CIBO, Camillo
Secondogenito di Carlo II Cibo Malaspina. duca di Massa, e di Teresa Pamphili, pronipote di Innocenzo X, nacque a Massa il 25 apr. 1681. Avendo dimostrato inclinazione per la vita ecclesiastica - come egli stesso narrerà più tardi - sin dalla prima fanciullezza, all'età di dodici anni fu inviato a Roma presso il prozio Odoardo Cibo, allora segretario della Congregazione di Propaganda Fide, per compiere gli studi e he la sua malferma salute non gli aveva ancora consentito di intraprendere. Tre anni dopo il suo arrivo a Roma, si trasferiva in casa di un altro prozio, fratello di Odoardo, il cardinale Alderano Cibo, proseguendo i suoi studi nel Collegio Romano. Terminati i corsi di umanità e filosofia nel 1700, iniziava quelli di teologia sotto la guida del domenicano Gregorio Selleri, futuro cardinale. Tale fu il profitto del C. negli studi, che appena un anno più tardi era già in grado di laurearsi in teologia: in una pubblica disputa svoltasi, nell'ottobre 1701, alla presenza di Clemente XI, difese circa trecento proposizioni tratte dall'opera di s. Tommaso. Questo exploit destò l'ammirazione dello stesso pontefice, che espresse il suo compiacimento e le sue lodi in un breve indirizzato il 22 ottobre al duca Carlo II. Il 12 sett. 1702 il C. si addottorava anche in utroque iure. Negli anni successivi, entrò a far parte dell'Arcadia, con il nome di Rosvildo Leucianitide, e dell'Accademia degli Infecondi, scrisse discorsi sacri e profani, sonetti, madrigali, epigrammi latini, libretti per oratori musicali, opere che, sebbene, non denotino una grande originalità, rivelano però una indubbia padronanza stilistica e una innegabile vivacità d'ingegno.
L'esordio del C. nella Curia romana avvenne con. la sua nomina a referendario utriusque Signaturae, in data imprecisata, ma certamente anteriore al 1705, perché con tale titolo figura nel breve dell'8 dicembre di quell'anno, con il quale Clemente XI gli conferiva il presidentato della Camera. Sembrava così prendere l'avvio una carriera che le doti personali del giovane ecclesiastico - aveva preso gli ordini in quello stesso anno il 5 luglio 1705 - e le cospicue aderenze della famiglia facevano prevedere rapida e brillante. In realtà, la carriera del C. non fu né così rapida, né così brillante come sembrava dovesse essere e come forse egli stesso aveva sperato che fosse. A rallentarla contribuì indubbiamente il fatto che, con la scomparsa del cardinale Alderano nel 1700, egli aveva prematuramente perso il suo appoggio più sicuro; ma, in misura certamente maggiore, contribuì il suo carattere introverso, la sua eccessiva sensibilità, il suo amor proprio che gli impedì sempre di accettare cariche e dignità che riteneva di non essersi guadagnato. Conscio delle proprie capacità, desideroso, anzi. di primeggiare, il C. era però intimamente convinto che solo i meriti personali, acquisiti attraverso lo zelo e l'applicazione, dovessero determinare promozioni. Così quando nel 1708 il cardinale Vincenzo Grimani gli manifestò l'intenzione di proporlo per la porpora cardinalizia a nome dell'imperatore Leopoldo I, egli decliziò recisamente l'offerta, perché era convinto che fosse doveroso, per un ministro della S. Sede, non contrarre obblighi verso i sovrani, ma anche e soprattutto perché giudicava di non aver fatto nulla che giustificasse la sua promozione.
