DORIA, Camillo Tobia
Nacque a Genova il 27 giugno 1677 da Francesco Maria fu Brancaleone e da Aurelia Gavotti fu Camillo e venne battezzato nella chiesa di S. Matteo. Fu ascritto alla nobiltà il 16 dic. 1695 insieme con i fratelli Brancaleone, Giovan Battista e Cristofòro, nati rispettivamente nel 1673, 1682 e 1684. La presenza del D. nella vita politica della Repubblica è testimoniata dalla sua estrazione tra i senatori nel 1725 e nel 1742, ma è ampiamente documentata solo per quanto riguarda il commissariato in Corsica, al tempo della prima insurrezione dell'isola tra il 1730 e il 1733. Insurrezione che il comportamento del D., perspicace e informato ma duro e inflessibile, non contribuì certo a risolvere.
Il problema corso era divenuto una vera e propria questione di Stato dai primi mesi del 1730, quando nella zona centrorientale dell'isola i torbidi si erano intensificati per due ragioni: una esazione delle tasse giudicata troppo severa dai Corsi e il loro desiderio di rientrare in possesso delle armi, che erano state ritirate su loro richiesta per frenare il costante aumento di omicidi e vendette. Di fronte alle richieste di alcuni autorevoli corsi, che saranno poi i capi della insurrezione (L. Giafferri, il canonico E. Orticoni, il Morati), il governo genovese nell'aprile 1730aveva rimandato in Corsica come commissario generale Gerolamo Veneroso (che, come governatore, nel 1706-08aveva lasciato di sé ottimo ricordo), lasciando in carica come governatore Felice Pinello fino alla regolare scadenza del mandato. Conflitti di competenze tra i due, ritardi e silenzi da Genova, avevano favorito l'allargarsi e l'organizzarsi della rivolta, quando, nel maggio, il D. e Salvatore Squarciafico furono eletti commissari sindicatori, cioè, secondo la prassi abituale, come funzionari incaricati della periodica ispezione sul governatore uscente (in questo caso il Pinello) e sui ricorsi presentati contro la sua amministrazione.
Il D. e il collega arrivarono a Bastia col nuovo governatore Francesco Gropallo il 10 giugno 1730. Nei mesi di giugno, luglio e agosto furono occupati ad esaminare numerosi ricorsi: il D. si palesò subito propenso al rigore piuttosto che all'indulgenza, il collega più equilibrato nel riconoscere anche i torti di Genova. Nella seconda metà d'agosto la loro opera venne interrotta da vari incidenti avvenuti nel Diladaimonti, tra Ajaccio e Paomia, nei quali il D., che si trovava in quella zona, prese la direzione del governo, mentre lo Squarciafico restava a Bonifacio. Il 26 agosto il D. sedò la rivolta di 3.000 tumultuanti ad Ajaccio cannoneggiandoli da una galea in porto; quindi rifiutò una richiesta d'aiuto rivoltagli dai greci di Paomia, per cui questi si rivolsero al Veneroso, che vi mandò il figlio con una quarantina di uomini; il D. allora si vide costretto ad aggiungervi 120dei suoi.
L'episodio incrinò il rapporto tra i due, sia perché il D. riteneva che i suoi non dovessero sottostare alle direttive dell'altro, sia soprattutto perché il Veneroso intendeva gestire con gli abituali criteri di clemenza, non condivisi dal D., la vittoria sugli insorti. L'atteggiamento intollerante assunto dal D. può essere spiegato anche con la sicurezza che doveva avere, tramite informazioni ufficiose, di essere stato scelto a subentrare al Veneroso come commissario generale: nomina che in effetti venne resa pubblica pochi giorni dopo, il 18 settembre.
Il D. rimase in Ajaccio fino a dicembre, per curare la completa pacificazione del Diladaimonti, occupandosi soprattutto della requisizione delle armi. Ma la notizia di nuovi gravi incidenti, verificatisi in protesta dell'introduzione di restrizioni nell'acquisto del sale, lo costrinse a trasferirsi a Bastia, dove giunse il 20 dicembre, appena in tempo per ispezionare gli avamposti già sotto il fuoco di un migliaio di ribelli militarmente organizzati, aglì ordini di Andrea Colonna Ceccaldi, del Giafferri e del vescovo di Mariana, Andrea Raffaelli. Dopo i primi scontri favorevoli al D., egli il 23 dicembre concesse ai ribelli, che erano ricorsi alla mediazione del prete Fr. Saluzzo, un armistizio di quattro mesi; ma, pochi giorni dopo, scriveva a Genova descrivendo la situazione della Corsica in ebollizione e sostenendo la necessità di una forza di intervento non inferiore a 7-8.000 uomini, ritenendo inutile ogni iniziativa di indulto generale.
Secondo il D., i Corsi aspettavano solo l'aiuto della Spagna nella prossima primavera e avevano già formulato progetti organizzativi e amministrativi per un futuro senza Genova, sul quale erano d'accordo tutte le classi sociali. Le sue lettere di fine dicembre anticipano con lucidità quelle che in effetti i ribelli corsi dimostreranno essere le loro intenzioni nel gennaio-febbraio successivi: mesi nei quali, mentre a Genova si organizzava una deputazione di Corsica, il D. avvertiva uno sgradevole isolamento politico-militare, di cui si lamentava nella corrispondenza col governo.
