CALUSO DI VALPERGA, Tommaso
Nacque a Torino, di doviziosa famiglia comitale canavesana, il 20 dic. 1737, da Amedeo e da Emilia Doria, genovese. Ultimo di una numerosa figliolanza e di cagionevole salute negli anni suoi primi, ebbe un'educazione fondata inizialmente sullo studio dei classici, innanzi a tutti Virgilio, mentr'era tuttavia incerta la scelta della carriera. Il C. parve preferire la carriera delle armi e dodicenne fu a Malta, paggio del gran maestro dell'Ordine; divenne quindi nel 1754 comandante in quella marina, e non inesperto di azioni belliche contro i Barbareschi, sebbene la stessa posizione dell'isola e i contatti greco-mediorientali ch'essa aveva frequenti più favorissero nel giovinetto, oltre le ricerche scientifiche, l'inclinazione allo studio della lingua e delle lettere greche, intrapreso con uno strano tipo di rozzo e indotto profugo, in cui il C. si illuse di poter trovare un maestro; e fu, non di meno, capace di suscitar in lui l'interesse per la cultura ellenica, classica ed ellenico-cristiana. Richiamato dal padre in Piemonte, il C. accettò di servire nella marina sarda e fu comandante d'una unità nella rada di Villefranche. Restò nella marina per due anni, durante i quali maturò in lui una sorta di crisi religiosa. Vi ebbero qualche parte certi gesuiti di Nizza, che avrebbero desiderato di ascriverlo alla Compagnia; ma egli preferì l'Ordine di s. Filippo Neri. Nonostante le contrarie insistenze del ministro Bogino, si dimise dall'esercito e, ravvivando l'amicizia contratta in Malta con l'oratoriano Vincenzo Ungaro, si trasferì a Napoli, dov'entrò in quella congregazione (1761). Qui si formò il C. erudito e letterato, non senza propensioni fortissime per la speculazione filosofica, scientifica e matematica e qualche semiconfessato proposito d'imitare, o di proseguire, non pur Bacone e Malebranche, ma Galileo e Leibniz. Istruito da Giullo Selvaggi, cui succedette nell'insegnamento, e assai benvoluto dai confratelli, il C., tosto insignito del titolo, col quale volle sempre essere conosciuto, di "abate", divenne il bibliotecario dell'Ordine e profittò delle facilitazioni che la biblioteca e la città gli fornivano, per mettersi a paro con la migliore cultura del tempo. Ricordò egli medesimo al suo allievo Boucheron i nomi del Gravina e del Vico, del Galiani e del Genovesi, nel mentre frequentava gli eruditi locali, primo fra essi il Mazzocchi, e riordinava altresì la biblioteca di Giuseppe Lucina, passata con la sua morte agli oratoriani. Resta tuttavia problematico se o quando e in qual misura il C. divenisse "vichiano", pur essendo innegabili la presenza della Scienza Nuova negli scritti "estetici" del C. e il merito, ch'egli si acquistò successivamente presso i suoi corregionali, di aver introdotto il Vico in Piemonte e di averne fatto anzi materia di studio nelle adunanze della Sampaolina, cui fu ascritto dalla fondazione (1776).
Sembrava che avesse ormai definitivamente abbandonato il Piemonte, quando l'ordine di espulsione dal Regno degli ecclesiastici forestieri costrinse il C. a lasciar Napoli nel 1769. Durante una non breve sosta in Roma egli divenne amico dei cardinali Stefano Borgia e Alessandro Albani, i massimi fautori e restauratori del neoclassicismo winckelmanniano, cui si accostò, per la sua stessa educazione "classica" e per il suo amore alla grecità, quantunque né l'archeologia né l'antiquaria siano sostanzialmente mai entrate nell'ambito della sua ricerca e dei suoi interessi, a differenza della generalità degli eruditi italiani contemporanei.