Questo rigorismo morale, che, in qualche modo., si riflette anche nel puntiglio con il quale il C. rivendicò in ogni occasione ciò che riteneva gli fosse dovuto, era destinato a rendergli difflcili i rapporti con la corte pontificia e creargli, a lungo andare, la fama di uomo strambo ed intrattabile. Ciò spiega il progressivo isolamento nel quale venne a trovarsi, specialmente dopo la promozione al cardinalato, e spiega altresì quel senso di profondo scoramento, quella convinzione di aver dovuto patire le ingiustizie degli uomini e della sorte, che amareggiarono i suoi ultimi anni. Impressionante documento, di questo stato d'animo è l'autobiografia in dieci volumi che il C. cominciò a scrivere nel 1731. In essa narra, con minuzia di particolari e con l'ausilio di documenti tratti dal suo archivio privato le vicende della sua vita, nel dichiarato intento di giustificare dinanzi ai posteri le proprie azioni, dimostrando la falsità delle accuse rivoltegli dai suoi detrattori e mettendo in evidenza come, in ogni epoca della sua esistenza, egli avesse dovuto lottare contro l'ostilità o l'incomprensione della maggior parte delle persone che lo circondavano. Va rilevato, peraltro, che, sebbene ecclesiastico dalla vita irreprensibile e scrupoloso osservatore dei propri doveri religiosi, non sembra che egli trovasse, nell'ultima parte della sua esistenza, conforto e serenità in una spiritualità intimamente vissuta.
Un anno prima del suo rifiuto della porpora, il C. era stato promosso chierico della Camera apostolica (6 ag. 1707). Con tale ufficio, gli era stata conferita anche una delle cariche che venivano sorteggiate tra i membri di quel tribunale: la prefettura degli archivi notarili. Nel disimpegfio di queste due incombenze, il C. diede prova di quell'efficienza e di quel dinamismo caratteristici della sua personalità e dei suo modo di concepire la carriera curiale. In particolare, come prefetto degli archivi, elaborò un vasto piano di riorganizzazione, che non è giunto sino a noi, ma del quale rimane traccia nel questionario che fece inviare agli archivi dello Stato pontificio e ad alcuni dei maggiori archivi d'Italia e d'Europa, al fine di raccogliere le informazioni che avrebbero dovuto servirgli per l'attuazione della progettata riforma. Nel 1708, fu eletto giudice della gabella dei cavalli, magistratura il cui diritto di nomina spettava, in forza di un privilegio di Pio V, al Collegio degli scrittori apostolici, a beneficio del quale andavano i proventi della tassa. Tale carica fu dal C. esercitata per dodici anni, con la consueta diligenza: lavorò, in particolare, al riordino dell'amministrazione, aumentandone così le entrate. Il 5 agosto di quello stesso anno veniva inoltre nominato consultore della Congregazione dell'Indice, il cui segretario era in quel momento il suo antico maestro Selleri.
Nel 1710 moriva il duca Carlo, al quale succedeva il figlio primogenito Alberico III. Con la scomparsa del padre, iniziava per il C. un periodo di ristrettezze economiche: il suo appannaggio familiare, già ridotto da 2.000 a 1.5000 scudi annui, non gli fu più pagato dal fratello, il quale sosteneva che la precaria situazione finanziaria del casato non lo consentiva. Il C. ricorse allora sia a Vienna - il ducato era feudo imperiale -, sia alla S. Sede, per ottenere giustizia, ma senza alcun apprezzabile risultato. Clemente XI, che aveva rimesso la questione ad una apposita commissione cardinalizia, volle venire incontro al giovane prelato offrendogli la nomina a vescovo di Spoleto, proposta che questi però rifiutò in quanto si trattava di una sede disagiata e dotata di scarse rendite, Negli anni successivi si doveva riparlare di lui come possibile arcivescovo di Fermo prima, e di Urbino poi, senza però che nessuna delle due nomine si concretasse.
Tali erano le difficoltà in cui egli si dibatteva nel 1715, che fu sul punto di abbandonare la prelatura; ma proprio quando si accingeva a compiere simile passo, sopraggiungeva, il 20 novembre di quell'anno, la morte del fratello Alberico. Questo improvviso mutamento della situazione offriva all'ormai trentaquattrenne chierico della Camera la possibilità di risolvere i suoi problemi economici senza dover rinunciare alla carriera intrapresa: il 2 dic. 1715 firmava perciò con il fratello minore Alderano una convenzione in base alla quale gli cedeva i suoi diritti sul ducato, ritenendo però per sé tutti i beni, tanto allodiali, quanto feudali, situati nello Stato pontificio e nel Regno di Napoli, in particolare i ducati di Ferentillo e di Aiello e la signoria di Paduli.
