CAMILLO, Giulio, detto Delminio
Nacque nel Friuli circa il 1480, sul luogo di nascita i biografi propendono per Portogruaro, ma va ricordata la testimonianza, circostanziata, di G. Cesarini (Dell'origine del castello di S. Vito, Venezia 1771, p. 66) che lo vuole nato nel castello di Zoppola, sito nel feudo degli omonimi nobili, "quattro miglia" da San Vito di Tagliamento (tra Pordenone e Portogruaro) dove il C. si sarebbe ben presto trasferito.
Secondo F. Patrizi il cognome Delminio deriva dall'origine dalmata (Delminium:antica città della Dalmazia) del padre. Quest'ultimo, trovatosi coerede d'una ricca ma troppo numerosa famiglia della Croazia, si sarebbe portato in Friuli, in qualità di "Pievano sostituito di Villa" (Castelvetro). Sembra che il nome imposto originalmente al C. fosse quello di Bernardino.
Mandato a Venezia, scarso di fortune e nella speranza d'una professione, il C. vi intraprese i primi studi di umanità, forse proseguiti con Nicolò Dolfin, che sappiamo conobbe in occasione del suo primo incontro con Girolamo Muzio. Passò in seguito - per la parsimonia paterna e l'aiuto d'un mercante fiorentino amico del padre - presso lo Studio di Padova ma forse senza ottenere la laurea. Tornato a Venezia (presumibilmente nei primi anni del '500) e a quanto pare già interessato agli studi di cabala e di filosofia ermetica, entrò nell'ambiente degli Asolani, se è vero che quella fu l'occasione in cui Erasmo, allora a Venezia per la stampa degli Adagia, divise col C. più d'una volta il letto ("cum Iulio Camillo me nonnumquam eadem iunxit culcitra", Opus epistolarum Des. Erasmi, XI, Oxonii 1947, p. 177). Ma lo stesso Erasmo ricorderà il C. operante a Roma, in qualità di oratore, accanto a Tommaso Fedra Inghirami e di questo "aetate minor, sed eloquendi viribus maior". Tale presenza del C. andrà posta nel 1509 in concomitanza con Erasmo. A Roma il C. era sicuramente nel 1519, dove presenziò in Campidoglio all'orazione tenuta da Celso Mellini contro Christophe de Longueil (16 giugno), in compagnia - tra gli altri - di Egidio da Viterbo (Th. Simar, Ch. de Longueil, Louvain 1911, pp. 66-69). In questi anni, inoltre, il C. era stato chiamato dalla comunità di San Vito come professore di eloquenza (o di logica) nella locale accademia e in seguito a Udine come maestro di umanità. Qui ebbe tra i suoi scolari Cornelio Frangipane e Cornelio Musso "che ebbero una sua Rettorica a penna". Tutto ciò avveniva prima del 1520, quando il C. aveva ormai stretto solidi legami con l'ambiente umanistico friulano e veneziano. È segnalata peraltro la sua partecipazione all'Accademia pordenonese di B. Viviani e a quella degli Apparenti di Carpi (ma quasi certamente in periodo più tardo).
In questi anni (e già - sembra - dal soggiorno a San Vito) matura, sulla spinta dei suoi interessi retorico-oratori, mnemotecnici ed ermetico-cabalistici, dapprima l'idea d'una enciclopedia delle scienze organizzata secondo l'armonia del corpo umano e, infine, l'idea di un teatro, di un vero teatro ligneo - in scala ridotta - di stile vitruviano, come proiezione reale dell'arca della memoria.
In esso il C. intendeva rappresentare, per "luoghi" materiali, una vera topica o alfabeto universale comprensivo di tutte le arti e le scienze, che, visualizzate per mezzo di simboli e memorizzate in cartigli distribuiti in sette ordini o gradi, avrebbero costituito una summa paradigmatica dello scibile e una via spedita a cogliere e impossessarsi di ogni più minuta nozione. Questo "edificio della memoria" avrebbe dovuto rappresentare in una visione unitaria la serie organica e armonica dell'universo, cabalisticamente suddiviso in mondo sovraceleste, celeste e sublunare. Sefirot e idee platoniche avrebbero costituito i "luoghi eterni" della memoria, i veri modelli primordiali della retorica garantiti dalla ontologia misterica. Come si vede, il C. inseguiva il sogno di unificare cose parole e arti in una enciclopedia del sapere, ch'egli intendeva proiettare ad extra in una memoria materializzata nelle forme d'una "fabrica" artificiale e organizzata in un sistema di luoghi rigorosamente ordinati. Questa sistemazione dello scibile, condotta secondo i principi della retorica classica e della memoria artificiale, doveva costituire per il C. la novità mirabile ed arcana, la chiave universale con cui attingere con somma facilità ogni linguaggio e ogni scienza. Alla costruzione e al perfezionamento, mai concluso, di tale "fabrica" il C. impegnerà tutta la vita, alla ricerca continua del concreto patrocinio di un mecenate.
Il patrimonio d'esperienze letterarie e retoriche che una tale impresa richiedeva gli procurò una lettura di umanità (o di retorica), come sembra, a Bologna, sebbene i Rotuli dello Studio non registrino il suo nome (si trattò forse di una lettura svolta privatamente o in uno degli Studi minori, come Reggio o Modena). A Bologna il C. è infatti nel 1521 dove chi intorno a sé il giovane Agostino Abbiosi e un "gentilhuomo et castellano del Friuli". Qui è ancora nel 1522 e nel 1523 di dove spedisce al Bembo - che lo ringrazierà in una lettera del 16 novembre - una copia manoscritta del Novellino e di rime duecentesche (che il C. fece trascrivere una seconda volta per il furto subito della prima) e che finirà poi nella biblioteca di Fulvio Orsini e di lì alla Biblioteca Vaticana (cod. Vat. lat. 3214, ff. 1-87v: Cento novelle antiche; ff. 88v-170v: "Rime", poi edite in Rime antiche italiane, a cura di M. Pelaez, Bologna 1895, cfr. pp. VII-XIV). Nel sett. 1524 a Padova, dove si incontra con M.A. Flaminio e R. Amaseo, mentre ancora da Bologna scriveva al Bembo il 16 maggio 1525 d'essere in procinto di raggiungere Genova per i primi di giugno.
A Genova sappiamo che il C. fu, quell'estate, ospite di Stefano Sauli assieme al Flaminio e S. Delio. Anzi, a credere alla testimonianza di Sebastiano Fausto da Longiano (dedicatoria al Sauli, in Cicerone, Orationi, II, Venezia 1556) fu proprio nella casa del Sauli, posta "in quel piacevolissimo colle sopra il mare", che il C. "ritrovò, principiò, e terminò con la scorta del giudizio di V. S. la Fabrica... del suo Teatro". Se è vero che il teatro fu segnalato nelle più diverse località, è ben probabile che il C. l'avesse più tardi trasferito a Genova, allorché iniziò i suoi viaggi alla corte di Francia dopo la parentesi bolognese.
È forse negli anni bolognesi che l'iniziale tirocinio stilistico su Cicerone, Virgilio e Petrarca, soprattutto, sera convertito definitivamente in un'opera assidua di scomposizione dei maggiori testi italiani e classici in "semplici et copulati si latini, come volgari", disposti poi "secondo l'ordine dell'Alfabeto". Sappiamo che il C. s'era dato a una minuziosa "anatomia" di Cicerone, e che intendeva compilare una sorta di dizionario analogico di tutto il sapere. È questo il "libro" tante volte confuso con il teatro, e del quale doveva costituire la traccia. Il C. era, inoltre, alla ricerca del modello unificante di un tale lemmario universale, in grado di offrire, in osservanza alle regole mnemotecniche, una serie ordinata di luoghi per la memoria.