Rientrato a Torino, rifiutati da allora titoli e onori ecclesiastici, per restar puramente e semplicemente "abate", e attendere in una sorta di epicureistica segregazione o indifferenza o erudita solitudine agli studi molteplici variamente prediletti, non senza diffonderne la fama e il beneficio tra gli amici della "conversazione", le dame dei salotti e i giovani che trattò da scolari, il C. seguì tuttavia a Lisbona (1771) il fratello primogenito, Carlo Francesco Maria, conte Valperga di Masino, ministro del re di Sardegna. E a Lisbona, dove subito contrasse amicizie durevoli e illustri (l'astronomo Michele Ciera, il diplomatico e poi ministro Rodrigo de Souza-Continho, l'abate Manuel do Cenáculo, professore di teologia all'università di Coimbra e successivamente arcivescovo di Evora), visse, nel 1772, l'episodio più popolarmente celebre della sua esistenza, l'incontro, cioè, col giovane Alfieri, del quale divenne da allora l'amico più intimo, risvegliandone la vocazione alla poesia.
Nel vario discutere degli eruditi sulla veridicità del racconto autobiografico dell'Alfieri (Vita, epoca III, cap. XII) nonché del racconto, che in parte ne dipende, del Boucheron (De Thoma Valperga Calusio, Torino 1833, pp. XXII ss.), una parola d'indubbia verità, e risolutrice del mal posto dibattito, fu profferita dal Calcaterra (Ilbarocco in Arcadia, pp. 315 ss.), il quale addusse la testimonianza del C. medesimo, databile al 1800e indirizzata appunto all'Affieri: "io la vedeva" (scrisse l'abate della sua "ossianesca" sorella, A. Fr. Matilde Valperga, contessa di Pontedassio), commossa, rapita, quasi uscir di sé, poco meno di quello, che vidi voi giovinetto, quando, se vi ricorda, una sera in Lisbona vi lessi alcun'ode del Ghidi, e dalla commozion vostra ritrassi qual genio di poeta in voi fosse, benché allora tuttavia poco noto a voi stesso (cfr. Versi italiani, Torino 1807, p. 257).Nonostante il giudizio entusiastico dell'Astigiano, è probabile che "quella grandiosa ode del Guidi alla Fortuna" dovesse piacere più al gusto classicistico del C. che all'impetuoso sentire protoromantico dell'Alfieri; il quale, tuttavia, si fece poi sempre un dovere di considerarsi "discepolo" del C. e reiteratamente attestò il proprio debito di gratitudine culturale e umana verso l'abate, al quale, in effetti, l'amicizia dell'Alfieri rimane il maggior titolo di gloria.
Il C., peraltro, se non deviò mai dalla professata ammirazione e dall'aperta rivendicazione dei meriti poetici (soprattutto tragediografici) dell'Alfieri, se accettò sempre di agire da consigliere e procuratore del conte, nonché da postumo suo editore, nemmen si astenne mai dal segnare e dal dichiarare quali fossero i limiti non tanto della loro amicizia, quanto delle rispettive idealità e ideologie, quanto divergessero i rispettivi abiti e modi di vita. Non tacque, pertanto, l'eventuale sua disapprovazione o condanna di certi atteggiamenti dell'Alfieri, in ispecie dell'ultimo Alfieri misogallico, antirivoluzionario e, tuttavia, "anarchico" religioso-irreligioso (cioè non conformistico né in politica né in religione): e questo sia in scritture ahneno originariamente private, sia in scritture concepite per essere tosto rese di pubblica ragione, come la celebre lettera alla contessa d'Albany a conclusione della Vita, dove si elencano e rilevano, pur invocandone "convenevole indulgenza", i "trascorsi provenienti da eccesso di sì commendabile affetto qual si è l'amor di patria".
