TUTINI, Camillo
Nacque a Napoli nel 1594, da Angela Salerno, mentre non è noto il nome di suo padre. La famiglia paterna era originaria di Sant’Angelo a Fasanella, nel Cilento.
Il nonno, Cornelio Tutini, era laureato in utroque iure e alcuni membri della famiglia nella seconda metà del Cinquecento vengono definiti nobiles. Del nonno paterno parla lo stesso Tutini in una nota del suo Della varietà della fortuna confirmata con la caduta di molte famiglie del Regno (Napoli 1643), in cui cita l’Historia della distruttione di Fasanella del nonno, oggi introvabile; in essa si raccontava dell’atroce vendetta di Federico II contro la baronia pontificia, dopo la scoperta di una congiura ordita contro di lui. Tra gli altri, fu giustiziato Adinolfo Tealdo Tutini, «capitano di molto valore, di cui nacque Landolfo Tutini, mio ascendente» (C. Tutini, Della varietà, in Dell’origine, e fundation de’ seggi..., Napoli 1644, p. 39). Il padre di sua madre, che aveva il suo stesso nome (Camillo Salerno), era un giureconsulto originario della Calabria. Tutini cita le sue Consuetudines neapolitanae (Neapoli, apud Ioannem de Boy, 1567; in Dell’origine, e fundation de’ seggi..., p. 79).
Camillo aveva quattro sorelle (Laudamia, Ippolita, Eustochia e Livia) mentre non si rinviene traccia di un fratello di nome Metello, di cui parla Ernesto Maria Martini nella sua ricca biografia (Napoli, Biblioteca nazionale, ms. Branc. III D 10, c. 105r; Martini, 1928, p. 190).
Nel breve ed astioso profilo biografico scritto da Carlo De Lellis (De Lellis, 1876, p. 317), si legge che, lasciato dal padre in povertà, dopo aver studiato grammatica, Tutini entrò come frate nella certosa di S. Martino. In realtà, non fu un caso se si trasferì in quella certosa, poiché un suo zio materno, il teologo Faustino Salerno, autore tra l’altro di De Beata Virginis praestantia (Venezia 1621), era procuratore di quella certosa (Zavarroni, 1753, p. 114; Toppi, 1678, p. 80).
Negli anni della clausura, Tutini apprese l’arte del ricamo, trascrisse molti documenti anche per conto di altri e si dedicò allo studio della storia dell’Ordine cartusiano; in Notitie della vita, e miracoli di due Santi Gaudiosi, l’uno Vescovo di Bittinia, e l’altro di Salerno: e del martirio di S. Fortunata, e fratelli, e del loro culto, e veneratione in Napoli (Napoli 1634, p. 150), annuncia la pubblicazione di una storia dell’Ordine, che tuttavia non riuscì a completare. Del suo progetto rimangono vari manoscritti del fondo brancacciano della Biblioteca nazionale di Napoli in cui sono conservati volumi di Tutini o a lui appartenuti, rimasti in possesso del cardinale Francesco Maria Brancaccio, uno dei suoi protettori (tra questi, Branc. II C 3, Branc. II C 4 e Branc. II C 11). Legati al suo interesse per l’Ordine sono anche il breve Prospectus historiae Ordinis carthusiani. Additum est breve chronicon monasterij S. Stephani de Nemore eiusdem Ordinis (Viterbo 1660), con dedica al cardinale Brancaccio, e il Martyrologium Cartusianum (edito a cura di P. De Leo, Soveria Mannelli 2008).