Grazie alle migliorate condizioni finanziarie poté, negli anni successivi, fare eseguire lavori di abbellimento nel suo palazzo alle Quattro Fontane ed acquistare a Castel Gandolfo, intorno al 1717, un terreno ed un edificio, che trasformò in villa e che diverrà il suo ritiro preferito. La rinuncia alla successione non gli impedì comunque di continuare a seguire da vicino le vicende del ducato: negli anni successivi doveva intervenire ripetutamente per trattenere il fratello dal vendere lo Stato al duca di Modena, prima, alla Repubblica di Genova ed alla Spagna, poi.
Il 27 apr. 1717 veniva nominato presidente della Grascia. Ma le fatiche che comportava l'ufficio, in particolare la necessità di effettuare frequenti spostamenti fuori Roma per le questioni relative alla circolazione delle derrate alimentari ed alla loro esportazione, indussero presto il C., che fu sempre di salute cagionevole, a chiedere di essere sollevato dall'incarico. Clemente XI accettò le sue dimissioni e, il 29 genn. 1718, lo nominò uditore generale della Camera apostolica, conferendogli insieme la dignità di patriarca di Costantinopoli. La sua consacrazione episcopale avvenne il 24 febbraio successivo, nella cappella Cibo di S. Maria dei Popolo, per mano del cardinale segretario di Stato, Fabrizio Paolucci.
Nella sua veste di uditore generale il C. ebbe, nella primavera del 1720, l'incarico di istruire il processo che, per ordine di Clemente XI, era stato aperto contro il cardinale Giulio Alberoni e le cui nsultanze dovevano essere sottoposte al giudizio di un'apposita commissione cardinalizia. Egli si mise subito al lavoro, raccogliendo deposizioni e documenti ed esaminando le imputazioni dei precedenti processi formati a Madrid, dall'arcivescovo di Toledo, Diego de Astorga, e a Piacenza, dal vescovo Giorgio Barni. Il C. non doveva però portare a termine l'incarico, perché nel novembre 1721 rassegnò le dimissioni da uditore generale. I tentativi che, spinto dal consueto spirito d'iniziativa, aveva fatto per cercare di migliorare il funzionamento del suo tribunale e per rendere più rapida l'amministrazione della giustizia, avevano incontrato l'opposizione del. personale dipendente, ed in particolare del suo luogotenente Cesare Fiorelli. Ritenendo di non essere stato adeguatamente sostenuto nella sua azione da Innocenzo XIII, eletto pochi mesi prima, il C. aveva preferito rinunciare all'ufficio. Dopo queste nuove dimissioni rimase senza alcun incarico, talché, nel 1723, prendeva la decisione di abbandonare Roma e di ritirarsi a San Luco, presso Spoleto.
Vi si trovava ancora nel 1725 allorché Benedetto XIII, che era succeduto a Innocenzo XIII l'anno precedente, lo richiamava a Roma per conferirgli, il 16 luglio di quell'anno, la carica di maggiordomo pontificio.
Si trattava di un posto prestigioso ed ambito, perché, essendo il maggiordomato la più alta carica della corte papale, esso tradizionalmente dava adito alla porpora. Quali motivi avessero indotto il pontefice, nonostante la presenza di altri candidati, a nominare il C., non è chiaro: sembra, però, che più che le note capacità dell'antico uditore generale, avesse avuto peso decisivo nella scelta di Benedetto XIII il desiderio di effettuare una designazione che, cadendo su di un soggetto estraneo alle fazioni che dividevano la corte, non avrebbe scontentato nessuno. Comunque sia, il C. affrontò le sue nuove responsabilità con l'impegno di sempre: in particolare, si adoperò per rafforzare i poteri ed i privilegi connessi alla carica, ottenendo dal papa la restituzione del governo di Castel Gandolfo, che era stato tolto ai suoi predecessori, e la conferma della giurisdizione, sia civile, sia criminale, esercitata dal maggiordomo su tutti i membri della famiglia pontificia.