Qui, invero, ed ove si intenda "amor di patria" per quel complesso impegno etico-politico, quel passionale "volontarismo" che è tipico e proprio dell'animus, indubbiamente controverso e contraddittorio, dell'Alfieri, chiarissime spiccano le divergenze fra i due, onostante postumi palliativi o precursoristici incensamenti. La leggenda d'un C. preromantico o protoromantico, liberale e "italiano", fu creata, mentr'egli era ancor vivo o appena morto, da alcuno dei suoi stessi discepoli, primo il di Breme. è ben comprensibile, infatti, che nel mutato clima storico del Piemonte restaurativo l'immagine del C. spiccasse come l'insegna e la promessa d'una diversa e migliore cultura, quasi come la guarentigia o la giustificazione dei destini che i giovani alfieriani e romantici, prossimi "conciliatoristi" o rivoluzionari o vittime del '21, auguravano alla patria sabauda (cfr. Cerruti, pp. 35 ss.). Ma questa coscienza d'un'imminente e benefica rivoluzione, in ambito eticopolitico e letterario-culturale, se era, almeno embrionalmente, vivissima nell'Alfieri, sempre e totalmente difettò al Caluso. Donde il suo sostanziale indifferentismo politico e anche letterario; in quanto mancò al C. una concezione organica delle lettere e della socialità delle lettere che concepì sempre come un "sollazzo" o un diversivo; quand'anche avvertisse (in ciò superiore alla comune degli illuministi suoi contemporanei) l'autoinsufficienza della ragione, l'indipendenza e corresponsione reciproca del Bello e del Vero, l'impegno simultaneo della scienza e della poesia: ma senza, tuttavia, che la scienza in ultima analisi trascendesse la ricerca empirica (nella quale il C. fu, peraltro, dottissimo ed espertissimo, come insegnano i suoi lavori sul calcolo differenziale, sull'orbita di Urano, ecc.: donde l'orgoglioso nomignolo, che il C. non si peritò di assumere, a imitazione dell'antico: "Didymus Taurinensis") e la poesia in ultima analisi trascendesse l'empirismo e il conformismo della tradizione accademico-classicistica.
Certo il plurilinguismo del C. non fu mai un'attività fine a se stessa e pratico-erudita, come fu del poliglotta Mezzofanti. Anzi, gli servì a conoscere, ad amare, Camoëns e Corneille, Racine e Shakespeare, Milton e Pope, lo stesso Werther (pur nella sua sostanziale ignoranza non solo del Kant e della letteratura, ma della lingua, tedesca). Seppe bastantemente di greco da verseggiare con abilità e da leggere (e correggere) non pur Teocrito ma i tragici (oltre Longo Sofista e le Anacreontiche). Nell'epistola che indirizzò al di Breme sull'arte critica (Epistola altera ad eriticam pertinens literariam, Torino 1813) e in più altri luoghi giustamente condannò le tentazioni, o aberrazioni, dei moderni editori, troppo più inclini all'emendatio cheall'intelligenza del testo tradito. Ma nell'EpistolaHoratii ad Augustum in morte Maecenatis (Torino 1812), al medesimo di Breme, il C. si era pur compiaciuto, assai poco criticamente, di sostituirsi ad Orazio e di dettare subspecie Horatii unepistola poetica ad Augusto, la quale epistola non ha né il merito della poesia né il valore d'una testimonianza di filologia.
Questo procedere è in realtà tipico del C., che nel carme iniziale delle proprie poesie latine significativamente confessava: "Ingenium nequeo sistere multivolum" (Latinacarmina, Torino 1807, p. 4). E questo spiega altresì perché il C. non abbia mai scritto un vero libro né affrontato un problema preciso. Difettava, infatti, di senso storico, pur nell'abbondanza delle conoscenze tecniche, pur nel gusto di farne dono e parte ad altrui e di gareggiare con i contemporanei nella più diversa tematica. Un letterato, dunque, il C., più che non propriamente un filologo o un filosofo o un critico (e, tanto meno, un poeta). E parlarne come d'un colporteur (o, più solennemente, come d'un excubitor, quale amò definirlo sovente il Calcaterra) è dir cosa vera, e in realtà meritoria, massime ove si rammentino le condizioni del suo Piemonte, ma limitatrice, altresì, dell'opera intrinseca (la quale è altra cosa dall'attività informativa e divulgatrice) del Caluso.