E quel modello, dapprima ricercato nelle categorie ciceroniane e poi nel sistema di Metrodoro di Scepsi (cioè nei "dodici segni del cielo" suddivisi in "trecento sessanta luoghi secondo il numero de' gradi"), fu in seguito da lui ritrovato (così almeno nel momento in cui ne scriveva in una lettera, databile in questi anni, a M. A. Flaminio) nel corpo umano, armonico "microcosmo", alla cui dissezione per mano d'un "anatomista" (Berengario da Carpi?) aveva per due volte attentamente assistito. Ed è proprio a Bologna che certo lo stesso "eccellente anatomista" gli aveva suggerito il "modello della eloquenzia" allorché, immerso in un fiume un corpo chiuso in una cassa "tutta pertugiata", l'aveva estratto privo di carne quando ormai mostrava, nelle ossa e nei nervi, i "meravigliosi secreti della natura" ("Così fatto corpo, dalle ossa sostenuto, io assomiglio al modello della eloquenzia, dalla materia e dal disegno solo sostenuto").
Viaggiatore instancabile, il C. nell'aprile 1528 è sicuramente a Venezia prossimo a partire per Portogruaro. Nell'ottobre è a San Vito presso i "vecchi amici", ma già è pronto a ritornare a Portoguraro e di lì a Venezia. Questi continui spostamenti in territorio veneto sono forse da riferire a una fase di febbrile approntamento del suo teatro. Nell'aprile del 1529 è infatti occupato a San Vito negli studi e in "magre" fatiche ("non mi danno in punto, quello che io voglio") e in luglio è già a Venezia. Di qui si riporta ancora in Friuli, a Gemona, dove il 25 ott. scrive una lettera all'Aretino. Nel febbraio 1530 lo troviamo a Bologna dove assiste alla duplice incoronazione di Carlo V (22 e 24 febbraio) e si tiene pronto a ritornare nel Friuli dove intende "mostrare ad alcuno che a torto mi fa ingiuria" (il suo teatro era ormai ben noto negli ambienti dotti, oggetto di feroci derisioni e di lodi incondizionate) per poi partire alla volta della Francia.
Questo viaggio segnò il momento di maggiori speranze per il C.; tutto preso dalle segrete macchinazioni del suo teatro e assillato dalle continue spese, egli è pronto a svelare al re di Francia ogni cosa e a trarne i tanto attesi compensi. Francesco I infatti era ormai al corrente del singolare progetto del Camillo. Un peso, in ciò, ebbero le informazioni del residente francese a Venezia Jean de Langeac e di quello successivo, Lazare de Baif che ne scrisse alla regina madre; né va dimenticata la presenza a corte di un vecchio amico del C., Benedetto Tagliacarne (il Theocrenus umanista), precettore dei figli del re. Approfittando d'un viaggio in Francia dell'amico Muzio al seguito del conte C. Rangoni, il C. si unì a loro, ch'erano a Modena, e partiva di lì il 18 maggio 1530.
Prima destinazione è Saint-Jean-de-Luz, ai piedi dei Pirenei, dove corte e nobili affluiscono nel giugno per accogliere i figli di Francesco I di ritorno dalla prigionia. Il C. e il Muzio sono costretti a un soggiorno in una casa di pastori che più tardi sarà rievocato nei toni d'un arcadico ozio letterario. Trasferitisi a Parigi con la corte, rimangono in attesa tra i festeggiamenti per il matrimonio del re e un certame letterario con l'Alamanni. Infine, per i buoni uffici del card. Giovanni di Lorena e del Montrnorency, gran maestro di Francia, il C. ottiene udienza, presenti il gran maestro e il Muzio. Se quest'ultimo ricorderà con ammirazione l'incontro, parlando del famoso "libro" ad apertura del quale il C. dette agio a Francesco di ritrovare i luoghi per parlare su argomenti e concetti i più peregrini, l'Alciati, allora in Francia, descrisse i contatti del C. (lettera al Calvo, Bourges, 3 sett. 1530, cfr. P. Burman, M. Gudii et C. Sarravii epistulae..., Lugd. Batavorum 1711, p. 109) come quelli di un millantatore un po' intrigante ("Vereor ne in fabulam res transeat", concludeva).
Il C. avrebbe promesso al re, a condizione del più stretto riserbo, di renderlo sia in greco sia in latino oratore e poeta pari ai più celebri antichi, impiegando una sola ora al giorno per brevissimo tempo, il tutto per 2.000 scudi d'oro annui. Di fatto, dopo due incontri, il C. ne ottenne 600 per ritornare in patria, con l'impegno di portare a termine il teatro ad esclusivo godimento del re. Il forzato silenzio a cui in seguito il C. si sentirà legato non si spiega se non con la precisa richiesta di prelazione sul "brevetto" da parte di Francesco I, a cui una questione di "scienza curiosa" dovette apparire del più grande interesse. Il C. parte subito per Venezia con l'impegno di far ritorno a Parigi.
Èin questi mesi - quasi certamente quando ancora è in Francia - che il C. interviene tra i primi nella polemica sollevata dal Ciceronianus di Erasmo (1528, il nome del C. ricorreva nell'opera accanto a quello di Tommaso Fedra Inghirami: cfr. Opera omnia, I, 2, Amsterdam 1971, p. 637). L'operetta è un Della Imitatione circolata manoscritta fino alla morte del C. (sarà edita, priva della parte iniziale, in Due trattati dell'eccellentissimo M. Iulio Camillo: l'uno delle Materie... l'altro della Imitatione, Venezia 1544, e, come tale, ristampata più volte) e nata non già come trattato, ma come un'orazione a Francesco I. Essa fu scritta in concomitanza con l'aspra Oratio di Giulio Cesare Scaligero contro Erasmo (pubblicata nel 1531 ma già circolante a Parigi dal 1529), il che creò equivoci sulla reale paternità di quest'ultima, che Erasmo continuerà a ritenere parto anche del Camillo.
Nel Della Imitatione ilC. rivendica "il secolo di Cicerone e di Cesare", quale culmine della maturità della lingua e dell'eloquenza latina, e valido modello di imitazione. Un'imitazione tesa essenzialmente ad esemplare la struttura "topica" dell'autore e non banalizzata a semplice "ladroneccio" di usi lessicali. Solo emicleando le "figure topiche", i "lochi" del modello, si potrà per il C. giungere alla corretta imitazione che è assunzione, anzitutto, dell'"artificio", dello schema compositivo e, in via subordinata, delle parole ("E se in alcun modo la imitazione si può trovar nelle parole, certo sarà in queste dell'ordine topico, nel quale potremo imitar l'auttor nell'artificio solamente"). Tanta attenzione all'ordine topico, alla "forma universal" espressa dal secolo d'oro, riportano a quella scomposizione dei modelli classici per figure, luoghi e parole, che il C. andava compiendo per la "gran fabrica" del suo teatro, al fine di "tener collocati e a ministrar tutti gli umani concetti, tutte le cose che sono in tutto il mondo". L'operetta, in tal modo, finisce per suonare apologia della sua contrastata impresa ("so ben io che mi beffano al presente, prima che non veggano altro che parole") che il C. celebra come via spedita all'acquisto delle "dotte lingue" e come fonte di "immortalità" per Francesco I.
Durante questo soggiorno italiano del C. va forse collocata la sua permanenza in casa del conte Rangoni, dove mostrò al Muzio una "apologia" che stava scrivendo "mosso dal bisbiglio che si faceva per Italia contra il suo Theatro". Si tratta con ogni evidenza del Discorso... in materia del suo theatro che il C. dedicò a Gabriele Trifone e "ad alcuni gentilhuomini" (anche questo pubblicato postumo a partire dal 1552 nelle Opere del C.) e dove tornava ancora una volta alla difesa del suo teatro e ai temi retorici ed ermeticocabalistici che ne costituivano la traina.
Nel 1531 Erasmo risponde con l'Opulentia sordida - feroce satira del soggiorno veneziano presso gli Asolani - ad accuse mossegli nell'Oratio dello Scaligero, dietro il cui nome egli crede di riconoscere Girolamo Aleandro e lo stesso Camillo. Per questo cerca informazioni e interpella amici. Nel febbraio 1532 Viglio Zuichem raccoglie notizie sul C. nell'ambiente dei ciceroniani di Venezia e il 28 marzo, da Padova, ne scrive ad Erasmo.