Dopo alcuni anni, Tutini uscì dalla certosa e prese i voti sacerdotali; vari contratti di affitto dal 1628 in poi attestano che cambiò più volte dimora a Napoli (Martini, 1928, p. 195); dal maggio 1633 al 1637 abitò in un appartamento della famiglia de Ruggiero della Ratta (Napoli, Archivio storico del Banco di Napoli, Banco dei poveri, giornale matricola 173, 197 e 199), poi si spostò in un altro, di Alessandro Maiorino (27 giugno 1646: ibid., giornale matricola 250). Alla certosa di S. Martino tornava comunque per ragioni di studio, come si evince da una già nota lettera del marzo del 1635, in cui racconta di un affronto subito dal padre Severo e da alcuni monaci, che lo avevano accusato di aver sottratto un volume alla biblioteca (Napoli, Biblioteca nazionale, ms. Branc. III D 10, c. 363r).
In questi anni, pubblicò alcuni scritti agiografici, tra cui Memorie della vita, miracoli e culto di San Gianuario, martire, vescovo di Benevento, e principal protettor della città di Napoli (Napoli 1633), citato da non pochi autori coevi (tra cui Innocenzo Fuidoro); profondamente devoto al santo – come emerge anche dal Racconto della sollevatione di Napoli accaduta nell’anno MDCXLVII, che scrisse con Marino Verde (edito a cura di P. Messina, Roma 1997) – Tutini volle sostenere l’importante tesi dell’origine napoletana di s. Gennaro contro chi lo definiva beneventano. È probabile che, come scrisse De Lellis, abbia cooperato con Bartolomeo Chioccarelli al riordino dei documenti relativi alle controversie tra la S. Sede e Madrid, destinati al re di Spagna (il termine post quem è il 1626); di certo, oltre a recarsi presso le biblioteche di varie certose, poté studiare in numerosi archivi cittadini, così da maturare un’approfondita conoscenza della storia di Napoli e del Regno. Secondo De Lellis, fu poi grazie a Pietro Lasena, Antonio Basso e Francesco Origlia se cominciò a pubblicare proprie opere (De Lellis, 1876, p. 318). Questa dichiarazione e altri indizi ci spingono a collocarlo vicino all’Accademia degli Oziosi. Anche il fatto che nel 1641 diede alla luce a Napoli, invitato dagli «amici», i Discorsi delle famiglie estinte forastiere e non comprese ne’ seggi di Napoli, imparentate colla casa della Marra di Ferrante della Marra, un altro accademico Ozioso, fa propendere per questa ipotesi.
Nello stesso anno pubblicò, sempre a Napoli, l’Historia della famiglia Blanch con dedica a Giovanni Tommaso Blanch, reggente del Consiglio del Collaterale, da lui molto stimato (Tutini - Verde, 1997, p. 178). La fitta rete delle sue conoscenze e amicizie, che emerge da missive ed opere coeve, comprende vari eruditi e letterati, quali Antonino d’Amico, Ferdinando Ughelli, Vincenzo Braca, Camillo Pellegrino, Giuseppe Rendina, Agostino Inveges, Martino La Farina, il padre Antonio Caracciolo, Michele Giustiniani. Lukas Holste, accademico linceo, bibliotecario di Francesco Barberini, lo conosceva almeno di fama già nel 1642; infatti, in una lettera che scrisse per il padre Sebasto a Napoli e che affidò ad Isaac Vossius, in procinto di recarsi in quella città, invitò il destinatario a illustrare al giovane Isaac la biblioteca di San Giovanni a Carbonara e a presentargli alcuni eruditi del luogo, tra cui appunto Tutini (lettera del 23 maggio 1642, da Roma, in G. B. Pacichelli, Memorie novelle de’ viaggi per l’Europa Cristiana […], parte II, Napoli 1690, p. 351). Vossius conobbe poi Tutini insieme agli accademici Oziosi Francesco de Pietri e Gennaro Grosso. Pochi anni dopo, nell’aprile del 1647, Holste chiese all’olandese Nicolaas Heinsius, che si trovava a Napoli, di salutargli i «dottissimi» Tutini e Camillo Pellegrino, cui lo legava un’antica amicizia (lettera a «Nic. Heinsio», 8 aprile 1647, in L. Holstenii, Epistolae ad diversos, Paris 1817, p. 373).