Né, invero, è caso che la vita medesima del C. trascorresse, massime dopo il ritorno da Lisbona a Torino (1773), nella "conversazione" accademica della principessa Maria Giuseppina di Carignano, della quale l'abate fu amico e cantore latino e italiano, cavalier servente ed erede. Ch'egli preferisse il salotto di questa nobildonna illuminata, culta, alfieriana e francese, cioè il più liberale ramo cadetto, al tradizionalismo compassato e bigotto della corte sabauda, onora il C.: e l'onora, altresì, la pigrizia nel comporre, la sobrietà nello scrivere, l'indifferenza, dunque, a una letteratura per commissione o per obbligo sociale: donde la scarsità delle rime "occasionali" tanto latine quanto italiane e il carattere di sostanziale sincerità di entrambe, prive di valore poetico, ma storicamente indicative e significanti, sia che rievochino Lisbona e Cintra e le amicizie lusitane, sia che, non senza qualche remota suggestione sul poeta di ça ira, nella cui biblioteca in effetti si ritrovano i versi del C., questi compiangesse lo scempio della signora di Lamballe (cognata della principessa di Carignano) od esaltasse, con equanime indifferenza, l'Alfieri e Napoleone.
Se i versi del C. hanno, almeno, qualche valore documentario, mero valore di dubbia curiosità, e non certo di preannunzio remoto della poesia storico-popolare-fiabesca del romanticismo, ha, invece, il poemetto Masino, che il C. definì "scherzo epico" (tredici canti in ottave, Brescia 1808). All'origine, nulla di più classicistico, se il proposito del poema è di narrar l'origine mitica della località canavesana donde i Valperga derivarono il proprio predicato feudale. Nella tessitura del poema, se fate, mostri, diavoli e altrettali stregonerie più che all'epica cinquecentesca e a quella recente del Forteguerri sembrano raccordarlo all'Arcadia lugubre (e pastore arcade fu il C. con il nome di Euforbo Melesigenio), l'unico tratto notabile (a prescindere da certa libertà di linguaggio, quale non ci si aspetterebbe da un conformistico abate, non avesse questi letto e imitato, come par probabile, la Pucelle volteriana) è la sostanziale satira o parodia della tragedia di Ermengarda e delle correlative vicissitudini coniugali di Carlomagno.
Né la stessa attività culturalistica del C., oltre l'efficacia stimolatrice o risvegliatrice d'altrui, diede l'avvio ai tempi nuovi e alla nuova critica. Benemerito degli studi biblici ed ebraici, traduttore ammirato del Cantico dei Cantici e del Salmo VII di Davide (donde si ispirò il tragediografo del Saul, meritamente perciò dedicato al C.), non contribuì punto all'esegesi critica della storia e tradizione religiosa, pur dettando a uso dei propri discepoli una grammatica della lingua copta che rimase a lungo, né solo in Italia, paradiginatica. E il trattato Della poesia, uscitoa Torino nel 1806, dopo un'almeno ventennale incubazione, se non cela tracce vichiane, se partecipa al restaurato studio e culto dantesco, se rivendica l'estro, cioè la virtù creatrice della fantasia, non si affranca, peraltro, dai pregiudizi correnti, e fortunatamente ormai in crisi: la necessità del verso (e preferibilmente altresì della rima, anziché dello sciolto) per scrivere poesia, il carattere artistico (cioè letterario ed "ornato") della poesia, l'avversione a qualsiasi tentativo di "metrica barbara", il ribadimento del "confacevole" (cioè dell'oraziano "convenientia finge") e delle conseguenti differenziazioni per stili e generi, nonché del diletto quale "fine della Poesia". E l'amico d'Alfieri era altresì il protettore e divulgatore in Italia ed oltr'Alpe della poesia di Diodata Saluzzo Roero, che il C. è da credere pregiasse per motivi di convenienza, di cortesia e di campanile: mentre aveva sufficiente senso e gusto di poesia da condannare la didascalica e da individuare oltre e fuori della didascalica il valor poetico delle Georgiche.
