PALMERINI, Camillo
– Nacque a Roma, quinto di sei fratelli, il 3 aprile 1893 da Achille, professore di disegno, e da Maria Cappello.
La madre era figlia di Valerio, maggiore dell'esercito pontificio, e pronipote di Agostino, medico condotto, studioso delle malattie trasmissibili per contagio, nonché membro di accademie e società scientifiche. Dal padre Palmerini ereditò la passione per il disegno; fu lui a introdurlo ai segreti della disciplina, già prima che intraprendesse gli studi artistici.
Nel 1905 conseguì la licenza classica presso il collegio Nazareno e s’iscrisse alla Regia Accademia di belle arti in via di Ripetta, dove nel 1915 ottenne il titolo di professore di disegno architettonico.
Alla fine degli anni Dieci avviò una prolungata collaborazione con l’Istituto per le case popolari (ICP), presso il quale svolse l'intero arco della sua attività professionale, fino al pensionamento nel secondo dopoguerra. Entrò quindi in contatto con gli altri progettisti impegnati nel compito molto concreto, lontano dalle speculazioni figurative delle avanguardie, di fornire case solide e decorose alla popolazione più disagiata, come Tito Bruner, Innocenzo Costantini, Giorgio Guidi, Plinio Marconi, Felice Nori, Carlo Polidori, Pietro Sforza, Giovan Battista Trotta, Angelo Vicario. Ma fu soprattutto con Innocenzo Sabbatini che instaurò un indissolubile rapporto amicale (come è testimoniato dal ritratto fotografico che lui stesso gli fece nel 1920, apponendovi il motto «verso l'infinito»), oltre che un proficuo sodalizio professionale.
I primi interventi lo videro impegnato nella definizione di elementi e particolari costruttivi dispiegati all'interno dei caseggiati del Trionfale II che proprio Sabbatini stava portando a termine nel primo dopoguerra. Come notò Alberto Calza Bini, all'epoca direttore dell'ICP, l'opera era «ispirata ad un notevole movimento di masse di linee, nella ricerca di una musicalità di spazi con poche note d'ombra e di colore chieste alle falde dei tetti e alle canne fumarie, alle cassette dei fiori o ad un modesto motivo in ferro, ad un pilastro di pietra e di mattoni, o ad un tenue aggetto di cornicione» (Le nuove costruzioni dell'Istituto per le case popolari in Roma al quartiere Trionfale, in Architettura e arti decorative, III [1923-24], 1, p. 310).
Nel 1919 realizzò una schiera di edifici residenziali lungo viale dei Romagnoli, nei pressi degli scavi di Ostia Antica, dove mutuò il lessico architettonico delle robuste costruzioni che Quadrio Pirani aveva innalzato presso la basilica di S. Saba, in equilibrio perfetto tra venustas e firmitas; costruzioni che proprio in quegli anni venivano assunte come termine di riferimento all'interno dell'ufficio tecnico dell'ICP.
Agli inizi degli anni Venti intervenne nella realizzazione del primo nucleo edilizio della Garbatella (la borgata di residenze popolari articolata sulla base del piano regolatore redatto da Gustavo Giovannoni e Massimo Piacentini e impostata secondo il modello della garden-city britannica, come un congiunto di edilizia estensiva). Nell'area gravitante attorno a piazza Brin, oltre a fornire dettagli architettonici, progettò alcuni villini e il fabbricato di maggior mole ‘P’ (1920-23). In queste opere accentuò il carattere rustico della costruzione, facendo largo uso di pietre disposte a opus incertum per radicare l'edificio a terra, di ghiere di mattoni per sorreggere balconi in aggetto e ricorse all'intonaco, declinato secondo diverse textures, per creare specchiature all'interno dello spiccato parietale.
Adottando la stessa strategia concepì i villini presso la borgata-giardino Aniene (oggi Montesacro), impostata secondo il piano urbanistico messo a punto nel 1920 da Giovannoni, Pirani ed Edmondo Del Bufalo.
Improntò tutta la sua opera ai valori della tradizione costruttiva romana, tenendosi lontano dai fermenti innovatori che nutrivano le avanguardie internazionali. Su un tale atteggiamento progettuale influirono sia la formazione avvenuta nell'alveo delle scuole d'arte, dove fondamentale era il ruolo del disegno, sia il sistema produttivo romano ancora saldamente imperniato sull'artigianato e distante dalle logiche industriali che governavano le esperienze transalpine, tutte impostate sui moderni criteri di ‘riproducibilità tecnica’ e ‘standard’.
Nel 1924, realizzò alle pendici di Monteverde l’edificio per abitazioni tra via Casini e via Dandolo, dove superò qualsiasi criterio rigidamente simmetrico, disponendo in calibrato disordine una congerie di episodi volumetrici, e travalicò ogni principio di serialità variando incessantemente le modanature.
