PELLEGRINO, Camillo
PELLEGRINO, Camillo. – Nacque a Capua intorno al 1527 da Giovanni Andrea, esponente di un’antica famiglia bolognese, e da Luisa Della Valle. Ebbe un fratello, Pompeo, e una sorella, Sigismonda, coniugata con Camillo Dell’Uva, fratello dei due amici e poeti conterranei Benedetto e il meno noto Vincenzo.
Non si hanno notizie sulla sua prima formazione culturale e letteraria. Si accostò alle lettere apprendendo il latino, applicandosi successivamente allo studio della filosofia, della storia, della lingua e letteratura greche. Stabilì probabilmente contatti con il dotto umanista capuano Luca Censio e si avvicinò per la prima volta a un tipo di ricerca più spiccatamente erudita grazie alla relazione con l’arcivescovo di Capua, Cesare Costa, il quale lo incaricò di allestire un catalogo degli arcivescovi capuani (Borzelli, 1895, p. IX). Si ignora quando sia entrato in religione. Intorno al 1543 conseguì il titolo di abate, che lo indusse a percorrere, sulle orme del fratello Pompeo, dottore in teologia, decano e provicario della diocesi di Capua, la carriera ecclesiastica, diventando canonico e primicerio della cattedrale.
Aderì all’Accademia dei Sereni, fondata a Napoli nel 1546, e a quella degli Ardenti, entrando in contatto con i maggiori letterati locali: Ferrante Carafa, Angelo Di Costanzo, Giulio Cortese, Berardino Rota, Paolo Regio, Ascanio Pignatelli. In questi anni i soggiorni a Napoli diventarono sempre più frequenti, soprattutto per fare visita ai Carafa – oltre a Ferrante, i più giovani Luigi e Marcantonio –, ai Pignatelli e al principe di Conca, Matteo di Capua. Verso il 1560 contribuì alla fondazione dell’Accademia dei Rapiti insieme con il conterraneo Giovan Battista Attendolo.
Al 1561 risale una delle prime testimonianze dello stretto legame con Attendolo, che il 2 novembre scrisse a Pellegrino descrivendo la polemica sorta con Vincenzo Dell’Uva circa il titolo da assegnare al volgarizzamento di Girolamo d’Aquino della Campania di Antonio Sanfelice e discutendo l’opportunità di alcune correzioni pellegriniane a un sonetto. Per la stampa del poema sacro di Benedetto Dell’Uva, Il Doroteo, licenziato a Firenze nel 1582, Pellegrino scrisse la dedicatoria a Luigi Carafa, elogiando lo stile insieme «dolce» e «grave» della poesia del monaco cassinese. Sul fronte della scrittura in versi, alle tornate del sodalizio capuano dei Rapiti Pellegrino destinò alcuni componimenti (Borzelli, 1895, pp. XXIV-XXIX), tessere di una produzione poetica piuttosto ricca, affidata solo parzialmente a un volume miscellaneo allestito da Scipione Ammirato e pubblicato a Firenze nel 1584 (tip. B. Sermartelli), che oltre alle rime di Pellegrino ospitò i testi di Attendolo e di Dell’Uva.
Parte delle Rime di Benedetto Dell’Uva, Giovan Battista Attendolo et Camillo Pellegrino uscì con dedica di Scipione Ammirato al principe di Stigliano Luigi Carafa, ospitando alle pp. 81-117 una sezione pellegriniana, un piccolo canzoniere di stampo amoroso che avanza, in forme tradizionali e senza particolari innovazioni sul piano tecnico-formale, le consuete trame del discorso lirico petrarchista (cfr. Quondam, 1975, pp. 136-140). La restante produzione poetica di Pellegrino non giunse all’onore dei torchi ed è conservata in due codici della Biblioteca nazionale di Napoli (XIII.D.18 e XIV.D.2) e in due codici della Biblioteca del Museo campano di Capua (bb. 338, 436); da questo materiale manoscritto attinse Angelo Borzelli, che pubblicò nel 1895 una manciata di rime (sonetti, componimenti in ottave e un poemetto boschereccio) e nove capitoli in terza rima. Nei sonetti si notano, rispetto ai testi a stampa, trame di scrittura più mature e dinamiche (come «Volò battendo l’ali del desio / a la luce il mio cor per linea ardente / d’innumerabil atomi e faville», in Borzelli, 1895, p. LXXXII) e un impiego ampio e versatile di procedure artificiose, in linea dunque con le prove più evolute e sperimentali della lirica napoletana di fine secolo («bella e non bella sete (il ver s’onori), / ma il bel vostro e il non bello un sì gentile / formano obietto, ch’a lui presso a vile / s’han di bellezza i più supremi cori», p. LXXXIV). Sostanzialmente fedeli al modello epistolare delle Satire ariostesche, i Capitoli accolgono spunti cronachistici, illustrano occasioni di carattere autobiografico, delineando spesso gli ambienti frequentati da Pellegrino, come il fiorente circolo letterario raccolto intorno a Matteo di Capua (capitolo I) o i palazzi del principe di Stigliano (capitolo V); inoltre Pellegrino intraprende discussioni letterarie con corrispondenti lontani (come nel capitolo III, dedicato al senese Orazio Lombardelli) o condivide scene di vita quotidiana descritte con qualche sfumatura di stile burlesco (capitolo VIII, a Giovanni Camerino).