Una delle sue opere maggiori è la già citata Dell’origine, e fundation de’ seggi, dedicata a Francesco Barile, reggente del Consiglio del Collaterale e segretario del Regno, definito «non solo sopra modo intendente dell’historie, ma anche de gli studiosi di essa efficace Protettore». In essa sosteneva il diritto del popolo alla partecipazione politica sia per la sua nobiltà (per i tanti uomini illustri di origine popolare) sia per la sua fedeltà e capacità organizzativa (come in occasione del temuto assedio da parte dei Francesi, nell’autunno del 1640). Oltre a segnalare il disagio delle famiglie «fuori piazza» (p. 141), Tutini si soffermava sulla carica di eletto del popolo, spiegando come si eleggesse e quindi lasciando inferire che fosse ormai completamente nelle mani dei viceré (p. 256). Come racconta lo stesso Tutini, Diego Capecelatro (figlio del reggente Ettore) ritenne l'opera in qualche modo responsabile della rivolta (lettera del 12 luglio 1650 in Capasso, 1993, p. 67).
Nei turbolenti mesi del 1647-48, e soprattutto nella fase repubblicana, Tutini svolse un ruolo talvolta cruciale, come si evince anzitutto dal Racconto della sollevatione di Napoli. L’opera attesta la sua passione, il suo spirito antispagnolo, la sua volontà di far circolare un’attenta disamina dei fatti da cui far emergere anche i motivi di debolezza interni alla stessa rivolta, che avevano portato al suo fallimento. Il testo fu scritto a Roma, dove si rifugiò per sottrarsi alla cattura da parte degli spagnoli (fu infatti dichiarato «reo di stato»: Soria, 1781, p. 609). Era già lì nel maggio del 1648, quando due sorelle gli inviarono alcuni suoi volumi (Napoli, Biblioteca nazionale, ms. Branc. III D 3, c. 308r).
Al Racconto della sollevatione di Napoli Marino Verde (un prete di Sant’Antimo) e Tutini si dedicarono negli anni 1652-53: di Verde è una prima versione fino al gennaio del 1648; Tutini la ricopiò, rielaborandola, per poi proseguire fino alla fine della rivolta. Il Racconto si avvale di fonti edite, tra cui la Partenope liberata di Giuseppe Donzelli, e di testimonianze orali da parte di chi poteva offrire notizie precise su fatti e protagonisti della rivolta, tra cui l’abate Giustiniani (Barra, 2004, p. 387). Non sono pochi i riferimenti biografici relativi allo stesso Camillo; se ne deducono sentimenti personali (come l’ammirazione per Basso), la prossimità ad alcuni protagonisti dei fatti, come l’abate Ranuccio Baschi (Tutini - Verde, 1997, p. 442), in qualche caso anche i pareri che Tutini diede, sollecitato da Vincenzo d’Andrea e dallo stesso Basso.
Nell'ottobre, per fare un esempio, dovendosi «formare una buona e registrata Republica», i consultori gli chiesero se si dovesse domandare il beneplacito al pontefice per il nuovo governo ed egli rispose che gli si dovesse offrire una «dovuta ricognitione, anzi tanto di più di quello davano gli spagnoli, che è una misera achinea» (p. 249), parere poi accolto. Nel novembre, molto probabilmente, tenne il lungo e articolato discorso sulla legittimità della lotta al tiranno che è riportato nel Racconto (pp. 309-310; Villari, 2012, p. 498).
A riprova del suo importante ruolo durante la rivolta vi è anche una Informatione intorno ai ribelli della rivoluzione dell’anno 1647, presa nel governo del conte di Pegnaranda (Napoli, Biblioteca nazionale, ms. X B 65; Musi, 1989, p. 222), in cui è indicato come uno di coloro che avevano favorito la venuta del duca di Guisa a Napoli. Su questo, la testimonianza di De Lellis è parzialmente convergente: Tutini avrebbe indotto il Guisa, chiamato dal «popolo», a credere di poter legittimamente aspirare alla corona del Regno, come discendente degli Angioini (De Lellis, 1876, p. 318). Il Guisa avrebbe poi allontanato Tutini, giudicandolo «intricariccio», e questi si sarebbe vendicato scrivendo, con Basso e Salvatore Di Gennaro, «al re di Francia» (ovvero, all’ambasciatore francese a Roma) che il duca voleva instaurare un dominio personale (p. 319).