Verso la metà degli anni Venti portò a termine all'interno del quartiere Appio due complessi di edilizia popolare a carattere intensivo, riuscendo a conferire un carattere unitario agli interventi senza scadere nell’uniformità. Nei tre fabbricati che innalzò a ridosso delle mura Aureliane (il complesso Appio II, 1924), lungo via La Spezia, bilanciò l’allineamento delle bucature tipico di un fabbricato popolare con l’accorto e variegato trattamento delle superfici parietali e con l'introduzione di elementi di scansione verticale. Suggestionato dalle eversioni barocche che nella prima metà del XX secolo pervadevano la cultura architettonica romana, sviluppò secondo svolgimenti di ascendenza settecentesca l'aggetto dei balconi.
Nella vasta mole del complesso ICP Appio I (1926) – una vera e propria insula a ridosso di piazza Tuscolo, con un'ampia corte interna sistemata a giardino e campi da gioco per i bambini – dispiegò una moltitudine di episodi plastici, elementi costruttivi e decorativi che estrasse dall'ambiente raccolto dei rioni.
Proprio in quegli anni l'Associazione artistica fra i cultori di architettura in Roma (AACAR), della quale era socio, portava avanti le ricerche sul tessuto edilizio della città – «opera quasi sempre di maestri modesti e ignoti, ricca di fogge, variata nei dettagli, ingegnosa nelle soluzioni e soprattutto largamente e intensamente borghese» (Architettura minore in Italia. Roma, Roma s.d. [ma 1928], p. III), con l'intento di immortalare quanto andava scomparendo nella drastica opera di trasformazione urbana.
Alla fine degli anni Venti tornò a occuparsi della Garbatella, intervenendo all'interno del lotto XII. Laddove Sabbatini aveva innalzato la mole dell'edificio pluriuso deputata a ospitare il cinema-teatro Palladium, evitò di creare una cortina continua a chiusura dell'isolato e eresse una serie di singoli fabbricati dalle dimensioni contenute, differenti per tipologia edilizia e riferimenti figurativi. Costruì una coppia di edifici in linea e ne articolò la volumetria, così da ridurne l'impatto visivo e variarne l'appercezione. Ne definì l'impaginato architettonico alternando l'intonaco con un'apparecchiatura muraria di pietre disposte a opus incertum; e ne articolò le superfici parietali con semplici elementi: lesene, cornici attorno alle bucature, ghiere di arco.
Nella casa d'angolo situata tra via Odero e via Cravero mise a punto un suggestivo impianto figurativo dove addensò tutti i tòpoi della tradizione edilizia romana, della quale restituì gli elementi privandoli dei rispettivi riferimenti tipologici. Dette così corpo e sostanza a una poetica rêverie ricorrendo alle immagini dei barbacani, delle bugne, degli archi a duplice ghiera. Con il tetto a capanna (vessillo stesso del ricovero domestico) coprì il volume absidato che ospitava i soggiorni degli appartamenti e della torretta, trasfigurazione delle altane dei palazzi nobiliari.
Pioniere dell'urbanizzazione del litorale di Ostia, dove già nel 1919 aveva costruito con alcuni amici una baracca in legno, tra il 1926 e il 1929 vi portò a termine per conto della Impresa Fratelli Gra un vasto complesso lungo il corso Duca di Genova, impostato sul modello urbano dell'isolato a corte aperta, così da garantire migliori condizioni di aria e di luce all'interno degli ambienti abitativi.
A partire da quel momento, in stretta concomitanza con le istanze di rinnovamento architettonico che nel Nord Europa avevano squarciato le consolidate certezze del ‘mondo di ieri’ (nel 1927 era stato completato il Weissenhof di Stoccarda, il quartiere dimostrativo della nuova edilizia residenziale), trasformò i canoni della propria ricerca progettuale. Lavorò sull'articolazione chiara di semplici masse architettoniche, sulle quali appose una sintetica struttura figurativa delineata nell'intonaco, e abbandonò l’aura medioevaleggiante in favore di un repertorio più astratto e decantato, prossimo al classicismo maturo e ai fasti del barocco.
Tornando a intervenire presso gli scavi di Ostia Antica, innalzò, in seconda schiera lungo via dei Romagnoli, una palazzina dall'impaginato prospettico estremamente rarefatto, dove esilissime semicolonne di sapore quasi giottesco governavano la spaziatura muraria.
