CALLISTO
Arcidiacono di Treviso, grazie all'appoggio del re dei Longobardi, Liutprando, venne eletto vescovo a Cividale del Friuli col titolo di patriarca di Aquileia, succedendo a Sereno: nel confermare la nomina, il papa Gregorio II aveva raccomandato - secondo quanto è riferito in una lettera di Gregorio III, la Iam triennium evolutum che non può essere posteriore al 734 - di rispettare i diritti e i poteri giurisdizionali della confinante e rivale arcidiocesi di Grado.
Quando nel 606-607, morto esule a Grado il patriarca di Aquileia Severo, era stato imposto con la forza dall'esarca Smaragdo - certo in esecuzione di precisi ordini dell'imperatore Foca - un nuovo arcivescovo nella persona del diacono Candifflano, fautore della condanna dei Tre Capitoli, gli scismatici di Grado, fedeli alle dottrine condannate nel concilio di Costantinopoli del 553, si erano sottratti con la fuga alle rigorose misure prese contro di loro dalle autorità imperiali, e avevano trovato sicuro rifugio in territorio di dominio Iongobardo, nel ducato del Friuli: qui, riunitisi in Aquileia, si erano eletti, col consenso del re Agilulfo e con l'appoggio del duca Gisulfo II, un altro patriarca, Giovanni. Da allora la giurisdizione metropolitica di Aquileia rimase spezzata in due parti l'una, in territorio dell'Impero, con un patriarca ortodosso residente a Grado, e che da Grado avrebbe preso il nome; e l'altra in territorio longobardo, con un patriarca che si conservò scismatico sino alla fine del sec. XII, e che continuò a intitolarsi di Aquileia, anche quando fissò la sua residenza prima a Cormons, e poi a Cividale.
Non conosciamo la data esatta della consacrazione episcopale di C. che deve porsi, in ogni caso, tra la prima decade di febbraio del 718 e l'11 febbr. 731, giorno della morte di papa Gregorio II, dalla ricordata lettera Iamtriennium evolutum risulta infatti che, quando essa veniva scritta, erano già passati tre anni dal momento in cui, insieme col suo benestare e con la sua apostolica benedizione, Gregorio II aveva inviato a C. il pallio. Di illustre famiglia longobarda - "nobilitate conspicuus" lo definisce Paolo Diacono -, il nuovo arcivescovo apparve fin dai primi tempi del suo ministero deciso, da un lato, ad affermare la sua autorità patriarcale su tutti quelli che erano stati i territori dell'antica diocesi di Aquileia; e teso, dall'altro, a conferire alla sua sede quella dignità anche esteriore che il titolo metropolitico richiedeva. Intorno al 734, infatti, il papa Gregorio III fu costretto a intervenire con fermezza presso di lui, per difendere i diritti giurisdizionali dell'arcivescovo di Grado. Nella lettera Iamtriennium evolutum il pontefice, dopo aver ricordato il significativo e previdente monito dal suo predecessore rivolto a C., rimproverava a quest'ultimo di aver turbato con le sue intempestive prese di posizione l'equilibrio territoriale e giurisdizionale tanto faticosamente raggiunto dalle due archidiocesi nei loro rapporti, e gli ordinava perentoriamente - sotto la minaccia della scomunica e delle altre pene previste dai sacri canoni - di desistere dall'usurpare i beni del monastero di S. Maria nell'isola di Barbana, che era appunto compreso entro i confini della diocesi di Grado. Gli imponeva altresì - sempre sotto la minaccia delle sanzioni canoniche - di reintegrare lo stesso patriarca di Grado in quei diritti che, prima della consacrazione, si era impegnato a non violare, ma che si era invece illegittimamente arrogato in quei tre anni. Non ci sono noti gli sviluppi ulteriori della vicenda; è molto probabile, tuttavia, che C. si sia sottomesso infine alla volontà del pontefice, ed abbia effettivamente restituito quanto aveva usurpato, dato che nelle successive lettere inviate da Gregorio III all'arcivescovo Antonino di Grado (Jaffé-Loewenfeld, Regesta, nn. 2178 e 2256) non si fa più cenno della questione.
