D'ADDA SALVATERRA, Camillo
Nacque a Milano il 27 sett. 1803 dal marchese Girolamo e da Felicita Meda, discendente anch'essa da un'antica famiglia patrizia milanese e, per via di madre, dal ragguardevole casato austriaco dei. Boul.
Come i suoi numerosi fratelli e sorelle, nella prima infanzia il D. fu allevato personalmente daVa madre in un ambiente permeato di intensa devozione e di accentuato fervore caritativo cui, al. pari della madre, contribuiva il padre, già abate e poi cavaliere dell'Ordine militare di S. Stefano in Toscana e membro della milanese Congregazione di carità, secondo il quadro delineato nel Breve ragguaglio delle azioni virtuose e della santa morte della signora Felicina D'Adda nata Meda (Milano 1813), comunemente attribuito a Girolamo (che ne firmava l'int roduzione dedicata ai figli), ma redatto dal confessore della Meda.
Educato in casa sotto la direzione spirituale di un sacerdote, il D. compì il curriculum scolastico nelle istituzioni pubbliche percorrendo brillantemente il triennio filosofico presso il liceo di Porta Nuova. Indirizzatosi poi verso gli studi scientifici risparmiati dal generale scadimento dell'ateneo pavese, nel 1822 si iscrisse al corso di ingegneria aggregato alla facoltà di filosofia per laurearsi, con un anno di ritardo, il 26 genn. 1826 discutendo delle tesi di geodesia.
Fu durante il soggiorno a Pavia, reso certo oppressivo dalle intensificate misure di sorveglianza in vigore, che il D. andò radicando un atteggiamento di rifiuto del regime austriaco. Fermenti e umori dissenzienti erano assai diffusi nei circoli studenteschi dove era ancora viva l'eco dei recenti processi carbonari e della condanna di Federico Confalonieri, imparentato fra l'altro con un ramo della casa D'Adda. Più che di una generica espressione di insofferenza o di una embrionale presa di coscienza politica, per il D. si trattò già di un compiuto seppure non anIcora operativo disegno di opposizione e di lotta che egli divideva con il fratello Francesco e con un ristretto gruppo di coetanei, implicati tutti più tardi in prima persona nelle trame settarie della regione. Fra i sodali più intimi del D. vanno infatti indicati F. Arese, C. Dembowski, M. Mainoni, M. A. Marliani, G. Ordofio Rosales, L. Tinelli (proveniente, quest'ultimo, da esperienze diverse). A Milano, isolati rispetto ad un'opinione pubblica agnostica od apatica, essi presero a riunirsi in una sala appartata ed esclusiva; e qui presumibilmente si posero le prime concrete basi di un lavoro cospirativo di cui non mancano nelle carte processiaali, anche prima del tornante del 1830, tracce forzatamente esili.
Intanto, morto il padre nel settembre del 1825, e presto emancipato dalla tutela del conte Carlo della Somaglia, padrone di sé e delle proprie sostanze, che consistevano principalmente nei beni stabili detti di Burago - dislocati nei territori di Burago, Vimercate e Bellusco - stimati in oltre 200.000 lire austriache, il D. aveva iniziato ad assentarsi frequentemente da Milano. Dopo essere stato nel 1827 nel Tirolo spingendosi fino ad Innsbruck, l'anno successivo percorse la Svizzera e nel 1829 fu a Torino e a Genova, mete, per lo più, alquanto sospette in linea politica. Nella primavera del 1830 munito di commendatizie di G. Visconti Aimi per Carlo Luigi Napoleone Bonaparte, intraprese un viaggio nella penisola che doveva porlo in collegamento con i centri direttivi della cospirazione carbonara. Seguendo un itinerario tormentato, egli si recò a Genova, a Livorno, a Firenze e di qui nuovamente a Livorno. Durante la seconda sosta nel porto tirrenico avvenne l'affiliazione vera e propria del D. alla setta ad opera di G. Mazzini, avvicinato forse per il tramite di C. Bini.
