Cambiamenti nella relazione tra medico e paziente
Dalla medicina ippocratica fino alla fine del 20° sec., la modalità del rapporto tra medici e pazienti (e loro familiari) è rimasta una delle costanti della civiltà occidentale. Mentre la medicina in quanto pratica è cambiata e i modelli teorici per spiegare i fatti patologici e gli interventi terapeutici si sono evoluti nel tempo, i comportamenti attesi dal ‘buon’ medico e dal ‘buon’ paziente sono rimasti i medesimi; e stabile è rimasta la relazione considerata auspicabile. Nel giro degli ultimi decenni quel rapporto è entrato in fibrillazione e si è rapidamente sfaldato. La transizione verso i nuovi modelli è ancora in corso; mentre la teorizzazione è solida, la pratica fa fatica ad adeguarsi. Il cambiamento effettivo della relazione, essendo questa saldamente radicata nella cultura, ha bisogno di un tempo assai maggiore di quello richiesto dalla riscrittura delle regole formali. Al momento non è possibile prevedere la fisionomia che il rapporto tra sanitari e cittadini è destinato ad assumere nel prossimo futuro.
Le difficoltà attuali non autorizzano una idealizzazione del passato. Forme conflittuali nella relazione terapeutica sono sempre esistite, tanto che lo storico della medicina Edward Shorter ha potuto intitolare un saggio dedicato al tema Bedside manners. The troubled history of doctors and patients (1985). Ma le tensioni che caratterizzano la fase odierna di transizione hanno ragioni profonde e strutturali; non sono tutte interne alla medicina e, soprattutto, sono largamente indipendenti dai comportamenti dei singoli. Per dirlo con le parole di Shorter: «Il fatto che tra i medici e i pazienti divampi uno scontro senza precedenti non ha nulla a che fare con i vizi e le virtù private. I medici non sono né ‘brutali’, né ‘avidi’, così come i pazienti non sono né ‘stupidi’, né ‘isterici’. Le origini del conflitto sono da ricercare piuttosto nelle ben più profonde forze storiche di cui sono inconsapevoli gli uni e gli altri» (trad. it. 1986, p. 10). La ricerca di queste forze storiche più profonde ci induce a prendere in considerazione le ‘traslocazioni’ del potere in medicina, la metamorfosi del concetto di responsabilità, la trasformazione dei modelli organizzativi della sanità.
Le traslocazioni del potere in medicina
La questione del potere è centrale nell’analisi del rapporto tra medici e malati. L’esercizio della medicina presuppone il riconoscimento al medico del potere di curare; nel tempo, tuttavia, questo potere ha cambiato forma ed espressioni. Mutuando dalla genetica un termine che, mentre connota il potere come patrimonio ereditario dell’arte medica, rimanda a possibili espressioni fenotipiche molto diverse le une dalle altre, si potrebbe dire che questo potere ha subito ‘traslocazioni’, nel senso di ricollocazioni in punti diversi. Nel modello tradizionale, che a ragione è chiamato ippocratico, il medico esercita sul malato un potere esplicito, senza complessi di colpa e senza bisogno di giustificazioni. Il potere si regge intrinsecamente sulla finalità che lo ispira: è esercitato per il bene del malato. Rodrigo de Castro, medico del 17° sec., nel suo trattato Medicus politicus (1614) arriva ad affermare che, come il sovrano governa lo Stato e Dio governa il mondo, il medico governa il corpo umano. Si tratta di un potere assoluto, in cui chi sta in posizione dominante (one up) determina in modo autoreferenziale che cosa è autorizzato a fare a beneficio di chi sta in posizione dominata (one down). Nel caso specifico della medicina, il medico stabilisce la diagnosi, indica l’opportuna terapia e la esegue senza bisogno di informare il malato e senza necessità di ottenere un serio consenso, se non quello implicito nell’affidamento fiduciale. Nessun dovere esplicito gli richiede di dare conto al malato né della diagnosi, né della terapia prescritta. Obblighi di informazione e di coinvolgimento nelle scelte sussistono invece nei confronti dei familiari del paziente, che sono i veri interlocutori del medico e sottoscrivono con lui l’‘alleanza terapeutica’.
Questo modello, che costituiva la spina dorsale dell’etica medica, è stato in vigore in Occidente ininterrottamente per venticinque secoli. La buona medicina poteva – doveva – interrogarsi se le decisioni prese ‘in scienza e coscienza’ fossero giustificate dalle conoscenze mediche e se fossero veramente orientate al migliore interesse del malato; ma non richiedeva al medico di includere le preferenze del paziente tra gli elementi che determinavano le decisioni. La volontà stessa del paziente era, al limite, irrilevante, qualora il medico fosse in grado di far valere il suo punto di vista, cui veniva riconosciuto il peso della competenza professionale. La ‘modernizzazione’ della medicina, avvenuta negli ultimi decenni del 20° sec., ha messo in crisi il modello tradizionale del potere medico. Le radici del cambiamento di paradigma affondano nella rivendicazione di un potere di autodeterminazione da parte dell’individuo sulle decisioni che riguardano il suo corpo. In medicina il cambiamento è stato registrato due secoli dopo la sua teorizzazione e con molto ritardo rispetto ad altri ambiti della vita; ma alla fine ha avuto luogo.
Utilizzando categorie sociologiche, possiamo parlare della fine della dominanza medica, traduzione italiana dell’espressione coniata e diffusa dal sociologo delle professioni sanitarie Eliot Freidson nel 1970 con il testo Professional dominance. The social structure of medical care (trad. it. 2002). Freidson presuppone che l’interazione tra soggetti di livello culturale diverso sia resa possibile dalla partecipazione allo stesso processo sociale; in concreto, i medici si rapportano ai pazienti all’interno dei vincoli posti dal sistema finanziario e organizzativo in cui svolgono la loro attività professionale, mentre le persone che cercano aiuto lo fanno sulla base delle loro conoscenze e della loro percezione del problema. Nell’analisi di Freidson, tutte le variabili del rapporto medico-paziente vanno collocate entro il contesto di interazione sociale garantito dal professionismo. La professione indica un particolare tipo di occupazione che gode di una posizione di privilegio, di grande prestigio e del diritto esclusivo di mettere in pratica un complesso di conoscenze e di abilità. La professione controlla, direttamente o indirettamente, le sue istituzioni formative e le certificazioni dei suoi membri, garantendo loro, con il sostegno dello Stato, il monopolio nello svolgimento di un insieme specifico di compiti e funzioni. Dal momento che i professionisti controllano il proprio lavoro, le professioni creano interazioni sociali diverse da quelle che sostengono il libero mercato, in cui sono i consumatori a esercitare il controllo, o da un sistema burocratico, dove il lavoro viene controllato dai manager. Ora, nelle analisi sociologiche che Freidson ha sviluppato fin dagli anni Sessanta, è proprio questa ‘dominanza professionale’ che si è andata progressivamente sfaldando nell’ambito della medicina. Ciò ha portato alla crisi del modello di rapporto medico-paziente che avevamo ereditato dal passato.