A mezzo fra il vecchio e il nuovo, nella sua condotta pratica assai più che nella sua opera letteraria, il C. è perciò ben probabile che fosse persona poco grata ai suoi sovrani, tanto dell'ancien régime quanto ad avvenuta restaurazione. Perché, segretario perpetuo dell'Accademia delle scienze dal 1783, forse non chiese, ma certo non ebbe, cattedra nell'ateneo torinese (e tenne scuola privata nelle sue stanze), fin quando non gliela concesse, od impose, il governo di Parigi, nel mentre affidava l'amministrazione dell'università al conte Prospero Balbo (1805). Accettò di restare nell'Accademia francesemente trasformata in Istituto e dovette, anzi, penar non poco a far rientrare la nomina dell'Alfieri, cui repugnava per misogallismo di accettar che che sia dal nuovo regime, temporaneamente rappresentato a Torino da un amico del C., l'italianista Ginguené. Vide, anzi, il C., senza troppo scomporsi, perseguitati, almeno in un primo tempo, i suoi stessi congiunti, mentre da Firenze l'Alfieri lo tempestava di incombenze, di missive e di proteste, quanto più l'abate si adoperava per ottenergli la restituzione di parte almeno del patrimonio, soprattutto librario, confiscatogli nella Parigi del '92. Né sarà d'altronde casuale che la maggior parte degli scritti del C. vedesse la luce, o conoscesse ristampe, proprio negli anni della dominazione francese, alla quale sostanzialmente aderivano i suoi giovani amici Balbo e di Breme; né sarà caso che, dopo il viaggio fiorentino dell'autunno 1802 e la morte di Alfieri, i soli soggiorni del C. fuor di Piemonte fossero in territorio bonapartesco: la Firenze della contessa d'Albany; la Lucca dell'accademia Napoleone, dove Elisa Baciocchi faceva rivivere criticamente la memoria e la presenza dell'Alfieri; e Milano (o la Lombardia) cosmopolita, e presto romantico-liberale. Benefattore in vita della Biblioteca di Torino (e più in morte per la generosità comprensiva del suo nipote ed unico erede, il conte di Masino), fedele alla memoria dell'Alfieri, nel mentre ne legava al Peyron le carte e lettere in suo possesso, il C. si spense, dopo brevissima infermità, in Torino il 1º apr. 1815. Il di Breme, accorso troppo tardi, provvide a celebrare eloquentemente il maestro che, mentre rivendicava il "dovere di servar" ai giovani "fedelmente tutti i diritti dell'età", "già era corso ad occupare colla previdenza il punto della conciliazione". Sul sepolcro medesimo del C. s'iniziavano, così, la sua leggenda e il suo mito.
Il C., definito da C. Saluzzo, con le abituali iperboli dei necrologi "il secondo Pitagora di Italia", fa in realtà un matematico e un astronomo originale, informato e competente e costituisce una delle figure più interessanti dell'ambiente scientifico italiano del secondo Settecento. Segretario generale dell'Accademia delle scienze di Torino nel periodo dal 1783 al 1801, in cui l'Accademia fondata (insieme ad altri) dal Lagrange nel 1759 consolida la sua collocazione nella cultura scientifica europea (già nel II volume dei Miscellanea Philosophico-mathematica, editi dalla Accademia come "Societas Privata Taurinensis", era apparso uno scritto di Eulero), svolge un ruolo importante nella costruzione della cultura scientifica piemontese, anche come direttore dell'osservatorio astronomico di Torino a partire dal 1801.
I suoi scritti scientifici, dai Principes de philosophie pour les initiés aux mathématiques (1811), che interessò il giovane Rosmini (cfr. Cerruti, pp. 13 ss.), ai lavori più tecnici pubblicati nelle Memorie della Società italiana di Verona, indicano l'ampia informazione e il vasto impegno di uno scienziato non professionale. Egli fu molto interessato alla fondazione del calcolo infinitesimale, "la nuova matematica dell'infinito", e in questo ambito il suo lavoro più importante rimane la lunga memoria Des différentes manières de traiter cette partie des mathématiques que les uns appellent calcul différentiel et les autres méthode des