Effettivamente una "Apologia in Ciceronianum" del C. circolava manoscritta (ma si tratterà dell'Imitatione) e l'Egnazio gli ha dato notizie d'un "amphitheatrum" in via d'approntamento per il re di Francia e visibile a pochissimi. Giunto a Venezia il C., Viglio lo raggiunge in maggio e ha modo di visitare finalmente il teatro. Si tratta d'un piccolo teatro ligneo, praticabile da una o due persone, distribuito in vari gradi con simboli e cassettini destinati, evidentemente, a contenere suddivise per luoghi le varie materie dello scibile. Il C. chiama l'opera, tra l'altro, "mentem et animum fabrefactum" o "fenestratum", quanto dire una proiezione materiale dell'animo e uno spiraglio aperto su quanto la mente può concepire e la memoria contenere. L'occhio dello spettatore coglierà così all'istante, per simboli corporei, il theatrum, lospettacolo celato nella profondità armonica della mente e del cosmo. Se la struttura lignea è pressocché pronta, manca ancora la completa scomposizione per luoghi e nozioni di Cicerone e dei classici. Il C. è sommerso dalle carte, il re preme per avere il teatro e la traduzione francese di tutto il materiale scritto. Allo scopo, in aggiunta al genero Giuseppe Maetano (non sappiamo se e quando il C. contrasse matrimonio) e a un Michelangelo Veneto - che lo aiutano da tempo - il C. ha preso con sé un traduttore e uno scrivano. Ha già speso 1.500 ducati, ma spera di tornare in Francia con l'opera compiuta. Il ritratto che Viglio fa del C. non è lusinghiero: balbuziente, cattivo parlatore in latino, è dedito animo e corpo alla sua chimerica impresa. Quanto al Ciceronianus si mantiene evasivo: ha scritto molto ma ha dato in luce poche cose italiane per il re (lettere del Viglio a Erasmo del 28 marzo e 8giugno 1532 da Padova, in Opusepistularum, IX, Oxonii 1938, pp. 479 s.; X, ibid. 1941, pp. 29 s.).
Erasmo insiste ironico e indispettito sul C. e l'Aleandro (lett. a Viglio, Friburgo, 5 luglio 1532, ibid., X, pp. 54 s.) e Viglio, assieme a Giorgio Logo (Georg von Logau), torna a visitare il C., venuto da Venezia a Padova, tra la fine d'agosto e i primi di settembre. I due provocano il C. sull'affare dell'Oratio, ma invano; egli contempla il suo teatro, recita il carme latino su di esso da lui dedicato al Bembo e si mostra svagato. Ama semmai ricordare di un libro contabile del padre dove è segnata una cospicua ricompensa per Erasmo.
Sappiamo inoltre che a Venezia il C. era familiare dei Torresani e che s'era dato a dissipare il danaro nel gioco d'azzardo. L'Egnatio lo disprezzava e non mancava di ridere apertamente del suo teatro tra la nobiltà veneziana (lettera di Viglio a Erasmo, Padova, 8 sett. 1532, ibid., p. 98, e p. 125 dov'è la riposta di Erasmo da Friburgo, 5 novembre, che insiste nei sospetti sul Camillo).
Nel frattempo il C. ha contatti epistolari (10lug., 3 e 18 ag. 1532) con l'Aretino - in cerca di favori presso Francesco I - e a lui rivela d'essere "al presente" in Italia per il Tiziano "con gravissimo danno de le cose mie". Il 20 sett. 1532 il C. è di nuovo a Bologna, costretto in letto da un malanno contratto nel marzo precedente. Nel gennaio 1533 è già a Venezia dove ha modo di conoscere Giulio Pflug (lett. a Erasmo, Venezia, 5 maggio, ibid., p. 218). L'8 marzo viene concesso al C., dal governo veneziano, un privilegio decennale per la stampa di un "Petrarca novo con l'artificio [di] Julio Camillo" (M. Sanuto, Diarii, LVIII, Venezia 1901 col. 115). Di qui si porta a Padova e si prepara a raggiungere nuovamente la Francia.
Questa volta il C. parte per un soggiorno assai più lungo. Il 15 maggio è di passaggio a Piacenza per "entrare in cammino" verso Parigi.
La speranza del C. nella liberalità del re sembra a Erasmo vana (lett. a Viglio, 14 maggio 1533, ibid., p. 226)a causa d'una bancarotta che ha lasciato all'asciutto i professori del Collège du Roy. In ogni caso il C. il 23 giugno, a Lione, riceve per mano del re un mandato di 500 scudi d'oro (1.125 lire tornesi) "en don en faveur de plusieurs sciences utilles et prouffitables qu'il doibt faire entendre au Roy" (L. de Laborde, Les comptes des bâtiments du Roi [1528-1571], II, Paris 1880, p. 222;cfr. Catalogue des actes de François Ier, II, Paris 1888, p. 463, che dà la data 28 giugno). A dispetto di ironie e inimicizie, il C. trova anch'egli, con la promessa di scienze che non si esita a definire utili e vantaggiose, un suo posto nel seguito reale. Il 13 agosto scrive ad A. Altan da Parigi, dov'è in attesa del ritorno di Francesco I da Nizza, per rassicurare i suoi "cari giovani" a Padova che manderà presto danaro. Altro danaro ricevette sicuramente il 18 marzo 1534, con un mandato di 675lire tornesi come sussidio per trattenersi "au service du Roy" e in attesa che quest'ultimo, abbia "ordonné de son estat et pension" (Laborde, II, p. 269, la data è in Catalogue des actes, II, p. 644).Altre 675 lire tornesi riceve, forse il 5 agosto, per soggiornare a Parigi dove il re "luy a ordonné faire residenee" perché avesse modo di "entendre à l'instruction et estude de plusieurs sciences esquelles il est très expert" (Laborde, II, p. 266, Catalogue des actes, VII, Paris 1896, p. 719).Sono gli anni del nascente Collège du Roy, di stimolanti iniziative culturali, e il mecenatismo di Francesco I patrocina, nonché i castigati filologi, anche gli epigoni più ambigui dell'umanesimo dotto.
Anche in Francia il C. incontrò consensi e resistenze. Gli ambienti protestanti ne apprezzarono l'ispirato fervore e, sembra, la pietà. Giovanni Sturm lo ebbe tra i suoi amici e tradusse per lui, imperito di greco, l'orazione per Ctesifonte di Demostene, mostrandosi interessato ai suoi studi di retorica e mnemotecnica; nella Linguae latinae resolvendae ratio (Jena 1704, pp. 4 s.) accennerà, tra i pochissimi, all'itinerario del C. dal primitivo progetto d'una partizione secondo modelli anatomici della lingua latina, a quello finale - che lo Sturm ebbe modo di valutare da vicino - del teatro come immagine del cosmo (dell'insuccesso dell'impresa, dirà: "Credo causam fuisse quod non adhibuerit adiutores. Celavit enim rationem suam tamquam mysterium quoddam"). Nel novembre 1533 lo Sturm scriveva al Bucer presentando il C. (in un postscriptum siglato da quest'ultimo) come "vir recondita eruditione, mirabili pietate", chiamato finalmente dal re "magnis promissis et praemiis", dopo un quarantennio vissuto nell'ombra (cfr. Ch. G. A. Schmidt, G.Roussel, Strasbourg 1845, pp. 219s.). Duro fu invece lo scontro con E. Dolet, che il C. già conosceva dagli anni patavini, come segretario di Jean de Langeac.
In uno scambio di lettere tra J. Bording e il Dolet (26gennaio e 22 apr. 1534)appare tutta l'irritazione di quest'ultimo per la ciarlataneria del C. e dei suoi barbari compatrioti, che irretivano il re con molte imposture, a dispetto dei non meno eccellenti dotti francesi. Il Dolet scrisse anche due rabbiose odi contro il C., una delle quali inviata al fratello di Jean de Langeac. A difesa del C. si schierò il segretario di Rodolfo Pio di Carpi, Francesco Florido Sabino (Apologia in M. A. Plauti..., Lugduni 1537) che forse del C. era stato alunno a Bologna.