Personaggio di statura non comune, acceso e prodigo nella causa rivoluzionaria tanto che il delatore Raimondo Doria gli attribuirà addirittura "l'anima di un vero Bruto", di una educazione, osserveranno gli inquirenti, benché non rifinita, superiore d'assai alla media (e infatti nei suoi tardi ricordi, un po' velati dagli anni intercorsi, Mazzini lo dirà allievo di Romagnosi), dotato insomma, sempre secondo i suoi giudici, di tutte le caratteristiche capaci di farne un cospiratore fra i. più agguerriti, il D. apriva all'ideologia cospirativa nuovi canali di penetrazione innanzitutto in Lombardia, dove peraltro egli doveva far ritorno solo dopo il suo arresto.
In Toscana il D. si trattenne fino alla fine di settembre. Qui conobbe e con Marliani - altro affiliato da Mazzini - finanziò il "cugino" Felice Argenti. E soprattutto si segnalò per la stretta intimità con il capo dei travagli livornesi, il banchiere F. Pacho, con il quale fece una rapida puntata a Genova per concordare con Mazzini e forse F. A. Passano i termini della missione che stava per intraprendere nel Mezzogiorno d'Italia allo scopo precipuo di estendervi le relazioni settarie. A Genova, stando al racconto del Doria, reso credibile da alcuni particolari di famiglia del D. altrimenti a lui ignoti, ebbe anche un abboccamento notturno con questo equivoco figuro durante il quale avrebbe sostenuto con forza la necessità di estendere la propaganda presso l'entourage austriaco stesso e segnatamente presso quelli dei suoi parenti che rivestivano funzioni e cariche pubbliche. Di nuovo a Livorno e di qui in compagnia dell'Argenti a Firenze, il D. prese poi la via di Roma per raggiungere Napoli.
Non è facile precisare quanta parte di successo arridesse ai progetti meridionali del D., in un terreno cioè che anche in seguito si sarebbe rivelato poco praticabile per la diffusione del mazzinianesimo. Sicuramente però egli riuscì ad allacciare qualche contatto giudicato promettente, e in particolare con un amico, il cui nome era noto a G. Giglioli e al quale dopo l'arresto del D. Mazzini avrebbe pensato di rivolgere propoite di lavoro. L'amico in questione potrebbe essere - ma e una segnalazione da assumere con cautela - il marchese Antonio Busca, milanese ma ormai da un decennio nella capitale partenopea, presso il quale il D. alloggiava, e che fu in corrispondenza coi Giglioli. Inquisito per questo, il Busca andò comunque assolto da ogni imputazione.
Da Napoli, alla metà di novembre, come annunciava in una breve missiva a Mazzini siglata con il nome convenzionale Po, il D. muoveva alla volta di Palermo. Per invito del governo austriaco durante i suoi spostamenti in Sicilia fu sottoposto alla sorveglianza della polizia che nulla poté rilevare di compromettente. Passato poi a Malta, seppe dal foglio dell'isola degli arresti avvenuti a Genova pochi mesi prima. Cionondimeno, alla fine di marzo o agli inizi di aprile, era di nuovo a Napoli per prendere la strada del ritomo rinunciando al progetto originario di passare per le Romagne insorte. E a Napoli il rifiuto del consolato di apporre il visto al suo passaporto gli fece comprendere che la sua posizione in patria si era fatta difficile. Troppo tardi ebbe invece il messaggio di Francesco che gli annunciava di aver ceduto, con una decisione solo debolmente giustificata dall'entità dei debiti accumulati dal fratello, l'intero suo patrimonio, fin la mobilia di casa, al loro minore Giuseppe, politicamente meno esposto.
Il 28 apr. 1831, accondiscendendo alle richieste austriache con una prontezza che suscitò allarme e scandalo nell'opinione liberale, il governo napoletano faceva intanto arrestare e chiudere nel Castel dell'Ovo il D., che, sicuro forse di passare indenne a ttraverso le maglie della giustizia, arrivò a sollecitare egli stesso la propria estradizione. Tradotto a La Spezia dalla gendarmeria borbonica per esservi preso in consegna dal commissario austriaco L. Bolza, il 16 maggio fu rinchiuso nel carcere milanese di Porta Nuova. Qui rimase in isolamento totale nei tre anni in cui si trascinò l'istruttoria, resa di lì a poco più intricata dalla sovrapposizione della Giovine Italia all'organizzazione preesistente (tanto che il processo viene indicato talora come l'ultimo della carboneria e talaltra come il primo della Giovine Italia).
