce, in forma di allusione, un po' dappertutto, o nella dedica delle opere maggiori, come nel prologo (?) e nell'epilogo degli Aitia; oppure si esprime nella forma solenne e complicata dell'inno.
Gli Inni di C. a noi pervenuti sono in numero di sei, e sono propriamente indirizzati a celebrare non i sovrani dell'Egitto ma le divinità dell'Olimpo: A Zeus, Ad Apollo, Ad Artemide, A Delo (l'isola dove nacque e dove aveva culto Apollo), Ai lavacri di Pallade, A Demetra. Gli ultimi due si possono lasciare da parte perché non sono veri e proprî inni: sono scherzose imitazioni di cerimonie del culto, senza profondi intendimenti né religiosi né politici, e si distinguono anche per il dialetto, che è dorico. Invece i primi quattro sono sul tipo degl'Inni omerici, in dialetto ionico, e hanno intendimenti profondi non soltanto religiosi ma politici. In essi alla figura del dio è generalmente associata o mescolata la figura del sovrano. E questa mescolanza non è l'effetto di una bizzarria di letterato, che si compiaccia dei doppî sensi e delle allusioni, bensì proviene dalle reali condizioni del culto: dei nuovi culti dinastici (introdotti dai Tolomei sull'esempio egiziano), che divinizzavano le figure dei sovrani, ancora viventi, e li assimilavano e li associavano a determinate divinità dell'Olimpo. Quindi l'interpretazione degl'Inni è assai difficile: molti interpreti esagerano nella ricerca delle allusioni politiche; altri negano ogni allusione: perché gli uni e gli altri considerano come vuoto simbolismo formale quella che è una particolare e nuova condizione religiosa, determinata dai culti dinastici.
Probabilmente gl'Inni di Callimaco appartengono tutti a un medesimo giro di anni. Anteriori al 270 sono quelli A Demetra e Ai lavacri di Pallade: e probabilmente anche gl'inni "politici" non vanno oltre questo termine. Certo l'inno A Zeus e l'inno A Delo si riferiscono a Tolomeo II Filadelfo nel periodo fra il 280 e il 270; per gl'inni Ad Apollo e Ad Artemide la questione è più controversa.
Il periodo fra il 280 e il 270, che nella vita di C. era quello della piena maturità, fu anche il più fertile per la sua poesia. Qui cade la composizione dell'opera sua maggiore, gli Aitia, che pure contenevano, a quanto sembra, una celebrazione di Arsinoe Filadelfo ancora vivente e terminavano con una preghiera a Zeus in favore della regale coppia regnante.
Degli Aitia (Le origini) noi abbiamo soltanto frammenti, accresciutisi molto negli ultimi tempi per le scoperte dei papiri. Era un'ampia opera, in metro elegiaco, divisa in quattro libri, nella quale si trattavano le origini di determinati culti o feste o costumanze greche, fondazioni di città, ecc. La trattazione di queste "origini" si risolveva nella narrazione di miti e di leggende rare, che il poeta raccoglieva con curiosità erudita dalle fonti più disparate, specialmente dai reconditi documenti della storiografia locale. Tale la leggenda di Aconzio e Cidippe (di cui C. stesso citava la fonte, le Cronache di Senomede di Ceo), introdotta per spiegare uno special costume nuziale; la leggenda di Eracle e Teodamante, introdotta per dare ragione d'una peculiarità nel culto di Eracle a Lindo, nell'isola di Rodi. E così le altre, di cui abbiamo frammenti o notizie: le storie di Corebo, di Molorco, di Anio (a Delo), di Cocalo, di Busiride, del ratto di Core in Sicilia, della fondazione di Zancle (Messina), ecc. Tutte queste leggende non costituivano nessuna unità: ma appunto a Callimaco piacevano gli argomenti brevi e minuti; per convincimento critico oltreché per disposizione sua personale, egli rifuggiva dagli argomenti lunghi e grandiosi. Soltanto, egli si è curato di dare alla sua raccolta di miti una certa unità esteriore, con gli espedienti tecnici che legano racconto a racconto, con la messa in scena, ecc. L'espediente principale si manifestava nel proemio (imitato da Ennio e da Properzio). Il poeta immaginava di essere trasportato in sogno sull'Elicona, presso la fonte Ippocrene, dove un giorno aveva pascolato i suoi armenti Esiodo: qui gli appaiono le Muse e l'istruiscono a cantare le antiche istorie, non nel tono epico omerico, bensì nel tono, più tenue, della poesia genealogica di Esiodo. La persona del poeta s'inseriva così nella rappresentazione scenica degli Aitia, e serviva a collegare racconto con racconto.