L'incrociarsi di nuove polemiche spinse il C., agli inizi del 1534, a far circolare una sua manoscritta Pro suode eloquentia theatro ad Gallos oratio, apologia ampia e accurata contro i nuovi nemici parigini (sarà edita solo nel 1587, a Venezia, da G. B. Somaschi, preceduta dagli ottantun esametri dell'Ad Petrum Bembum carmen, che sappiamo che il C. aveva recitato nell'anno 1532 di fronte al Viglio).
Nell'oratio, che per ampiezza e linguaggio ha il tono di un trattato apologetico, il C. non solo ripercorre ampiamente e difende le ragioni dottrinali del suo mirabile progetto, ma offre un quadro amplificato eppure significativo dei suoi fitti rapporti con la società colta di Francia in cui si trovò a operare. Della lunga serie di personaggi da lui ricordati citeremo appena Jacques Colin e Benedetto Tagliacarne, con i quali strinse rapporti di singolare amicizia, e ancora Guillaume du Bellay, Gerard Roussel, Jean de Langeac, Lazare de Baïf, Guillaume Budé e Lefèvre d'Etaples.
Nelle vicende parigine il C. intervenne ancora, in questo periodo, con due Orationi indirizzate a Francesco I (furono edite, una prima volta, come Due orationi di G. C. al re christianissimo, Venezia senza ind. di ed. 1545, e Venezia, V. Vaugris, 1545): la prima scritta per la liberazione del "predicatore" Pallavicino, teologo carmelitano, imprigionato da un anno per "prediche volgari", e la seconda in ringraziamento della ottenuta liberazione (ambedue furono recitate dal fratello del Pallavicino). Nel frattempo il suo teatro sembra progredisse. Da una testimonianza di B. Ricci - per il cui - Adparatuslatinae locutionis il C. stava interessandosi nel 1534 presso il tipografo Grifio - risulta che il C. aveva portato con sé il teatro alla corte di Francia ("ad Regem cum suo theatro profectus est", in B. Ricci, Epistularum, Bononiae 1560, p. 101). L'altra testimonianza, di J. Bording, secondo cui il C. stava costruendo il teatro in Francia, è difficile da accettare, viste le difficoltà e il tempo che una seconda costruzione avrebbe richiesto. In ogni caso, in una lettera del 1558, Gilbert Cousin parlerà ancora del teatro come cosa da lui vista, anche se la descrizione di esso è palesemente copiata dalle lettere già ricordate del Viglio (Opera, Basileae 1562, I, pp. 217 s., 302-04, 386).
A comprendere quale specie di fama godesse il C. in Francia rimane il memorabile episodio del leone, raccontato dal Betussi (IlRaverta [1544], a cura di G. Zonta, in Trattatid'onore del Cinquecento, Bari 1912, p. 133). Un giorno mentre il C., il Betussi, l'Alamanni, il cardinale di Lorena e altri gentiluomini erano, a Parigi, in visita ad un serraglio, improvvisamente scappò un leone. Tra la fuga generale il C., impossibilitato a fuggire, rimase solo e immobile, "non già per far prova di sé, ma per gravità del corpo, che lo rendeva un poco più tardo degli altri"; con meraviglia di tutti il leone "incominciò andargli d'intorno e fargli carezze, senza molestarlo altrimenti" finché fu catturato, mentre il C. "non per altro fu stimato che restasse sano, se non per esser sotto il pianeta del sole". L'episodio sarà in seguito inserito nell'Idea del Theatro del C. dove - epurato dell'imbarazzante riferimento alla corpulenza del friulano - assurgerà a simbolo ermetico della mansuetudine dell'animale solare al cospetto del mago. In ogni caso la vicenda dovette far meditare non pochi sulle misteriose virtù di questo stravagante e imprevedibile personaggio.
Verso la fine del 1534 il C. torna in Italia, al seguito del cardinale Giovanni di Lorena, in occasione del conclave per la morte di Clemente VII. A Roma infatti è in ottobre, dove assiste all'insediamento di Paolo III e sincontra con il Muzio e probabilmente con il Giovio. Riparte alla volta di Venezia preavvisando i vecchi amici friulani, tra cui A. Belloni e il Frangipane, perché corrano ad incontrarlo.
In questo periodo va posta, con ogni probabilità, la visita del cardinale Pole che, chiamato all'Accademia Gibertina di Verona dal Flaminio, si riprometteva di salutare il C. in itinere per presentargli l'ansiosissimo L. Priuli e averlo con loro (R. Pole, Epistularum...collectio, I, Brixiae 1744, p. 425). Nel 1535 il C. è di nuovo in Francia. Il 5 maggio, da Rouen, scrive a Lucrezia Martinenga ("divina donna" che è "nella cima della mia mente") una lunga lettera, che partendo dal tema cabalistico dell'anagramma finisce per diventare un vero "a solo" di erudizione ermetica; dopo alcuni giorni torna a scriverle una lettera ancora più vasta e dotta che sarà pubblicata postuma come Lettera del rivolgimento dell'Uomo a Dio tutta incentrata sul tema platonizzante ed ermetico della deificatio. Il 7 maggio scrive all'Aretino, salutando il Tiziano e nella speranza d'essere in giugno a Venezia.
Il 9 luglio lo Sturm riferisce a Melantone A.-L. Herminjard, Correspondance des réformateurs, III, Genève-Paris 1870, p. 312) le buone notizie su Paolo III avute dal C., mentre il 15 luglio, irritato di una mancata pensione da parte del re di Francia, il Giovio scrive da Roma al nunzio di Francia Pio di Carpi perché si faccia forte presso il C., il cardinale di Lorena e lo stesso re (già in una lettera del 15 febbraio, allo stesso, aveva sbeffeggiato Giovanni di Lorena come ammiratore del teatro del C.: v. P. Giovio, Lettere, a cura di G. G. Ferrero, I, Roma 1956, pp. 142, 160).
È a questo periodo che va riportata la stesura del Trattato delle materie che possono venire sotto lo stile dell'eloquente, concepito dopo il Della Imitatione, e certamente posteriore alla successione di Ercole II di Ferrara (31 ott. 1534). Se infatti l'Imitatione è ancora sotto il segno del re di Francia, il Trattato delle materie è tutta una captatio benevolentiae del duca estense, a cui poi verranno ambedue dedicati, e quando ancora il C. era "trattenuto" in Francia da Francesco I e Giovanni di Lorena, ma forse già desideroso di un nuovo mecenate.
Sulla base della distinzione ciceroniana resverba, ilC. suddivide l'eloquenza in materia, artificio e parole, in quanto materia e artificio rappresentano due aspetti della res: l'una (la materia propriamente detta) che proviene all'oratore dall'esterno, l'altra materia, invece, che sorge dall'"artificio" dell'oratore. Lasciando a "due altre fatiche che a questa... seguiranno" la trattazione di artificio e parole, il C. individua l'origine della materia nella natura, nel caso e nelle arti (sia liberali sia meccaniche). Ancora una volta il C. si affretta a indicare nei "fonti topici" quegli schemi assoluti con cui l'oratore o il poeta apparecchiano gli elementi della materia ai loro fini, e ben presto la sua attenzione si volge ai vari tipi di luoghi argomentativi, ampiamente esemplificati su testi di Virgilio e Petrarca. Se nel C. poesia e retorica sono tutt'uno e se in lui "è assente ogni considerazione di forme architettoniche" (Weinberg) ciò avviene per il valore assoluto ed esemplare dei loci o modelli della topica, che presiedono indifferentemente alla costruzione d'un discorso tanto oratorio che poetico. A tale proposito il C. introduceva, memore delle ruote lulliane, l'esempio di un suo "cerchio" o "gorgo" dal cui centro partivano 4 come ruscelli" due serie di sette raggi contenenti ognuna luoghi opposti all'altra. Ma i toni di più abile amplificazione il C. raggiungeva commentando un suo sonetto per la successione di Ercole II ("Sparse d'or l'arenose ambedue corna"), attingendo ai temi dell'aurea aetas e apollineo-solari, e alle suggestioni degli "antichi teologi simbolici".