fluxions (in Mém. de l'Académie royale des sciences, V [1788], pp. 489-590).In questo lavoro il C. desidera dimostrare la superiorità sia della notazione sia della concettualizzazione newtoniana nei confronti della sistemazione leibniziana del calcolo. In questo senso presenta un breve riassunto dello "status quaestionis" relativo alla querelle sul concetto di infinitamente piccolo e di "ultima ratio evanescentium" impiegata, com'è noto, da Newton nei Principi. Iniziando dal primo concetto, il C. critica l'idea di infinitesimo data da G. de L'Hospital nell'Analyse des infiniment petits (1696), associata semplicemente al concetto dell'"incomparabilità con grandezze d'ordine superiore", o come "grandezza minore di ogni grandezza assegnabile". Riferendosi continuamente ai lavori di Newton e Mac Laurin, e tenendo anche presenti i critici del calcolo infinitesimale come Berkeley, Nieuwentijt e Rolle, il C. considera il metodo newtoniano delle fluenti e delle fiussioni come più chiaro e più utile del metodo degli infinitesimi. In questo ambito, poi, il concetto newtoniano di "ratio ultima incrementorum" viene definito, molto modernamente, come il "limite che il rapporto degli incrementi può approssimare infinitamente senza mai raggiungere". Indicativa poi della attività non puramente burocratica del C. come direttore dell'osservatorio astronomico di Torino è la memoria letta il 6 maggio 1787 De l'orbite d'Herschel ou Uranus avec des nouvelles tables pour cette planète (in Mém. de l'Académie Royale des sciences, V [1788], pp. 113-148).Ilpianeta Urano, scoperto appunto da Herschel il 13 marzo 1781e precedentemente considerato come una stella di 6ª o 7ª grandezza, era stato studiato da Bode, dall'abate P. F. Reggio (1787)e dall'abate B. Oriani (v. Effemeridi di Milano, 1785, pp. 163-212); il Lalande poteva dire all'inizio del 1784che se ne poteva considerare conosciuta con buona approssimazione l'orbita. Ora il C., ricordando e riassumendo queste precedenti ricerche, nota che è però possibile riscontrare alcune inesattezze, come per esempio nell'orbita del pianeta calcolata da P. Fixlmillner in cui i tempi di rivoluzione e la distanza media non sono nel rapporto previsto dalla terza legge di Keplero. In questa memoria, molto dettagliata e tecnica, il C. entra così in dialogo con le ultime ricerche effettuate sul pianeta Urano, corredando il suo lavoro di nuove e più accurate effemeridi (fra cui equazioni del centro, movimento medio per ciascun giorno, logaritmi della distanza dal Sole).
P. Delsedime
Fonti e Bibl.: L'elenco integrale delle opere a stampa del C. presso C. Ugoni, in E. De Tipaldo, Biografia degli Italiani illustri, III, Venezia 1836, pp. 471 s. (rist. da E. Teza, insieme col testo dell'Ugoni, nella sua ed. di V. Alfieri, Vita, giornali, lettere, Firenze 1861, pp. 481-485). L'articolo dell'Ugoni deriva sostanzialmente dagli scritti del di Breme, i cui più significativi sono: Degli studi e delle virtù di T. V. di C., Milano 1815; Pel prossimo arrivo in Milano dell'illustre T. V. di C., Oda, Milano s.d.; All'illustre T. V. di C., Milano 1810 (e cfr. Cerruti, p. 15 n. 4). Vedi inoltre: C. Saluzzo, Notizie di T. V. di C., Torino 1815; I. Vernazza, Inscriptiones pro exsequiis publicis Valpergae Calusii, Torino 1815; C. Boucheron, De Thoma Valperga Calusio, Torino 1833, trad. (Alessandria 1836) da T. Vallauri (del quale cfr., altresì, Vita, Torino 1886, pp. 100 s. e, per l'opera poetica del C., Storia della poesia in Piemonte, Torino 1841, II, pp. 92-100, 470-472). Se da G. Biamonti, Per le solenni esequie di T. V. C. (Torino 1815; rist. in Opere precettive oratorie e poetiche, Parma 1841, II, pp. 50-80) e dal Boucheron origina l'esaltazione "classicistica" del C., la quale condurrà nel nostro secolo alla svalutazione, o critico ridimensionamento, soprattutto ad opera di M. Fubini (cfr. in Giorn. stor. della letter. ital., CXXVII[1950], pp. 207-210, rist. in Stile e umanità di