Con la composizione degli Aitia coincide probabilmente una polemica letteraria che ha lasciato la sua eco in gran parte della poesia alessandrina: la polemica con Apollonio Rodio. Sembra che a C., ormai maturo d'anni e onorato come poeta ufficiale di corte, gl'invidiosi rimproverassero di non avere composto altro che piccole cose, mentre il giovane discepolo, Apollonio, appena ventenne, tentava animosamente la via dell'epopea, sul tipo omerico, e dava il primo saggio degli Argonauti. L'esito della polemica fu che il giovane Apollonio, dopo una prima lettura degli Argonauti (di cui non fece allora, ma molto più tardi, l'edizione), per provvedimento sovrano dovette lasciare Alessandria e ritirarsi nell'esilio di Rodi. Secondo la tradizione C. sfogò allora il suo rancore contro l'insolente avversario avventandogli un poemetto di "imprecazioni", intitolato Ibis, che non ci è pervenuto ma che fu imitato da Ovidio nel poemetto omonimo. Se l'Ibis ovidiano (com'è verosimile) ci conserva l'immagine fedele dell'Ibis greco, e da questo ha attinto non solo la gran massa dell'erudizione mitologica ma anche le allusioni di storia ellenistica che si estendono sino alla fine del sec. III a. C., allora sorge il problema se la paternità dell'Ibis greco possa proprio essere riconosciuta a C. o non debba invece essere attribuita a qualche imitatore della sua scuola, un poco più recente. Il genere delle imprecazioni (ἀραί), intessute di sottile o strana erudizione ed espresse in forma enigmatica (γρῖϕοι), ebbe voga nell'età alessandrina: principale cultore ne fu Euforione, seguace di Callimaco. Checché sia di ciò, C. in quella occasione tenne a confermare contro Apollonio e contro i partigiani di Apollonio i proprî convincimenti critici; e li espose in alcuni brani che noi possediamo. Il brano principale si trova in un pezzo di elegia, che di recente ci è stato restituito dalle sabbie dell'Egitto (Pap. Ox., 2079), e che presso gli antichi aveva avuto grandissima risonanza di citazioni e d'imitazioni.
Non sappiamo veramente a quale opera questo magnifico pezzo di elegia appartenesse, ma forti ragioni inducono a considerarlo come l'inizio degli Aitia, come il prologo premesso alla scena famosa del sogno. La figura del poeta balza vivissima, specialmente quando raccoglie l'insulto di coloro che a lui, maturo d'anni, contrappongono la giovinezza di Apollonio; ond'egli si rappresenta, con ironia, aggravato dalla vecchiezza e, nello stesso tempo, intento come un fanciullo a trastullarsi con piccole cose. Ma le piccole cose, nel suo concetto, valgono più delle grandi: poeta di brevi canzoni a bella posta evita di comporre epopee di molte migliaia di versi e di alto rimbombo ("tuonar non è mestier mio ma di Zeus"); il dio Apollo Liceo gli ha insegnato a non calcare le vie comuni degli altri, bensì ad aprirsi vie nuove di angusto passaggio, ecc. La composizione degli Aitia, con le sue leggende non solenni, non eroiche, non comuni ma modeste e brevi e squisitamente ricercate, corrisponde a questo programma: è la massima prova di ciò che il poeta sa e vuol fare. Al brano testé riferito deve essere ravvicinato, sia per le idee sia per il tempo, un altro brano famoso: la chiusa dell'inno ad Apollo, dove sono espressi i medesimi principî, e al dio Apollo, assimilato con Tolomeo II Filadelfo, sono rese grazie perché non diede ascolto a chi nell'orecchio gli mormorava maldicenze contro C. anzi cacciò il detrattore mandandolo ad abitare nelle sedi dell'Invidia.