Il suo attivismo doveva però fatalmente condurlo a scontrarsi con l'onnipotente cardinale Nicolò Coscia, soprattutto quando il C., cui per ufficio competeva l'amministrazione delle rendite del Palazzo apostolico, allora a circa 90.000 scudi annui, volle introdurre una più rigorosa gestione finanziaria, limitando le uscite. Questa iniziativa irritò il Coscia, il quale, grazie all'ascendente che esercitava sul papa, aveva ottenuto di potere caricare una, parte delle proprie, spese sul bilancio del Palazzo: per due volte il C. tentò di varare il suo piano di risanamento e, per due volte, il Coscia ottenne da Benedetto XIII un chirografo che autorizzava la prosecuzione delle sue spese. Non contento di ciò, il cardinale cercò di costringere il C. a dimettersi; non essendovi. riuscito, finì col caldeggiarne la nomina a cardinale, che Benedetto XIII effettivamente concesse il 23 marzo 1729. Il C. fu così costretto ad accettare una promozione che non desiderava, dal momento che la sua situazione finanziaria, resa precaria dalle spese fatte per il palazzo di città e la villa di Castel Gandolfo, non gli avrebbe consentito di mantenersi nella nuova dignità con il decoro che essa imponeva. Tanto più che, conoscendo le ragioni per cui gli era stata conferita, aveva fondati motivi per ritenere che il papa non si sarebbe preoccupato di assicurargli delle entrate adeguate con l'assegnazione di rendite ecclesiastiche.
Effettivamente Benedetto XIII morì un anno più tardi, senza aver fatto nulla in favore del C., se si prescinde dalla sua nomina a membro di ben sette congregazioni (Concilio, Vescovi, Consulta, Buon Governo, Propaganda Fide, Indice, Indulgenze) e di una congregazione particolare "sopra materie gravissime": incarichi, questi, che non risolvevano, ma, semmai, contribuivano ad aggravare, le sue difficoltà finanziarie.
Nel conclave che si riunì il 15 marzo 1730 e che doveva durare sino al 12 luglio successivo, il C. non svolse una parte di rilievo: né, d'altronde, poteva essere diversamente, dato il poco tempo intercorso dalla sua nomina cardinalizia e data la sua ferma determinazione di non legarsi ad alcun partito, ma di agire unicamente secondo i dettami della propria coscienza; a ciò si aggiunga il fatto che, caduto ammalato alla fine della primavera, fu costretto ad abbandonare il conclave tra il 4 giugno e l'11 luglio, vale a dire nella sua fase decisiva. Nel ruolo marginale cui si trovò costretto, il C. si era però segnalato come uno dei più decisi sostenitori del cardinale Lorenzo Corsini - che dal conclave doveva uscire papa con il nome di Clemente XII - sin dalla prima volta in cui, verso la metà di maggio, era stata tentata senza successo la sua candidatura.