Giambattista Vico, Milano-Napoli 1965, pp. 214-218; nonché ibid., CXLIV [1967], pp. 449, 453-454), dal di Breme ha inizio, invece, l'esaltazione "romantica" del C., quale si afferma, anche programmaticamente nel volumetto di G. Acutis, Albori del Romanticismo in Piemonte, Torino 1933, pp. 25-48 (di questo "romanticismo" calusiano le tracce maggiori sarebbero, ex hypothesi, nel Masino: ibid., pp. 31-47), mentre al di Breme, pur negando il "protoromanticismo" del C., si raccorda l'attività esegetico-apologetica del Calcaterra. Solenne testimonianza dell'attività e fama letteraria del C. offrono i carteggi dei contemporanei, massime V. Alfieri, Epistolario, a cura di L. Caretti, Asti 1963 (spec. I, pp. 83 s.); V. Monti, Epistolario, a cura di A. Bertoldi, I-VI, Firenze 1927-1930, ad Indicem;U.Foscolo, Epistolario, a cura di P. Carli, I-VI, Firenze 1949-1966, ad Indicem;e soprattutto L. di Breme, Lettere, a cura di P. Camporesi, Torino 1966, ad Indicem.Del Camporesi cfr. anche le note alla ristampa del necrologio calusiano presso L. di Breme, Ilromitorio di Sant'Ida, Bologna 1961, pp. 116-118, 155 ss. Lettere del ed al C. pubblicò (parecchio male) A. Barolo, L'Alfieri e il C. nel giudizio di contemporanei, in Giornale storico della letteratura italiana, CXIII(1939), pp. 1 ss., mentre le lettere del C. all'Alfieri si leggono nella ediz. di E. Teza della Vita…, cit., pp. 487 ss. Una lettera del C. sull'ales equus catulliano-callimacheo e la relativa polemica montiana (Torino, 23 apr. 1805; al pistoiese Tommaso Puccini) ed. da G. Zaccagnini, in Rassegna critica d. letter. ital., VIII (1903), p. 205 (è cfr. ibid., p.199). Sulle istruzioni del C. al Peyron, postumo editore delle lettere e carte alfieriane dell'abate, cfr. L. Caretti, in Convivium, n.s., III (1949), pp. 624 ss. Sul soggiorno del C. in Portogallo e le sue relazioni con l'intellettualità portoghese, cfr. G. C. Rossi, L'abate C. e il Portogallo, in Convivium, n.s., I (1947), pp. 727-738; IV (1950), pp. 821-823. Per l'amicizia del C. con la principessa di Carignano, cfr. G. Gasperoni, Giuseppina di Lorena principessa di Carignano, Torino 1938, pp. 37 ss., 75, 78, 89-90. Sulla poesia in morte della signora di Lamballe, ibid., pp.41-42 nonché, soprattutto, C. Calcaterra, Le adunanze della "Patria società letteraria", Torino 1943, p. LVIII n. 1, p. 286 n. 2. Sugli studi ebraicistici del C., si vedano le tendenziose osservazioni di R. Mazzetti, Orientamenti antiebraici della vita e della cultura italiana, Modena 1939, pp. 49-54, che porta alle estreme conseguenze la metodica del Calcaterra.
Questi ha ricostruito con magistrale competenza l'ambiente piemontese in cui si svolse l'attività del C., non evitando, peraltro, la consapevole o inconsapevole forzatura di un Settecento sabaudo assai più "italiano" e "moderno" che in effetti non fosse, e di un C., pertanto, assai più prossimo all'Alfieri e al di Breme, al protoromanticismo e al Conciliatore, che l'abate non sia in verità stato mai. Qui s'individua pure il limite di attendibilità filologica e di validità storiografica delle ricerche del Calcaterra: la trilogia Il nostro imminente Risorgimento, Torino 1935; I Filopatridi, ibid. 1941; Le adunanze della"Patria società letteraria", cit., cui si affiancano i vari saggi monografici del volume Il barocco in Arcadia, Bologna 1950 (spec. pp. 308 ss., 410 ss., 435 ss.) e la conclusiva Nota calusiana, in Giorn. stor. della lett. ital., CXXVII(1950), pp. 305-314, nonché le annotazioni sul C. editore della Vita d'Alfieri, in Convivium, n.s., III (1949), pp. 649 s. Per un nuovo e diverso avviamento allo studio del C., e un tentativo d'inserirne l'opera non pur nella storia classistica e culturale del Settecento europeo, ma nei più recenti metodi interpretativi dei "miti" e delle "ideologie" del sec. XVIII, veggasi ora la monografia compiutissima di M. Cerruti, La Ragione Felice e altri miti del Settecento, Firenze 1973, pp. 7-120.
P. Treves