La crisi della ‘dominanza medica’, teorizzata e analizzata da Freidson, è comune a tutta la vasta area culturale dell’Occidente. In Italia questo sviluppo, verificatosi nello stesso arco temporale, ha avuto caratteristiche peculiari. Tra i protagonisti, possiamo individuare in primo luogo il gruppo di studiosi e attivisti che, trascinati dal carisma di Giulio A. Maccacaro (1924-1977), hanno promosso il movimento Medicina democratica. L’ipotesi di fondo era che la medicina e, in generale, la scienza, fossero un modo del potere; come tale, la medicina «è abilitata a dettare statuti, tracciare limiti, codificare eventi, attribuire significati: è cioè capace, a un tempo, di legge e di giudizio, ovvero di assolutezza» (G. A. Maccacaro, presentazione della collana editoriale Medicina e potere, 1972). Medicina democratica – sostenne Maccacaro nel convegno costitutivo del movimento, tenutosi a Bologna nel maggio 1976 – si poneva in continuità con le lotte studentesche e operaie della fine degli anni Sessanta e dell’inizio del decennio successivo. Della salute privilegiava la dimensione collettiva, rispetto a quella individuale; la intendeva non come somma di benesseri individuali né come individuali riscatti dalla malattia, ma come una condizione che nasce dall’emergere di gruppi omogenei e dalla partecipazione. Quale nemico della partecipazione era individuata in primo luogo l’autorità medica sotto forma del diritto a un sapere separato che autorizza l’esercizio di un insindacabile potere su un uomo oggettivato. Nel linguaggio fortemente politicizzato dell’epoca, prendeva forma l’opposizione al ‘paternalismo medico’ che Maccacaro denunciava come un modo di mettersi in rapporto con la realtà che prescinde dal suo ascolto; un’attitudine a dare risposte preformate che non tengono conto della formazione delle domande; un’interpretazione del mandato amministrativo che determina una richiesta cui si consente soltanto di conformarsi all’offerta.
Un riscontro empirico della fine della ‘dominanza medica’ è costituito dalle iniziative che hanno portato a considerare il malato come cittadino. Nel periodo in cui in Italia l’organizzazione sanitaria stava compiendo quel passo decisivo che avrebbe portato alla creazione del Servizio sanitario nazionale (SSN, 23 dic. 1978), un progressivo degrado dei rapporti tra operatori sanitari e malati affliggeva la pratica quotidiana della medicina. Si tratta di problemi che non emergono finché non si descrive il vissuto della malattia dal punto di vista del malato stesso. Un brillante giornalista, Vittorio Gorresio (1910-1982), annunciava pubblicamente nella rubrica che teneva sul giornale «La Stampa» che stava per affrontare a Zurigo un intervento operatorio per un carcinoma alla mascella. Pochi mesi dopo rendeva un dettagliato resoconto della sua vicenda nel libro Costellazione cancro (1976), stabilendo impietosi confronti tra la sanità italiana e quella svizzera e segnalando i frequenti viaggi della speranza che portavano gli italiani a cercare all’estero quello che non trovavano in patria: non per arretratezza tecnologica, ma per il carattere paternalistico e arrogante che aveva il potere medico.
Un forte impatto sull’opinione pubblica esercitò anche il giornalista Gigi Ghirotti che, con interventi televisivi prima e con un libro poi (Lungo viaggio nel tunnel della malattia, 1973), ruppe la consegna del silenzio che gravava sul malato per descrivere la spersonalizzazione operata dal modo abituale di erogare le cure. Ghirotti è deceduto nel 1974, ma la sua voce non si è spenta: nel 1975, alcuni mesi dopo la sua morte, si costituiva l’Associazione Gigi Ghirotti, con lo scopo di continuare a mantenere vivo il suo impegno a favore del miglioramento della qualità di vita dei malati. L’associazione, diffusa attualmente in diverse città italiane, ha portato un contributo decisivo nel modificare la pratica dell’assistenza ai malati bisognosi di cure palliative, nella fase terminale della malattia.
Nello stesso periodo di tempo, un’altra iniziativa si è dimostrata di durevole impatto nei confronti del modo di erogare cure mediche: la creazione del Tribunale per i diritti del malato. Anche in questo caso un libro ha avuto la capacità di focalizzare l’attenzione sulla condizione concreta del malato. Pubblicato per la prima volta nel 1978, L’uomo negato di Giancarlo Quaranta analizza come le procedure terapeutiche alle quali viene sottoposto il malato si risolvono in un’opera di devastazione della sua identità: gli orari della vita in ospedale, l’uso del ‘tu’ al posto della forma di cortesia, le difficoltà nell’incontrare i familiari, nel poter mangiare cibo caldo, nell’accedere alla cartella clinica e quindi conoscere le proprie reali condizioni. In breve, tutto ciò a cui in una condizione abituale di degenza il personale sanitario non presta attenzione, nell’errata convinzione che «importante è guarire, tutto il resto non conta». Nel pamphlet le varie tappe del processo che porta a negare il malato in quanto cittadino vengono considerate analiticamente: l’ospedale è un carcere; ogni procedimento terapeutico contiene tratti di spersonalizzazione; il malato diviene una malattia, da soggetto diventa oggetto.
Il libro-denuncia di Quaranta non si limitava ad analizzare abusi che vengono quotidianamente esercitati sul malato, ma intendeva smontare il meccanismo che fabbrica l’‘uomo negato’. L’autore mutuava dal sociologo statunitense Talcott Parsons (1902-1979) gli strumenti per comprendere come il sistema sociale dominante instauri un controllo della malattia, prescrivendo al malato un ruolo che neutralizza le spinte verso la devianza. Un potere tra i più rilevanti nella nostra società consiste nell’attribuire o nel negare a un soggetto il ruolo di malato, con i comportamenti connessi a questo ruolo. L’analisi si traduceva in una tesi, annunciata a chiare lettere dalla copertina dell’edizione del 1980: «La malattia ripara dalle regole del gioco sociale: l’ospedale annulla l’uomo per affermare la sua subordinazione politica».