Il nuovo papa, che era a conoscenza dell'appoggio datogli dal C., volle, pochi mesi dopo la sua elezione, dimostrargli la propria riconoscenza, concedendogli il gran priorato di Roma dell'Ordine di Malta. Sebbene si trattasse di una dignità che egli stesso aveva desiderato, il C. esitò ad accettarla perché, nel conferirgliela, il papa l'aveva gravata di una pensione di 2.000 scudi, che praticamente ne dimezzava le rendite. Per deferenza verso il pontefice, finì però con l'accettarla, di modo che alla fine del febbraio 173 1 la bolla di nomma veniva spedita. Ma dopo pochi mesi, resosi conto che lo stato di abbandono nel quale erano stati lasciati dal precedente titolare i beni del gran priorato assottigliavano ancor più del previsto le entrate, decise di rinunciare alla carica. Questo gesto inatteso fece scalpore, suscitando commenti e critiche che circolarono a Roma anche per mezzo di libelli a stampa. Amareggiato dalle dicerie, ed in particolare dall'accusa di sperpero, da lui ritenuta infandata, angustiato dai problemi finanziari - il tenore di vita che gli imponeva la porpora, lo costringeva ad indebitarsi ogni anno per più di 3.000 scudi -, il C. si appartò completamente dalla vita pubblica: cessò di assistere alle congregazioni ed alle cerimonie pontificie, si dimise progressivamente dalle cariche più o meno onorifiche di cardinale protettore del Collegio Clementino, della Confraternita di S. Eligio dei Ferrari e della chiesa e seminario di S. Agnese in Agone, e si ritirò presso Gaeta. Negli anni successivi tornò a Roma, ma senza riprendere le precedenti attività, e alternando i soggiorni invernali in città con quelli estivi a Castel Gandolfo. La nomina, nel 1733, a membro di una congregazione particolare incaricata di studiare misure atte a reprimere la diffusione degli omicidi ello Stato pontificio non lo indusse a mutare atteggiamento: declinò l'invito a partecipare alle riunioni e si limitò a mandare una relazione scritta, nella qualeadditava come causa principale del propagarsi della delinquenza le disfunzioni della giustizia, in particolare la sovrapposizione della giurisdizione dei diversi tribunali e la facilità con la quale veniva accordato il condono della pena ai rei.
Nel periodo del suo lungo ritiro il C. riprese l'attività letteraria e gli studi che, peraltro, non aveva mai completamente abbandonato: già durante il pontificato di Clemente XI aveva composto un Trattato della regalia e delle quattro proposizioni pubblicate dall'Assemblea del clero di Francia nell'anno 1682, che rimase inedito ed è oggi andato perduto. All'ultima parte della sua vita appartengono ancora, oltre alla già ricordata autobiografia, opere di devozione, quali le nove Aspirazioni ai SS. Angeli Custodi e le trentasei Lezioni da recitarsi prima della comunione, nonché il testo in versi di un oratorio musicale sull'Assunzione.Dal suo volontario isolamento il C. usci soltanto alla morte di Clemente XII, per partecipare al conclave che si riunì il 19 febbr. 1740 e si prolungò per quasi sei mesi. La mancanza di seguito non gli consentì di influire in modo decisivo sull'andamento dell'elezione: usò però della sua influenza sul cardinale Annibale Albani per indurlo a, sostenere con la sua fazione la candidatura del cardinale Prospero Lambertini, il quale venne eletto il 17 agosto e prese il nome di Benedetto XIV.
L'appoggio dato al Lambertini non procurò al C. alcun vantaggio, come egli stesso aveva inizialmente creduto. Continuò di conseguenza la vita di prima, fino alla morte, che lo colse a Roma, nel suo palazzo alle Quattro Fontane, il 12 genn. 1743. Fu sepolto nella sua chiesa titolare di S. Maria degli Angeli, nella cappella che si era fatto preparare negli anni precedenti.