Dalla polemica con Apollonio dipende anche, secondo la tradizione (Schol. Hymn., II, 106), un'altra fra le più notevoli opere di C., l'Ecale. Mentre gli Aitia, composti in distici elegiaci e costituiti di leggende staccate, non potevano confondersi con l'epopea, l'Ecale invece, composta in esametri e costituita di un argomento unico, era fatta apposta per dimostrare in quali limiti e in qual senso C. intendeva che potesse coltivarsi ancora l'epopea. Non un grande poema, di vaste proporzioni, ma un poemetto di poche centinaia di versi (epillio): di soggetto eroico naturalmente, ma trattato in tono minore, guardato in certi aspetti e in certi episodî meno noti, meno grandiosi, meno elevati.
Dell'Ecale non abbiamo che pochi frammenti (qualcuno, un po' ampio, di recente scoperta). L'argomento era attinto al ciclo di Teseo; ma dal ciclo di Teseo (criticato da Aristotele, Poet., cap. 8) il poeta ricavava un solo episodio, la lotta contro il toro di Maratona; e anche di questo stesso episodio eroico toccava essenzialmente un lato secondario: l'ospitalità che Teseo in quella occasione aveva trovato presso una povera vecchia, Ecale, il cui ricordo sopravviveva nel nome di una piccola borgata dell'Attica e nel nome di una festa locale in onore di Zeus, le Ecalesie. Per modo che anche in questo poemetto si ritrova il motivo etiologico. E il poemetto infatti terminava con l'istituzione della festa: giacché la vecchia aveva pregato per la vittoria di Teseo e offerto un sacrifizio a Zeus, ma quando Teseo ritorna vittorioso essa è morta e tocca all'eroe sciogliere il voto lasciando giusto ricordo di lei. Più che di un racconto continuo il componimento callimacheo era costituito di delicate pitture: fra esse abbiamo, graziosissimo, un dialogo fra uccelli, dove una cornacchia e un corvo sono introdotti a conversare assai spiritosamente. La scena dell'ospitalità nella povera casa di Ecale era pure assai graziosa e fornì a Ovidio i colori per l'episodio di Filemone e Bauci.
Le delicate pitture dell'Ecale ci richiamano a un'altra opera di C. che era pur costituita di piccoli racconti, e di favole: i Giambi.
Dei Giambi qualche frammento un po' ampio ci è fornito dai papiri dell'Egitto. In quest'opera, curiosissima, C. intendeva rinnovellare la vecchia forma giambica di Ipponatte. Da Ipponatte egli prendeva le movenze popolari, il dialetto ionico, il metro coliambico; ma nel medesimo tempo cercava di dare a questi elementi un aspetto più garbato e più decoroso; soprattutto eliminava quelle volgarità e oscenità e aggressività dell'antica maniera giambografica, delle quali Ipponatte era stato il massimo campione, e che dalla dottrina peripatetica erano specialmente criticate (Aristot., Poet., cap. 4). C. voleva essere l'Ipponatte dei tempi moderni; corretto secondo il nuovo gusto morale e letterario. Perciò egli metteva in scena sul principio dell'opera Ipponatte stesso, redivivo: ma non per cantare i violenti sarcasmi e gli improperî contro Bupalo, bensì per raccontare, alla buona, storielle, favole, moralità. Una di queste storielle riguarda la coppa di Baticle: per quali vie la famosa coppa, spettante al più savio dei Sette Savî, abbia raggiunto la sua destinazione. Un'altra è il contrasto fra l'olivo e l'alloro. Compare qua e là il nome o l'impronta di Esopo: si sente che il classico materiale della favola, già usato talora dagli antichi giambografi, fornisce a C. l'ispirazione principale e più adatta ai suoi intendimenti.
Nella chiusa degli Aitia C. aveva manifestato il proposito di dedicarsi ormai alla prosa. Infatti è giusto che alla prosa, cioè ai severi lavori della filologia, egli si sia rivolto negli ultimi decennî della sua vita. Le opere filologiche di C. furono molte e di vario genere, ma tutte sono perdute: indicazioni e frammenti si ricavano a stento dalla tradizione grammaticale degli antichi.
