SCROFFA, Camillo
– Nacque a Vicenza nel 1526 (o piuttosto nel 1527) da antica e nobile famiglia della città. Suo padre, Francesco, sposò nel 1524 Margherita Bissari e da questa ebbe molti figli: Niccolò, Pietro Antonio, Camillo, Lelio, Claudio, Fabio, Laura, Silvia, Troiano, Marcantonio, Giulio.
Non si sa con precisione se Camillo fosse il secondo o il terzo di tanti fratelli, e da questo dubbio consegue l’altro sull’anno di nascita (1526 o 1527). Tuttavia è stato ipotizzato che il secondogenito fosse verosimilmente Pietro Antonio, cui fu attribuito il nome del nonno paterno: in tal caso Camillo risulterebbe il terzogenito nato nel 1527.
Quella sull’anno di nascita è solo una delle varie incertezze presenti nella biografia di Scroffa, passato alla storia grazie alla felice invenzione del cosiddetto linguaggio fidenziano e al piccolo capolavoro letterario da cui quel curioso eloquio latineggiante prende il nome: I cantici di Fidenzio.
Il giovane Camillo acquisì la sua prima formazione a Vicenza; passò quindi a Padova per compiervi gli studi universitari: che si recasse lì «piuttosto che in altra città possiamo congetturare dai suoi stessi Cantici, dalla consuetudine di tutti i vicentini di frequentare quella Università e dall’avere egli colà parenti» (Crovato, 1891, p. 8). Il filosofo Niccolò Vernia, professore appunto nel Gymnasium Patavinum e maestro di Pietro Pomponazzi, gli era bisavolo adottivo (di qui il nome Niccolò dato al primo dei suoi fratelli). Lo stesso Pomponazzi, sposando Adriana Scroffa, zia in primo grado di Camillo, venne acquisito alla famiglia. A Padova, per di più, il fratello Pietro Antonio teneva la sua abituale residenza. Tradizionalmente si è ritenuto che Camillo abbia conseguito la laurea in legge, ma questa tesi è stata messa in discussione sulla base di nuovi documenti, dai quali parrebbe invece che il giovane fosse iscritto ai corsi di Arti e medicina, «probabilmente senza mai terminare gli studi, vista l’assenza di atti ufficiali» (Hartmann, 2013, p. 51).
Durante il soggiorno a Padova Scroffa dovette conoscere, direttamente o indirettamente, Pietro Fidenzio Giunteo da Montagnana, il «ludimagistro» satireggiato nei Cantici: «un letterato di vaglia, che datosi per mestiere all’insegnare, aveva in Padova scuola di grammatica, stipendiato dal pubblico consuetamente, e dai discepoli per lezioni fuori del debito suo [...]. Fioriva egli tra gli anni 1540 e 1562, lasso di tempo in cui si rinviene la traccia delle opere sue [...]. Egli, non che i suoi due fratelli Iacopo e Bartolomeo, [...] aggiungevano al nome gentilizio altro più ampolloso e difficile al volgo, e per jattanza si soprannomavano Glottochrysii, ossia lingue d’oro. Questa ostentazione, che mal giustificavano quando scrivendo latino ad ogni qual tratto grecheggiavano, come si scorge nelle opere loro, e quando parlando italiano latineggiavano, come ce ne serbò memoria lo Scroffa contraffacendo Fidenzio (e così pure per altre taccherelle che in costui, uomo strisciante e povero, più si facevano notare), crediamo noi che li condannasse a’ motteggi de’ loro contemporanei» (Da Schio, 1832, pp. 20-22, dove si trova anche un elenco delle opere del Glottocrisio). Tra i suoi numerosi discepoli – «et schola me retinet puerorum plena», afferma lo stesso Giunteo in un carme indirizzato a Lazzaro Bonamico – sembra che vi fosse pure un Camillo Strozzi, nobile giovinetto mantovano, per il quale egli nutrì una speciale predilezione.
Da tale predilezione, oltre che dalla mania latineggiante di Giunteo, Scroffa trasse intorno al 1550 il malizioso spunto iniziale dei suoi Cantici di Fidenzio, esile canzoniere formato da una ventina di componimenti, in maggioranza sonetti, ma anche una sestina, due capitoli in terza rima di circa duecento versi ciascuno e il seguente epitaffio: «Glottocrisio Fidentio eruditissimo / ludimagistro è in questo gran sarcophago. / Camillo crudo più d’un antropophago / l’uccise. O caso ai buoni damnosissimo!» (I cantici di Fidenzio..., a cura di P. Trifone, 1981, p. 38; da sottolineare l’insistita preferenza per la rima sdrucciola, che contribuisce all’effetto latineggiante).