A margine della silloge di rime vide la luce il Carrafa overo dell’epica poesia, un dialogo dedicato a Marcantonio Carafa, fonte di una celebre polemica che da qui in avanti oppose i difensori della poesia di Tasso ai fautori di quella ariostesca.
Composto probabilmente a ridosso della pubblicazione nel 1581 della Gerusalemme liberata, il Carrafa è un dialogo, ambientato nella Rocca di Mondragone, tra Luigi Carafa, principe di Stigliano, e Giovan Battista Attendolo, i quali sono intenti a sciogliere il nodo del primato nel genere dell’epica volgare, conteso da Ariosto e Tasso. Attendolo, portavoce delle idee dell’autore, sostiene la superiorità della Liberata tassiana sul Furioso ariostesco e su quei poemi ascrivibili alla forma del romanzo come l’Amadigi di Bernardo Tasso o il Girone cortese di Luigi Alamanni. In conformità alle norme della precettistica aristotelica, il poema tassiano risulta rispettoso dell’unità di azione ed è costruito secondo criteri di verosimiglianza storica, al contrario del Furioso, composto da un’ampia gamma di azioni ed episodi secondari tipici del genere romanzesco, immeritevoli di comparire nell’orditura, forzatamente lineare e proporzionata, di un poema eroico. Pellegrino assegna ad Ariosto una superiorità solo per ciò che concerne la «sentenza», ossia per l’evidenza e la perspicuità dei concetti espressi nel poema, con il conseguente rilevamento dell’eccessiva durezza e oscurità del dettato tassiano. Sfruttando una metafora architettonica che avrà larga fortuna nella controversia tra i partigiani di Ariosto e di Tasso, Pellegrino paragona la Liberata a «una fabrica di non tanta grandezza, ma bene intesa» (in Trattati, III, 1972, p. 318); della poesia tassiana Pellegrino esalta in primis la purezza e l’arguzia della «locuzione», la scelta esemplare delle parole e la loro disposizione entro la misura dei versi. La celebrazione dell’epica tassiana investe quindi soprattutto gli aspetti e le tecniche formali più che le strutture narrative, il suo assetto stilistico, disponibile a essere manipolato entro una dimensione prevalentemente metaforica e intellettualistica.
Il dialogo suscitò immediatamente una fitta serie di adesioni e proteste che coinvolse diversi gruppi intellettuali italiani, arrivando a registrare ben 17 contributi polemici fino al 1590: pochi mesi dopo l’uscita del dialogo pellegriniano vide la luce a Firenze, nel febbraio del 1585, una Difesa dell’Orlando Furioso. Contro ’l dialogo dell’epica poesia di Camillo Pellegrino, sottoscritto dagli accademici della Crusca, ma composto probabilmente da Leonardo Salviati. Si tratta di un feroce attacco contro Tasso sostenuto essenzialmente a livello linguistico, attraverso la condanna dell’uso tassiano di latinismi e termini impropri, e la conseguente difesa del modello linguistico ariostesco. Le tesi fiorentinocentriche della Crusca provocarono da un lato la pronta reazione di Tasso, che compose l’Apologia della Gerusalemme liberata, dall’altro una meticolosa obiezione polemica da parte di Pellegrino, il quale mandò alle stampe una Replica [...] alla risposta degli Accademici della Crusca fatta contro il dialogo dell’epica poesia in difesa, come e’ dicono, dell’Orlando furioso dell’Ariosto (Vico Equense, G. Cacchi, 1585).
La struttura della Replica è plasmata su quella della Difesa, dal momento che si tratta di un commento puntuale alle censure elaborate nel pamphlet cruscante; in essa Pellegrino delucida e ribadisce alcuni punti fondamentali della sua riflessione teorica, indicando la locuzione artificiosa quale elemento portante della scrittura in versi e improntando sul modello tassiano una nuova proposta di codificazione normativa e retorica del discorso poetico.