Completamento del Trattato, e forse databile poco tempo dopo, è La topica, o vero della elocuzione, con cui il C componeva il quadro teorico della propria retorica (sarà stampata, per iniziativa di Francesco Patrizi, solo nel 1560 e, parzialmente, lo stesso anno da G. B. Verdezotto: Topica delle figurate locuzioni, Venezia, Rampazetto). Qui, con più rigore e stile più asciuttamente trattatistico, il C. riprende il tema dell'artificio e della lingua ed enumera le "bellezze dell'eloquenzia" ridotte, manco a dirlo, al "settenario numero" delle "norme" che già gli antichi avevano indicato come parti essenziali di ogni lingua.
Tali parti il C. individua in sette ordini ascendenti, che vanno dalle voces o "semplici" alle locuzioni figurate (voci semplici, voci congiunte senza verbo, locuzioni proprie, epiteti, perifrasi, locuzioni traslate, locuzioni figurate), capaci di sottostare alle "forme del dire osservate dagli antichi" e sempre valide nel loro valore universale. L'esemplarismo linguistico e retorico del C. ne esce ancora una volta confermato, e semmai suggerisce il modello di catalogazione settenaria a cui dovette egli stesso ispirarsi nell'ordinare "gli autori di più lingue" al fine di aver "luoghi certi dove andar a prendere" la proprietà della lingua (cioè le locuzioni) di ciascuno. Da segnalare che l'edizione a stampa della Topica è incompleta, mancando nella trattazione finale (sulla Topica delle figurate locuzioni) l'ultima sezione riguardante le "locuzioni della comparazione". Una edizione moderna del Della Imitatione, del Trattato delle materie e della Topica ha dato B. Weinberg in Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, I, Bari 1970, rispettivamente alle pp. 159-85, 318-56, 357-407 (cfr. anche pp. 599-601, 619-25).
Altre opere minori (anch'esse pubblicate postume e di difficile datazione) il C. dedicò alla retorica e all'insegnamento della lingua. Di rilievo il suo ritorno ad Ermogene (Discorso sopra Hermogene) dove è ancora una volta celebrata la "forma universale" come unico supporto dello stile, mentre brevi prontuari di scuola (forse databili ai primi anni d'insegnamento del C.) sono lo scritto De' verbi semplici e una Grammatica.
Un ritorno del C. in Italia al seguito di Giovanni di Lorena avvenne nel 1536. Nel gennaio èa Bologna mentre nell'ottobre è a Padova o, più esattamente, "in campagna" assieme a B. Varchi e al Molza "per andare a visitar monsig. Bembo" (lettera di Mattio Franceschi a B. Varchi, Roma 23 ott. 1536, in [C. R. Dati], Raccolta di prose fiorentine, V, Venezia 1735, III, 2, p. 86). E forse durante tale viaggio (o nel 1534-35) che C. fece visita ad Ercole II di Ferrara (nella cui corte era il fedele amico Muzio), con l'evidente scopo di saggiarne le intenzioni mecenatizie. Per l'occasione il duca convocò a banchetto i dotti di Ferrara, lasciando che il C. esponesse il progetto e nella speranza di provocare un confronto, ma i presenti trattennero in cuor loro ogni commento. Lo stesso accadde quando, proseguendo per Roma, ilC. sostò a Bologna ed ebbe l'invito del vicelegato della città (di fronte al suo parlare "artificioso" tutti assentivano "quantunque in loro non capesse quello che egli diceva"). Da Roma tornò in Francia.
Prima della partenza ebbe forse modo di incontrare il Paleario; nel 1537, infatti, quest'ultimo descriverà al Lampridio con pesante ironia il teatro del C., da lui conosciuto a Padova. In questo periodo inizia peraltro l'amicizia con G. Ruscelli, allora "ancor quasi fanciullo" a cui rivelava "d'haver fatto lunghissimo studio sopra di quest'arte di Raimondo" Lullo (G. Ruscelli, Trattato del modo di comporre in versi nella lingua italiana, Venezia 1563, pp. 28 s.). Le segnalazioni per questi anni divengono comunque assai scarse. La vicenda francese del C. volge al declino. Tormentato da un'impresa senza fine e da spese ininterrotte, deluso dall'ormai giustificata indifferenza del re di Francia e dall'insuccesso con Ercole II, torna in Italia. Il 7 maggio 1538, stanco e malato, scrive "dal letto" all'Aretino e saluta ancora Tiziano. Nel 1539 lo troviamo prima a Milano e poi a Pavia, dove il 1º ottobre scrive al Raverta d'esser pieno di debiti e in miseria, prossimo a partire per il Friuli (Gerardo, f. 85v). Spera, ma invano, nell'aiuto di Francesco Greco (che giace malato per un certo "oro potabile" propinatogli dal C. per ringiovanirlo!) per raggiungere la Croazia, dove l'attenderebbe, morti i fratelli e le sorelle, "l'amplissimo patrimonio a lui per eredità scaduto" (Castelvetro). Di questo nuovo sogno non conosciamo la fine.
Tre anni più tardi, inaspettatamente, lo troviamo a Ginevra. Il 25-28 ott. 1542 Calvino comunica a Viret la presenza prolungata e inquietante del C. ("Habemus hic Jullium Camillum cuius tam diuturna mora nobis nonnihil suspecta"). Egli teme che dietro l'ostentato evangelismo ("liberaliter ore iactat Evangelium") il C. celi "aliquid clandestini consilii", quello forse d'un segreto appoggio agli agenti italiani che braccano l'Ochino (cfr. A.-L. Herminjard, Correspondance..., VIII, Genève-Paris 1893, p. 165).
Che le opzioni cabalistiche, ermetiche e magico-astrologiche del C. lo trovassero attento alle attese nuove degli ambienti riformati non è neppure da escludere. Proprio in questi ultimi anni "s'era tutto dato allo studio de' secreti della natura, et de gli altri misteri della divinità" (Muzio), appuntando i propri interessi all'alchimia e ai temi religiosi. A Pavia è tuttora un manoscritto alchimistico del C., un De transmutatione (ms. Ald. 59), nel quale si dice tra l'altro di una triplice trasmutazione: "la Divina, quella delle Parole et quella ch'è pertinente alli Metalli". Esso è preceduto da un manoscritto Della teologica disciplina, contenente una "interpretazione dell'Arca del Patto" (cfr. L. De Marchi-G. Bertolani, Inventario dei manoscritti della R. Biblioteca Universitaria di Pavia, I, Milano 1894, pp. 26 s., che segnalano nello stesso codice un altro scritto del C., un'Oratio ad Christum dominum). Le prime due opere si trovano in altra copia tra i manoscritti della Biblioteca dei gerolamini di Napoli (cfr. E. Mandarini, Icodici manoscritti della Bibl. Oratoriana di Napoli, Napoli 1897, pp. 122 s., cod. cart. 16, e ora P. O. Kristeller, Iter, I, p. 396; II, p. 546; sul manoscritto attirò inutilmente l'attenzione E. Garin, che ne segnalava una copia ulteriore proveniente da casa Sanuto presso la biblioteca del Trinity College di Dublino, cod. Q 3 12, ff. 137-174v). Da una testimonianza di Federigo Altan sappiamo peraltro d'una inedita De l'humana deificazione (datagli in visione da Angelo Calogerà) dedicata dal C. a una sua "figlia" di nome Cornelia (forse fattasi suora in giovanissima età), nella quale il C. afferma di voler scrivere su "due lunghissime materie di tale altezza" quali la "Cena del Signor nostro Gesù Christo" (il cui "mistero" del suo santissimo corpo a noi dato in cibo rimane aperto") e il "poter de' Santi in cielo" (a cui aveva iniziato a lavorare). Altra notizia dell'Altan è una inedita orazione, in cui il C. parlava di un piano di "sette difese" contro le "ingiurie" mossegli, cioè sette orazioni apologetiche per il suo teatro della memoria (tali mss. sono ora nella Bibl. Comunale di Udine V. Ioppi, Fondo Principale 420, 1423 e 2684; cfr. Mazzatinti, Inventari, III, p. 194; LXXVIII, 125; Kristeller, Iter, II, p. 204).