Gli spunti critici del pamphlet venivano assunti dal Movimento federativo democratico, con l’idea che, coniugando diversamente la politica con la sofferenza, si sarebbero potuti creare cambiamenti vistosi nella vita dei malati. L’intento era quello di dare centralità al ruolo di cittadini, quali garanti dell’attuazione di un diritto costituzionale, fortemente condiviso, ma di fatto negato nella vita concreta. Ai cittadini veniva attribuita una funzione di governo insostituibile all’interno del SSN, facendone i protagonisti della gestione della malattia e della guarigione, della vita in ospedale e dell’organizzazione dei servizi. Lo strumento di cui il movimento si dotò per realizzare questo spostamento del potere fu il Tribunale per i diritti del malato.
Lo scopo del Tribunale, le cui varie sezioni vennero costituite a partire dal 1980, non era quello di affermare diritti umani in senso astratto e generale, come quelli alla libertà e alla dignità, quanto piuttosto di effettuare concrete rivendicazioni relative alle condizioni di vita in ospedale. L’idea stessa di tribunale evocava un’esplicita conflittualità con chi, nell’uso del potere, era individuato come controparte. Era questa una richiesta palese contenuta in L’uomo negato di Quaranta: «Si apra con la classe medica e con i suoi collaboratori una vera e propria controversia di massa, diretta a far maturare, ma anche a imporre, un consenso, perché il quadro socioculturale della malattia venga radicalmente cambiato» (19802, p. 52). Il linguaggio adottato era quello della ‘lotta al sistema’, proprio di quella stagione storica, con il malato in funzione di soggetto da emancipare.
La prima sessione del Tribunale di Roma, tenutasi il 29 giugno 1980 in Campidoglio (con il titolo programmatico Da malato a cittadino: contro l’emarginazione, per la gestione popolare delle strutture sanitarie), culminava con la presentazione dei 33 diritti del cittadino. È interessante notare che nel lungo elenco di diritti rivendicati (diritto a essere assistiti da personale sanitario identificabile, munito di cartellino leggibile, a usufruire durante la degenza di lenzuola, cuscini, posate, di disporre di servizi igienici puliti, di vivere la giornata di degenza secondo gli orari medi della vita civile) un’attenzione relativamente modesta viene riservata alla partecipazione attiva del paziente alle decisioni cliniche (l’art. 28 parla di un diritto ad avere inserita nella cartella clinica «una scheda dove siano illustrate in termini chiari e comprensibili, e con testo obbligatoriamente dattiloscritto, la diagnosi e la terapia in corso, nonché le previsioni circa la durata del ricovero e le eventuali possibilità di guarigione»). Il confronto con gli altri movimenti che andavano prendendo consistenza in quegli stessi anni fa emergere il fatto che altrove veniva messa a fuoco la centralità dell’informazione per promuovere l’empowerment del cittadino malato. L’Associazione dei pazienti della Svizzera italiana, per es., presentava la propria attività non sotto l’immagine di un tribunale che tutela chi è costretto a subire maltrattamenti, ma come una struttura che può fornire consigli quando sorgono interrogativi, quali: «Ho diritto di vedere la mia cartella medica? A chi appartengono i risultati delle analisi e le radiografie? Quali informazioni devono essere date al paziente sul suo stato di salute e sulla cura che deve seguire? E ai suoi familiari? C’è libertà di scelta della terapia?».
L’iniziativa del Movimento federativo democratico, anche se non perfettamente sintonizzata sui temi che negli anni seguenti sarebbero diventati la struttura portante del movimento della bioetica, ha avuto grandi meriti per la promozione di una nuova cultura sanitaria. Le sezioni del Tribunale per i diritti del malato si sono diffuse in buona parte delle realtà locali; la Giornata nazionale dei diritti del malato e dei diritti sociali è diventata, a partire dal 1980, un appuntamento annuale; in alcune Regioni sono state promulgate specifiche normative rivolte a disciplinare le condizioni di utilizzo dei servizi sanitari e a tutelare i diritti dei cittadini malati (la Regione Toscana, per es., nel 1999 in tema di informazione sanitaria ha approvato un Decalogo dei diritti e dei doveri, quale strumento di sensibilizzazione e informazione per i cittadini). Più di recente il Tribunale ha lanciato in tutto il Paese una vasta campagna per promuovere tra i cittadini la cultura del consenso informato ai trattamenti sanitari.
Attraverso questa stagione politica e culturale ha avuto luogo nella medicina un processo di democratizzazione che ha ridistribuito il potere, facendovi partecipare il malato. Quale istituzione simbolica che visualizza il cambiamento, possiamo riferirci alla creazione dell’Ufficio relazioni con il pubblico (URP) all’interno di ospedali e servizi sanitari: nell’arco di tempo di pochi anni il malato da oggetto di trattamento benevolo è diventato soggetto di diritti rivendicabili; grazie all’URP può esprimere la sua valutazione circa le prestazioni ricevute, avanzare proteste, collaborare attivamente a migliorare i servizi.
Metamorfosi della responsabilità
Gli interrogativi relativi alla responsabilità del professionista sanitario oggi più frequenti hanno un carattere formalmente giuridico. Soprattutto nel contenzioso giudiziario attuale per malpractice (termine diffuso in ambito anglosassone per identificare in generale le inefficienze del personale sanitario), i medici si chiedono di che cosa devono rispondere e quali delle loro azioni (e omissioni) possono costituire causa di imputazione. Questa prospettiva è del tutto nuova rispetto al passato prossimo, caratterizzato dall’esercizio della medicina come professione (liberale); tale concetto, distinguendo la medicina dalle altre attività e professioni, conferisce a colui che la esercita una collocazione particolare nella società, attribuendogli dunque una responsabilità sui generis. A coloro che sono identificati come professionisti viene concessa infatti un’autorità speciale, cui consegue un’impunità per certi atti.