La nomina di C. alla cattedra metropolitica non doveva - data l'amicizia che legava l'ecclesiastico trevigiano al re dei Longobardi - essere riuscita molto gradita al duca del Friuli, Pemmone, personalità di rilievo, geloso delle prerogative del suo rango e dell'antica autonomia del suo ducato. Intransigente difensore della dignità patriarcale, C. non doveva tardare a scontrarsi con il duca: l'occasione venne offerta dal trasferimento della sede metropolitica a Cividale, deciso ed attuato senza l'autorizzazione del duca, ma all'urto tra i due non dovettero rimanere estranee motivazioni soprattutto politiche, dato che esso si configurò chiaramente come un tipico episodio della continua lotta tra il potere regio e quello ducale. L'arcivescovo, che riteneva sconveniente al suo grado di metropolita e alla sua condizione nobiliare un borgo modesto come quello di Cormons, piccolo centro di campagna abitato da gente semplice e volgare, mal tollerava che dei suoi suffraganei, i vescovi di Zuglio (Carnia), fossero stati autorizzati dai duchi del Friuli a lasciare la loro sede episcopale, minacciata dalle scorrerie degli Slavi, e si fossero stabiliti nella capitale, dove era stata messa a loro disposizione anche una casa: ma Pemmone, che temeva evidentemente la presenza del metropolita nella capitale, si era sempre opposto ai desideri di Callisto. Finché, morto nel capoluogo friulano il vescovo Fidenzio di Zuglio, C. non approfittò dell'inesperienza del suo successore, Amatore, per trasferirsi a Cividale, ponendo così il duca di fronte al fatto compiuto. Certo fidando nell'appoggio del re Liutprando, il presule espulse con la forza Amatore dalla sua residenza, della quale prese solennemente possesso insediandovisi con la propria corte. Pemmone allora, dopo essersi consultato con i suoi consiglieri, fece arrestare C., e lo fece rinchiudere nel castello di Duino. Era una presa di posizione gravida di implicazioni pericolose per l'autorità regia, dati i buoni rapporti che legavano Liutprando all'arcivescovo; e Liutprando la rintuzzò tempestivamente e con estrema energia, costringendo Pemmone a presentarsi dinnan i al suo tribunale, destituendolo. Quanti, tra i collaboratori diretti del duca e tra i nobili friulani, avevano approvato le drastiche misure prese nei confronti del presule, furono arrestati per ordine del re, e imprigionati. I provvedimenti non suscitarono opposizioni di sorta, forse anche perché Liutprando nominò duca del Friuli il figlio maggiore di Pemmone, Ratchis, del cui lealismo si riteneva sicuro. C. venne reintegrato al suo posto, né ci risulta che egli abbia avuto, da allora, attriti col nuovo duca.
Riconosciuta ufficialmente la nuova sede patriarcale in Cividale, C. provvide a farsi costruire nella città un nuovo episcopio, che venne eretto nel luogo ove ora sorge il palazzo palladiano dei provveditori veneti; sua opera è pure il pozzo esistente presso l'abside del duomo. Non è sicuro se il battistero e la chiesa di S. Giovanni siano stati eretti per sua iniziativa, o se l'opera di C. si sia limitata a semplici lavori di restauro e di abbellimento. Di questi due edifici, demoliti per far posto al campanile del duomo, non rimane che la vasca battesimale, che è stata ricostruita con un tegurio su cui compare un'iscrizione col nome di Callisto.
è il più cospicuo monumento che oggi ci rimanga di questo patriarca friulano. Alla vasca, di forma ottagonale, sono sovrapposte otto colonne sostenenti altrettanti archetti abbelliti da raffinate sculture di gusto ellenistico. Il complesso è sormontato dalla iscrizione dedicatoria, che reca il nome del presule. Il monumento, così come è stato ricomposto dopo il suo spostamento dalla sua sede originaria, è stato al centro di accese polemiche tra gli studiosi di archelogia cristiana e di storia dell'arte. Recentemente il Mutinelli ha cercato di dimostrare che la parte superiore - quella con l'iscrizione - non doveva appartenere al monumento, facendo osservare che le allegorie ivi rappresentate sono attinenti più ad una simbologia eucaristica che alla simbologia battesimale, e che in ogni caso la successione dei motivi ornamentali presuppone un complesso rettilineo anziché uno circolare. Lo studioso ritiene, cioè, che la parte superiore del fonte battesimale, così come ci è noto, dovesse appartenere piuttoto a un'iconostasi fatta erigere da C. nella chiesa di S. Giovanni Battista per separare l'altare maggiore dall'aula. È certo, tuttavia, che anche prima del lavoro del Mutinelli era stata fatta notare l'enorme differenza stilistica esistente tra il fonte battesimale e un altro monumento cividalese coevo, sempre riferibile all'episcopato di C., il cosiddetto altare di Ratchis, certo anteriore al 744: erano state avanzate le ipotesi o che C. avesse fatto eseguire il lavoro in un ambiente di cultura assai diversa da quella cividalese (o almeno da un artista di altra provenienza), o che l'altare appartenesse addirittura ad un'epoca diversa da quella in cui venne costruito il fonte stesso. In ogni caso è certo che l'iscrizione, il cui inizio è contrassegnato da una crocetta, prova senza possibilità di dubbio che il fonte battesimale è stato ricostruito secondo lo schema originario.
Non conosciamo la data esatta della morte di C., che dovette cadere in ogni caso prima del 762, quando è testimoniato sulla cattedra di Cividale un nuovo patriarca, Sigualdo.
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