L'ultima fortuna del C. fu il marchese del Vasto, Alfonso d'Avalos, governatore di Milano. Il Muzio, l'amico inseparabile, ne fu il mediatore.
Egli stesso con arte inimitabile, rievocherà la vicenda: nell'ottobre 1543 durante un colloquio con il d'Avalos, a Mondovì, si viene a parlare del C. e il marchese svela d'essere anch'egli bramoso di apprendere "il secreto del suo teatro". È disposto a pagare, non certo quanto un re di Francia, ma il più che potrà. Il Muzio riceve una lettera da Milano in cui Vincenzo Fedele gli comunica il definitivo ritorno in Italia del C., e il Calvo gli comunica che sarebbe ritornato a Milano di lì a un mese. Passato a Vigevano assieme al marchese, il Muzio è a Milano e s'abbocca con il C., la cosa va in porto. Il marchese informato, e incoraggiato dal Giovio, manda da Vigevano un messo, ma il C. si fa riluttante; non intende spartire nulla con l'infido Giovio ("aveva la lingua sciolta, aveva detto quel che gli era piaciuto di lui"). La condizione è un colloquio col marchese, presente solo il Muzio. Quest'ultimo raggiunge Vigevano, parla con il marchese e il Giovio, combina l'incontro e torna a Milano. Il C., "uomo da villa" qual'era ("o piu tosto un ceppo"), "mal atto a comparire et in usare cirimonie", si presenta con il Muzio a Vigevano e ha i primi incontri col marchese (presumibilmente nel gennaio 1544). I monologhi del C. sul suo teatro sono quelli di un invasato e il Muzio confessa d'avervi assistito non "senza spavento" (il C. pare "rapito in Spirito", posseduto da "una specie di furore quale descrivono i Poeti della Sibilla, o della Profetessa de' tripodi d'Apolline"). La sera della quinta giornata di colloqui (se ne erano decise sette), dopo una trattativa sommessa e fitta tra il marchese e il Muzio, il C. ha partita vinta ("o vero, o non vero, io lo voglio" dirà il marchese). I 300 scudi preventivati diventano 400, con invidioso disappunto del Giovio. In più al C. vengono accordati 500 scudi per trasferirsi un mese a Venezia. Conclusa l'esposizione del teatro nelle due restanti mattine, per due ancora, alla presenza di Ettore di Carpegna, il C. commenterà il primo salmo con la "dottrina di David, Virgilio e Petrarca". Dopo alcuni giorni il C. e il Muzio partono per Milano.
È a Milano, sulla fine del gennaio 1544, che il C. si decise di malavoglia a metter per iscritto (la richiesta era stata del marchese su istigazione del Muzio) quell'Idea del Theatro cherimarrà l'unica testimoniaza, e neppure di prima mano, sulla tessitura simbolica e sull'ordinamento strutturale della sua fabbrica. Al C. che si sentiva "grave" e "mal atto a scrivere" ne sapeva di chi fidarsi ("haveva seco il genero" cioè Giuseppe Maetano "che gli haveva rubate molte cose, et perciò di lui non si fidava"), il Muzio sofferse come scrivano. In tal modo dormendo in una medesima camera "in sette mattine avanti giorno", il C. "dettando" e il Muzio, "scrivendo", condussero l'opera a termine. In realtà il tòpos iniziatico dello scriba e dell'autore ispirato che detta, e così pure il ritmo settenario in cui anche tale evento viene scandito, gettano un'ombra sull'autenticità di quella dettatura.
Nell'Ideadel Theatro (doveambedue i termini sono nel valore pregnante di "modello esemplare" e di "spettacolo" del cosmo) il C. intende esporre, attraverso la prosa del Muzio, la complessa simbologia e la struttura del suo teatro. Esso doveva innalzarsi in sette ordini o gradi tagliati da sette corsie, ognuna delle quali metteva capo a uno dei sette pianeti, disposti lungo il primo grado. La fuga prospettica partiva (come nel caso del grande teatro di legno costruito dal conterraneo Serlio, nel 1539, a Vicenza) dall'occhio dell'attore posto sulla scena, e che il C. sostituisce con l'occhio del solitario spettatore, proiettato sull'insieme delle immagini disposte sulle gradinate. L'intero sistema del C. poggia, cabalisticamente, sui sette pilastri della Casa dalla sapienza di Salomone, sette "misure" destinate a ripetersi nel mondo sopraceleste delle sette Sefirot, dei sette angeli e delle idee platoniche (poste idealmente dal C. alla base dei gradini), nel mondo celeste dei sette pianeti (posti al primo ordine dei gradi e ognuno in corrispondenza a una corsia) e nel mondo terrestre-elementare, che si svolgeva dal secondo al sesto grado. Tali gradi, in ordine ascendente, erano ognuno contrassegnato da un simbolo. Il secondo aveva come simbolo il Convivio che, come ricorda Omero, l'Oceano imbandì per gli dei e che per C. indica l'unione delle acque primigenie con le idee dell'archetipo divino. Da tale unione ha luogo la nascita degli elementi semplici (corrispondente al primo giorno della creazione). Nel terzo troviamo l'omerico Antro delle ninfe, che nella loro industriosa attività simboleggiano la mistione degli elementi e la nascita degli elementata (quiil C. usa del commento cabalistico alla Genesi). Nel quarto abbiamo le tre Gorgoni esiodee, fornite di un solo occhio in tre. Qui l'immagine sta per la creazione dell'"huomo interiore" (dotato, secondo la dottrina cabalistica, di triplice anima) cioè della mens derivata immediatamente da Dio. Nel quinto, il simbolo di Pasifae e del toro richiama l'unione dell'anima con il corpo, e cioè la creazione dell'"huomo esteriore". Nel sesto i Talari di Mercurio simboleggiano "tutte le operationi che può far l'huomo... naturalmente et fuor d'ogni arte". Nel settimo, infine, il simbolo di Prometeo richiama le operazioni e i commerci umani, oltre quelli naturali, come le scienze, le arti, la religione e la legge. Il C., in tal modo, intende rappresentare in ordine ascendente il procedere e l'espandersi della creazione dell'universo nei successivi stadi, dalle eterne idee primigenie al mutevole esplicarsi delle attività umane. La meditata disposizione della simbologia astrale (che procedeva verticalmente lungo le corsie) e della simbologia mitologica (che si estendeva orizzontalmente lungo i gradi) consentiva al C. il successivo incrociarsi di uno stesso tema astrologico con una serie di diverse figurazioni o emblemi, dando luogo a sempre nuove variazioni e a corrispondenti nuovi significati. Nell'elaborazione di una siffatta simbologia del cosmo, il C. usa ampiamente di temi ermetici, cabalistici e magici. Egli più volte ricorre al Corpus hermeticum e al nome di Ermete Trismegisto. Dietro le sette "misure" agiscono chiaramente i sette governatori, le sette divinità astrali del Pimander. Così ancora al Pimander riporta la creazione, duplice e successiva, dell'uomo interiore (colmo dei poteri dei sette demoni stellari e derivato direttamente da Dio) e dell'uomo esteriore in cui la mens viene a calarsi. Tale origine consentirà all'uomo del C. di trascorrere lungo i gradi del triplice mondo, fino a profondarsi nell'insondabile "abisso" della sapienza divina. Né va dimenticata l'adozione delle Sefirot ebraiche (ridotte da dieci a sette in omaggio al rigoroso ritmo settenario del C.), e di altri temi cabalistici (importante quello tratto dallo Zohar, sulla triplice anima umana, la più alta delle quali è dal C. identificata con l'intelletto agente di Aristotele). Se la magia astrale ficiniana è soprattutto presente nella serie centrale del Sole in cui i temi della magia solare trovano uno sviluppo capitale in tutta l'Idea (è in questa chiave che sarà richiamato, e abilmente trasposto, l'episodio parigino del leone), il complesso intreccio di riferimenti pagani, ebraici e cristiani hanno l'inconfondibile impronta di influenze pichiane. L'arte classica della memoria, col C., entra così pienamente nel mondo dell'occultismo rinascimentale. Le immagini del teatro non sono più semplici ausili della memoria. Esse, sulla scia di Picatrix, dell'Asclepius e di Ficino, diventano veri "talismani interiori" (Yates), ricolmi del potere e dei contenuti astrali e divini che essi, in quanto armoniche contrazioni del cosmo, hanno attratto e carpito. Forse il "mago" C. sognò di assorbire nella simbologia del suo teatro tutto l'insieme dei poteri dell'universo e di reimprimerli, intatti, nell'immaginazione dello spettatore che avesse posto l'occhio alla mirabile fabbrica (la ricostruzione del teatro e dei presupposti dottrinari del C. sono nella fondamentale analisi della Yates; altri importanti chiarimenti forniscono il Secret, in particolare per l'aspetto cabalistico, e il Rossi).