Le professioni liberali sono caratterizzate da conoscenze scientifiche e tecniche particolari, ma soprattutto dall’adesione a un ideale di servizio che giustifica la professione stessa. Questa opinione è uno dei tanti ‘miti’, una delle convinzioni mai verificate che accompagnano le professioni liberali: la scelta della professione come ‘vocazione’, l’altruismo e l’ideale di servizio alla società, la peculiarità della formazione ricevuta, l’impossibilità per il cliente di valutare la prestazione professionale, l’autoregolazione e il segreto professionale. Tutti questi elementi sono appunto ‘miti’, non in senso denigratorio ma descrittivo; conferiscono un profilo particolare alla professione liberale, in conseguenza del quale la professione gode di quella specie di extraterritorialità nella società stessa che si ritiene necessaria affinché la professione possa svolgere la propria funzione sociale. Quando si afferma che il professionista medico prende le sue decisioni in ‘scienza e coscienza’, siamo esattamente in questo ambito.
I due aspetti che caratterizzano l’etica professionale del sanitario – da una parte, un grande valore morale, la medicina praticata da professionisti animati da spirito filantropico, e dall’altra, come correlato, la loro collocazione al di sopra della responsabilità comune, quella riconducibile a norme e parametri validi per tutti – appaiono intimamente intrecciati. La portata del cambiamento in corso non si limita al superamento della medicina come professione liberale. A sua volta questa concezione affondava le radici in un modello più arcaico, dai contorni sacrali. La concezione della medicina occidentale risale propriamente all’epoca greca, ed è antecedente alla stessa formulazione ippocratica. La responsabilità di chi esercita la medicina e che si esprime nella professione liberale in realtà discende da un modello a valenza più religiosa che giuridica.
Vediamo dunque profilarsi due forme di responsabilità: una ‘forte’ e una ‘debole’ (D. Gracia Guillén, Fundamentos de bioética, 1989; trad. it. 1993, p. 64). Il professionista è responsabile della persona che gli si affida o che ha bisogno di lui, in modo molto più vincolante rispetto alla responsabilità che si contrae facendo, per es., un contratto di compravendita, soggetto a clausole di rescissione. Nella responsabilità forte delle professioni che mantengono l’aura sacrale di cui si sono fregiate – professioni regali, sacerdotali e mediche – questo concetto transgiuridico di responsabilità esercita tuttora la sua influenza.
Il passato e il presente sono in rotta di collisione. Infatti il modello forte di responsabilità – che considera il professionista sanitario responsabile per il malato indipendentemente da quello che la legge o altri vincoli contrattuali di natura giuridica possono obbligarlo a fare, responsabile per una forma di dedizione che eccede quanto può essere radicato nel contratto sociale; una dedizione che è la contropartita etica dei rapporti di natura paternalistica – non si può più coniugare con la cultura moderna.
Il conflitto che si delinea sta scuotendo equilibri secolari nell’ambito dell’etica che regola la medicina: i valori etici che sono stati veicolati dalla concezione sacrale e da quella libero-professionale devono confrontarsi oggi con una società in cui non vi è più, da una parte, una persona che in forza della sua dedizione è vincolata da obblighi quasi unilaterali, come l’impegno a orientarsi a fare il bene del malato anche contro il proprio interesse, e, dall’altra, non esiste più un malato, visto unicamente sotto l’aspetto del suo stato fragile e di bisogno. Il sanitario ha di fronte un altro individuo, con il quale entra in un rapporto di responsabilità condivisa, che assomiglia sempre di più alla responsabilità debole, cioè a quella giuridica.
Un documento ufficiale del Comitato nazionale per la bioetica – Informazione e consenso all’atto medico, del 1992 – descrive questa transizione con parole molto appropriate e pertinenti al tema della responsabilità: «Il consenso informato, che si traduce in una più ampia partecipazione del paziente alle decisioni che lo riguardano, è sempre più richiesto nelle nostre società. Si ritiene tramontata la stagione del paternalismo medico, in cui il sanitario si sentiva, in virtù del mandato a esplicare nell’esercizio della professione, legittimato a ignorare le scelte e le inclinazioni del paziente e a trasgredirle quando fossero in contrasto con le indicazioni cliniche in senso stretto». La transizione si gioca quindi tra il modello sacrale – rafforzato dalla concezione dell’etica medica liberale – e il modello moderno, dove al paziente spetta un ruolo attivo («partecipazione alle decisioni che lo riguardano», specifica il Comitato nazionale per la bioetica). Il consenso informato è il luogo critico dove si traduce questa nuova modalità di fare medicina pratica.
In che misura e attraverso quali modalità il modello moderno è entrato nella cultura sanitaria di oggi? Ci soccorrono alcuni studi empirici. Una documentazione convincente delle rapide trasformazioni in corso è fornita dal confronto tra due ricerche, condotte entrambe dal CENSIS (CENtro Studi Investimenti Sociali) a distanza di un decennio, nel 1989 e nel 1998, sui comportamenti e i valori dei pazienti italiani. Sul finire degli anni Ottanta si poteva distinguere un duplice atteggiamento degli intervistati nei confronti della salute: di fronte al nucleo hard, costituito dalla malattia grave e ad alto rischio di morte e di cronicità, permanevano gli atteggiamenti più tradizionali, ossia il corpo inteso come insieme di ‘pezzi di ricambio’, l’apparato sanitario come struttura a cui affidarsi per la riparazione dell’organismo-macchina, la prevalenza del paradigma malattia/medicina/servizi sanitari. Al di fuori di questo ambito, la domanda di salute acquisiva connotati più morbidi, con la richiesta di promozione del benessere psicofisico, comportamenti di autotutela, di sfida e contrattazione con il medico, di combinazione autonoma dell’offerta, di sperimentazione di nuovi percorsi.
La rivisitazione della domanda di salute che è andata prendendo forma negli anni Novanta ha evidenziato la crescita di atteggiamenti di noncompliance e sostanzialmente ambigui: i pazienti sono sempre più informati e tendono a negoziare spazi di autogestione per la propria salute (attraverso il self care e la ridefinizione della terapia farmacologica); tuttavia in presenza di malattie gravi si affidano in modo pressoché completo alla capacità curativa e riabilitativa dei ‘tecnici’. Di fronte al medico prevalgono atteggiamenti più pragmatici e disincantati, con un apprezzamento maggiore rivolto alla funzione riparativa. Sono istruttive a questo proposito le risposte degli intervistati sulle qualità che contraddistinguono un buon medico: mentre è molto apprezzata la capacità tecnico-professionale (58,4%), quella pedagogica, che si esprime nella capacità di spiegare al paziente la sua malattia, è la meno richiesta (12,9%).