La principale di esse erano i Quadri (Πίνακες) in 120 libri, che comprendevano la descrizione "di tutti coloro che s'illustrarono in ogni forma di cultura e delle opere che scrissero" (Suida, s. v.). Un altro Quadro, speciale, C. aveva dedicato agli "autori di teatro (διδάσκαλοι) dall'origine, cronologicamente ordinati". Si vede chiaro che l'esempio a questo genere di lavori era fornito dalla scuola peripatetica e specialmente dalle Didascalie di Aristotele: le quali già erano state continuate e rivedute da Dicearco, e trovarono un nuovo revisore nel nostro filologo-poeta. Può darsi che un residuo delle didascalie callimachee si abbia, oltreché nelle citazioni dei grammatici, anche in un gruppo d'iscrizioni pertinenti alla storia del teatro (Inscr. Graecae, 14, 1097, 1098, 1098 a). L'opera maggiore, i Quadri, era certo formata su questo medesimo tipo, ma si estendeva a tutto lo scibile: infatti, noi sappiamo ch'era divisa in varie sezioni: poeti, filosofi, storici, oratori, leggi, opere miste: dava di ciascuno scrittore le indicazioni principali, titolo e carattere degli scritti, questioni di autenticità e di cronologia, e via dicendo. Un tale lavoro non poteva compiersi se non da quando nella Biblioteca alessandrina era raccolto e catalogato il patrimonio letterario della nazione ellenica: anzi, C., evidentemente, volle fare per primo una specie di rassegna critica generale della letteratura greca fondata su quei tesori che s'erano venuti radunando sotto i suoi occhi. Qualcuno, fra i moderni, ha supposto che i Quadri non fossero se non il catalogo della biblioteca; ma questa supposizione è errata; e quale che fosse l'ufficio di C. nella biblioteca, a ogni modo nei Quadri egli fece opera di critica personale, con ordine e con intendimenti diversi da quelli che spetterebbero a un bibliotecario nella redazione dei cataloghi.
Agli studî di critica letteraria apparteneva anche lo scritto già ricordato, A Prassifane. Altre opere dipendevano da un genere di ricerche grammaticali e lessicografiche, che erano pur care ai peripatetici (Neottolemo di Pario) e che vennero specialmente in voga tra i filologi alessandrini: la glossografia, ossia lo studio delle parole rare attinte ai dialetti non letterarî. Tali le 'Εϑνικαὶ ὀνομασίαι: "sulle diverse denominazioni dei venti, dei pesci, dei mesi, ecc., presso le diverse città e i diversi popoli". Altro genere era costituito dagli ‛Υπομνήματα, in cui si raccoglievano, per così dire, le curiosità della storia, del mito, dell'arte, della geografia, ecc.: Sulle Ninfe, Sui fiumi, Colonizzazioni di isole e di città e loro mutamenti di nome, Costumi di popoli barbari, ecc. Questo era il grande materiale della mitologia e della paradossografia, per cui gli Alessandrini furono specialmente appassionati: era anche, in massima parte, quello da cui C. attingeva gli elementi della sua poesia.
Alla poesia C. non aveva del tutto rinunciato. È naturale che il suo canto risuoni ancora, talvolta, quando l'occasione lo richiede. L'ultima sua voce la raccogliamo poco dopo la morte di Tolomeo II Filadelfo (247 a. C.), quando sul trono d'Egitto, insieme con Tolomeo III Evergete, era salita quella Berenice figlia di Maga, che a lui, tra l'altro, recava il ricordo della sua patria, Cirene. L'occasione fu data da uno straordinario evento di corte: era misteriosamente scomparsa la chioma che Berenice aveva sacrificata nel tempio di Arsinoe Zefiritide per la salvezza del marito tornato vittorioso dalla guerra contro Seleuco II re di Siria 1246 a. C.); e l'astronomo Conone dichiarava di avere scoperto la chioma in cielo, rapita da qualche dio e trasformata in una nuova costellazione. Ecco l'argomento dell'elegia, la Chioma di Berenice, di cui possediamo la traduzione latina di Catullo (Carm., 66) e pochi frammenti del testo greco, ai quali però uno, alquanto ampio, si è aggiunto testé in un papiro della Società. italiana (Studi ital. di filol. class., 1929). Forse ai medesimi anni della Chioma appartiene un epinicio per Sosibio, ministro di Tolomeo. Poi le tracce del poeta, già molto vecchio, scompaiono.