Fonti e Bibl.: Benché diviso fra tre istituzioni diverse (Archivio di Stato di Roma, Archivio Segreto Vaticano e Bibl. nazionale di Roma) l'archivio del C. si è conservato pressoché integralmente. Oltre alla sua importanza per la biografia del cardinale, esso rappresenta una fonte preziosa per la storia della corte pontificia e della Curia romana nella prima metà dei Settecento, perché in esso il C. raccolse ed ordinò non soltanto le carte personali, ma anche documenti ed informazioni sulle numerose cariche da lui ricoperte. Archivio di Stato di Roma, Famiglia, Cybo, bb. 1-51; regg. 52-59; Miscell. Congr. Enti religiosi, Carte Cybo, bb. 1-2; Arch. Segr. Vat., Fondo Cybo, bb. 1-26; Instr. Misc. 7033; Misc., Arm. X, t. 202; Roma, Biblioteca nazionale, mss. Gesuitici 85-104 (in part. 1 mss. 95-104: Vita del card. D. Camillo Cybo... ); Bibl. Ap. Vaticana, Borg. lat. 234, f. 100rv; 237. p. 40; 241, pp. 120-121; 244, ff. 122v-123r; 482, f. 398r; Capp. Lat. 163, ff. 78r-103v; Ferraioli, 140, passim; Vat. lat. 12519, passim; 13492, ff. 2r-50v; Lettera scritta ad un amico, nella quale si dimostrano calunniose alcune proposizioni divulgate in Roma contro la persona del cardinal Cybo, s.n.t. [ma Roma 1731]; J. C. Lünig, Codex Italiae diplomaticus..., II, Francofurtii-Lipsiae 1726, coll. 419-428; B. Storace, Emo. et Rmo. Principi S. R. E. card. amplissimo Camillo de Cybo ... panegyricus..., Romae 1731; A. Borgia, Benedicti XIII Romani Pontificis... vita commentario excerpta, Romae 1741, pp. 105 s., 113; M. Guarnacci, Vitae et res gestae pontificum Romanorum et S. R. E. cardinalium a Clemente X usque ad Clementem XII, II, Romae 1751, coll. 547-550; F. M. Renazzi, Notizie stor. degli antichi vicedomini del Patriarchio Lateranense..., Roma 1784, pp. 30 n., 151-155; G. Viani, Mem. della famiglia Cybo..., Pisa 1808, pp. 55, 58, 146 ss.; L. Cardella, Mem. stor. de' cardinali della S. Romana Chiesa, VIII, Roma 1794, pp. 239 s.; F. Petruccelli della Gattina, Histoire diplom. des conclaves, IV, Bruxelles 1866, pp. 83, 129, 131; V. Forcella, Iscriz. delle chiese e d'altri edifici di Roma..., IV, Roma 1874, p. 182; VIII, ibid. 1876, pp. 229, 231; IX, ibid. 1877, pp. 165, 255; F. Cristofori, Cronotassi dei cardinali di S. Romana Chiesa..., Roma 1888, pp. 120, 190, 198; A. Zanelli, Il conclave per l'elez. di Clemente XII, in Arch. della R. Soc. romana di storia patria, XIII (1890), pp. 17 n. 2, 25 n. 1, 64, 71, 99; A. Arata, Il Processo del card. Alberoni, Piacenza 1923, ad Indicem; Id., Un ignoto manoscritto sul processo del card. G. Alberoni, in Boll. stor. piacentino, XXIII (1928), pp. 10-18, 66-72 passim; P. Castagnoli, Il cardinale G. Alberoni, II, Piacenza-Roma 1931, ad Indicem; L. Sandri, Il cardinale C. Cybo ed il suo archivio, in Archivi. Archivi d'Italia e rassegna intern. degli archivi, s. 2, VI (1939), pp. 63-82; L. von Pastor, Storia dei Papi, XV-XVI, 1, Roma 1943, ad Indicem; L. P. Raybaud, Papauté et pouvoir temporel sous les pontificats de Clément XII et Benoit XIV..., Paris 1963, p. 126; B. Bellini Pusceddu, La "Miscellanea Cybo" nell'Arch. di Roma, in Rassegna degli archivi di Stato, XXVI (1966), pp. 147-161; V. E. Giuntella, Roma nel Settecento, Bologna 1971, p. 238; G. F. Rossi, Con breve di assoluzione del 18 dic. 1723, papa Innocenzo XIII chiude il processo contro il card. Alberoni..., in G. F. Rossi, Cento studi sul cardinale Alberoni con altri studi di specialisti internazionali, Piacenza 1978, pp. 495, 499 s.; Dict. des cardinaux..., publié par l'abbé Migne..., Paris 1857, coll. 679 ss.; G. Moroni, Diz. di erudizione storico-ecclesiastica, XIII, p. 128, e Indice, II, p. 236; Enc. Ital., XII, p. 202; R. Ritzler-P. Sefrin, Hierarchia catholica medii et recentioris aevi, V, Patavii 1952, pp. 38, 47, 48, 51, 171; Dict. d'Hist. et de Géogr. Eccl., XII, col. 824.