Un ulteriore dato è offerto dal Monitor biomedico (CENSIS) del 2001-02, che riporta una ricerca relativa al rapporto tra pazienti italiani e medici di medicina generale. Per quanto riguarda le esigenze dei pazienti in tema di informazione sanitaria, emergono tre gruppi rappresentativi. La maggioranza del campione (62,7%) pretende che l’informazione sia approfondita e non superficiale o generica e la collega a un modello di relazione con il medico che si fondi sulla collaborazione, così da consentire al paziente di partecipare alle decisioni terapeutiche. Molto più ridotta (21,4%) è la quota di coloro che rivendicano il diritto alla decisione autonoma e che pretendono di ottenere a questo fine tutte le informazioni necessarie. Più bassa in assoluto (15,9%) è la percentuale di coloro che attribuiscono tutto sommato un ruolo marginale all’informazione e dicono di pretendere solo informazioni essenziali, in quanto le decisioni sulle scelte terapeutiche sono di competenza esclusiva del medico. Questi dati documentano la progressiva trasformazione della relazione medico-paziente verso il modello della ‘modernità’, che comporta il superamento della subalternità del paziente rispetto al medico. Parallelamente, anche la responsabilità si ridistribuisce: sempre più numerosi sono i cittadini che assumono un ruolo attivo verso la propria salute e vogliono partecipare alle scelte che li riguardano.
La trasformazione dei modelli organizzativi della sanità
Il contesto sociale generale e l’organizzazione dei servizi sanitari influenzano il rapporto medico-paziente in maniera di gran lunga superiore a quanto la retorica lascia credere. Un luogo comune, molto frequentato, ama celebrare la dedizione del medico al paziente e l’orientamento esclusivo ai bisogni di salute del malato come il parametro decisivo su cui si misura il rapporto, quasi che gli elementi di contorno fossero ininfluenti. Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca la rivendicazione di indipendenza dai condizionamenti dell’organizzazione sanitaria sollevata da alcuni medici contro le misure dei decreti legislativi 502/1992 e 517/1993 che riformavano il SSN chiedendo al medico di farsi parte in causa nel contenimento della spesa sanitaria. L’assunto implicito era che l’unico ‘padrone’ del medico è il paziente; chi esercita la medicina esclude programmaticamente dal proprio orizzonte ogni considerazione che non sia il bene del malato, al quale si sente obbligato in modo esclusivo.
Se questa impostazione di rapporti può ancora tenere all’interno della medicina come professione liberale, non è più valida quando ci collochiamo all’interno del Servizio sanitario nazionale. È quanto avvenuto in Italia nel 1978, con l’istituzione di un servizio a copertura universalistica. La conseguenza per i professionisti è stata quella di diventare dipendenti dell’organizzazione sanitaria pubblica. Parallelamente, i malati sono divenuti cittadini titolari di un diritto a ricevere dei servizi. Un ulteriore giro di vite si è verificato con la ‘riforma della riforma’ che, nei primi anni Novanta, ha istituito le aziende sanitarie. All’interno della pratica medica sono state introdotte logiche di tipo amministrativo e contabile del tutto inusuali in medicina. E il malato, da utente dei servizi, è divenuto un ‘cliente’ da soddisfare, secondo logiche di mercato. L’innovazione linguistica può essere riscontrata nei documenti ufficiali dell’organizzazione sanitaria. La Carta dei servizi pubblici sanitari (1995), il cui obiettivo è «la tutela dei diritti degli utenti», indica come fine della sanità pubblica «fornire un servizio di buona qualità ai cittadini utenti». I decreti di riordino del SSN hanno individuato indicatori di qualità valutata non solo dal punto di vista del professionista che eroga i servizi, ma anche da quello dell’utente che li riceve. È come dire che il modello tradizionale di rapporto, che vedeva nel malato solo un paziente bisognoso di cure – decise dal medico ‘in scienza e coscienza’ – cede il posto a una concezione che rivendica per il ‘cliente’ la possibilità di valutare se il servizio ricevuto risponde o no alle sue aspettative.
Non si tratta di una trasformazione esclusiva delle organizzazioni sanitarie a carattere pubblico. Descrivendo l’evoluzione che ha subito nel giro di pochi anni la sanità americana, Arnold S. Relman ha distinto tre epoche. Nella prima si è avuta, a partire dagli anni Quaranta del 20° sec., un’espansione sempre maggiore dei servizi sanitari; nella seconda – che per gli Stati Uniti corrisponde agli inizi degli anni Settanta, per l’Italia agli anni Novanta – la preoccupazione maggiore è stata quella di contenere i costi, introducendo sistemi diversi di remunerazione nelle prestazioni; la terza – che secondo Relman costituisce una vera e propria rivoluzione nel modo di pensare l’assistenza sanitaria – è iniziata verso la fine degli anni Ottanta. Relman la chiama epoca della valutazione (assessment) e dell’accountability (Assessment and accountability. The third revolution in medical care, «The New England journal of medicine», 1988, 319, 18, pp. 1220-22). La traduzione di questo secondo termine è molto ardua. Anzi, come affermava con ironia pungente Indro Montanelli, l’accountability è «parola chiave della democrazia anglosassone. In Italia non è stata ancora tradotta» («Corriere della sera», 12 apr. 1999).
Stando all’Enciclopedia della gestione di qualità in sanità (Morosini, Perraro 1999) – che riporta il giudizio di Montanelli – l’accountability indica il dovere di documentare, di rendicontare ciò che si è fatto a chi ci ha dato l’incarico e ci paga lo stipendio o ci ha messo a disposizione altre risorse (quindi, per i dirigenti pubblici, anche ai cittadini in quanto contribuenti). Non è quindi sovrapponibile alla responsabilità, che rimanda ai doveri verso i destinatari degli interventi. In altri termini, accountability fa riferimento a quella dimensione dell’etica pubblica che richiede il rispetto di regole e priorità implicitamente accettate con il contratto sociale. Il contrario dell’accountability è l’autoreferenzialità, ovvero il non dover rendere conto che a sé stessi, o al gruppo dei propri pari.