Molto probabilmente Tutini volle rispondere a simili ricostruzioni dei fatti, che lo accusavano implicitamente di tradimento, poiché precisa tanto nel Racconto quanto in alcune missive che non scrisse alcuna lettera «all’ambasciatore di Francia», ma si limitò a esprimere l'opinione che si sarebbe dovuta scrivere (lettera di Tutini del 12 luglio 1650, in Capasso, 1993, pp. 67-68). Sia che Tutini non abbia scritto, sia che abbia scritto tale lettera (cosa che viene data per certa da un cronista che lo conosceva, Francesco Capecelatro: cfr. Diario di Francesco Capecelatro, contente la storia delle cose avvenute nel reame di Napoli negli anni 1647-1650, II, Napoli 1852, parte I, p. 481), è un fatto che nel Racconto si insista molto sul ruolo deleterio del Guisa nel contesto napoletano come una delle cause che avevano portato al fallimento del progetto repubblicano e della stessa rivolta. Inoltre, come è noto, fu per un soffio se Tutini si salvò dalla tragica sorte cui non sfuggirono Basso, Di Gennaro ed altri, giustiziati per volere del Guisa (Tutini - Verde, 1997, p. 553); nel Racconto si legge infatti che, mentre era nella chiesa dei Padri dell’Oratorio, il principe della Rocca (Francesco Filomarino) e il duca di Roscigno (Giovan Battista Villano) lo avvertirono che alcuni uomini del Guisa lo stavano cercando (pp. 494, 553).
L’autore dell’Informatione riferisce anche che Tutini era stato consigliere del dottor Matteo Cristiano, «capo dei ribelli, il quale con Francesco Puca e Damiano Tauro sollevò le province del Regno», e che aspirò a far salire al trono «il duca d’Angiò e il principe di Condé». Un accenno a Luigi II di Borbone, principe di Condé, si legge pure in un libello, Prodigiosi portenti del monte Vesuvio, edito a Napoli nel 1650 (poi in Archivio storico per le province napoletane, I (1877), 4, pp. 166-175), in cui la recente eruzione era interpretata come un segno di intolleranza del Vesuvio verso il viceré Íñigo Vélez de Guevara conte d'Oñate. Tutini denunciava che era venuto meno alla promessa dell’indulto, spargendo il «sangue di tanti innocenti», e invitava i napoletani a tentare ancora di liberarsi degli spagnoli, contando sull’aiuto del principe di Condé (p. 172; ma si veda anche il suo Degli Ammiranti del regno di Napoli, s.l. né d., p. 162, in cui spiega che l’attuale principe di Condé discendeva da Carlotta, figlia di Federico, lo sfortunato re aragonese, scalzato dal trono di Napoli dal cugino Ferdinando il Cattolico). L’anno seguente, in una lettera del giugno del 1650 ad un certo padre Marino, Tutini si rallegrava per i successi francesi a Portolongone (Napoli, Biblioteca nazionale, ms. Branc. III D 3, c. 344r), ma la gioia sarebbe durata poco.