Dopo la dettatura dell'Idea, il C. partì da Milano, alla fine del gennaio 1544, alla volta di Venezia e del Friuli. A Milano fece ritorno presumibilmente nel marzo, e comunque non oltre i primi di aprile. Nella città lombarda fu anche ospite di Domenico Sauli, ai cui figli si dette a insegnare retorica e umanità (uno di essi, Alessandro Sauli, diverrà barnabita e poi santo). Morì improvvisamente a Milano il 15 maggio 1544.
Alla morte del C. tutte le sue opere giacevano manoscritte. Lo stesso 1544 sipubblicano i suoi Due trattati, mentre nel 1550 sia a Venezia che a Firenze (ed. Torrentino) viene edita l'Idea del Theatro. Nell'edizione fiorentina il curatore L. Domenichi afferma di pubblicare l'opera "non potendosi anchora scoprire la macchina intera di sì superbo edificio" (il teatro rimarrà infatti introvabile nonostante le continue ricerche). Di alcuni anni più tardi è la testimonianza di B. Taegio (La villa, Milano 1559, p. 71)secondo cui tra le "mirabili pitture" della villa di Pomponio Cotta nei dintorni di Milano, si poteva vedere "l'alta et incomparabile fabbrica del meraviglioso theatro dell'eccellentissimo Giulio Camillo". Ma la descrizione che ne fa, ricalcando tali quali le parole dell'Idea, toglie credito alla testimonianza, o quanto meno sembra essere la traccia interpretativa di una raffigurazione pittorica del teatro, fatta fare dal Cotta.
Quanto agli altri manoscritti del C., pare che in gran parte fossero nelle mani di Giorgio Gradenigo. Essi, infatti, costituirono il nucleo principale per la pubblicazione delle Opere delfriulano. Oltre alla stampa di scritti separati, cui s'è fatto cenno, si dette mano ad una fortunata serie di edizioni veneziane pressoché complete. Nel 1552, Ludovico Dolce si fa editore (per i tipi di Gabriel Giolito de' Ferrari) di un volume di Tuttele opere del C. dedicate a G. Valvasone (in realtà comprendeva solo il Discorsoin materiadel suo theatro, la Lettera del rivolgimento dell'huomo a Dio, l'Idea, i Due trattati delle materie e della imitatione, le Dueorationi, e le Rime, assommanti a 21 sonetti e un'ode). Due ristampe conformi saranno fatte nel 1554 e nel 1555.Nel 1560, Gabriele Giolito stampa una nuova edizione delle Opere del C. in due tomi. Il primo tomo è conforme all'edizione del 1552, ma con l'aggiunta (pp. 265-311)di 11 sonetti, un'ode a Tullia d'Aragona, il trattato De' verbi semplici e 7lettere. Il secondo tomo (dove l'autore è chiamato "Giulio Camillo Delminio") presenta per la prima volta, e con una entusiastica dedica al conte Sertorio di Collalto di Francesco Patrizi (egli celebra l'"altissimo intelletto" del C., facendosi editore, e pourcause, della sua "meravigliosa" Topica), altri trattati del C., e cioè: la Topica, il Discorsosopra Hermogene, l'Espositione sopra al primoet secondo sonetto del Petrarca, la Grammatica, e due lettere. Nel 1566-67, Gabriel Giolito ripubblica i due tomi di Tutte l'opere del C., "ristampate et ricorrette" a cura di Tommaso Porcacchi che si sostituisce al Dolce con una dedica ad Erasmo Valvasone. L'edizione, tranne l'aggiunta di una "tavola di cose notabili" nel primo tomo (datato 1567)e di una lettera in calce del secondo (datato 1566), è conforme alla precedente. Ancora Gabriel Giolito, nel 1568, ripubblica una ristampa identica (il secondo tomo porta la data 1565). Nel 1579, accanto a una nuova edizione di Tuttel'opere pressoGiovanni e Giovan Paolo Gioliti de' Ferrari (ma il colophon ha ancora "appresso Gabriele Giolito de' Ferrari") conforme alle precedenti, compaiono anche L'opere di M. Giulio Camillo presso Domenico Farri (il primo tomo esemplato sull'ediz. 1560e il secondo sull'edizione dello stesso anno presso i Gioliti). Da segnalare, infine, l'edizione 1580di Tuttel'opere, pressoi Gioliti (identica a quella del 1579), e l'altra del 1584, presso Alessandro Griffio, identica alla edizione Farri (cfr. S. Bongi, Annali di Gabriel Giolitode' Ferrari, I, Roma 1890-93, pp. 362, 445; II, ibid. 1895-97, pp. 90 s., 235 s., 372 s.).
Dell'attività del C. come interprete del Petrarca va segnalata la copia aldina delle Rime petrarchesche (Le cose volgari di Messer Francesco Petrarcha "impresso in Vinegia nelle case d'Aldo Romano" 1501; cfr. A. A. Renouard, Annali delle edizioni aldine, Bologna 1953, pp. 28 s., n. 5)posseduta dalla Bibl. Ap. Vat., Aldine III, 2. Tale copia, preceduta dall'intestazione a penna Rime del Petrarcacon le annotazioni di Giulio Camillo, è interfogliata e presenta una serie di fitte e minute glosse in duplice grafia, almeno tardo cinquecentesca (dopo il componimento Che fai alma? divengono assai rade). La vicinanza di tali postille con quelle bembesche all'aldina del 1521 sembra porre un serio problema di priorità tra il C. e il Bembo. Di fatto, alcune assai più brevi annotazioni del C. alle Rime del Petrarca furono edite da Gabriel Giolito, a Venezia, nel 1553 (Il Petrarca novissimamente revisto,e corretto da M. Ludovico Dolce. Con alcuni dottissimi avertimenti di M. Giulio Camillo), ma esse apparvero al Cian (1932)"derivazione parziale, grossolana, mutilata e scorretta" delle postille bembesche all'aldina del 1521. Il Giolito pubblicò ancora gli Avertimenti del C. in aggiunta alle edizioni del Petrarca del 1554, 1557, 1558, 1560, stampandoli anche a parte, e negli stessi anni, come Annotationi di M. Giulio Camillo sopra le Rime del Petrarca (in realtà il grosso dell'opuscolo era occupato dalle tavole e dagli indici del Dolce; cfr. S. Bongi, I, pp. 407 s.; II, pp. 45-47).
Le opere e le rime del C. ebbero inoltre una serie di nuove edizioni parziali e di ristampe in raccolte, mentre amplissima fu la fortuna del C. negli scrittori ermetici e cabalistici tra '500e '600e così pure nella trattatistica e nella cultura figurativa del manierismo.