Per costruire il linguaggio di Fidenzio l’autore s’ispirò all’Hypnerotomachia Poliphili, pubblicata da Aldo Manuzio nel 1499 e ripubblicata dai suoi eredi nel 1545: un esplicito parallelo tra la passione del «camilliphilo» e quella di Polifilo viene stabilito in un sonetto degli stessi Cantici, e non mancano ulteriori punti di contatto. Probabilmente Scroffa conobbe e utilizzò anche la commedia di Francesco Belo Il pedante (1529 e 1538), come sembra potersi dedurre da alcuni riscontri tematici e lessicali.
Nei Cantici di Fidenzio, come più tardi nel Candelaio (ma nella commedia di Giordano Bruno si accentuò la vis polemica), la satira della pedanteria si unisce a quella del petrarchismo. Fidenzio «geme la sua passione come un messer Francesco Petrarca che sia passato attraverso lo stile del Polifilo» (Croce, 1931, p. 79), rivolgendosi però non a una donna, ma a un suo giovane discepolo; ne risulta un trasgressivo declassamento dell’oggetto letterario, atto di per sé a generare il ridicolo. Lo stesso abnorme latineggiamento che caratterizza il discorso poetico si risolve talora nella degradazione di una realtà figurata e spirituale al mero senso fisico: il verso d’esordio del Canzoniere petrarchesco, Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono, diviene per esempio Voi ch’auribus arrectis auscultate, cioè ‘ascoltate con le orecchie tese’.
La deliberata ibridazione del lessico dell’Hypnerotomachia Poliphili con passi e motivi tra i più noti e sfruttati dei Rerum vulgarium fragmenta dà a questa poesia un evidente significato parodico; d’altra parte lo stesso ardore amoroso del pedante per l’alunno, anche se espresso in modi castigati, è per sua natura antipolifiliano e antipetrarchesco. Il fine satirico non esclude peraltro un moto di simpatia verso il candido precettore, in cui Scroffa vede come riflettersi una parte di sé stesso e del proprio ambiente, e che risulta quindi un personaggio vivo, non una semplice caricatura. Il pedante Fidenzio è in effetti un esemplare rappresentativo di una figura universalmente diffusa: il piccolo intellettuale emarginato che tenta di rimuovere le sue frustrazioni chiudendosi snobisticamente in un mondo fittizio, nel quale soddisfa, al prezzo di una rassicurante menzogna con sé stesso, le proprie ambizioni sociali, culturali e linguistiche. In tale contesto, lo stesso iperbolico encomio di Bernardino Trinagio – celebrato nei Cantici di Fidenzio come «poeta eminentissimo / repleto di mirifica scientia», di qualità non inferiore a Virgilio, oltre che come «orator di più rara eloquentia / che l’Arpinate nostro facondissimo» (I Cantici di Fidenzio..., a cura di P. Trifone, 1981, pp. 18 s.) – si carica di riflessi ambiguamente ironici.
Il corteo degli imitatori della poesia fidenziana, numerosissimi dal secondo Cinquecento al Seicento e ancora oltre, testimonia appunto che l’operazione letteraria e linguistica di Scroffa era in sintonia con istanze culturali di lungo corso; anche se inevitabilmente, con il passare del tempo e con il mutare della situazione, la satira bifronte del petrarchista latinizzatore andò perdendo di interesse, e i seguaci di Fidenzio puntarono sempre più sul gioco linguistico, sulla maschera verbale.
L’attribuzione dei Cantici di Fidenzio appare oggi certa; ma non lo fu sempre in passato. Angelico Aprosio notava come non mancassero «degli sciocchi li quali a proposito di questi Cantici di Fidentio Glottocrysio si siano persuasi, ed altresì (per mostrarsi eruditi) vogliono persuadere altrui, essere produttioni d’Hippolito Aldobrandini, che fu poscia sotto ’l nome di Clemente VIII santissimo pontefice» (Aprosio, 1673, p. 640). Antonio Magliabechi credette invece che ne fosse autore Leone X; altri pensarono a Clemente VII; altri ancora fecero il nome di Giovanni Della Casa. Ormai non vi sono più dubbi sulla paternità scroffiana dello stuzzicante libricino, che Croce trovò «a suo modo geniale» (Croce, 1931, p. 75); ma quelle congetture fantasiose e incredibili possono tuttavia valere come un ulteriore documento della sua singolarissima fortuna.