L'inquisizione per alto tradimento Si era aperta contro il D., l'Argenti ed altri fin dal 30 marzo, dopo che le rivelazioni di Giovanni Albinola avevano fatto balenare squarci preoccupanti sulle ramificazioni della carboneria anche nei domini austriaci. La situazione del D., mai inquisito in precedenza, apparve subito grave: segnalato da mesi dalle autorità piemontesi come uno dei principali agenti della Lombardia in contatto epistolare col Mazzini, implicato dal Doria, che con intenti provocatori gli aveva inviato proclami rivoluzionari, dalla denuncia dell'Albinola era ora confermato fra i maestri della setta e coinvolto nel progetto dei settari milanesi di assassinare il Metternich. Nonostante l'ampiezza delle risultanze processuali, rafforzate dagli arresti e dalle fughe che si susseguirono nel tempo, e le nuove delazioni a suo carico del Doria, nel corso dei suoi radi costituti il D. oppose ai puntuali e circostanziati addebiti degli inquirenti una negativa costante, senza cedimenti o compiacenze di sorta. Nessuna prova legale poté così essere acquisita contro di lui.
Non potendo proporne la condanna, nella certezza morale della Sua colpevolezza, i giudici non lo vollero neppure liberare suggerendo piuttosto la sua relegazione all'intemo degli Stati dell'Impero. Stralciata la sua posizione dal processo, che si chiuse con le condanne di Argenti e di Albinola, con il sovrano decreto del 12 ag. 1832 era destinato al domicilio coatto di Linz, che raggiunse verso la fine dell'anno.
Dall'Austria il D. fece alcuni tentativi per ottenere la revoca del provvedimento, in specie sostenendo che esso gli impediva di esercitare il proprio diritto ad essere investito del beneficio dell'abbazia di S. Apollinare in Baggio. Già ostile al suo abbandono dello stato secolare, l'arcivescovo infatti rifiutava egualmente di appoggiarne la richiesta di dispensa a causa delle idee politiche adombrate nella sua posizione di relegato. Nonostante un rapporto favorevole al suo rientro in patria dell'autorità di polizia, che si dimostrava sensibile ai riflessi sull'opinione pubblica milanese di una misura adottata al culmine di una vicenda cui non erano mancati neppure echi internazionali, tutto quel che il D. poté ottenere fu di essere trasferito nell'ultimo periodo a Vienna. Qui, nel 1838, egli sposò Giuseppa Schmitd (secondo la grafia più attendibile) e ne adottò la figlia Camilla, affrettatamente iscritta nei ruoli della popolazione milanese come sua.
Amnistiato nello stesso anno, il D. poté finalmente far ritorno in Lombardia e fissò la sua dimora a Burago, dove attese alla gestione dei possedimenti aviti retrocessigli fin dal 1836, scongiurato ormai il rischio dei sequestro, dal fratello Giuseppe. Nei pressi di Vimercate il D. rimase fino allo scoppio delle cinque giornate milanesi del 1848, quando egli accorse nella città insorta e vi fece penetrare alcuni suoi contadini in armi. Entrato nella guardia nazionale con il grado di capitano, tenne il comando della compagnia della parrocchia metropolitana. In questa veste organizzo anche corsi di addestramento teorico e di storia militare per gli ufficiali nei locali della Società d'incoraggiamento concessigli da C. Cattaneo. E soprattutto prese parte attiva alla difesa di Milano, combattendo con la guardia nazionale a fianco dell'esercito sardo fino alla capitolazione. Dopo la parentesi del '48 e il ritiro nell'isolamento di Burago seguito alla sconfitta, la vicenda biografica del D. non consente di registrare avvenimenti particolari; ed essa dovette presumibilmente restare confinata ad un privato quotidiano, fatto di cure della terra e di intimità domestiche e solo raramente intervallato da qualche puntata nel capoluogo. Pertanto egli doveva trovarsi a Milano per affari occasionali quando, colpito da apoplessia, fu ricoverato presso l'ospedale Maggiore, ove morì, il 3 nov. 1860.
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