Cospicuo è anche il numero dei manoscritti del C.; oltre i già ricordati segnaliamo: il poema Davalus scritto in onore del marchese del Vasto e già edito dall'Altan (Bergamo, Bibl. civica, Archivio Silvestri, n. 24); In Ciceronis orationes argumenta (Ferrara, Bibl. comunale Ariostea, II 357, fasc. 2; Milano, Bibl. nazion. Braidense, A C XIII 6); una copia dell'Oratione al Christianissimo Re Francesco (Firenze, Bibl. nazion. centrale, Filze Rinuccini, 17); Alcuni luoghi di G. Camillo in materia di medicina (Milano, Bibl. Ambrosiana, I 204 inf., f. 311, cfr. A. L. Gabriel, A Summary Catalogue of Microfilms of One Thousand Scientific Mss. in the Ambrosiana Library, Notre Dame, Ind., 1968, p. 178; nella stessa biblioteca da segnalare I luoghi del cod. H 108 inf.); Del senso sottile e lettere (Roma, S. Gregorio Magno al Celio, cod. 844); Discursus circa eius theatrum (Biblioteca Apost. Vaticana, Barb. lat. 4084, ff. 184r-194r, che riporta la redazione italiana del Discorso in materia del suo theatro con, in calce, un lungo brano eliminato nell'edizione a stampa); De imitatione dicendi (Ibid., Vat. lat. 6565); notevole il caso del cod. Ottoboniano lat. 1777 della stessa Biblioteca, adespoto, che nel catalogo settecentesco è indicato come Teatro di G. Camillo (èdi mano secentesca e costituisce una interessantissima esemplificazione della struttura analogica del sapere secondo le regole del C.); Frammento di lezione sull'arte oratoria (Udine, Biblioteca comun., Fondo Princ., cod. 421); Sopra il poema di Francesco Zorze (ibid., cod. 422).
Una lettera di A. Belloni al C. è a Udine (ibid., cod. 565), alcune del Bembo al C. sono all'Arch. Segr. Vat. (Fondo Borghese, s. I, n. 175); documenti sul C. sono presso l'Archivio di Stato di Modena (Kristeller, Iter..., I, p. 366); una lettera "astrologica" del C. (Bologna, 11 genn. 1536) a L. Guicciardini è all'Arch. di Stato di Firenze (Le carte Strozziane del R. Arch. di Stato di Firenze, I, Firenze 1884, p. 580 n. CXXXVII). Per mano del Castelvetro sono le Considerazioni di G. C. Delminio degl'indovini virgiliani (Modena, Bibl. Estense, Est. ital. 284); una elegia di P. Valeriani per ilC. èa Belluno (Seminario Gregoriano, cod. 68); un De Julio Camillo di G. Giraldi è ancora a Udine (Bibl. comunale V. Joppi, Fondo Principale, cod. 102, ff. 441 s.).
Notevole èanche il numero di rime volgari e latine manoscritte del C.: Bassano del Grappa (Bibl. civica, cod. 38); Firenze (Bibl. naz. centrale, Magliab. 1403, Nuovi acquisti 473; Bibliot. Riccardiana, cod. 2835); Milano (Bibl. Ambrosiana, D 197 inf.); Modena (Bibl. Estense, Est. lat. 150); Padova (Bibl. Antoniana, cod. XXIII 671); Parma (Bibl. Palatina, Pal. 555, 557); Piacenza (Bibl. comunale Passerini-Landi, Mss. A. Genocchi, Pallastrelli 230); Treviso (Bibl. comunale, cod. 1404); Udine (Bibl. comunale, Fondo Joppi, 159 e 164); Venezia (Bibl. Marciana, Marc. lat. XII, 140, 176; XIV, 165; Marc. ital. IX, 144, 202, 248, 365); Bibl. Apostolica Vaticana (Vat. lat. 5227, v. II); un sonetto èancora segnalato da E. Narducci (Catalogo di mss. ora posseduti da B. Boncompagni, Roma 1892, p. 58, n. 99 [33]).
Fonti e Bibl.: Oltre le opere citate nel corso della voce sono da vedere: P. Gerardo, Novolibro di lettere, Venezia 1544, ff. 36v-42r, 50r, 74r, 85v; G. B. Doni, La Libreria, Venezia 1550, p. 64; P. Bembo, Lettere, III, Venezia 1560, p. 39; L. Contile, Lettere, Pavia 1564, f. 90v; G. M. Toscano, Peplus Italiae, Lutetiae 1578, pp. 85 s.; L. Giraldi, Opera, II, Basileae 1580, pp. 410 s.; B. Pino, Nuova scielta di lettere, Venezia 1582, I, pp. 318 s., 342; II, pp. 171-201; III, pp. 252-255; G. Muzio, Lettere, Firenze 1590, pp. 66-73, 168-172; F. Scotti, Itinerario d'Italia, Roma 1601, p. 101; B. Zucchi, L'idea del segretario, IV, Venezia 1614, pp. 475 s.; Cataloguscodicum mss. bibliothecae Regiae, III, 4, Parisiis 1744, p. 492, n. 8764, 6 (che segnala un Delocutione figurata del C.); F. Cicereius, Epistolarum libri XII, a cura di P. Casati, I, Mediolani 1782, pp. 142 s., 167; Lettere scritte a P. Aretino, a cura di T. Landoni, I, 1, Bologna 1873, pp. 36-48; G. Morelli, Bibliotheca manuscripta graecaet latina, I, Bassani 1802, pp. 461 s., 477; G. Valentinelli, Bibliotheca manuscripta ad S. Marci Venetiarum, I, Venetiis 1868, p. 153; Scrittid'arte del Cinquecento, a cura di P. Barocchi, I, Milano-Napoli 1971, pp. 114 s., 124-32, 726, 979, 1072 s.; Biblioteca Apost. Vaticana, cod. Vat.lat. 9263: G. M. Mazzuchelli, Notizie relativeagli Scrittori d'Italia, ff. 339r-352v; G. Ghilini, Teatro d'huomini letterati, I, Venezia 1647, p. 130; G. M. Crescimbeni, Comentari intorno alla... volgar poesia, II, 2, Roma 1710, pp. 213 s.;III ibid. 1711, p. 240;N. C. Papadopoli, Hist. gymn.patavini, II, Venetiis 1726, p. 256;F. S. Quadrio, Della storia e della rag. d'ogni poesia, I, Bologna 1739, pp. 61, 347, 412; II, Milano 1741, pp. 183, 237;G. Fontanini, Bibl. dell'eloq. italiana...con le annotaz. del sig. A. Zeno, I, Venezia 1753, pp. 38, 49 s., 97-99, 111; II, ibid. 1753, pp. 29, 119, 233, 318; Lettere di L. Castelvetro, in Raccolta d'opuscoli scientifici e filologici, XLVII, Venezia 1752, pp. 425, 430-32;F. Altan, Memorieintorno alla vita, ed all'opere di G. C. Delminio, in Nuova raccolta d'opuscoli scientifici e filologici I, Venezia 1755, pp. 239-88;F. G. Freytag, Adparatus litterarius, III, Lipsiae 1755, pp. 128-133; G.-G. Liruti, Notizie delle vite ed opere scritte da'letterati del Friuli, III, Udine 1780, pp. 69-134; A. Zeno, Lettere, Venezia 1785, I, p. 87; IV, pp. 448-50, 456 s., 459-61; V, pp. 60, 155, 164-68, 179 s.; G. Tiraboschi, Storia della letteraturaitaliana, IV, Milano 1833, pp. 286-90; P. Giaxich, Vita di G. Muzio, Trieste 1847, pp. 15 s., 19 s., 25, 30-32, 75, 120-22; S. Gliubich, Dizionario biografico degli uomini illustri della Dalmazia, Vienna-Zara 1856, p. 71; M. Young, The life and timerof A.Paleario, I, London 1860, pp. 163, 545 s.;R. C. Christic, E.Dolet, London 1880, pp. 33 s., 86, 142 s., 146 s., 151-54, 219, 272; A. Neri, Una lettera inedita di G. 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