Tra il 1926 e il 1929 risolse in termini sintetici il complesso del Montesacro III lungo via Abetone: dispiegò in calibrato ordine sparso solide stereometrie e conferì all'impalcato prospettico dei fabbricati una inedita robustezza figurativa: limitandosi a sottolineare, seppur con maggior incisività, le 'cantonate', le ghiere delle arcate o i conci corrispondenti alle chiavi di volta.
Adottò la stessa strategia operativa nei blocchi di case ICP presso Ponte Lungo (1927-29) – in piazza Alberone 15 e in via Appia Nuova 359 – dove, nelle volute del portale d'ingresso e in quelle che corrono lungo il piano attico, estrinsecò un accentuato gusto per il salto di scala e l'esaltazione dimensionale del singolo particolare architettonico.
Nel 1930, all'interno della piana di Testaccio, il quartiere operaio sorto ai piedi dell'Aventino, edificò un ampio fabbricato a corte in piazza S. Maria Liberatrice. Rispetto alla monotonia che contraddistingueva gli asettici blocchi edilizi innalzati in epoca umbertina si preoccupò di articolare la volumetria scavando ampi diedri in corrispondenza degli angoli dell'isolato e creando una serie di sporti e rientranze lungo il perimetro esterno del fabbricato in modo da governare, sul piano visivo, la grande dimensione dell'intervento. Per mascherare l’indistinta reiterazione di bucature all'interno dello spiccato parietale, sovrappose alla struttura muraria un articolato impalcato decorativo, riferito al più genuino genius loci.
Nel 1948 portò a termine il restauro della chiesa di S. Maria delle Grazie, a Capena, intervenendo su un brano di quell'architettura minore che aveva a lungo investigato e studiato in gioventù, quando frequentava attivamente l’AACAR.
Nel secondo dopoguerra collaborò con Veniero Colasanti, scenografo e costumista, alle scenografie messe in opera presso il teatro Valle di Roma. Agli inizi degli anni Cinquanta, su incarico di don Umberto Terenzi, rettore del santuario del Divino Amore, sull’Ardeatina, redasse il progetto per un nuovo e più ampio complesso cultuale, del quale realizzò il modello in gesso. Assai verosimilmente, sempre su incarico di Terenzi, si occupò della collocazione, lungo alcune strade della periferia romana, di edicole sacre deputate ad accogliere immagini musive riproducenti la Vergine col Bambino venerata presso il santuario romano. Egli stesso si interessò saltuariamente all’arte musiva, realizzando un ridotto numero di mosaici di piccole dimensioni rappresentanti volti di santi.
Abitò per tutta la vita in villini unifamiliari che egli stesso aveva costruito (lungo via Torpignattara, a villa Senni sull’Anagnina, a Monte Mario alto, a Tivoli, presso colle Nocello), sempre circondati da una ridotta porzione di giardino, dove poté dedicarsi alla passione per le piante, i fiori e gli alberi da frutta. Consumato innestatore, coltivò rose, zinnie, crisantemi, che, pittore dilettante, rappresentò in un cospicuo numero di tele a tempera e a olio. Amante della vita all’aria aperta, coglieva ogni occasione per immergersi con vivido senso panico nella natura. Appassionato ed esperto cacciatore batté in lungo e in largo il territorio laziale praticando l'arte venatoria e la pesca d’acqua dolce.
Morì a Roma il 30 giugno 1967.
Fonti e Bibl.: I. Costantini, Le nuove costruzioni dell'Istituto per le case popolari in Roma. La Borgata giardino ‘Garbatella’, in Architettura e arti decorative, II (1922-23), 3, pp. 119-137; Id., Borgata giardino alla Garbatella (ICP in Roma), Milano-Roma s.d. [ma 1923]; A. Calza Bini, Il fascismo per le case del popolo, Roma 1927, pp. 46 s.; Cinquant’anni di vita dell’Istituto autonomo case popolari della provincia di Roma, Roma 1953, passim; C. Cocchioni - M. De Grassi, La casa popolare a Roma. Trent'anni di attività dell’ICP, Roma 1984, passim; E. Calabri, La chiesa di S. Maria delle Grazie, in Capena e il suo territorio, a cura di M.C. Mazzi, Bari 1995, p. 216; F.R. Stabile, Regionalismo a Roma. Tipi e linguaggi: il caso Garbatella, Roma 2001, passim; G. Duranti - E. Puccini, Testaccio. Il quartiere operaio di Roma Capitale 1870-1930, Roma 2009, passim; L'archivio storico iconografico IACP. I progetti delle case popolari a Roma dal 1903 agli anni '50 (catal.), a cura di T. Dore - A. Nocera - M.V. Rinaldi, Roma 2010, passim; A. Bonavita - P. Fumo - M.P. Pagliari, La Garbatella. Guida all’architettura moderna, Roma 2010, passim.