In medicina il principale ostacolo al prevalere dell’atteggiamento di accountability è il persistere del rimando alla ‘scienza e coscienza’, quali istanze supreme con le quali si deve misurare l’operato del medico. La coscienza è, per definizione, non verificabile dall’esterno (quando chiediamo a qualcuno di ‘mettersi una mano sulla coscienza’ ci rendiamo conto che stiamo facendo appello alla dimensione più segreta e irraggiungibile di un’altra persona). La scienza, poi, non è controllabile se non da chi abbia la stessa formazione del medico, quindi sfugge al ‘laico’. Soprattutto lo scenario del contenimento delle spese sanitarie, abbinato alla responsabilità che ha un servizio sanitario pubblico nell’uso delle risorse dei cittadini destinate alla salute, rende urgente la necessità che i comportamenti di tutti i professionisti che operano in medicina siano ispirati dall’accountability. Né la libertà prescrittiva del medico, né la subordinazione gerarchica dell’infermiere sono più una giustificazione accettabile per rifiutare di sottoporsi a un confronto pubblico sulle scelte fatte, le risorse utilizzate, i risultati di salute ottenuti.
Per valutare quanto è diversa l’orbita nella quale si trovano a gravitare attualmente i medici rispetto a quella del professionista che rivendica come unico vincolo delle sue scelte i bisogni del malato che cura, pensiamo ai controlli riservati alle prescrizioni farmaceutiche. Si stanno diffondendo, infatti, i casi di medici indagati dalle Procure regionali della Corte dei conti come iperprescrittori. La Guardia di finanza contesta lo scostamento dalla media di uscite dell’azienda sanitaria: i medici iperprescrittori (teoricamente anche gli ipoprescrittori, ma questa evenienza è più rara) sono chiamati a fornire deduzioni in merito alle ricette contestate. Se le prescrizioni non sono giustificate dalla patologia dei pazienti, i medici possono essere condannati a risarcire un danno erariale. L’accountability diventa così rendicontazione e il malato, da persona fragile da tutelare, diventa un problema contabile (tanto più rischioso da gestire quanto più la sua patologia è complessa e costosa).
Più sottile, ma non meno profonda, è la distorsione del rapporto medico-paziente quando l’organizzazione adotta un atteggiamento colpevolizzante nei confronti dei malati. Si registra a livello internazionale una marcata tendenza a rendere le persone responsabili del mantenimento dello stato di salute, e quindi colpevoli della sua perdita. La sanità pubblica, oltre alla cura delle malattie e alla riabilitazione, è intenzionata a promuovere la prevenzione, intervenendo sullo stile di vita dei cittadini. Si entra così inevitabilmente in contatto con le loro scelte.
Consideriamo una crescita culturale irreversibile avere superato il modello del paternalismo medico, secondo il quale erano i professionisti sanitari gli unici abilitati a definire i confini tra salute e patologia e a prescrivere i comportamenti appropriati per recuperare la salute. La pratica medica contemporanea deve confrontarsi con le preferenze personali e con l’autodeterminazione dei cittadini, mettendo in discussione l’autoreferenzialità di coloro che praticano la medicina («doctor knows best»). L’intervento negli stili di vita dei cittadini rischia, però, di legittimare nuove forme di paternalismo: attribuibili questa volta non alla corporazione medica, ma allo Stato. È la tesi sostenuta da Michael Fitzpatrick in un saggio molto polemico: The tyranny of health (2001).
Le preoccupazioni per la salute, supportate da campagne per la sanità pubblica – come la campagna Guadagnare salute, promossa dal Ministero nel 2007 per incoraggiare la popolazione ad adottare comportamenti sani e ad abbandonare abitudini scorrette – tendono a incoraggiare un senso di responsabilità individuale nei confronti della malattia. Ma per questa strada le politiche governative possono trasformarsi in un programma di controllo sociale, sotto la veste di promozione della salute. Il medico diventa così strumento di una blame organization, che tende a far sentire le persone colpevoli dei mali che le colpiscono. Approdiamo per questa via alla più aggiornata versione della colpevolizzazione del malato, non più affidata alla religione, ma alla visione etica della vita diffusa dalla medicina attraverso l’opera volenterosa dei divulgatori che operano attraverso i mezzi di comunicazione di massa. Questa blame culture promuove l’idea che la malattia colpisce chi non si impegna a conoscerla, ricorrendo alla sterminata offerta di screening, check-up e diagnosi precoci, o chi l’ha propiziata con il proprio stile di vita. Non si esita così a fare ricorso a programmi ‘educativi’ che riescono a far sentire in colpa o a disagio il soggetto che assume comportamenti giudicati non sani. Con più di un secolo di ritardo sembra essersi realizzata l’utopia negativa di un mondo capovolto immaginata da Samuel Butler nel celebre Erewhon (1872). In quella società alla rovescia, il malato era indotto a sentirsi colpevole per la sua malattia, e ciò appunto per «prevenire il diffondersi del decadimento e delle malattie», come spiega il giudice che nel capitolo 11° del romanzo condanna il malato per il «grave delitto di tubercolosi polmonare».
La convivenza tra mondi etici
I rapporti tra medici e pazienti diventano particolarmente problematici quando si trovano a confronto mondi etici nei quali determinati comportamenti hanno un diverso segno morale, che può arrivare fino alla più netta contrapposizione. Sono sotto gli occhi di tutti, per es., le divergenze rispetto alle scelte riproduttive: c’è chi aderisce a un’etica in cui anche la fecondazione naturale in certe condizioni – come l’assenza di matrimonio – è considerata moralmente illecita oppure ritiene che il preservativo sia contro la naturalità dell’atto sessuale; mentre nella nostra stessa società ci sono altri che ritengono pienamente giustificata la pillola del giorno dopo o anche l’interruzione della gravidanza. Per non dire della diversa valutazione morale dell’ampio arsenale di tecniche con le quali porre rimedio alla sterilità. Ugualmente ampio e variegato è il ventaglio delle posizioni morali relative a quanto sia giusto e opportuno fare nel momento in cui la vita declina verso la fine: sul crinale dell’eutanasia, alcuni propendono per un controllo attivo del processo di morte, mentre altri difendono la sacralità della vita e la ‘naturalità’ della morte.
I diversi orientamenti etici non emergono soltanto nelle situazioni estreme. Anche nell’orizzonte della quotidianità rispetto alle regole che soprintendono all’etica della vita ci scopriamo «stranieri morali». Questa espressione è stata proposta dal bioeticista statunitense H. Tristram Engelhardt Jr nella sua opera principale, The foundations of bioethics: «Molti pensano che l’incontro con stranieri morali sia un’evenienza piuttosto rara. Al riguardo vale la pena di sottolineare che l’estraneità morale non comporta necessariamente l’incomprensibilità reciproca, ma solo che l’altro sia visto come uno straniero in virtù della diversità delle sue posizioni morali e/o metafisiche. Possono essere stranieri morali anche due amici estremamente legati uno all’altro e perfino marito e moglie; questi anzi possono essere anche veri e propri nemici morali. Essere stranieri morali significa abitare in mondi morali diversi» (1986; trad. it. 19992, p. 113).