Una grande influenza C. esercitò nella letteratura del suo tempo e dei secoli successivi; anche nella letteratura latina, specialmente dei poëtae novi e dell'età augustea. Più tardi, con la decadenza degli studî, le difficoltà dell'interpretazione resero le sue opere poco accessibili e poco note. Tuttavia, esse si conservarono per molto tempo ancora; non solo gl'Inni e gli Epigrammi a noi pervenuti, ma anche gli Aitia e l'Ecale piacquero agli epigrammatisti bizantini e ai più dotti fra i Padri della Chiesa (come Gregorio di Nazianzo): certo, sopravvissero in Oriente sin oltre il sec. X.
Il valore di C. come poeta è variamente giudicato, e spesso non sembra in pieno accordo con la sua fama. Egli ebbe il merito d'interpretare, meglio d'ogni altro, le inclinazioni, i gusti, le attitudini del periodo storico in cui visse: quindi a lui spetta, in ogni caso, la parte di caposcuola e di principale rappresentante dell'alessandrinismo. La sua fisionomia poetica, poi, è difficile da cogliere. Com'egli aveva esattamente interpretato le attitudini dell'età in cui visse, così misurò anche esattamente le proprie forze. La genialità, il calore, l'entusiasmo, l'esaltazione del sentimento e della fantasia a lui erano negati: gli era concessa la "grazia", il garbo fine e sottile, l'eleganza, l'arguzia, la lima. Molte volte egli è riuscito arido, faticoso, assurdo: è caduto, specialmente, sotto il peso dell'erudizione, con cui credeva di dovere arricchire la sua poesia e a cui non sempre poteva comunicare la vita. Ma spesso ha saputo colorare di grazia anche l'erudizione; ha saputo dare un sorriso di arte squisita anche a cose che sembrerebbero ribelli all'intenzione dell'arte o che, per la loro tenuità, sfuggono all'impressione degli spiriti comuni. "A Demetra non d'ogni dove recano acqua le pecchie; ma quella che pura e immacolata zampilla su da sacra fonte, piccola goccia, è fiore supremo" (Hymn., II).
Edizioni: Le edizioni principali comprendono soltanto gl'Inni e gli Epigrammi: A. Meineke, Berlino 1861; U. v. Wilamowitz-Möllendorff, 4ª edizione, Berlino 1925. I frammenti delle altre opere, esclusi quelli di recente scoperta, sono compresi nella raccolta di O. Schneider, Callimachea, voll. 2, Lipsia 1870-73, che contiene anche gli scolî agl'inni. I nuovi frammenti, scoperti sino al 1923, in R. Pfeiffer, Callim. fragmenta nuper reperta, Bonn 1923. Larattere esegetico-divulgativo hanno le edizioni di E. Cahen, Parigi 1922, e di A. W. Mair, Londra 1921, che contengono anche una scelta di vecchi e di nuovi frammenti.
Bibl.: Un lavoro esegetico profondo manca tuttora. Buon contributo speciale, critico-esegetico, in C. Nigra, Inni di Callimaco su Diana e sui Lavacri di Pallade, Torino 1892. Da consultare: F. Susemihl, Geschichte der alexandrinischen Litteratur, II, Lipsia 1891, p. 347 segg.; C. Cessi, Studi callimachei, in Studi ital. di filol. class., 1899, p. 347 segg.; C. Cesasi, Studi callimachei, in Studi ital. di filol. class., 1899, p. 301 segg.; U. v. Wilamowitz-Möllendorff, Hellenistische Dichtung in der Zeit des Kallimachos, voll. 2, Berlino 1924; J. Beloch, Griechische Geschichte, IV, ii, 2ª ed., Berlino 1927; A. Rostagni, Poeti alessandrini, Torino 1916; id., I bibliotec. alessandrini, ecc., in Atti R. Accad. delle Scienze di Torino, L, p. 241 segg.; id., Ibis, Firenze 1920; id., Nuovo Callimaco, in Rivista di Filologia classica, 1928, pagina 1 segg.