Per tutta fisposta, la deputazione, dietro consiglio di A. Grimaldi e di G. F. Brignole, a fine febbraio sostituì il D. con due commissari generali, G.B. Grimaldi e Carlo De Fornari, cui veniva affidato il compito di riconquistare la Corsica con i criterì pacifici del Veneroso. Il D. rientro a Genova il 4 marzo 1731, politicamente sconfitto; ma l'evoluzione della situazione militare favorevole aì ribelli e le loro richieste giudicate sempre più ardite diedero ragione al D. e costrinsero Genova ad intraprendere trattative a Vienna e a Milano per ottenere l'invio di contingenti imperiali in Corsica (trattative in cui si distinsero per abilità diplomatica Gian Luca Pallavicini e Ippolito De Mari). Al primi d'agosto del 1731 sbarcavano nell'isola cinque battaglioni (quattro imperiali e uno genovese) al comando del colonnello Wachtendonck: insieme ad essi il D., che era stato eletto commissario generale il 31 luglio.
Evidentemente il nuovo incarico non derivava solo da una sua personale richiesta, per rifarsi della negatività della precedente esperienza, ma dalla convinzione ormai diffusa nella classe di governo genovese che non esistesse alternativa alla soluzione armata dal D. sostenuta fin dall'inizio.Nelle istruzioni consegnate al D. si delineavano con precisione i poteri specifici e i rapporti tra lui e il comandante imperiale riservando a quest'ultimo l'intervento esclusivamente militare e facendolo dipendere dalla autorità dei D. per le questioni politiche. Invece la condotta del Wachtendonck (come il D. ebbe modo di rendersi subito conto e come segnalò al governo fin dal settembre), dopo gli iniziali successi mìlitari, mirava a consentire agli insorti di ricorrere alla mediazione diplomatica dell'Impero. Nel novembre, dopo il fallito tentativo contro Vescovato, l'attrito tra i due era divenuto insanabile, tanto che lo stesso governo genovese invitava il D. a mantenere un atteggiamento più possibilista nei confronti di una soluzione diplomatica, fermo restando il principio di sovranità della Repubblica. Mentre tra il gennaio e il febbraio 1732 l'esercito austro-genovese riportava una serie di sconfitte (e di una di esse, a Calenzana in Balagna, il D. venne erroneamente considerato responsabile al posto del colonnello De Wins), a Genova si decideva per la sostituzione del D. con Paolo Battista Rivarola, ratificata l'11 marzo 1732: anche la seconda missione del D. si risolveva complessivamente in un insuccesso.
Dopo il ritorno a Genova, il D. dovette preferire le attività finanziarie a quelle politico-militari, come conferma la presenza del suo nome negli elenchi dei nobili genovesi che avevano impiegato i loro capitali nelle banche di Vienna e di Mìlano negli anni della guerra di successione austriaca (capitali che vennero poi usati dal governo genovese per coprire le somme dovute a Vienna). Negli anni '40, con 6.000 fiorini depositati al Banco della camera della città di Vienna e altri 3.333 fiorini in alcune banche milanesi, il D. sembrava disporre di un discreto patrimonio (anche se non confrontabile con le centinaia di migliaia di alcuni esponenti del patriziato genovese presenti negli stessi elenchi): lascia perciò perplessi la richiesta di contributo per una "dote condecente" rivolta nel 1737 ai Collegi dalle tre figlie del D., Maria Anna, Chiara Maria e Maria Vittoria. A ignota la data della morte.
Il D. ebbe anche quattro figli maschi, tutti iscritti alla nobiltà il 15 dic. 1746: Francesco Gaetano, Giovan Battista, Agostino e Giuseppe. Il primogenito continuò la famiglia con un figlio omonimo del D., Camillo Tobia, nato il 10 sett. 1758 e iscritto nel 1786. Un altro omonimo del D., e a lui contemporaneo, nacque a Napoli nel 1668 da Giovan Battista Doria, marchese di Celsamaggiore, e fu ascritto alla nobiltà di Genova nel 1690.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Genova, Arch. segr. 2841, n. 85; Genova, Bibl. civ. Berio, m. r. X 2, 168: L. Della Cella, Famiglie di Genova, II, c. 64; G. Cambiagi, Historia del Regno di Corsica, Firenze 1772, III, p. 33; G. Banchero, Genova e le due Riviere, Genova 1846, p. 395; F.M. Accinelli, Compendio delle storie di Genova, Genova 1851, II, p. 39; J. Doria, La chiesa di S. Matteo, Genova 1860, p. 199; R. Di Tucci, La ricchezza privata e il debito pubblico di Genova nel secolo XVIII, in Atti d. Soc. ligust. di scienze e lett., XI (1932), pp. 24 s.; G. Oreste, La prima insurrezione corsa, in Arch. stor. di Corsica, XVI (1940), pp. 393-415; XVII (1941), p. 68 (con fonti archivistiche); V. Vitale, Breviario della storia di Genova, Genova 1955, pp. 368, 371; G. Guelfi Camajani, Il Liber nobilitatis Genuensis, Firenze 1965, pp. 167, 170.