Una possibilità di questo genere non riguarda solo il fenomeno dell’immigrazione ed è molto più quotidiana di quanto si immagini. Possiamo illustrare quest’affermazione con un esempio: una ricerca condotta alcuni anni fa nel contesto di interventi formativi promossi dalla Regione Toscana per i medici e gli infermieri sui problemi della bioetica, in particolare sul cambiamento di rapporto tra sanitari e cittadini e sulle decisioni di fine vita. I comportamenti proposti oggi come normativi, quasi obbligatori dal punto di vista dell’etica dell’assistenza e della cura, suscitavano nei sanitari reazioni molto diverse. Per documentare la varietà degli atteggiamenti nei confronti dell’informazione da dare al paziente – uno dei punti nevralgici dell’etica medica – è stata impostata una ricerca, condotta da Deborah Gordon ed Eugenio Paci, circa la pratica di informare e non informare i malati di cancro (Parlare o tacere? Narrazioni culturali e cancro, «L’arco di Giano», 1997, 14, pp. 83-99). Nello spirito di una ricerca etnografica, che mira a comprendere i comportamenti e le motivazioni che li ispirano a partire dall’ottica dei protagonisti, escludendo ogni intento valutativo o normativo, lo studio mirava a esplorare le pratiche dominanti, i vissuti e i costrutti teorici che le giustificano diffusi tra i professionisti sanitari circa la comunicazione: a) con i pazienti in generale; b) con i pazienti affetti da cancro o da altre malattie potenzialmente fatali; c) con le persone in contesti non sanitari.
Le domande rivolte con questionario rispecchiavano l’ipotesi che le pratiche comunicative riferite al cancro non sono comportamenti isolati, ma rappresentano un approccio tipico a problemi di natura analoga. Le pratiche mediche e i vissuti relativi alla malattia e alla cura del paziente (chi prende le decisioni, chi detiene le informazioni, gli assunti relativi a che cosa serve per stare meglio, dove attingere la speranza, il significato da attribuire al cancro, in che cosa consiste una ‘buona morte’) si coagulano in modo coerente intorno a due modelli che portano l’uno a rivelare al malato il male da cui è affetto, l’altro a nasconderglielo. Le modalità di comunicazione relative al cancro sono costitutive di vissuti e pratiche di portata più ampia.
Gordon e Paci non si sono limitati a contare quanti tra gli operatori sanitari sono per il ‘dire’ e quanti per il ‘tacere’, ma hanno studiato anche come questi orientamenti sono collegati, in profondità, con le convinzioni che riguardano la vita, la morte e la sofferenza; con il modo di gestire le ‘cattive notizie’ anche in contesti diversi da quello della salute; con i modelli fondamentali di educazione (orientata a promuovere l’autonomia personale oppure a consolidare la dipendenza dai genitori e dalla famiglia); con le modalità che vengono utilizzate preferenzialmente per aiutare qualcuno in difficoltà. A questi modelli globali Gordon e Paci hanno dato il nome di narrazione culturale. La narrazione culturale dà ragione di ciò che si intende produrre con le proprie azioni (e omissioni). Schematicamente, la narrazione culturale di ‘protezione sociale’ organizza i comportamenti con l’intento di proteggere il paziente, mentre la narrazione che possiamo chiamare di ‘autonomia-controllo’ si prefigge di favorire il controllo della situazione da parte dell’individuo.
La narrazione della protezione sociale potrebbe cominciare così: «In principio c’erano Dio e la famiglia, che hanno creato i bambini e proteggono i deboli nei momenti di difficoltà». La vita e le persone sono fondamentalmente fragili e bisognose di protezione. La sofferenza non può essere eliminata, ma può e deve essere ridotta al minimo, in parte attraverso la protezione del gruppo sociale: qualsiasi mezzo utilizzato dal gruppo a questo fine è buono, anche inventare storie e mentire. Ai duri colpi della vita si fa fronte mantenendo la continuità della vita quotidiana. La maturità non è un processo lineare: si rimane bambini per tutta la vita di fronte a Dio, ai genitori, alle persone più anziane. Questo comporta che in caso di malattie ci saranno altri che assumeranno in toto la responsabilità delle cure. Il primo dovere è proteggere gli altri dalla sofferenza, non dare ‘dispiaceri’. Lo stile comunicativo predilige il silenzio, l’ambiguità dei messaggi, la comunicazione indiretta. Il campo sociale è immaginato come un’efficace difesa di fronte a verità che farebbero soffrire (come, appunto, una diagnosi di cancro). Per questo la narrazione della protezione sociale tende a una pratica comunicativa in cui chi detiene le informazioni sulla malattia – il medico e la famiglia – non le trasmette al malato.
La narrazione sottostante alla pratica della comunicazione aperta della diagnosi – che in ambito medico si traduce soprattutto nella promozione del consenso informato – potrebbe iniziare il suo racconto della creazione con: «In principio c’era l’individuo». Nella narrazione culturale di autonomia-controllo, infatti, l’individuo è sovrano: sulla sua vita, sul suo corpo, sulla propria identità personale. Solo la persona coinvolta sa che cosa è meglio per sé stessa ed è davvero capace di prendere le decisioni che la riguardano. L’autonomia e l’autodeterminazione sono valori primari e rappresentano diritti fondamentali di ogni essere umano. L’informazione è essenziale per poter scegliere. Per questo è necessaria una comunicazione chiara ed esplicita. Vista dalla prospettiva della narrazione dell’autonomia e del controllo, la non rivelazione della diagnosi appare come una grossolana negazione dei diritti umani e impedisce il controllo della propria vita, del corpo, della mente. Il medico e la famiglia che sottraggono l’informazione appaiono in questo modello oppressivi e paternalistici.