Poco altro si sa della vita di Scroffa: annoverato nel 1563 tra i consoli o giudici criminali di Vicenza, prese parte come socio effettivo alle assemblee dell’Accademia olimpica, dove frequentò certamente il già ricordato Bernardino Trinagio, grammatico e antiquario che nel 1555 fu tra i fondatori dell’illustre istituzione vicentina.
Non aveva ancora raggiunto l’età di quarant’anni allorché, il 5 gennaio 1565, morì in seguito a grave malattia.
Il fratello maggiore, Niccolò, in una memoria scritta il 24 ottobre 1574 annotava: «ho voluto destender a mia satisfazione li conti nelli quali si convengono tutte le partite di denari, che sono pervenuti alle mie mani, incominciando dall’anno 1564 del mese di otobre, nel quale tempo Camillo mio fratello, che in bona parte disponeva delle nostre intrade, si ammalò e morite poi del Zenaro del seguente alli 5, et similmente del detto si ammalò q. mio fratello Pietro Antonio e morite poi del mese di aprile 1565 [...]. Furono sepolti tutti dui in alto, in forzieri di veluto, fu vestita tutta la famiglia e fatto obito honorevole e speso in medici molto e in medicine» (Crovato, 1891, pp. 11 s.). Questa puntuale e dettagliata testimonianza del fratello Niccolò sottrae valore a una notizia di fonte diversa, che posticipa la morte di ben undici anni, ascrivendola all’anno 1576: «Camillo Scroffa diede questi dì fine a sua vita, lassatosi dietro nome et fama di non esser stato meno ben erudito de le greche, latine et volgari lettere, che destrissimo et eccellentissimo in poesia» (Marzari, 1590 [ma 1591], p. 199).
L’effigie di Scroffa ci è tramandata da un’incisione, riprodotta nell’antiporta di un’edizione dei Cantici di Fidenzio del 1743, e da una statua che nel 1751 gli accademici fecero erigere entro un intercolumnio della loro celebre sede, il palladiano Teatro Olimpico.
Opere. I cantici di Fidenzio. Con appendice di poeti fidenziani, a cura di P. Trifone, Roma 1981 (è in corso di allestimento una nuova edizione del volume).
Fonti e Bibl.: I. Marzari, La historia di Vicenza divisa in due libri, Venezia 1590 [ma 1591]; N. Villani, Ragionamento dello Accademico Aldeano sopra la poesia giocosa de’ Greci, de’ Latini e de’ Toscani, Venezia 1634; A. Aprosio, La Biblioteca Aprosiana. Passatempo autunnale di Cornelio Aspasio Antivigilmi, tra’ vagabondi di Trabbia detto l’Aggirato, Bologna 1673; G. Da Schio, Cantici di Fidenzio con illustrazioni, Venezia 1832; G.B. Crovato, C. S. e la poesia fidenziana, Parma 1891; S. Ferrari, C. S. e la poesia pedantesca, in Giornale storico della letteratura italiana, XIX (1892), pp. 304-334; B. Croce, Gli ‘Endecasillabi’ di Essione Partico e la poesia di Fidenzio, in Id., Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari 1931, pp. 75-81 (poi, a cura di A. Fabrizi, Napoli 2003); I. Paccagnella, Il fasto delle lingue. Plurilinguismo letterario nel Cinquecento, Roma 1984; A. Stäuble, «Parlar per lettera»: il pedante nella commedia del Cinquecento e altri saggi sul teatro rinascimentale, Roma 1991; S. Longhi, Fidenzio, in Poeti del Cinquecento, I, Poeti lirici, burleschi, satirici e didascalici, a cura di G. Gorni - M. Danzi - S. Longhi, Milano-Napoli 2001, pp. 1139-1143; A. Capata, Il petrarchismo degli anticlassicisti. Il caso di C. S. e del fidenziano, in I territori del petrarchismo. Frontiere e sconfinamenti, a cura di C. Montagnani, Roma 2005, pp. 153-169; G. Tellini, Rifare il verso. La parodia nella letteratura italiana, Milano 2008, pp. 34-36; L. Serianni, La lingua poetica italiana. Grammatica e testi, Roma 2009, pp. 325-327; K. Hartmann, «I Cantici di Fidenzio» di C. S. e la pluralità dei mondi. Il canone classico, l’eredità del Petrarca e la tradizione giocosa, Bonn 2013.