A Roma, poté studiare nelle biblioteche Vaticana e Vallicelliana e strinse rapporti con numerosi eruditi e letterati tra cui Leone Allacci, cui passò alcune notizie per la sua Drammaturgia (Roma 1666, p. 629; d’altra parte, Allacci lo definisce «huomo nelle notitie antiche del Regno di Napoli singolare»); Christophe Dupuy, procuratore dell’Ordine cartusiano, con cui era in rapporti per il suo passato come religioso dello stesso Ordine; Cassiano dal Pozzo. Secondo Soria, partecipò anche a «dotte adunanze»; una di esse era quella degli Ansiosi di Gubbio, nata nel 1660 e fondata da Vincenzo Armanni, di cui facevano parte sia letterati con i quali era in contatto da tempo, tra cui Ughelli e Giustiniani (Giuliano, 2017, p. 3), sia nobili filofrancesi tra cui Pompeo Colonna, principe di Gallicano (rinchiuso in Sant’Elmo, quando scoppiò la rivolta: D’Alessio, 2007, p. 39). Conosceva inoltre il conte Federico Ubaldini, segretario di Francesco Barberini e letterato, cui dedicò un sonetto (P. Messina, Introduzione, in Tutini -Verde, 1997, p. LXII, n. 164). Nel 1655 pubblicò Rerum sacrarum sylvula di Michele Monaco (Roma 1655) con dedica al cardinale Francesco Barberini, grazie alla cui protezione ottenne alcune cappellanie. Nonostante ciò, stentava a vivere dignitosamente (Napoli, Biblioteca nazionale, ms. Branc. II C 11, c. 1r e v) e chiese perciò di essere assunto come custode presso la biblioteca della regina Cristina di Svezia, di cui si stava occupando il cardinale Decio Azzolino; non sembra tuttavia che la sua richiesta sia stata accolta (Napoli, Biblioteca nazionale, ms. Branc. III D 10, c. 40r; P. Messina, Introduzione, in Tutini - Verde, 1997, p. LXII).
Nel fondo brancacciano sono custoditi vari scritti che attestano la straordinaria varietà dei suoi interessi, che condivideva con vari eruditi: dallo Studio di Napoli, alle monete, ai vescovi e arcivescovi napoletani. Risalenti agli anni romani sono sicuramente il ricco repertorio Porta di San Giovanni Laterano e l’Anatomico discorso del Regno di Napoli, volti a provare le grandi ricchezze di un regno che vedeva misconosciuto e disprezzato.
Dopo aver sostenuto invano il diritto del pontefice (Alessandro VII) di esercitare il baliatico nel regno di Napoli, all’indomani della morte di Filippo IV a causa della minore età di Carlo II (Napoli, Biblioteca nazionale, ms. Branc. I E 1: C. Tutini, Del balio solito darsi a’ Re di Napoli, cc. 335-340), diede alle stampe un’opera cui si stava già dedicando da tempo, i Discorsi de’ sette officii, overo de’ sette grandi del Regno di Napoli (Roma 1666), in cui si soffermava sulle prestigiose cariche di connestabile, maestro giustiziere e almirante. Oltre alle sue competenze sulle istituzioni napoletane, si intravedono le sue relazioni di quegli anni; i Discorsi sono infatti dedicati a Lorenzo Onofrio Colonna, gran connestabile del Regno, marito di Maria Mancini, nipote del cardinale Giulio Mazzarino; Tutini omaggia inoltre l’avvocato concistoriale Nicolò Severoli, «sopra intendente, e auditore generale dell’eccellentissima casa Colonna», di cui conosceva la biblioteca (p. 209). La morte gli impedì di dare alle stampe il secondo volume dei Discorsi, sugli altri uffici, e completare altre opere cui aveva lavorato per anni, mentre si spendeva per la causa napoletana.
Morì l'8 agosto del 1666, in povertà, presso l’ospedale «dei buoni fratelli» (F. Capacelatro, Diario di Francesco Capecelatro, contente la storia delle cose avvenute nel reame di Napoli negli anni 1647-1650, III, Napoli 1854, p. 272).
Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, I vers. Salerno, b. 6158, anno 1560, c. 59, in cui si parla del nobile «Lutium Tutinum»; Cornelio Tutini è definito «magnifico» e «utriusque iuris doctor» (nello stesso fondo, b. 2, c. 3; altri esponenti della famiglia sono menzionati nelle bb. 6159-6161). Un elenco delle opere di Tutini è già in Discorsi de’ sette officii, overo de’ sette grandi del Regno di Napoli (Roma 1666), prime pagine non num.; la lettera al monaco Bernardo Gazzi, della certosa di Pavia, marzo 1635, in Milano, Biblioteca Ambrosiana, Manoscritti, C 278a, c. 402r-402v, attesta il progetto di scrivere una storia del fondatore dell’Ordine certosino, s. Bruno. In Città del Vaticano, Biblioteca apostolica Vaticana, nella miscellanea Barb. Lat. 3246, si leggono due lettere di Tutini: una del 28 gennaio 1631 al vescovo di Capri Filippo Mazzola (c. 175r) e l’altra del 3 settembre 1645 a Ferdinando Ughelli (cc. 392r.-395).Vari sono i volumi manoscritti appartenuti a Tutini (cfr. A. D’Ambrosio, L’erudizione storica a Napoli nel Seicento, i manoscritti di interesse medievistico nel fondo brancacciano della Biblioteca nazionale, Salerno 1996); tra i suoi testi manoscritti, Historico racconto de’ vescovi e arcivescovi di Napoli, dell’eccellenza e grandezza della sua Chiesa, ms. Branc. IV C 1, cc. 1-161 (e in altri volumi); Discorso intorno alle monete antiche del Regno di Napoli, ms. Branc. II A 10, cc-. 86-89; Della varietà della fortuna, e varij casi humani, accaduti a diversi pontefici e cardinali raccolti da gravi autori per C.T., ms. Branc. III D 4, cc. 498-509; Raccolta di scritture di Santo Officio, ms. XI AA 22, cc.138r-141v; De studio neapolitano, ms. Branc. III C 12, cc. 124r-127r; di Carlo de Lellis anche Apologia contro D. Camillo Tutino per il libro dell’Origine de’ Seggi, in due tomi, mss. X B 25 e X B 26. N. Toppi, Biblioteca napoletana […], Napoli 1678, p. 80; A. Zavarroni, Bibliotheca calabra…, Napoli 1753, p. 114; F. Soria, Memorie storico-critiche degli storici napolitani, I, Napoli 1781, pp. 608-614; C. De Lellis, C. T., a cura di S. Volpicella, in Archivio storico per le province napoletane, I (1876), 2, pp. 316-320; G. Lodi, Corrispondenza di letterati siciliani del sec. XVII, in Archivio storico siciliano, XVI (1892), pp. 449-452; E. M. Martini, La vita e le opere di C. T., in Archivio storico per le province napoletane, LIII (1928), pp. 190-219; C. Tutini, Fontane publiche che sono in Napoli, a cura di R. Mormone, in Bollettino di storia dell’arte dell’istituto universitario di magistero di Salerno, settembre-dicembre 1953, pp. 1-8; G. Galasso, Una ipotesi di blocco storico oligarchico-borghese nella Napoli del ’600: i Seggi di C. T. fra politica e storiografia, in Rivista storica italiana, XC (1978), pp. 507-530; A. Musi, La rivolta di Masaniello nella scena politica barocca, Napoli 1989, pp. 222-226; B. Capasso, Masaniello: la sua vita e la sua rivoluzione, Napoli 1993; M. A. Visceglia, Identità sociali: la nobiltà napoletana nella prima età moderna, Milano 1998, pp. 90-92, 150; F. Benigno, Specchi della rivoluzione. Conflitto e identità politica nell’Europa moderna, Roma 1999, pp. 211, 226, 232, 261; F. Barra, La storiografia irpina del XVII secolo, in Il libro e la piazza. Le storie locali dei Regni di Napoli e di Sicilia in età moderna. Atti del Convegno nazionale..., Maratea... 2003, a cura di A. Lerra, Manduria 2004, pp. 361-387, p. 387; G. Cirillo, 'Generi contaminati'. Il paradigma delle storie feudali e cittadine, ibid., pp. 157-210; G. 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