L’apporto della ricerca è quello di dare uno sfondo antropologico-culturale ai problemi del consenso informato, che evidenzia la frattura tra i diversi modi di praticare la medicina e le giustificazioni teoriche che vengono offerte dei comportamenti. Ecco la conclusione a cui sono giunti i due studiosi: «In Italia diventa sempre più chiaro che le pratiche tradizionali devono attraversare un processo di cambiamento. Si osserva un’insoddisfazione diffusa nei confronti della comunicazione che si instaura nelle situazioni, ancora relativamente frequenti, in cui non si rivela la diagnosi: diversi pazienti hanno l’impressione che la mancanza di informazione significa ‘non riconoscerli come persone’; che fornire loro una diagnosi diversa da quella reale significa ‘mentire’ o organizzare una ‘congiura del silenzio’; la protezione è vissuta come oppressione, potere, atteggiamento difensivo (‘risparmiare l’altro’ vuol dire solo risparmiare sé stesso). Molte famiglie continuano a non rivelare la diagnosi al paziente, ma psicologicamente si sentono isolate e senza sostegno; molti medici non se la sentono di continuare a vivere con la menzogna, ma sono costretti a continuare a comportarsi in questo modo sotto la spinta delle famiglie e della propria incertezza. Anche delle tensioni che si registrano sono da imputare alla presenza contemporanea all’interno del sistema di queste due diverse versioni di narrazioni e pratiche divergenti relativamente alla rivelazione della diagnosi» (p. 97).
Non si tratta di contrapporre semplicisticamente una cultura ‘americana’, basata sull’individuo, l’autonomia, l’informazione, a una cultura europea o ancor più italiana, centrata sulla protezione che il gruppo sociale – in particolar modo la famiglia – offre al singolo. I mondi culturali ‘locali’ sono trasversali a queste distinzioni macroscopiche. Le diverse posizioni riguardo all’informazione dipendono dal mondo esistenziale in cui le persone vivono, anche in aree culturalmente omogenee (come la Toscana, in cui è stata condotta la ricerca).
Da queste due narrazioni culturali discendono anche due modi compattamente coerenti di qualificare in senso positivo o negativo i comportamenti in sanità: non solo in merito al tacere o al comunicare le informazioni, ma più in generale riguardo alle scelte dei trattamenti. La decisione relativa a ciò che si deve o non si deve fare con una persona colpita da una malattia potenzialmente mortale o da una malattia a prognosi infausta si può applicare anche a tante altre situazioni. L’idea ingenua che ama rappresentare la società in cui viviamo come un mondo morale omogeneo, dove tutti condividono la stessa etica o fanno parte del mondo morale – almeno finché non giungono, con l’immigrazione, gli estranei culturali e morali dall’esterno – viene smentita dai fatti. È difficile negare la parte di ragione che ha Engelhardt quando afferma che siamo stranieri morali gli uni di fronte agli altri. Stranieri morali si può anche essere all’interno della stessa famiglia: lo verifichiamo quando due fratelli, o genitori e figli, di fronte a scelte relative alla morte e alla vita sono profondamente divisi in ciò che ritengono buono o cattivo, appropriato o non, e prendono decisioni molto diverse.
I progressi nell’ambito della medicina ci hanno fatto scoprire situazioni di conflitto che non si verificano soltanto nelle situazioni estreme, ma sono frequenti nella vita di tutti i giorni: apparteniamo per scelta a mondi morali diversi, che sono trasversali rispetto alle grandi divisioni che passano per la religione o per le ideologie. Le diversità si iscrivono dentro la nostra cultura, che valorizza i diritti della persona e l’autonomia dell’individuo nelle scelte che lo riguardano.
Che cosa fare di fronte alla pluralità dei mondi etici? Le alternative sviluppate in tempi e in culture diverse vanno dalla repressione alla tolleranza, senza trascurare la regolamentazione delle differenze attraverso gli strumenti delle leggi e dei codici deontologici. Nella nostra cultura è diventata prioritaria la scelta di ‘gestire’ le differenze morali attraverso la bioetica. Nell’ambito dei comportamenti che hanno a che fare con le decisioni di procreazione, di cure sanitarie e di morte, la bioetica è nata proprio con la finalità di mettere un certo ordine e, soprattutto, di creare una specie di lingua franca, per poter parlare tra ‘stranieri morali’. La lingua creata dalla bioetica è stata quella dei principi, giudizi generali che servono di base a prescrizioni etiche particolari e forniscono il metro per valutare le azioni umane. La bioetica, soprattutto americana, ha divulgato il sistema dei quattro principi, sui quali conveniamo e che ci possono aiutare a regolare i comportamenti. Analiticamente, i principi fondamentali della bioetica sono: la non maleficità (cioè non arrecare danno alle persone); la beneficità (cioè assicurare il benessere, la guarigione, il maggior beneficio possibile alle persone); l’autonomia (che richiede di trattare gli individui come agenti morali autonomi e di proteggere le persone la cui autonomia è diminuita); la giustizia (tutte le persone hanno diritto a uguale considerazione e rispetto, ovvero evitare le discriminazioni in base a sesso, salute, razza, cultura).
Se questa è la grammatica fondamentale della possibilità di capirsi, le cose non sono così semplici, in quanto le differenze morali si manifestano anche nel privilegiare un principio rispetto a un altro. Nella risoluzione di conflitti bioetici si rivela molto proficuo introdurre un ordine gerarchico tra questi principi, distinguendo tra il ‘minimo morale’ e il ‘massimo morale’. I principi di non maleficità e di giustizia sono il minimo morale sui quali è anche relativamente più facile convenire: non dobbiamo procurare un danno alle persone e non dobbiamo discriminarle, in quanto sono tutte egualmente meritevoli di considerazione e rispetto. Su questi principi esiste un consenso abbastanza ampio, in quanto sono condivisibili da persone appartenenti a mondi morali diversi, mentre i mondi morali si diversificano molto di più quando andiamo verso il massimo morale, tutelato dai principi di beneficità e di autonomia.
Per sapere qual è il bene della persona, dobbiamo coinvolgerla attivamente nel processo decisionale, riconoscerle il diritto e assicurarle la possibilità di decidere nelle questioni che la riguardano. Nel mondo della pratica medica incontriamo ancora oggi molte persone che di fronte alla malattia preferiscono l’ignoranza, di fronte alla possibilità di scelta preferiscono la delega. Poiché è ugualmente inappropriato decidere unilateralmente che al malato vada detto tutto, così come decidere, sempre unilateralmente, che è meglio che il malato non sappia niente, il massimo morale, al quale bisogna aspirare, richiede che venga rispettato l’ordine dei valori della persona. Per questo motivo è necessario ascoltarla e interpellarla.
Bibliografia
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