Negli anni interessati dalla polemica innescata dal Carrafa si addensa il nucleo più consistente della corrispondenza epistolare superstite di Pellegrino, affidata ai manoscritti Napoli, Biblioteca nazionale, XIV.D.2; XIII.A.A.76; XII.C.90/2, e Capua, Biblioteca del Museo campano, bb. 140, 187, 338, 446.
Si tratta di un carteggio piuttosto ampio e diversificato, che colpisce per la discreta ampiezza dei contatti; dalla rosa dei corrispondenti affiorano i nomi di amici intimi e personalità familiari come Scipione de’ Monti, Attendolo o Scipione Ammirato, che da Firenze informa l’amico circa l’evoluzione della polemica con gli accademici della Crusca (Borzelli, 1895, pp. XLVIII-LXII); ma anche personaggi meno scontati, come i filotassiani genovesi Angelo Grillo e Giulio Guastavini. Da una lettera indirizzata a Grillo pubblicata senza indicazione di data (ibid., pp. XL-XLIII), ma agevolmente riconducibile, per via di indizi interni, ai primi mesi che seguono la princeps genovese, con le annotazioni di Scipione Gentili e Giulio Guastavini, della Liberata tassiana (1590), si evince l’ammirazione del gruppo capuano (composto, come detto, oltre che da Pellegrino, da Attendolo e Dell’Uva) verso il benedettino genovese, il quale scrisse a Pellegrino almeno quattro lettere, accolte nel suo epistolario a stampa (Lettere, Venezia, G.B. Ciotti, 1602, pp. 111, 116, 344, 348), incentrate sulle mansioni ecclesiastiche di entrambi come sul giudizio e sullo scambio di testi poetici. Di Giulio Guastavini, invece, sono note due lettere a Pellegrino, datate rispettivamente 18 luglio 1592 e 22 novembre 1593, in un arco di tempo, dunque, posteriore alla querelle tra partito tassiano e ariostesco. In ogni caso esse riferiscono un paio di informazioni interessanti: l’invio da parte di Guastavini di alcune copie dei suoi, appena pubblicati, Discorsi et annotationi intorno alla Gerusalemme liberata (Pavia 1592) e il comune legame di amicizia con Angelo Grillo, tramite tra il capuano e il medico genovese (Navone, 2011, pp. 192-194).
Pellegrino fu ammesso, probabilmente sin dalla fondazione (1586), all’Accademia napoletana degli Svegliati, guidata da Giulio Cortese; forse in questa sede poté conoscere Tasso nel 1592, mentre pochi anni più tardi dovette instaurare i primi contatti con Giovan Battista Marino, le cui prime testimonianze poetiche furono oggetto nel 1597 di uno scambio epistolare con Alessandro Pera, una lettera nella quale Pellegrino pone in luce il «credibile meraviglioso» che affiora da un poemetto su Adone, prima attestazione nota del capolavoro mariniano (Borzelli, 1898, pp. 209 s.). A Pellegrino Marino inviò una lettera nel marzo 1598 ringraziando il corrispondente per gli elogi e per le censure ricevute ad alcuni suoi «sonettuzzi» (G.B. Marino, Lettere, a cura di M. Guglielminetti, 1966, pp. 24-26). Dopo l’aprile del 1598, periodo al quale risale il soggiorno capuano di Matteo di Capua e del suo segretario Marino, Pellegrino diede inizio alla stesura del dialogo Del concetto poetico, pubblicato per la prima volta da Borzelli nel 1898 (Borzelli, 1898, pp. 327-359) sulla base del codice Napoli, Biblioteca nazionale, XIV.D.2, cc. 64-89; altri due testimoni del dialogo a Capua, Biblioteca del Museo campano, bb. 187, cc. 79r-103v; 436 (quest’ultimo probabilmente autografo).
Scritto intorno al 1598, il dialogo presenta quattro interlocutori: Matteo di Capua, Pompeo Garigliano, Giovan Battista Marino e lo stesso Pellegrino, i quali prendono parte a una discussione che trae spunto da un quesito su alcune ottave boscherecce di Sertorio Pepi, un poeta locale di vocazione petrarchista. La prima parte del dialogo affronta principalmente questioni teoriche, sull’onda di una conversazione intorno alle differenze e ai vincoli tra concetto e locuzione in un testo poetico: riprendendo e sviluppando le argomentazioni centrali del Carrafa, Pellegrino afferma che la locuzione pertiene alla «scelta e collocazioni delle voci, che sono immagini de’ Concetti» (Borzelli, 1898, p. 329), facendo del rapporto dialettico tra le due componenti l’essenza di ogni attività poetica. Supporto necessario alla manipolazione artificiosa della locuzione, la nozione di concetto poetico è collocata al di fuori dell’orbita aristotelica del «verosimile», rappresentato piuttosto come un prodotto dell’ingegno, un processo intellettualistico di mimesi fantastica, attinente dunque al campo del «credibile», come Pellegrino sostiene recuperando ampiamente le tesi contenute nella Difesa di Dante di Iacopo Mazzoni (pp. 332 s.). Pellegrino riespone così una giuntura teorica fondamentale per comprendere l’evoluzione del gusto poetico secentesco, tanto più se nella seconda parte del dialogo interviene Marino, allora quasi trentenne, per commentare i sonetti di alcuni tra i poeti più rappresentativi della tradizione volgare, Petrarca, Bembo e Della Casa, esaminati e valorizzati in direzione arguta e concettosa, allo scopo di legittimare quanto affermato in precedenza. La capziosità dell’operazione pellegriniana si riflette integralmente sul personaggio di Marino, sul quale viene incentrata, con tratti di sorprendente attendibilità, una discussione intorno a uno dei cardini teorici fondamentali della sua poetica, l’opposizione e la differenza che sussistono tra il «furto» e «il vero modo di imitare ed appropriarsi quel d’altri lodevolmente» (pp. 354 s.).
Pellegrino trascorse gli ultimi anni di vita a Capua, dove morì nel 1603.
Il Concetto poetico è edito in A. Borzelli, Il Cavalier Giovan Battista Marino, Napoli 1898, pp. 324-359 (cfr. anche pp. 209 s.); il Carrafa in Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, a cura di B. Weinberg, III, Bari 1972, pp. 307-344.
Fonti e Bibl.: G.B. Marino, Lettere, a cura di M. Guglielminetti, Torino 1966, ad indicem.
A. Borzelli, I capitoli ed un poemetto di C. P. il Vecchio, Napoli 1895; G. Cerboni Baiardi, Il dialogo Del concetto poetico di C. P., in La rassegna della letteratura italiana, LXII (1958), pp. 370-374; B. Weinberg, A history of literary criticism in the Italian Renaissance, Chicago 1961, pp. 242-244, 991-997, 1019-1022; G. Ferroni - A. Quondam, La ‘locuzione artificiosa’. Teoria ed esperienza della lirica a Napoli nell’età del manierismo, Roma 1973, pp. 26-30, 92-125; A. Quondam, La parola nel labirinto. Società e scrittura del Manierismo a Napoli, Roma-Bari 1975, pp. 32-43, 136-144; P. Sabbatino, Il modello bembiano a Napoli nel Cinquecento, Napoli 1986, pp. 173-198; C. Scarpati, Da Tasso a Marino, in Forme e parola. Studi in onore di Fredi Chiappelli, a cura di D.J. Dutschke et al., Roma 1992, pp. 449-465; «Io canto l’arme e ’l cavalier sovrano». Catalogo dei manoscritti e delle edizioni tassiane (secoli XVI-XIX) nella Biblioteca Nazionale di Napoli, Napoli 1996, ad ind.; F. Sberlati, Il genere e la disputa. La poetica tra Ariosto e Tasso, Roma 2001, pp. 237-242; M.L. Doglio, Origini e icone del mito di Torquato Tasso, Roma 2002, pp. 41-64; A. Cardillo, Il ‘gruppo capuano’, in Pomeriggi rinascimentali. Secondo ciclo, a cura di M. Santoro, Pisa-Roma 2008, pp. 67-86; M. Navone, Dalla parte di Tasso. Giulio Guastavini e il dibattito sulla Gerusalemme liberata, Alessandria 2011, ad ind.; P. Petteruti Pellegrino, “Havete essempio?”. Le annotazioni inedite di Attendolo al canzoniere di Dell’Uva, in Quaderno di italianistica 2011, Pisa 2011, pp. 145-175; F. Ferretti, Le Muse del Calvario. Angelo Grillo e la poesia dei benedettini cassinesi, Bologna 2012, ad ind.; M. Navone, Lettere inedite di Giulio Guastavini, in Studi secenteschi, LIV (2013), pp. 221-260; P. Petteruti Pellegrino, La negligenza dei poeti. Indagini sull’esegesi della lirica dei moderni nel Cinquecento, Roma 2013, pp. 35 s., 203 s.